giovedì 12 dicembre 2013

Un paese di temporali e di primule: le antiche terre friulane in Pasolini


 "La morte non è nel non poter comunicare,
ma nel non poter più essere compresi".

Percorro a piedi il lungo viale, ombreggiato da altissimi cipressi, e mi dirigo verso il cimitero di Casarsa della Delizia, Cjasarsa in friulano. L'entrata è scarna: un cancello sovrastato da un arco e una scritta, In pace Christi requiescant. Oltrepasso il cancelletto d’ingresso e conto quindici passi a sinistra. In questo sole invernale, ancora piacevolmente caldo, mi dirigo verso un quadrato di terra. Davanti a un cespuglio di alloro ci sono due lapidi gemelle di color grigio adagiate sul terreno, sulle quali sono incise le epigrafi: Pier Paolo Pasolini (1922 – 1975) e Susanna Colussi (1891 – 1981), la madre del poeta, a ricordare il profondo legame che li tenne uniti per tutta la vita. Si tratta di un sepolcro molto semplice, incorniciato da un’aiuola. Uno dei più grandi poeti, scrittori e intellettuali italiani di sempre è sepolto in una tomba priva di qualsiasi segno di ostentazione del lusso e del potere. Solo l’alloro, simboleggiante negli antichi sapienza e gloria, e una sua foto con la scritta Mio il corpo, nostra la terra, ricordano che lì sotto c’è un poeta.
 
 
 
 
 
La notte tra l'1 e il 2 novembre 1975, Pier Paolo Pasolini venne brutalmente assassinato in uno spiazzo erboso presso un campetto di calcio all'idroscalo di Ostia, vicino Roma. Ricevette violente percosse e bastonate; agonizzante, venne travolto più volte con la sua stessa auto. Dopo l’autopsia, la bara venne traslata alla Casa della Cultura, a due passi da piazza Venezia, per l'omaggio ufficiale. Giunsero i suoi più cari amici e molte personalità della cultura del tempo. Tra gli ospiti di prestigio della camera ardente ci fu anche Enrico Berlinguer, che firmò diligentemente il registro delle presenze. A Campo de' Fiori si tennero le esequie. Il primo a parlare fu Alberto Moravia. Finita la cerimonia a Roma, la salma venne portata a Casarsa. Il corteo arrivò a notte inoltrata e, nonostante fosse così tardi, trovò una folla radunata ad aspettare. La cerimonia funebre venne officiata da un altro illustre friulano, padre David Maria Turoldo, il quale giunse appositamente da Bergamo. Turoldo, oltre a leggere brani dal Vangelo secondo Matteo e dal discorso delle Beatitudini, si rivolse, nell’omelia, alla madre di Pasolini, attraverso la famosa “lettera”, con la quale le chiedeva di tornare “...come una pellegrina a ritroso, verso paesi certo più miti e più cristiani. Ritorna, riaccompagnandolo in quella terra che non ha mai potuto dimenticare. Per quello era cosi gentile, appunto perché umile come umile è il suo Friuli. E tutti lo devono dire che era così buono, fino al tormento, fino a distruggersi con le sue mani. Ed era così bisognoso di amicizia, come appunto è il mio Friuli, così solo”. Aggiunse, Turoldo: “In fondo il tuo Pier Paolo, mamma, ha sempre vissuto con la morte dentro, se l’è portata in giro per il mondo lui stesso come suo fardello di emigrante, come suo carico fatale. Ed ora che l’ha raggiunta, è bene che ritorni anche lui a casa”.(1)

 
Casarsa, chiesa di Santa Croce. Il funerale di Pasolini (Fonte centrostudipierpaolopasolinicasarsa)

Nello stesso cimitero riposano il fratello di Pier Paolo, Guido, partigiano, ucciso il 12 febbraio 1945, ed il loro padre, Carlo Alberto, morto nel 1958.

