La “Storia
della colonna infame” è un saggio
storico pubblicato nel 1840 in appendice a “I promessi sposi”. Nel saggio Alessandro Manzoni ricostruisce
il processo contro Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora, che accusati di
essere untori, vennero torturati e condannati a morte nel 1630. Nel luogo della
casa distrutta del Mora venne eretta una colonna detta infame, per ricordare ai
posteri il misfatto compiuto e la pena subita dallo scellerato, insieme al
complice Guglielmo Piazza. Nell’introduzione al saggio, Manzoni espone il
motivo per cui ha ritenuto opportuno occuparsi della vicenda. Pietro Verri, in
un suo saggio del 1777, “Osservazioni sulla tortura” si servì di quel
processo come di un argomento a sostegno dell’inutilità e barbarie della
tortura.
Manzoni, invece, critico col Verri, intende dimostrare che l’ingiustizia compiuta contro due innocenti in quel processo sia da attribuirsi non all’uso della tortura o all’ignoranza del tempo sui modi di trasmissione della peste, ma “da atti iniqui prodotti da (…) passioni perverse”
Ossia, quei giudici, pur avendo a propria disposizione lo strumento della tortura e pur non sapendo che non era possibile diffondere la peste tramite le unzioni malefiche, avrebbero potuto evitare l’ingiusta condanna, se avessero fatto uso della ragione, della loro capacità di giudicare, di distinguere il bene dal male. E non lo fecero, non perché non potevano farlo, ma perché non vollero farlo, perché “si può bensì essere forzatamente vittime, ma non autori” di ingiustizie. Manzoni afferma che il male si compie sempre sapendo di compierlo e che è dovere degli uomini interrogarsi sulle proprie azioni e riconoscere sempre le proprie responsabilità.
Manzoni, invece, critico col Verri, intende dimostrare che l’ingiustizia compiuta contro due innocenti in quel processo sia da attribuirsi non all’uso della tortura o all’ignoranza del tempo sui modi di trasmissione della peste, ma “da atti iniqui prodotti da (…) passioni perverse”
Ossia, quei giudici, pur avendo a propria disposizione lo strumento della tortura e pur non sapendo che non era possibile diffondere la peste tramite le unzioni malefiche, avrebbero potuto evitare l’ingiusta condanna, se avessero fatto uso della ragione, della loro capacità di giudicare, di distinguere il bene dal male. E non lo fecero, non perché non potevano farlo, ma perché non vollero farlo, perché “si può bensì essere forzatamente vittime, ma non autori” di ingiustizie. Manzoni afferma che il male si compie sempre sapendo di compierlo e che è dovere degli uomini interrogarsi sulle proprie azioni e riconoscere sempre le proprie responsabilità.
Tra le numerose epidemie di peste
che flagellarono Milano lungo i suoi secoli di vita, quella del 1630 è da
considerare senz'altro la più conosciuta e ricordata, per merito indiscusso del
Manzoni, che la scelse quale cupo sfondo alle vicende narrate nei Promessi
sposi. Anche questa epidemia, come le precedenti (l'ultima aveva devastato
la città nel 1576), non arrivò improvvisamente nell'arco di pochi giorni, bensì
si sviluppò lentamente ma inesorabilmente dando le prime avvisaglie molti mesi
prima, e prova ne è che già nel 1628 la Sanità milanese (l’organo preposto alla
tutela della salute dei cittadini), considerate le poco rassicuranti notizie
riguardanti i contagi che dilagavano in Europa, aveva emanato una grida per
porre Milano al riparo da ogni sorta di rischio. Successivamente, sull'onda dei
racconti provenienti soprattutto dalla Svizzera, vennero pubblicati alcuni
bandi per vietare il commercio con alcune città di quel Paese. In marzo, ad
aggravare la carestia che da qualche tempo si era abbattuta sul Milanese, ci si
mise la guerra per la successione nel Monferrato tra la Francia e gli Asburgo.
