domenica 20 dicembre 2015

Verderio, la chiesetta di Sant’Ambrogio

Prima dell’edificazione nel 1902 dell’attuale parrocchiale, dedicata ai santi Giuseppe e Floriano, la chiesetta di Sant’Ambrogio, insieme alla vecchia chiesa poi sconsacrata, costituiva il patrimonio di fede religiosa di Verderio, ex Superiore.
L’area in cui è inserita è di rara bellezza, perché porta con sé ricche testimonianze di storia locale.
L’origine della chiesetta dedicata a sant’Ambrogio non è nota. Supportata da alcune ricerche storiche, si può tuttavia presumere che la prima costruzione di una cappella, sul luogo ove oggi si trova la chiesina, possa risalire ai tempi di Ariberto, discendente da famiglia professante legge longobarda, la quale aveva beni fondiari in territorio bergamasco, in Brianza e possedeva all'estremo limite della Martesana la corte di Antimiano (Intimiano) presso Cantù, donde prendeva nome.
Il 28 marzo 1018 Ariberto fu ordinato arcivescovo di Milano.

 
Anticamente la chiesetta venne utilizzata nei giorni festivi dalla Confraternita del Santissimo Sacramento per recitare l’Ufficio. L’edificio appartenne per lungo tempo al Patronato Arrigoni Confalonieri, che incaricò un cappellano affinché celebrasse la messa.
Nel 1729 si ottennero le autorizzazioni necessarie per ricavare il sepolcro fuori dai cancelli dell’altare della chiesina per seppellire don Arrigoni, il quale è ricordato da una lapide che così recita: “Qui giace Giovanni Maria Arrigoni che morì il giorno 7 settembre 1729 all’età di ottant’anni”.
 
Il 2 ottobre 1738, a seguito della riedificazione dell’edificio sacro, l’arcivescovo di Milano, Carlo Gaetano Stampa, conferì a don Giuseppe Pozzi, parroco di Merate e Vicario Foraneo, la facoltà di benedire la chiesetta (detta Oratorio Pubblico) sotto il titolo di sant’Ambrogio.
Nel 1825, per volontà delle famiglie aristocratiche del luogo, Confalonieri e Ruscone, venne costruito il nuovo altare mentre cinquant’anni più tardi, esattamente negli anni 1876 e 1878, la famiglia Gnecchi Ruscone, nuova proprietaria dell’immobile, finanziò un radicale restauro dell’interno della chiesina, fece costruire alcuni locali che adibì a sacrestia e tribune e ne dismise altri che divennero l’abitazione del cappellano. Nel 1953 venne rimosso il quadro di sant’Ambrogio per consentire la realizzazione di una nicchia sopra l’altare, nella quale venne collocata la statua della Madonna Pellegrina.
 
Nell’ultimo decennio sono stati compiuti alcuni interventi di restauro, manutenzione e conservazione dell’immobile, l’ultimo dei quali è terminato da poche settimane.   
  
Beniamino Colnaghi
 

venerdì 18 dicembre 2015

Gli Ebrei nelle terre orientali dell’Impero austro-ungarico

Il 23 luglio 2015 è stato postato un articolo dal titolo “Le terre orientali dell’Impero austro-ungarico”(1), che si è occupato, seppur per sommi capi, delle regioni orientali dell’Impero. Rispetto alla presenza di numerosi gruppi etnici e di una variegata composizione sociale di quelle società, il testo che segue intende analizzare ed approfondire la popolazione ebraica, componente importante e significativa presente in quelle terre. (bc)