 
 
 
Il monumento dedicato ai partigiani casarsesi. Guido Pasolini è in alto, primo a sinistra
 
"Sono nato in una famiglia tipicamente rappresentativa della società italiana: un vero prodotto dell'incrocio... Un prodotto dell'unità d'Italia. Mio padre discendeva da un'antica famiglia nobile della Romagna, mia madre, al contrario, viene da una famiglia di contadini friulani che si sono a poco a poco innalzati, col tempo, alla condizione piccolo-borghese. Dalla parte di mio nonno materno erano del ramo della distilleria. La madre di mia madre era piemontese, ciò non le impedì affatto di avere egualmente legami con la Sicilia e la regione di Roma". (2) 

Nel centro storico di Casarsa, su via Menotti, anticamente detta via dei Colùs, per la prevalenza di ceppi omonimi a quello della madre di Pasolini, si affacciano ancora oggi ampi portoni, tutti uguali, con lo stemma di famiglia in pietra e una ruota di carro incastonata nello scudo, a testimoniare le origini contadine. Nell’alternanza tra le facciate intonacate e quelle rivestite con sassi di fiume, risaltano gli affreschi della devozione popolare.

 
Casarsa della Delizia, lo stemma dei Colussi

Pier Paolo Pasolini nasce a Bologna il 5 marzo 1922, primogenito di Carlo Alberto, tenente di fanteria, e di Susanna Colussi, maestra elementare. La coppia si sposa nel dicembre del 1921 a Casarsa e si trasferisce in continuazione in molte città a causa del lavoro di Carlo Alberto.  
"Hanno fatto di me un nomade. Passavo da un accampamento all'altro, non avevo un focolare stabile". Visti i numerosi spostamenti, l'unico punto di riferimento della famiglia Pasolini rimane Casarsa. Pier Paolo vive con la madre un forte rapporto di simbiosi. Riferendosi alla madre:  "Mi raccontava storie, favole, me le leggeva. Mia madre era come Socrate per me. Aveva e ha una visione del mondo certamente idealistica e idealizzata. Lei crede veramente nell'eroismo, nella carità, nella pietà, nella generosità. Io ho assorbito tutto questo in maniera quasi patologica". (3) 

Nel 1928, a soli sei anni, è l'esordio poetico: Pasolini annota su un quadernetto una serie di poesie accompagnate da disegni. "La mia infanzia finisce a 13 anni. Come tutti: tredici anni è la vecchiaia dell'infanzia, momento perciò di grande saggezza. Era un momento felice della mia vita. Ero stato il più bravo a scuola. Cominciava l'estate del '34. Finiva un periodo della mia vita, concludevo un'esperienza ed ero pronto a cominciarne un'altra. Questi giorni che hanno preceduto l'estate del '34 sono stati tra i giorni più belli e gloriosi della mia vita". (4)

 
Casarsa nel 1939 (Foto nel pubblico dominio in quanto il copyright è scaduto)
 
Pier Paolo conclude gli studi liceali e si iscrive all'Università di Bologna, facoltà di lettere. Negli anni del liceo crea insieme ad altri un gruppo letterario per la discussione di poesie. In questo periodo Pasolini scrive poesie in friulano e in italiano, che saranno raccolte in un primo volume, Poesie a Casarsa. Partecipa poi alla redazione di una rivista, "Stroligut", con altri amici letterati friulani, con cui ha creato la Academiuta di lenga furlana.
Il dialetto rappresenta una sorta di opposizione al potere fascista: "Il fascismo non tollerava i dialetti, segni / dell'irrazionale unità di questo paese dove sono nato / inammissibili e spudorate realtà nel cuore dei nazionalisti /" (5) 
L'uso del dialetto rappresenta anche un tentativo di privare la Chiesa dell'egemonia culturale sulle masse sottosviluppate. Mentre la sinistra predilige, infatti, l'uso della lingua italiana, e se si eccettuano alcuni sporadici casi del giacobinismo, l'uso dialettale è stata una prerogativa clericale, Pasolini tenta appunto di portare anche a sinistra un approfondimento in senso dialettale della cultura. 

Il ritorno a Casarsa rappresenta, negli anni dell'università, il ritorno ad un luogo felice. Ma il periodo di felicità finisce presto. La seconda guerra mondiale rappresenta per Pasolini, come del resto per la maggior parte degli italiani, un periodo estremamente difficile. Nel 1943 la famiglia Pasolini decide di recarsi a Versutta, piccolissima frazione di Casarsa, luogo meno esposto ai bombardamenti alleati e agli assedi tedeschi. Qui insegna ai ragazzi dei primi anni del ginnasio. Ma l'avvenimento che segnerà quegli anni è la morte del fratello Guido, il quale decide di intraprendere la lotta partigiana. Guido si aggrega alla divisione Osoppo ed assume il nome di battaglia Ermes.
Nel febbraio del 1945, nelle malghe di Porzûs, Guido viene ucciso, insieme al comando della divisione Osoppo. Pasolini metterà in versi la morte del fratello nel Corus in morte di Guido, che appariranno nello Stroligut dell'agosto 1945.