L’esercito spagnolo pose l’assedio a Casale, il che comporterà per i mesi
seguenti, come vedremo, pericolosi movimenti di truppe attraverso i territori
di Milano. Tra proclami e bandi inascoltati, arrivò l'ottobre del 1629 senza
che importanti e mirati provvedimenti fossero ancora stati presi, e ciò a
causa, prevalentemente, dello scetticismo che le autorità mostravano circa la
possibilità che la peste varcasse le porte cittadine. Del resto, in questo
periodo, il registro del lazzaretto di Porta Orientale, regolarmente in
funzione dall'inizio del 1500 e adibito a ricovero di malati contagiosi,
riporta soltanto tre ricoverati sospetti, prelevati dalle rispettive abitazioni
dietro segnalazione dell’Anziano di S. Babila.
La paura cominciò a diffondersi
veramente solo il 12 ottobre, con la notizia che a Malgrate, vicino a Lecco, il giorno prima
erano morte dodici persone sane e robuste.
Il 22 ottobre 1629, proveniente probabilmente
da Chiavenna, già infettata dalla peste, tornò in città Pietro Paolo Locato,
abitante in Porta Orientale, nella parrocchia di S. Babila, portando con sé
molti abiti barattati o acquistati dai fanti alemanni. Dopo tre giorni
trascorsi nella propria casa assieme ai familiari, fu ricoverato all'Ospedale
Maggiore, dove tuttavia morì nell'arco di due soli giorni. Sul suo corpo, il capoinfermiere rinvenne "un flegnione nel brazzo sinistro, et principio di infiammatione
sotto all'assela, pure sinistra" (Cronaca del Settala). Pertanto si
bruciarono al più presto il letto e le sue povere cose, dopodiché i familiari dell'uomo
furono trasportati al lazzaretto per la quarantena.
Dopo questo caso di peste
conclamata, furono pubblicate numerose grida che proibivano baratti coi soldati
tedeschi di passaggio, mentre la Sanità milanese pensò bene di introdurre
l'utilizzo obbligatorio delle “bollette personali di sanità”, una sorta di
passaporto medico che accertasse la provenienza da territori sani di ogni
persona che volesse entrare in Milano.
Il carnevale portò un periodo di
spensieratezza e festeggiamenti, durante i quali nessuno parve preoccuparsi
delle persone che, sebbene in non larga misura, morivano di peste entro tre
giorni dai primi sintomi. Ai festeggiamenti carnevaleschi si aggiunsero quelli,
ancora più sfarzosi, in onore della nascita, avvenuta nel novembre dell’anno
precedente, dell’infante di Spagna. Dal clima euforico non si salvava neppure
il lazzaretto, dove si organizzavano feste e balli, e si commerciava impunemente
con l’esterno. Questi eccessi, ed altri ben più gravi, spinsero alla
pubblicazione dei severi "Ordini dell'hospitale di S. Gregorio detto
lazzaretto, fatti e instituiti dai fisici collegiati Alessandro Tadino et
Senatore Settala". In ogni caso, poco dopo, per risolvere definitivamente
i problemi connessi alla disciplina, i conservatori della città ne affidarono
la gestione e l'organizzazione al padre cappuccino Felice Casati.
A marzo si ebbero grandi
spostamenti di truppe, da Gera d'Adda dirette verso il Monferrato, truppe che,
nonostante gli evidenti rischi di diffusione incontrollata del contagio,
transitavano in città, bivaccando per giorni nelle campagne circostanti. Dai
Grigioni, attraverso la Valtellina, inoltre, scesero alcune migliaia di lanzichenecchi,
lasciando ovunque devastazioni e rovine. Con la primavera i morti presero
sensibilmente ad aumentare, tanto che a maggio, col primo vero caldo, il
lazzaretto si mostrò incapace di accogliere altri appestati. Si ipotizzarono
dunque varie soluzioni, tra le quali requisire il borgo della Trinità, fuori
Porta Ticinese, per adibirlo a ricovero dei sospetti, lasciando il lazzaretto
solo per i malati accertati. Inoltre, si ventilò l'ipotesi, poi non attuata, di
sigillare l’intero borgo di Porta Orientale, la zona di Milano col più alto
numero di malati e di decessi.