Un mosaico genetico con decisivi apporti da antiche popolazioni originarie del Caucaso, europee e mediorientali: è quanto risulta da uno studio che ha ricostruito le origini degli ebrei dell'Europa orientale, le cui ascendenze sono ancora oggetto di dibattito. La ricerca, condotta da Eran Elhaik della Johns Hopkins University Bloomberg School of Public Health, e pubblicata sulla rivista Genome Biology and Evolution,  permette di fare un significativo passo avanti nella definizione della controversia fra le due ipotesi attualmente in campo, portando dati a favore di quella che sostiene un'ascendenza molto più complessa per gli ebrei dell'Europa orientale rispetto a quelli dell'Europa centrale. Secondo la cosiddetta “ipotesi renana”, infatti, gli ebrei europei discenderebbero da quelli che, nel VII secolo, lasciarono la Palestina in seguito alla conquista musulmana, per trasferirsi in Europa, in particolare nella Renania. Nel corso del XV secolo, circa 50.000 ebrei lasciarono poi questa regione per spostarsi verso est.
L'ipotesi alternativa è quella “cazara”, secondo la quale la fioritura demografica degli ebrei dell'Europa dell'Est avrebbe ricevuto un decisivo contributo dai Cazari, una confederazione di tribù di origine turca, iraniana e mongola che vivevano in quella che oggi è la Russia meridionale, e che fra il VII e il IX secolo si convertirono al giudaismo. In seguito al crollo dell'impero cazaro, arrivato ad estendersi dall'Ucraina fino al lago Aral, le popolazione cazare, amalgamatesi anche con armeni e georgiani, a partire dal XIII secolo si dispersero in tutta l'Europa orientale.

Uno dei primi provvedimenti in Europa di tutela della popolazione ebraica risale al 1233, quando l’imperatore del Sacro Romano Impero, Federico II di Svevia, concesse uno statuto agli ebrei viennesi.
A partire dal XVI secolo l'istituzione dei ghetti caratterizzò la vita di gran parte degli ebrei europei.
In Italia le segregazioni coatte degli appartenenti a un gruppo sociale iniziarono nel Cinquecento. In quel periodo nacquero i ghetti per gli ebrei: il primo fu creato a Venezia nel 1516, il secondo ad Ancona, il terzo a Roma e Bologna nel 1566, poi a Firenze, Verona, Mantova, Ferrara, Torino. 
Ritornando all’Europa orientale, verso la metà del 1500 l’unione polacco-lituana fu l’unico paese nella storia dell’Europa che riconobbe una sorta di autogoverno degli ebrei. Dopo la spartizione della Polonia gli ebrei si trovarono a vivere in altri Stati, tra cui la Prussia e la Russia e nell’Impero Asburgico. Nel 1781 l'imperatore Giuseppe II d’Asburgo emanò i "Decreti di tolleranza" che abolirono molte delle discriminazioni religiose nei confronti dei protestanti, degli ortodossi e degli ebrei ma non ristabilirono mai la precedente autonomia. Dopo la Rivoluzione francese, la nascita dei moderni stati nazionali favorì migliori condizioni di vita delle popolazioni e, nella maggioranza dei paesi, permise l'emancipazione civile degli ebrei.
Nei territori degli Asburgo, le regioni più densamente abitate dagli ebrei erano la Galizia, la Bucovina e la Transilvania. Consistenti insediamenti ebraici si trovavano anche in Boemia e Moravia. In Russia gli ebrei, fino al 1917, furono confinati nelle “Zone di insediamento”, territori annessi in seguito alla spartizione della Polonia.