Nel 1945 si laurea discutendo una tesi intitolata "Antologia della lirica pascoliniana” e si stabilisce poi definitivamente in Friuli. Qui trova lavoro come insegnante in una scuola media di Valvasone, in provincia di Udine. In questi anni comincia la sua militanza politica. Nel 1947 dà la propria adesione al Pci, iniziando una collaborazione al settimanale del partito "Lotta e lavoro". Pasolini diventa segretario della sezione di San Giovanni di Casarsa, ma non viene visto di buon occhio, sia nel partito sia dagli intellettuali comunisti friulani. Questi ultimi scrivono soggetti politici servendosi della lingua del Novecento, mentre Pasolini scrive con la lingua del popolo senza cimentarsi per forza in soggetti politici. Agli occhi di molti tutto ciò risulterà inammissibile.

Il 15 ottobre del 1949 viene segnalato ai carabinieri di Cordovado per corruzione di minorenne: è l'inizio di una delicata e umiliante trafila giudiziaria che cambierà per sempre la sua vita. Viene accusato di essersi appartato nella frazione di Ramuscello con due o tre ragazzi. I genitori dei ragazzi non sporgono denuncia ma i carabinieri, venuti a sapere delle voci che girano in paese, indagano sul fatto. È un periodo di contrapposizioni molto aspre tra la sinistra e la Dc, siamo in piena guerra fredda e Pasolini, per la sua posizione di intellettuale comunista e anticlericale, rappresenta un bersaglio molto vulnerabile. La denuncia per i fatti di Ramuscello viene ripresa sia dalla destra sia dalla sinistra: prima ancora che si svolga il processo, il 26 ottobre 1949, la federazione del Pci di Pordenone espelle Pasolini, il quale si trova proiettato nel giro di qualche giorno in un baratro apparentemente senza uscita. Nei primi mesi del 1950 Pasolini decide di fuggire da Casarsa; insieme alla madre si trasferisce a Roma. E’ l'inizio di una nuova vita.

 
Pasolini e sua madre verso la metà degli anni '60
 
Per la formazione umana, intellettuale e letteraria di Pasolini, dunque, gli anni trascorsi a Casarsa sono decisivi: il mondo friulano, intensamente vissuto e profondamente amato, resterà per lui un punto di riferimento esistenziale e insieme mitologico. Un paese di temporali e di primule, edizioni Guanda, 2001 e La nuova gioventù, Einaudi, 1975, sono i libri che, attraverso scritti e poesie, racchiudono ed esprimono l’esperienza friulana di Pasolini.

“La morte di Pasolini è stata come la morte di Gramsci”, ha sostenuto lo scrittore e critico letterario Roberto Cotroneo. “Più che un assassinio, e più che un assassinio politico, come molti hanno sostenuto, l'assassinio di Pasolini è stato la fine di una possibilità, lo spegnersi violento e vile di un'intelligenza da cui non si poteva prescindere. E che doveva suscitare rabbia. Sono stati molti gli intellettuali importanti in questo dopoguerra. Abbiamo guardato l'Italia degli anni Cinquanta e Sessanta con gli occhi di Moravia, della Morante, dei fratelli d'Italia di Arbasino, dietro le nebbie della Ferrara di Bassani, attraverso la lente vivida e nitida di Volponi, con il sarcasmo amaro di Ottieri, e con la volteriana sicilianità di Leonardo Sciascia. Abbiamo imparato a leggere i segni del mondo da Umberto Eco e ci siamo mossi con rispetto e attenzione nei sentieri che si biforcano di Calvino. Ma Pasolini era altro. Moderno in una maniera strana. Con squarci improvvisi di futuro, e allo stesso tempo passaggi desueti”.