Proprio quando il cardinale
Federico Borromeo iniziava ad organizzare processioni cittadine per invocare
l’aiuto divino contro il flagello, tra il popolo iniziò a diffondersi la voce
circa la presenza un po' ovunque di loschi personaggi che, muniti di veleni e
intrugli vari, andavano ungendo mortalmente le zone di maggior passaggio. Il 17
maggio, durante la consueta processione serale all’interno del Duomo, alcuni
fedeli videro distintamente alcune persone nell'atto di ungere la balaustra che
all’epoca divideva la zona riservata agli uomini da quella delle donne. Dato
prontamente l’allarme, accorse per un sopralluogo lo stesso presidente della
sanità Monti, individuando in più punti, ma soprattutto sulle panche, macchie
di materiale untuoso e sconosciuto. Dopo questo caso clamoroso, si misero a
verbale molte denunce di cittadini, terrorizzati dalle continue unzioni che
nottetempo venivano compiute a danno di portoni, maniglie e catenacci.
Lo storico Ripamonti riferisce
due casi che riassumono bene il clima di sospetto che aleggiava in quei tempi.
Uno riguarda tre viaggiatori
francesi, i quali visitando la nostra città, giunti davanti allo splendido
marmo del Duomo, vi passarono le mani per saggiarne la levigatura. Furono
subito percossi da alcuni popolani, e poi trascinati in carcere con l'accusa di
essere untori.
L'altro, di un vecchio che prima
di sedersi su di una panca in S. Antonio, ebbe la malaugurata idea di
spolverarla col proprio mantello. I fedeli presenti lo aggredirono a calci e
pugni, abbandonandolo morto.
La situazione si era fatta a
questo punto ingestibile: il numero dei decessi aumentava ogni giorno di più,
così come le tracce di sostanze appiccicose, rinvenute ormai dappertutto, nonostante
il Monti avesse dato alle stampe una grida “contro coloro che sono andato
ungendo le porte, catenacci, e muri di questa città”. Di tutto ciò il
Governatore dello Stato accusava apertamente le potenze straniere nemiche della
Spagna, colpevoli, a suo dire, di aver prezzolato individui senza scrupoli per
diffondere la peste in tutta la città, col chiaro intento di ridurre il ducato
milanese in ginocchio. Alla fine di maggio, con quaranta decessi al giorno e
centinaia di malati, venne allestito un secondo lazzaretto, al Gentilino,
affidato ai carmelitani, che vi entrarono il giorno 8 giugno.
E mentre anche le cause civili
erano ormai sospese per precauzione, martedì 11 giugno, a mezzogiorno, si mosse
la grande processione col corpo di Carlo Borromeo, voluta dal cardinale
Federico, ultima speranza di un evolversi positivo del contagio. La processione
si snodò lungo le vie, toccando tutte le Porte della città, e di volta in volta
fermandosi ai piedi delle numerose croci stazionali innalzate in occasione della
pestilenza del 1576. Purtroppo, la grandissima affluenza di popolo portò, come
prevedibile, ad un incremento della virulenza del male, che nelle settimane successive falciò
inesorabilmente migliaia di persone, con una media di centocinquanta morti al
giorno, numero che toccò con l'estate i duecento e più. Ormai la situazione
appariva drammatica: migliaia di case chiuse o abbandonate ai saccheggi,
infermi lasciati senza conforto e senza alcun tipo di aiuto medico, un macabro
andirivieni, di notte e di giorno, di carri colmi di cadaveri.
I nobili, frattanto, davanti allo
spettacolo di una città ridotta a bolgia di dannati, si erano dati precipitosamente alla fuga, sfollati nelle
più sicure e lussuose dimore sulle colline della Brianza, nonostante le grida delle
autorità proibissero di lasciare Milano, pena la confisca dei palazzi e di
tutti gli averi.
Quando ormai le cifre ufficiali
parlavano apertamente di 14.000 decessi per peste dall’inizio dell’epidemia e
la città si presentava, come scriveva il Monti, “miserabilissima”, i milanesi
di Porta Ticinese e del Carrobbio ebbero un terribile risveglio, la piovosa
mattina di venerdì 21 giugno 1630. Nella zona, infatti, tutti i muri, le porte,
gli angoli, e i catenacci delle case apparivano imbrattati con una sostanza
appiccicosa di colore giallo. Nazario Castiglioni, sagrestano di S. Alessandro,
è il primo ad informare dell'accaduto il capitano di giustizia, Gianbattista
Visconti, che si recò immediatamente in Porta Ticinese per far luce
sull’accaduto.