 Ebrei a Vienna nei primi anni del Novecento

Negli ultimi decenni dell’Ottocento, con le profonde trasformazioni e modernizzazioni della società tedesca e austriaca, l’ebraismo europeo si divise in “occidentale” e “orientale” e si coniarono i termini, divenuti di uso corrente, Westjude e Ostjude. Gli ebrei dell’est, che già venivano criticati per il loro modo di vivere e di comportarsi, furono ulteriormente caratterizzati in termini negativi dagli stessi ebrei dell’Europa occidentale, in particolare dai tedeschi assimilati, i quali tesero a evidenziare la loro lontananza dagli ebrei osservanti dell’est. I profondi legami tra gli ebrei, la solidarietà e la condivisione dei valori tra essi cominciarono a venire meno a causa, appunto, del processo di emancipazione e modernizzazione che portò gli ebrei a conformarsi allo stile di vita delle società in cui vivevano. I due stili di vita cominciarono a confliggere e gli ebrei tedeschi iniziarono a disprezzare gli ebrei orientali.   
Ovunque, in Europa occidentale, l’ebreo dell’est, Ostjude, divenne un personaggio inquietante e da deridere. La necessità, per l’ebreo tedesco, di superare la diffidenza dei popoli occidentali nei suoi confronti, lo porta, per essere accettato, a esternare il disprezzo per il suo pari orientale, che incarnava tutti i tratti negativi tradizionalmente attribuiti agli ebrei.
Joseph Roth, scrittore e giornalista austriaco, testimone letterario d'eccezione della fine dell'Impero austro-ungarico, nato in Galizia, in una sua esemplare, quanto caustica intervista, affermò: “Quanto più occidentale è il luogo di nascita di un ebreo, tanti più sono gli ebrei che guarda dall’alto in basso. L’ebreo di Francoforte disprezza l’ebreo di Berlino, l’ebreo di Berlino disprezza l’ebreo di Vienna, e quello di Vienna disprezza l’ebreo di Varsavia. Poi vengono gli ebrei della Galizia, che tutti guardano dall’alto in basso; e di lì vengo io, l’ultimo di tutti gli ebrei”.  
 
Ebrei dei territori orientali dell'Impero Asburgico (Ostjude)
Nella seconda metà dell’Ottocento l’espressione Ostjude diventa il termine che viene usato per definire “l’ebreo del ghetto”. Per meglio precisare il concetto, con questa espressione non si intendeva chi stava fisicamente nel ghetto, ma si intendeva uno stato mentale perché chi stava nel ghetto era considerato uno straniero in Europa.
Karl Emil Franzos, nato in Galizia, fu uno scrittore ebreo liberale di lingua tedesca, le cui opere ebbero grande diffusione nell’Impero austro-ungarico e in Germania. Raggiunse il successo con numerosissimi romanzi e racconti che risultarono efficaci soprattutto nella colorita rievocazione del mondo ebraico dell'Europa orientale. Franzos descrisse le composite stirpi della vecchia Austria e la tragica odissea delle comunità israelitiche. In particolare scrisse sulla scialba esistenza delle piccole città della Podolia, nelle quali gli ebrei giungevano in autunno a Belz da tutta la Volinia e da tutta la Podolia per trascorrere le festività religiose nella vecchia sinagoga e sognare la lontana patria del Giordano. Compì una distinzione netta tra l’Europa, che era “avanzamento, umanità, cultura” e l’Asia, l’Est, ossia tutto ciò che invece era sordido, barbaro, selvaggio. Descrisse gli ebrei dell’est come arretrati, superstiziosi, miseri, mentre, secondo il suo parere, avrebbero dovuto riscattarsi abbandonando lo yiddish e le loro tradizioni secolari, assimilandosi alla cultura tedesca.  
Per nulla d’accordo con questi concetti era un gruppo di intellettuali che ritenne, invece, fosse da rivalutare la specificità della cultura ebraica orientale perché depositaria dei valori unitari del popolo ebraico, come la lingua, lo yiddish, la mistica, il chassidismo, la letteratura e la musica.   
Il chassidismo, la letteratura, la lingua yiddish, le tradizioni ebraiche furono considerate da questo movimento di rinascita come il vero nucleo dell’anima ebraica. Martin Buber, appartenente a quel movimento, scrisse che “le masse ebraiche di lingua yiddish che vivevano nei villaggi dell’Europa orientale erano la dimostrazione che gli ebrei non erano soltanto, come gli ebrei occidentali, una somma di individui sradicati… Essi erano anche popolo, e popolo allo stesso titolo dei tedeschi, perché, come i tedeschi, avevano una tradizione, una lingua e una letteratura popolari…”. Kafka, lo scrittore ebreo praghese, non fu tuttavia d’accordo con Buber, perché non considerò mai lo yiddish una lingua ma un gergo, un dialetto popolare.
 