Beniamino Colnaghi
 
Note
1. Per la lettura completa, consultare il sito:

www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it, itinerario pasoliniano, l’ultimo saluto.
2. P.P. Pasolini, Il sogno del centauro, a cura di Jean Duflot, Editori Riuniti, Roma 1983.
3. Intervista a Dacia Maraini in "Vogue", maggio 1971.
4. Pier Paolo Pasolini, in AA.VV., Pasolini, una vita futura, Ass. Fondo Pasolini, Garzanti, Milano 1985.
5. Pier Paolo Pasolini, Il poeta delle ceneri, a cura di Enzo Siciliano, in "Nuovi Argomenti" nn. 67-68, Roma, luglio-dicembre 1980. 

mercoledì 4 dicembre 2013

Cantù, 9 aprile 1914: il dirigibile “Città di Milano” brucia presso la cascina Novello


Enrico Forlanini, a cui venne dedicato l’aeroporto di Milano ed il lungo viale che ne consente l'accesso, sviluppò una serie di aeronavi semirigide, nel periodo che va dai primi anni del Novecento fino ai primi anni Trenta. Queste aeronavi, assieme ai dirigibili tedeschi, furono le prime a presentare la navicella di comando solidale con l’involucro per ridurre la resistenza aerodinamica. Inoltre, nel suo ultimo progetto, l’Omnia Dir che volò postumo nel 1931, Forlanini realizzò il primo utilizzo pratico di getti d‘aria compressa per il controllo direzionale di un aeromobile. Confortato dal successo della sua prima aeronave, Forlanini si impegnò nella costruzione di un progetto più ambizioso: il nuovo dirigibile bimotore, chiamato Città di Milano, era quasi quattro volte più grande del suo predecessore. Per motivi di sicurezza, dato che l’aeronave era gonfiata con idrogeno, tutte le stoffe avevano ricevuto trattamento ignifugo e l’aeronave presentava un doppio involucro. Il primo volo ebbe luogo il 17 agosto 1913 nel cielo sopra Milano. Il 21 dicembre ebbe luogo il volo forse più significativo, destinazione era il campo di San Siro, dove il dirigibile fu benedetto dalle autorità ecclesiali e ricevette il gonfalone.

Il 9 aprile 1914, giovedì della Settimana Santa, la “nave aerea”, come venivano definiti i dirigibili, era partita dall’aeroporto di Baggio per dirigersi sui cieli della Brianza, precisamente sulla direttrice Cantù – Como. La giornata era limpida ed un leggero vento spirava da sud verso nord. Ciò, tuttavia, non destò gran preoccupazione negli uomini che la pilotavano. A bordo erano saliti gli otto membri dell’equipaggio e quattro signore.
Cantù in una foto scattata intorno al 1890
Verso le 10.30 il dirigibile evidenziò le prime difficoltà dovute ad una perdita di gas dagli scomparti di poppa che fece perdere gradualmente la posizione orizzontale. Gli ufficiali alla guida tentarono allora un’inversione di rotta che riportasse il dirigibile verso Milano. Il mezzo, tuttavia, assunse una pericolosa inclinazione che rese problematico proseguire il volo. Gli ufficiali spensero così i motori e decisero di atterrare su un terreno adatto nei pressi della cascina Novello Inferiore, una struttura isolata tra i campi, situata nei pressi del cimitero di Cantù. I contadini a quell’ora erano al lavoro nei campi, occupati nella semina delle patate. Quando il dirigibile toccò terra, i contadini, dopo un primo momento di smarrimento e timore, accorsero cercando di rendersi utili, collaborando all’opera di ancoraggio. Dalla navicella lanciarono delle funi affinché venissero fissate agli alberi circostanti, in particolare dei robusti gelsi.

La manovra di atterraggio non sfuggì agli abitanti dei borghi vicini. Molta gente cominciò ad accorrere incuriosita. Sopraggiunsero anche, entro pochi minuti, le guardie di Cantù ed i pompieri.
All’equipaggio dell’astronave si presentò subito il compito di avvertire la base dell’atterraggio di emergenza e di provvedere allo smontaggio del dirigibile per il suo successivo trasporto a Milano. Ma nelle fasi di atterraggio il dirigibile riportò dei danni. Il timone di coda si era spezzato e dagli scomparti di poppa continuava la fuga di idrogeno. Le strade che da Cantù e dai paesi contigui portavano alla cascina Novello erano percorse da un’ininterrotta processione. Gente a piedi, in bicicletta, coi carri ed anche in carrozza non volevano perdersi uno spettacolo così unico. La folla si stringeva sempre più vicina al dirigibile e non sembrava minimamente preoccupata del pericolo costituito dalla perdita di gas.
 
La copertina della Domenica del Corriere dedicata all'incidente
Questa immagine è nel pubblico dominio perché il relativo copyright è scaduto.