Le informazioni che sono
pervenute a noi, e che ci permettono di ricostruire tutti i drammatici risvolti
della vicenda, sono contenute in alcune copie del verbale originale degli atti
processuali. Delle copie esistenti, una, considerata la più attendibile, pubblicata
nel 1633 e l'altra, manoscritta, entrambe custodite alla Braidense in due
volumi, furono studiate dal Manzoni.
Da quanto si apprende dalle copie
degli interrogatori, il Capitano di giustizia, dopo aver ascoltato decine di
popolani, scovò finalmente due donnicciole che testimoniarono di aver visto
dalle finestre delle loro misere case, affacciate sulla Vetra e sul corso di
Porta Ticinese, un uomo alquanto sospetto, avvolto in una mantella nera e con
un grosso cappello, il quale camminava in modo a loro dire sospetto, rasente ai
muri, e "che si fermò qui in fine
della muraglia del giardino della casa delli Crivelli e che aveva una carta
piegata al longo in mano, sopra la quale metteua su le mani, che pareua che volesse
scriuere (…) che leuata la mano dalla carta, la fregò sopra la muraglia del
detto giardino, doue era un poco di bianco” (Alessandro Manzoni, Storia della Colonna Infame, in Opere, p. 968).
Una delle donnette popolane, poi,
sempre affacciata al davanzale, disse di aver visto l'uomo misterioso
allontanarsi, non senza aver prima salutato un passante, ch'ella, per
combinazione, conosceva. Da questo seppe dunque il nome del presunto untore.
Nasce così il ballo macabro della
“Colonna Infame”.
Il 22 giugno 1630 fu
immediatamente tratto in carcere "un
uomo di statura grande, magro, con barba rossa assai longa, capelli castani
scuri, in camisa dal mezzo in su, con calzoni di mezzalana mischia stracciati,
calcette di stamo nero, et ligazzi di cendal nero" (Giuseppe
Ripamonti, La peste di Milano del 1630,
Muggini, p.57). Il suo nome era Guglielmo Piazza, di professione Commissario di
sanità. La sua abitazione in Porta Ticinese, per l'esattezza nella parrocchia
di S. Pietro in Camminadella, fu perquisita, ma nonostante lo zelo non si trovò
alcunché di sospetto. Il poveretto subì numerose sedute di tortura, durante le
quali ribadì sempre la medesima versione, e che cioè quella mattina stava solo
compiendo il suo lavoro, percorrendo la zona della Vetra dei Cittadini, delle Colonne
di S. Lorenzo, di S. Michele alla chiusa e di S. Pietro in campo lodigiano, per
segnarsi sul foglio di servizio le case rimaste abbandonate, e prendendo
appunti sui decessi avvenuti nel quartiere. Sul perché poi camminasse rasente
ai muri, si giustificò dicendo che voleva ripararsi dalla pioggia, cosa che se
a noi potrebbe apparire più che verosimile, all’epoca fu ritenuta una menzogna
bella e buona.
Tuttavia, non potendo resistere a
lungo ai tormenti cui veniva quotidianamente sottoposto, il 26 giugno confessò
di aver ricevuto del veleno da un barbiere anche lui del Ticinese, di cui
conosceva solo il nome di battesimo: Giovanni Giacomo. Il Piazza si era
inventato dunque una storia credibile, narrando che il barbiere lo aveva
avvicinato qualche tempo prima, offrendogli una buona ricompensa se in cambio
si fosse prestato ad ungere le case della zona con una sostanza di tipo "giallo, duro, come l’oglio gelato nel
tempo dell’inverno", che lo stesso barbiere fabbricava di nascosto
nella sua bottega, e con la quale poi riempiva certe ampolline di vetro. Forti
di quanto estorto con la tortura, il presidente della sanità, col notaio ed una
opportuna scorta, si presentarono nella bottega del barbiere Gian Giacomo Mora.
Per sua somma disgrazia, il Mora,
che come tutti i barbieri dell'epoca si occupava anche di bassa chirurgia, da
quando era scoppiata la peste arrotondava i magri guadagni vendendo un prodotto
da lui stesso inventato, un rimedio contro il contagio, che era alquanto
richiesto dal popolo, privo, del resto, di altri e più efficaci ritrovati
scientifici. Il barbiere, pertanto, viste le guardie e spaventato dal fatto che
queste iniziavano una minuziosa perquisizione della bottega, pensò di
confessare la colpa che, a suo ingenuo avviso, aveva spinto qualcuno a
denunciarlo: ammise così di aver più volte preparato un unguento senza averne
l'autorizzazione, ma di averlo fatto solo a fin di bene, per amore del
prossimo. Non poteva neppure immaginare, in realtà, quale accusa terribile gli
sarebbe stata mossa di lì a poco.