 Il vecchio cimitero ebraico di Praga

Il rapporto tra comunità e lingua ebbe una grande importanza nel classificare quelle aree centro-orientali. A cavallo tra Ottocento e Novecento, in quello spazio, il tedesco, seppur non si sostituì alle lingue nazionali, ma convisse con esse, era parlato da grandi fette di popolazioni, ben oltre i confini dello stesso impero asburgico e della Germania. Il tedesco costituiva la lingua colta, parlata da scrittori e intellettuali e praticata in molte comunità ebraiche. Il tragico amore per la lingua tedesca unirà molti scrittori ebrei, anche nei ghetti, prima, e nei lager nazisti, poi. Per quegli scrittori il tedesco era la lingua della patria, della casa, dell’identità, in quanto legame con la propria comunità.
Nella maggior parte delle città della Mitteleuropa, da Praga a Vienna fino a Budapest, avviene il processo di abbandono dell’ebraismo tradizionale e dello yiddish, che si spostano sempre più ad est. La comunità ebraica di Praga si assimila alla comunità tedesca, soprattutto nella lingua e nei costumi.
I centri della cultura tradizionale ebraica divennero, dunque, gli insediamenti ebraici dell’Europa orientale, i piccoli villaggi, abitati da povere persone che vivevano nella miseria e nella sporcizia. Le comunità di quei luoghi erano comunità autonome dalle solide basi, che possedevano proprie concezioni di valori, proprie tradizioni e leggi che si discostavano molto dalle realtà occidentali.
 
 
Golcuv Jenikov (Rep. Ceca). Il ghetto ebraico in una foto del 1914 e il cimitero ebraico oggi
La grave crisi che colpì l’Europa tra le due guerre mondiali costrinse molti ebrei di quei territori orientali ad emigrare o a spostarsi nelle grandi città. La Shoa perpetrata dai nazisti, che sterminò la gran parte degli ebrei, e le epurazioni staliniane cancellarono gran parte di quella cultura. I sopravvissuti lasciarono la Mitteleuropa e migrarono verso gli Stati Uniti, la Palestina prima e Israele poi. Lo sterminio degli ebrei cancellò quel mondo.
Yitzhak Katzenelson, ebreo, dapprima nascosto nel ghetto di Varsavia e poi fuggito in un paesino in Francia, scrisse Il canto, monumento funebre agli ebrei d’Europa. Venne individuato e trasferito ad Auschwitz, dove troverà la morte. Terminata la guerra il suo manoscritto fu pubblicato: “Ahimè, non c’è più nessuno… c’era un popolo, ora non c’è più… c’era un popolo… e ora è scomparso!”
La fine della Seconda guerra mondiale segnò così un duplice tramonto: quello delle culture degli Ostjuden(2) e dei Volksdeutscher(3). Il duplice tramonto, ossia lo sterminio degli ebrei e la pulizia etnica dei tedeschi dall’Europa centro-orientale. Mentre la Seconda guerra mondiale stava terminando e soprattutto dopo la sua cessazione, ad essere vittime furono le popolazioni germanofone dell’Europa centro-orientale. Non si trattò pressoché di nazisti, ma indiscriminatamente vennero colpiti tutti i Volksdeutsche, popolazioni germanofone che si erano insediate in quei territori da secoli, a partire dalla colonizzazione della parte orientale dell’Europa, attuata dai popoli germanici: una grande migrazione, nel corso della quale i tedeschi fondarono insediamenti nelle regioni meno popolate dell’Europa centro-orientale e orientale. Nel 1945, e nell’immediato dopoguerra, saranno vittime di espulsioni, trasferimenti forzati, deportazioni accompagnate da ogni sorta di brutalità, dovute ad un forte risentimento anti-tedesco, soprattutto nelle regioni che furono occupate militarmente dalle forze naziste durante la guerra.

Beniamino Colnaghi

Bibliografia, sitografia e note

Attilio Milano, Storia degli ebrei in Italia, Torino, Einaudi, 1992.
Robert S. Wistrich, Gli ebrei di Vienna, Milano, Rizzoli, 1994.
M. Barbagli, M. Pisati, Dentro e fuori le mura, Bologna, Società editrice il Mulino, 2012.
Massimo Libardi, Fernando Orlandi, Mitteleuropa, mito, letteratura, filosofia, Silvy Edizioni, 2011.
Giuliano Baioni, Kafka, letteratura ed ebraismo, Torino, Einaudi, 1984.
Yitzhak Katzenelson, Il canto del popolo ebraico massacrato, Firenze, Giuntina, 1998.