Gli ufficiali chiamarono Milano per far mandare sul posto i soldati addetti all’hangar. Il comandante del presidio di Como inviò da parte sua un centinaio di soldati, i quali arrivarono verso mezzogiorno. Tutto sembrava ormai pronto per dare inizio ai lavori di smontaggio, quando verso le 12.30 un colpo di vento strappò gli ormeggi che tenevano bloccata l’astronave. I gelsi vennero divelti ed il dirigibile si spostò verso nord strisciando sul terreno. La gente cominciò ad urlare e scappare verso ogni dove. Ad un certo punto il mezzo si fermò. Aveva percorso allo sbando un centinaio di metri. Immediatamente il maggiore Del Fabbro, che dirigeva le operazioni, diede l’ordine di iniziare lo smontaggio.

Il quotidiano di Como, “L’Ordine”, descrisse così queste fasi:
     “Vennero quindi aperte le valvole per far uscire il gas e l’involucro cominciò lentamente ad afflosciarsi. A operazione ultimata restavano però ancora alcune sacche di idrogeno, e per accelerarne l’uscita vennero aperte anche le manichette, tubi del diametro di 60 centimetri. L’idrogeno riprese ad uscire con violenza e per reazione le manichette cominciarono a sbattere compiendo un mezzo giro. Le bocche d’uscita… con il mezzo giro si erano rivolte verso destra dove la massa dei curiosi era a non più di 6 o 7 metri. Quasi subito, all’improvviso, vicino al dirigibile balenò una fiammata verdognola, seguì prima una detonazione non molto forte, poi altre due formidabili, infine una grande fiammata, violenta, avvolse tutto il dirigibile e si dissolse in alto in una densa nube di fumo nero e giallo”.

Proseguì “L’Ordine”: 
     “La folla in preda al più pazzo terrore, urlando come indemoniata, si diè a fuggire da tutte le parti inseguita da lingue di fuoco. Uomini, donne, bambini attaccati dal fuoco cadevano contorcendosi tra gli spasimi strappandosi le vesti di dosso, calpestandosi gli uni agli altri, calpestati questi a loro volta da altri fuggenti che sopravvenivano”.

Passati i primi attimi di sbigottimento e sorpresa, per gli illesi cominciò l’opera di soccorso dei feriti. I più fortunati riportarono solo ustioni alle mani e al collo. Altri, investiti in pieno dalla fiammata, erano in gravi condizioni. Tra questi ultimi si citano: Innocente Broggi, pompiere canturino, Angelo Innocente Marelli, falegname nonché capo dei pompieri, Giulio Galbiati, muratore, Giuliano Galbiati, sarto. Complessivamente si contarono circa 200 ustionati tra i civili e 21 tra i militari.
La notizia dell’incendio si diffuse in un baleno. Lo spettacolo, se così si può definire, che si presentò sul luogo della tragedia fu impressionante. A chi arrivò per prestare soccorso, il luogo sembrò un campo di battaglia. Del forzato atterraggio del “Città di Milano” fu avvertito anche il suo costruttore, l’ing. Enrico Forlanini, il quale arrivò sul posto nel momento in cui la sua creatura stava bruciando.
La grave sciagura ebbe una grande eco, non solo in Italia. Si aprì un’inchiesta per appurare le cause del sinistro e accertare le responsabilità. Intanto la gente continuò, pur nei giorni seguenti, il “pellegrinaggio” verso la cascina Novello. L’ambizione dei più era quella di portarsi a casa un pezzo del dirigibile o fare incetta di alcune parti per poterle vendere e ricavarne piccoli compensi.

Domenica 12 aprile, Angelo Innocente Marelli cessò di vivere. Lunedì 13, giorno dell’Angelo, ebbero luogo i funerali, a spese del comune e con un’enorme partecipazione di folla. Le esequie furono imponenti. I negozi vennero chiusi. I cordoni a fianco del carro erano sorretti dalle maggiori autorità convenute a Cantù, dallo stesso ingegner Forlanini all’equipaggio del dirigibile, dal sindaco alle massime autorità militari. Parteciparono al corteo le tre bande musicali cittadine.

La piccola edicola della Madonna posta su una parete della cascina Novello

Nei giorni seguenti si tentò il bilancio dei danni materiali. La distruzione del dirigibile fu quantificata in lire 300mila e diverse migliaia di lire furono i danni subiti dai proprietari dei fondi agricoli per la distruzione della seminagione e dei numerosi gelsi.