Durante la perquisizione della
casa, fu sequestrata una gran quantità di sostanze e pozioni, il cui elenco
venne steso dal notaio presente. La scoperta più interessante la si fece però
nel cortile interno del caseggiato, dove in un angolo un poco nascosto si
rinvenne un grosso pentolone dimenticato al sole, dentro al quale era contenuta
la “lisciva e cenere”, una sostanza che, ricorda anche il Manzoni, veniva
comunemente adoperata, col nome popolare di "ranno" o
"smoglio" per fare il bucato. Trascinato in carcere, alla domanda se
conoscesse il Piazza e se mai gli avesse consegnato un vasetto di vetro ricolmo
di un certo preparato, il Mora, sempre all'oscuro del reato per il quale era
stato messo agli arresti, ammise di conoscerlo e di avergli venduto tal
unguento salvavita, dato il mestiere pericoloso che il Piazza svolgeva, sempre
a contatto con cadaveri e ammalati. Quell'intruglio, secondo la sua confessione
riportata nel verbale dell’interrogatorio, era composto di “8 onze d’oglio di
oliva, 4 di aglio laurino, 4 d’oglio di sasso detto filosophorum, 4 di cera
nova, 4 di rosmarino, 4 di ballette di ginepro, e 4 onze di polvere di salvia”.
La pozione andava sfregata sui polsi, e conservava la salute da ogni contagio
di peste. Inutile dire che la sanità milanese volle vedere in quella storia ben
altri risvolti. In un processo indiziario e inquisitorio, quello che appariva
certo era una sola cosa: il Mora produceva del veleno, tracce del quale erano
state rinvenute nella bottega, e ne aveva fornito il Piazza, col fine criminoso
di diffondere il contagio a Milano.
Il Senato, tratte le sue
conclusioni, volle solo ottenere le confessioni necessarie per emettere la
condanna. Nel mese di luglio si ebbero numerosi arresti, sulla base di
testimonianze popolari o dietro confessioni estorte torturando al limite della
sopravvivenza il Piazza e il Mora. Nelle calde giornate comprese tra il 27 e il
30 giugno si organizzò il confronto tra il Piazza e il Mora, ai quali si
concedettero infine sei giorni di tempo per definire le loro difese, termine
che comunque venne più volte procrastinato, secondo le esigenze degli
inquisitori.
Stremato da più di un mese di
torture, domenica 30 giugno il Mora iniziò a rendere piena confessione,
sperando di porre fine a quell'incubo e di avere salva la vita. Raccontò dunque
di aver più volte preparato un unguento pestifero, che ricavava utilizzando la
"bava raccolta dai morti di peste", materia che lo stesso Piazza gli
forniva, essendo per lavoro sempre a contatto coi monatti e i carri stracolmi
di appestati. La sostanza veniva poi fatta bollire in quel pentolone rinvenuto
in cortile. Successivamente, sottoposto ad altri tratti di corda, il Mora
aggiunse di aver organizzato il tutto dietro compenso versatogli da un
personaggio di spicco, appunto Gaetano de Padilla, il cui nome evidentemente
venne messo in bocca al Mora dai giudici.
Con la confessione, il barbiere
aveva firmato la sua condanna a morte.
In uno degli ultimi giorni di
quel maledetto luglio del 1630 il Senato milanese emanò, dopo quasi un mese e
mezzo di indagini, interrogatori, torture, arresti, la più terribile delle condanne,
a danno di Guglielmo Piazza e di Gian Giacomo Mora, che troveranno così la
morte pochi giorni dopo, il 1° agosto.