Il ghetto di Golcuv Jenikov: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.cz/2012_03_01_archive.html
Wikipedia enciclopedia libera: http://it.wikipedia.org/wiki/Storia_degli_ebrei_in_Europa
Wikipedia enciclopedia libera: http://it.wikipedia.org/wiki/Impero_austro-ungarico

(2) Ostjuden, ebreo dell’Europa centro-orientale.
(3) Volksdeutsche è una parola tedesca che significa "cittadino di etnia tedesca". Il termine venne usato nei primi decenni del Novecento per indicare i cittadini di etnia germanica che vivevano al di fuori del Reich. Volksdeutsch indica quindi i tedeschi etnici fuori dalla Germania ma senza la nazionalità tedesca, mentre la parola Reichsdeutsch indica i tedeschi etnici con nazionalità e cittadinanza tedesca.
 
 

martedì 8 dicembre 2015

Voci, gesti, culture dell’alimentazione

Sala Leydi del Museo Etnografico dell’Alta Brianza - Galbiate (Lecco) 
   
Domenica 13 dicembre 2015  alle ore 15

Inaugurazione della mostra Il maiale buono. Testimonianze di una tradizione cambiata  



Interventi di Giorgio Agostoni, titolare di salumificio, Eliseo Brioni, norcino e macellaio, Massimo Pirovano, direttore del Museo Etnografico (MEAB). 
La mostra parla del maiale e del lavoro che ne fa un alimento, ma anche della relatività delle culture umane, con i loro giudizi sugli animali e sugli uomini: le caratteristiche attribuite al porco, infatti, lo fanno “pericoloso” o “prezioso”, a seconda dei contesti ambientali e sociali 

La mostra resterà aperta dal 13 dicembre 2015 al 3 aprile 2016

Info:  http://meabparcobarro.weebly.com/  -  MEAB tel. 0341.240193 Parco tel. 0341.542266  

martedì 1 dicembre 2015

Verderio, la Madonna dell'aiuto

Da alcune settimane a Verderio (Lecco) è in corso una raccolta firme tra i cittadini al fine di sensibilizzare l'Amministrazione comunale e tutta la comunità locale sulla necessità di restaurare e recuperare l'immagine della Madonna dell'aiuto, deteriorata dal tempo e dalle intemperie.
I promotori dell'iniziativa, a cui va il plauso e la riconoscenza dei verderiesi, intendono affidarsi a degli esperti per capire innanzitutto il livello del degrado del manufatto e successivamente individuare le migliori tecniche di intervento del restauro. Inoltre, e non da ultimo, i promotori cercheranno di sapere preventivamente i costi degli interventi e individuare le fonti di finanziamento.
 
Verderio Superiore. La Madonna dell'aiuto in una foto degli anni Quaranta del Novecento, posta sull'angolo tra le vie Fontanile e Principale. Nella foto il titolare e alcuni avventori dell'osteria Fiuranèll (la foto è tratta dal libro Quand sérum bagaj di Giulio Oggioni)
 
L'affresco originale della Madonna dell'aiuto è opera del pittore milanese Achille Dovera, nato nel capoluogo lombardo il 7 aprile 1838. Studiò, tra gli altri, con Francesco Hayez all'Accademia di Brera. Intraprese diversi viaggi di studio in Francia, ed espose a Milano, Torino e Venezia. Alla Galleria d'Arte Moderna di Milano sono conservati alcuni suoi quadri.
Dovera arrivò a Verderio nel 1889 su espressa richiesta della famiglia Gnecchi Ruscone, la quale chiese al pittore di affrescare alcuni locali all'interno della villa padronale. Durante la sua permanenza a Verderio, pare che il Dovera frequentasse l'osteria detta Fiuranèll, gestita dalla famiglia Sala. Non è dato sapere chi commissionò l'affresco della Madonna, ma sta di fatto che il pittore milanese realizzò l'opera direttamente sull'intonaco civile dell'edificio che ospitava l'osteria.  
Dopo alcuni decenni l'intonacò cominciò a sgretolarsi e si persero alcune tracce originali dell'immagine. Negli ultimi trent'anni sono stati effettuati alcuni interventi di restauro che però non hanno prodotto risultati  soddisfacenti. Da qui l'intento dei promotori di intervenire nuovamente sul manufatto originale mediante nuove tecniche e applicazioni più idonee e affidabili.    
 