Nacquero anche le prime polemiche, soprattutto tra i giornali ed il comune di Cantù. I primi accusarono alcuni curiosi presenti sul luogo di essersi mesi a fumare a ridosso del dirigibile, provocando lo scoppio e l’incendio. Il sindaco di Cantù, durante il Consiglio comunale del 19 settembre, affermò, senza indugi che “…è escluso che lo scoppio del gas sia dovuto a fumatori o all’accensione dei camini delle case ove avvenne lo scoppio”. La “Domenica del Corriere”, invece, sostenendo la tesi che la causa dell’esplosione era da attribuire ai fumatori, scrisse: “Il contadino è cocciuto nell’ignoranza”.

La targa commemorativa

La vasta area che circonda la cascina Novello è oggi notevolmente cambiata. Dove un tempo esistevano distese di campi coltivati e vasti filari di gelsi, negli ultimi anni sono state costruite decine e decine di villette.
Le vittime dell’incendio e la perdita del dirigibile sono ricordate da una lapide murata su una parete esterna della cascina stessa, sulla facciata rivolta verso i prati che furono teatro della tragedia.

Beniamino Colnaghi

martedì 19 novembre 2013

Lev Tolstoj ed il racconto di una contadina russa

La casa editrice “Fratelli Treves” nacque a Milano nel 1861 e prese inizialmente il nome del suo fondatore, Emilio Treves, nato a Trieste nel 1834, secondogenito di Sabbato Graziadio, rabbino della comunità israelitica di Trieste. Sabbato Graziadio Treves insegnò all’università e fu considerato uno dei rabbini più liberali e illuminati del suo tempo.

Emilio, trasferitosi dopo alcuni anni a Milano, patria di quella coscienza italiana che sfociò nei moti antiaustriaci e nelle battaglie risorgimentali, aprì la sua prima tipografia in via Durini e iniziò quel lungo percorso che l’avrebbe portato ad essere uno dei più grandi editori italiani.

Treves avviò importanti collaborazioni con alcuni tra i più importanti scrittori del tempo, tra cui Edmondo De Amicis, Giovanni Verga, Camillo Boito, Emilio De Marchi, Gabriele D’Annunzio, Ada Negri e Luigi Pirandello. La casa editrice fu attiva con il proprio nome fino al 1939, anno in cui l'industriale Aldo Garzanti rilevò l'azienda, mutandone subito dopo il nome per ottemperare alle disposizioni delle leggi razziali fasciste, considerato che i Treves erano ebrei.

Circa quattro anni fa, durante una visita alla bancarella di libri usati di piazza Cairoli a Milano, comprai alcuni vecchi volumetti editi negli anni Venti e Trenta del secolo scorso. Sgualciti e ingialliti, ma di un certo interesse, almeno per me. Uno di essi, il cui titolo è La mia vita (1), edito nel 1924 dalla “Fratelli Treves Editori”, si riferisce ad un racconto dettato da una contadina russa a Tatiana Andréièvna Kouzminskaia, cognata di Lev Tolstoj. Il grande romanziere russo rivisitò il testo e ne corresse alcune parti. Accettò fin dal principio di essere il padrino di un’opera di cui non era l’autore, alla quale diede inizialmente il titolo Babia Dolia, la sorte della contadina.

Tatiana Andréièvna Kouzminskaia (La foto è nel pubblico dominio poiché il relativo copyright è scaduto).

Lo scritto fu dato dallo stesso Tostoj a Charles Salomon, amico dello scrittore, affinché lo leggesse, ne esprimesse le sue impressioni e si impegnasse a tradurlo. Il Salomon lo tenne quasi trent’anni. Quando restituì il racconto a Tolstoj, lo accompagnò da pareri favorevoli, densi di ammirazione. Scrive il Salomon nel proemio che, se una persona non ha vissuto in Russia non ha avuto occasione di “sperimentare le meravigliose qualità di narratore del contadino, di ammirare la precisione dei suoi racconti, il suo acuto senso del pittoresco, la sua finezza, la sua emozione comunicativa”. Prosegue affermando che “…il racconto è una narrazione di vita rustica e se, come io credo, è un capolavoro, è un capolavoro d’anima popolare”.

Fu solo allora che Lev Tolstoj raccontò le origini del racconto all’amico Charles.