Come previsto dalla sentenza
capitale, i due untori rei confessi, legati schiena a schiena, furono caricati
su di un carro trainato da buoi, attorniato da una folla inferocita. Il corteo
partì dal palazzo del Capitano di giustizia e, passando prima accanto al Duomo
e snodandosi poi attraverso le varie tortuose contrade dei Mercanti d'oro, dei
Pennacchiari, della Lupa, della Palla, di S. Giorgio al palazzo, che ora,
rettificate, formano via Torino, raggiunse il Carrobbio. Poi imboccò la strada
di S. Bernardino alle monache, dove i due vennero tormentati con tenaglie
arroventate, successivamente proseguì per S. Pietro in camminadella, e,
sostando davanti alla bottega del Mora, ai condannati si amputò la mano destra.
Infine, il macabro corteo si arrestò nell'attuale piazza della Vetra, sul cui tristemente
famoso prato era abitualmente allestito il patibolo.
Fatti scendere sullo sterrato
gremito di popolo, i condannati furono legati alla “ruota” e colpiti duramente
con bastoni fino alla rottura di tutte le ossa. Seppure in agonia, i due
poveretti rimasero per sei ore esposti alla pubblica vista, affinché tutti
potessero meditare sulla terribile sorte riservata agli untori. Al termine del
rituale, si pose fine alle loro sofferenze scannandoli, bruciandoli, e gettando
le loro ceneri nella Vetra, che scorreva lì accanto.
Morti i due, si diede seguito
alle disposizioni della sentenza del Senato, demolendo dalle fondamenta la casa
del barbiere, e sullo slargo così creatosi si innalzò una colonna di granito,
con in cima una sfera di pietra, la "Colonna Infame”, a perenne ricordo
della malvagità degli artefici dell'epidemia. Sul muro della casa di fronte
venne affissa una grossa lapide, la quale ricordasse quali furono le colpe dei
due criminali, quale la pena loro riservata, e il monito affinché nessuno mai
osasse riedificare sui resti della bottega del barbiere Mora.
La morte dei due innocenti non
placò ovviamente la furia del contagio, che in agosto, anche a causa della
calura opprimente, toccò il suo picco massimo. I morti giornalieri, anche se le
cifre tramandateci dagli storici sono purtroppo sempre alquanto approssimative,
ammontavano ormai a 600, e si diceva che almeno 4.000 fossero i cadaveri
insepolti che giacevano lungo le vie o abbandonati nelle case. Continuarono
anche gli arresti di untori, e qualcuno iniziò ad ipotizzare che in città si
aggirasse un vero esercito straniero, col diabolico compito di ungere tutta
Milano. Con settembre iniziarono a mancare i generi di prima necessità e, quel
che è peggio, iniziarono a scarseggiare i monatti. Una grida del 22 luglio, del
resto, già aveva intimato di non "gettare, far gettare, lasciare o far
lasciare in strada dalle finestre alcun cadavere, se non nell'atto che i
monatti li ricevono". Una missiva del 31 agosto 1630 testualmente dice che
"ormai a Milano è rimasta assai poca gente, e vi sono case disabitate, e i
morti, dall'inizio del contagio, ammontano a settantaduemila".
A dicembre del 1630, grazie al
freddo, il contagio cominciò a perdere vigore, e a partire dai primi mesi del
1631 l'epidemia poteva dirsi in ritirata. Da un primo ed approssimativo
conteggio Milano risultava "ridotta
però a cinquantamila abitanti solamente, mentre, fattosi melio il conto,
centocinquantamila ne ha tolto la contagione di questo infelice anno, mentre
nelle ville, et per le terre del paese continuano a dimorare la nobiltà tutta
et molti altri, che a tempo sono fuggiti dalla imminenza del pericolo"
(Dispaccio 11 dicembre 1630).
Untori batterono la città?
Probabilmente sì. Anch’essi brulicarono in quel sottobosco di brutture fisiche
e morali che fu Milano al tempo della peste. Ma non furono ovviamente
determinanti nella catastrofe che, secondo Giuseppe Ripamonti provocò 140mila vittime,
secondo Alessandro Tadino 185mila.
Beniamino Colnaghi
Bibliografia
* Alessandro Manzoni, Storia della Colonna Infame, in Opere.
* Giuseppe Ripamonti, La peste di Milano del 1630, Muggini
tipografo-editore, Milano 1945.
* Processo agli untori. Milano 1630: cronaca e atti giudiziari, a
cura di Giuseppe Farinelli e Ermanno Paccagnini, Garzanti, Milano 1967.
* Corrado Stajano, La città degli untori, Garzanti, Milano
2009.
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