Storie e leggende del rock: Led Zeppelin

Sapevamo che ciò che stavamo creando sarebbe rimasto.   
Per questo non facevamo singoli ma solo il lavoro completo.
Cercavamo qualcosa di mai sentito prima, e credo che lo abbiamo trovato.
Jimmy Page, chitarrista dei Led Zeppelin

John Bonham era il batterista dei Led Zeppelin, noto negli ambienti musicali col soprannome Bonzo. Ancora oggi viene considerato uno dei più grandi batteristi della storia della musica rock. Il 24 settembre 1980 un assistente dei Led Zeppelin passò a prendere John a casa sua per accompagnarlo ai Bray Studios, dove il gruppo stava preparando il tour americano. Durante il percorso chiese di fermarsi al primo bar. Non ordinò la colazione ma si bevve, in pochi minuti, quattro bicchieri di vodka, quadrupli, si disse. Continuò a bere anche durante le prove. La sera stessa, Jimmy Page, il chitarrista della band, diede una festa nella sua nuova villa a Windsor. L’alcool scorse a fiumi, oltre a tutto il resto. Bonham, completamente ubriaco, si addormentò sul divano. Un collaboratore dei Led Zeppelin se lo caricò sulle spalle e lo portò in una camera da letto al piano superiore. Il giorno dopo, a pomeriggio inoltrato, lo trovarono morto nel letto, soffocato dal suo vomito. Dopo la morte di Bonham, gli altri tre componenti del gruppo presero la decisione di interrompere l'attività artistica con il nome di Led Zeppelin. Il 4 dicembre 1980 (quattro giorni prima dell’assassinio di John Lennon) comunicarono così la loro decisione:
«Desideriamo rendere noto che la perdita del nostro caro amico e il profondo senso di rispetto che nutriamo verso la sua famiglia ci hanno portato a decidere – in piena armonia tra noi ed il nostro manager – che non possiamo più continuare come eravamo.»
 
 
Chi erano i Led Zeppelin? Quali furono le loro origini? In quale contesto nacquero?
Facciamo qualche passo indietro e ritorniamo al mitico 1968.
Tutto nasce da un'idea del chitarrista Jimmy Page. Dopo una lunga gavetta come session-man di artisti del calibro di Who, Joe Cocker e Nico, Page approda agli Yardbirds, storica formazione inglese che in precedenza aveva ospitato nomi come Eric Clapton e Jeff Beck. Sfornato l'ultimo singolo, nei primi mesi del 1968, il gruppo si scioglie. Per obblighi contrattuali Page rifonda il gruppo, sotto il nome di New Yardbirds. Il primo a essere reclutato è il suo amico John Paul Jones (al secolo James Baldwin), bassista/tastierista e anch'esso ricercato session-man. Sfumato il tentativo di reclutare il cantante/chitarrista Teddy Reid e il batterista dei Procol Harum, B.J. Wilson, Page, dopo aver assistito a un concerto degli sconosciuti Hobbstweedle, ingaggia il biondo cantante del gruppo, Robert Plant, dalla potentissima voce di stampo rock-blues. Dirà di lui Page: "Il solo ascoltarlo mi faceva sentire nervoso. A distanza di anni, accade ancora: il suo canto è una sorta di gemito primordiale". Su suggerimento di Plant, viene infine contattato il batterista John Bonham, dal drumming personale e potente, reso ancora più rumoroso dall'uso di foderare i rullanti e i tom di carta stagnola.
 