Nelle vicinanze di Jasnaja Poljana(2) sorgeva il piccolo villaggio di Kotchaki. Le due località distavano tra loro solo una versta(3). A Kotchaki abitava una contadina di nome Anissia. Le vicissitudini della vita la portarono ad abitare per qualche anno in Siberia. Ritornata al villaggio, nel 1882 sposò il sagrestano. Anissia era sì una contadina di modeste origini, ma aveva il grande dono di saper raccontare storie vissute e fatti con grande sapienza. Fu così che Tatiana A. Kouzminskaia, sorella della moglie di Tolstoj, ne raccolse la storia e la sottopose al romanziere.
 
Jasnaja Poljana, casa museo di Tolstoj, tratta da Wikipedia.org

La storia ruota attorno a due figure centrali, Danilo e Anissia, contadini che vivono nella Grande Russia di metà Ottocento. L’uomo, dice Salomon ”non è all’altezza della donna, caso frequente in Russia e che si verifica in ogni classe sociale”. Danilo è spento, fiacco, poco comunicativo. Anissa è forte, svelta e vivace. La donna è oltremodo guidata da un netto sentimento del dovere nei confronti di suo marito e dei suoi figli. Ha conosciuto il servaggio(4) e non lo ricorda se non per osservare che in quei tempi alle giovani madri si usavano dei riguardi più tardi ignorati e che quando il padrone era forte, erano meno frequenti i furti. Anissa non sa né leggere né scrivere ma, fin dalla sua infanzia, ha frequentato la Chiesa locale. Crede all’intervento del Signore nei fatti della propria esistenza e di quelli della propria famiglia. Essa sa che Rachele, moglie di Giacobbe, non voleva essere consolata, e non ignora che il Signore ha visitato Giobbe per i suoi peccati.

Anissa, che parla un bellissimo linguaggio popolare che si può considerare come il vernacolo campagnolo della Russia centrale, conosce non solo le sacre scritture ma le sono familiari anche le usanze ereditarie dei contadini russi e le pratiche quotidiane delle donne e degli uomini dei villaggi di campagna. Quindi, questa semplice storia di metà Ottocento, raccontata da una contadina analfabeta ad una nobildonna russa, così spoglia di letteratura, è invece piena di grandezza biblica e arcaica.

Secondo il parere di Tatiana, secondogenita di Tolstoj, morta a Roma nel 1950, il racconto è “il miglior racconto popolare russo(5).

Tolstoj con la moglie, uno dei figli ed il cane (Fonte Wikipedia.org)
Questa foto è nel pubblico dominio perché il relativo copyright è scaduto.
 
A proposito di Tatiana, è interessante aprire una breve parentesi sulla sua figura, tratta dalla pagina della Tolstaja dell’enciclopedia libera Wikipedia.
 
Nata a Jasnaia Poliana nel 1864, fin da ragazza si appassionò ai problemi di pedagogia. Conobbe Maria Montessori e s’interessò al suo metodo e ne portò in Russia tutte le pubblicazioni. Dopo la Rivoluzione bolscevica fondò insieme alla madre e ad alcuni fratelli il Museo Tolstoj. Lasciò la Russia per dirigersi prima a Praga, ospite del presidente Tomaš Masaryk (vecchio amico di Tolstoj) e poi a Vienna. Si spostò quindi in Francia e infine in Italia. Con modeste risorse (Tolstoj aveva rinunciato ai diritti d’autore), trascorse gli ultimi vent'anni con la figlia a Roma, dove allestì una «camera tolstoiana», ovvero un piccolo museo dedicato al padre. Nel dicembre del 1931 il Mahatma Gandhi sostò in Italia per tre giorni: durante quel soggiorno, la visita di Tat'jana Tolstaja fu l'episodio che gli fece più piacere. Come il padre fu sempre una convinta vegetariana, contraria al tabacco e profondamente antimilitarista. Quando si ammalò, poiché desiderava morire in piena coscienza, rifiutò decisamente l'uso di narcotici.

Per chiudere sulla storia di Anissa è utile ricordare che, per tutti i motivi contenuti nel libro e per la sua purezza e bellezza, Lev Tolstoj intervenne il meno possibile sulla struttura del racconto, limitandosi a rettifiche sulla costruzione di qualche periodo e su correzioni grammaticali. Tolstoj, a giudizio del Salomon e di sua cognata, giudicò entusiasticamente il racconto. Era sempre disposto a collocare molto al di sopra dei propri scritti ciò che veniva direttamente dal popolo.