Soffermandoci ancora un attimo sugli Yardbirds, Jimmy Page influenzò e venne influenzato dagli altri membri della band inglese. Portatori sani del British blues, suonarono in tour con la più grande armonica a bocca della storia della musica, la leggenda Sonny Boy Williamson, dal quale pubblicarono un omonimo album, Sonny Boy Williamson and the Yardbirds. Insieme ai Beatles, agli Who ed ai Rolling Stones sono senza dubbio i protagonisti della British Invasion e di tutto quello che ne conseguirà, ma la caratteristica e la peculiarità dei Yardbirds sta nelle persone e soprattutto nelle personalità artistiche che componevano la band. Si perché non c`è stata nessuna altra band nella storia della musica che una volta scioltasi ha creato, con i nuovi percorsi dei componenti, dei solchi profondi come il letto del Nilo, in quanto seppur succedendosi, militarono rispettivamente: Eric Clapton, al basso Paul Samwell-Smith, sostituito da un certo Jimmy Page, che poi diventa la chitarra ritmica accanto a quella solistica di Jeff Beck, e tutti e quattro rispettivamente ed in modi diversi, dopo l`esperienza con gli Yardbirds, cambiarono per sempre il mondo della musica. Gli Yardbirds si sciolgono, come accennato, nel 68, anche se già in crisi dalla metà del 67 per via di questo concentramento di personalità troppo forti e artisti troppo virtuosi per stare tutti assieme nella stessa band.
Così un giovane Jimmy Page, che si era fatto le ossa accanto a due “mostri sacri” come Clapton e Beck, che avevano introdotto nella scena inglese nuove tecniche chitarristiche quali la distorsione, il feedback e il fuzz tone, decide di coinvolgere una serie di musicisti e sviluppare delle idee che aveva riguardo l`interpretazione di alcuni tipi di hard rock. Così dopo una tournée e lo scioglimento dei Yardbirds, nascono inizialmente i New Yardbirds, in modo da terminare degli impegni contrattuali, così Page autorizzato proprio da Relf a utilizzare il nome, accetta la proposta spontanea di un bassista di nome Jones Paul Jones a collaborare con loro, avendo saputo del probabile scioglimento e comunque della girandola di sostituzioni che vi era stata.
Per la voce aveva pensato a Terry Reid, che nella sua vita si permise di rifiutare due inviti ad essere la voce della band, infatti oltre a Page, disse di no anche alla proposta fattagli qualche tempo più tardi da Ritchie Blackmore a divenire il cantante dei Deep Purple.  Il quale però, pur permettendosi il lusso di dire questi due no storici e intraprendere una carriera da solista, suggerisce a Page un cantante di Birmingham, un certo Robert Plant. Con John Bonham alla batteria, nel 1969 cambiano il nome e nascono a Londra i Led Zeppelin, e da quel momento nel rock cambierà qualcosa per sempre.
 
 
Sono indiscutibilmente i padri dell’heavy metal, che appare concettualmente alla fine di un percorso di potenziamento tecnico e tecnologico ed altro non è che l'evoluzione del proto metal, dell'acid rock, dell’hard rock e del rock and blues. L’heavy metal ha ispirato tutta quella branca del rock che diventerà successivamente: speed metal, thrash metal, power metal, black metal, death metal e il doom metal, da cui nacquero, col tempo, una schiera di ulteriori sottogeneri. Hanno ispirato direttamente i Deep Purple e i Black Sabbath di Ozzy Osbourne, ma soprattutto hanno regalato oltre vari tipi di rock che spaziava da quello psichedelico al progressivo, sempre zeppo di quella giusta acidità, una mescolanza unica di sound, avendo affondato da sempre le radici nel blues e nel rockabilly, nel folk e nel rhythm and blues. I primi tre album che si intitolano tutti in maniera omonima e numerata progressivamente (anche il quarto) sono una prodezza musicale di rara bellezza che affondano le radici ancora nel british blues, ma che cominciano anche a saggiare l`audacia del duo Page-Jones, con riff molto aggressivi come in Whole Lotta Love, e segnano un passaggio fondamentale nel cavallo dei Settanta, mescolando riff di bluesman come Willie Dixon e Howlin’ Wolf, rivisti in chiave hard rock con chitarre e bassi distorti. Come un crescendo aumentano l`heavy mentre i sound si intrecciano accarezzandosi e quasi rincorrendosi anche, anzi soprattutto, nella stessa traccia. Poi nel 1975 arriva Physical Graffiti, album doppio, che è un capolavoro assoluto della storia della musica, un diamante sudafricano, al numero 73 dei migliori 500 album della storia secondo Rolling Stone, include capolavori come Kashmir o Houses of the Holy dove la loro acidità trova il perfetto sodalizio con la morbidezza di una chitarra di Page in piena maturità. 
L`album del 1971, Led Zeppelin IV, pare fosse senza titolo e che il progressivo sia stato attribuito ufficiosamente per proseguire la trilogia precedente, il più bello dei primi quattro numerati cronologicamente, il primo della maturità, che include brani hard rock come Black Dog o Rock and Roll, oppure ancora dal sapore mistico-folk come The Battle of Evermore che rievoca una battaglia vichinga, con tanto di guerrieri e cavalcate nelle praterie. Ma senza ombra di dubbio è una la canzone di questo album che vive nell`immaginario di tanti ed è invece impressa a fuoco nell`anima di tutti gli amanti della musica, Stairway to Heaven, che è considerata, insieme a Bohemian Rhapsody dei Queen, la più bella canzone della storia del rock.
 
 
I Led Zeppelin passeranno quindi alla storia per un singolare primato, difficilmente eguagliabile: contribuire in modo massiccio all'evoluzione della musica rock non inventandosi quasi nulla, ma, anzi, attingendo a piene mani dal repertorio blues e rock-blues degli anni '50 e '60 prima, e dal folk e dalla musica orientale poi. Eppure, il loro è un sound completamente fresco e quasi "rivoluzionario", che lascerà segni indelebili nel futuro del rock'n'roll. Ed è proprio questa la grandezza degli Zeppelin, che sono stati capaci di giungere laddove altri gruppi britannici prima di loro avevano solo tentato di arrivare (come gli Yardbirds - in cui militò Page stesso - i Cream, il Jeff Beck Group - con cui collaborò John Paul Jones).
I Led Zeppelin hanno saputo creare un suono unico, fondamentale, semplicemente vestendo con panni nuovi una musica che ormai cominciava a diventare vecchia. Una rivoluzione formale, basata in gran parte sul sound, talmente massiccia, però, da travolgere anche la sostanza, tanto da dare il la a buona parte dell'hard-rock sviluppatosi negli anni a venire, fino ad arrivare ai giorni nostri, nei quali è ancora ben visibile lo spettro del dirigibile su molte band. 
Ma non c'è solo l'immortalità delle canzoni dietro il mito dei Led Zeppelin. Page e soci, infatti, possono vantare una serie di piccole rivoluzioni che hanno cambiato la storia della musica. Furono i primi a raggiungere un successo di massa senza dipendere dalla programmazione radiofonica. Fino ad allora, radio e televisione erano state dominate dalle hit parade, e quindi dal 45 giri. I Led Zeppelin sfondarono senza mai entrare in quelle classifiche. Nemmeno il loro più grande pezzo, Stairway To Heaven, divenne mai un singolo. E anche la laconicità con cui intitolarono i primi album (alcuni privi persino del loro nome in copertina) segnò una rottura con la tradizione, che voleva i titoli dei dischi funzionali al marketing della band.
Più ancora degli hit, ad attrarre moltitudini di fan furono le loro esibizioni dal vivo. Esibizioni che, sull'onda emotiva di Woodstock, riportavano il rock alla sua dimensione più selvaggia e genuina. I concerti dei Led Zeppelin erano pervasi da un'energia feroce, da una fantasia allucinata, da un furore quasi mistico. Erano baccanali assordanti e melodie folk, deliqui blues e sciabolate elettriche: un'orgia sonora dominata dai virtuosismi iper-veloci di Jimmy Page e dal canto stridulo e possente di Robert Plant. Il film "The Song Remains The Same" ne resterà la testimonianza più celebre.
 
Beniamino Colnaghi
 
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