Beniamino Colnaghi
 
Note
1. La mia vita, racconto dettato da una contadina russa a T.A. Kouzminskaia, riveduto e corretto da Leone Tolstoj, Milano, Fratelli Treves Editori, 1924.
2. Vedasi il post pubblicato su questo blog il 14 ottobre 2012 dal titolo “Il meleto di Lev Tolstoj”.
3. Versta è un'antica e ormai desueta unità di misura dell’impero russo. La lunghezza di una versta è pari a 1066,8 metri.
4. Il servaggio fu abolito il 19 febbraio 1861. Prima di tale data il proprietario terriero abbandonava ai contadini una parte del suo latifondo, generalmente un terzo, contro prestazioni di lavoro. Alla liberazione, i contadini ricevettero in media, per quota parte, un sesto delle terre.
5. Lettera di Tatiana Lvovna Soukhotina-Tolstaya a Charles Salomon, Mosca, 14 dicembre 1922.

sabato 2 novembre 2013

Le tradizioni popolari brianzole nel Museo Etnografico dell’Alta Brianza di Camporeso

 
Lasciato alle spalle l’abitato di Galbiate (Lecco), la strada che conduce all’antico borgo medievale di Camporeso si snoda stretta e sinuosa nel primo tratto, per poi procedere con maggiore decisione verso la parte finale. Il luogo è veramente bello e degno di essere visitato, non fosse altro per la splendida vista sul sottostante lago di Annone e per la presenza di una falesia, apprezzata e frequentata palestra di roccia con molteplici vie attrezzate. Ai tempi d’oro della presenza contadina nella zona, Camporeso ospitò fino ad un centinaio di coloni, che ridussero progressivamente la loro presenza fino agli anni Settanta, quando gli edifici si spopolarono. I nobili Tinelli di Gorla erano proprietari della porzione più consistente del borgo, mentre la parte più a monte apparteneva all’Ospedale Fatebenefratelli di Milano. Ora, quest’ultima porzione, acquistata dal Parco del Monte Barro nel 1991, ospita la sede del museo, i locali del quale sono stati ristrutturati grazie a finanziamenti pubblici.
 
Camporeso. La chiesina
 
Il Museo Etnografico dell’Alta Brianza, inaugurato nel 2003, è un centro di ricerca e di esposizione dedicato alla vita quotidiana delle donne e degli uomini che sono vissuti e vivono in alcune aree della Brianza, soprattutto in quelle collinari.

La porta di ingresso del museo è massiccia e ben solida, costruita in legno massello, probabilmente originale. Sopra di essa si scorgono labili tracce di un dipinto popolare, del quale, mi è stato riferito da uno dei volontari che svolgono la funzione di guida, è possibile individuare i principali soggetti, secondo un modello assai diffuso: la Madonna in piedi e Giobbe seduto alla Sua sinistra. A loro veniva affidato ogni anno nel mese di maggio la buona riuscita dell’allevamento dei bachi da seta. Non a caso la prima stanza del museo è dedicata alle attività ed agli strumenti che consentivano l’allevamento dei cavalèe. Per oltre due secoli, infatti, in Brianza e nel lecchese la bachicoltura ebbe grande importanza nell’economia e nella vita quotidiana dei contadini. Tra maggio e giugno i proletari della terra, con un lavoro molto impegnativo, portato avanti spesso dalle donne, si garantivano un’utilissima entrata di denaro, dopo le ristrettezze della stagione invernale. Verso la fine dell’Ottocento la produzione subì varie flessioni, dovute anche alla concorrenza straniera, fino allo smantellamento massiccio delle filande, che davano lavoro a migliaia di ragazze e donne, dopo il 1930 e alla loro chiusura negli anni Cinquanta (1).

 
Le tavole con i bachi da seta

 
Gelso e baco da seta, erba e fieno, mais, frumento, vite sono stati i prodotti principali dell’agricoltura brianzola fra Settecento e Novecento. La seconda sala è dedicata infatti all’agricoltura attraverso l’esposizione di strumenti atti alla coltivazione ed alla raccolta dei prodotti sopraccennati. “Il granoturco, ad esempio, divenne una coltura molto importante nella nostra zona e la sua diffusione fu voluta dai contadini più che dai proprietari delle terre. Il suo valore commerciale, infatti, era scarso. Mentre era molto richiesto il frumento, cui i proprietari chiedevano che fosse destinata la maggior parte dei fondi. I contadini, però, coltivavano il granoturco sotto le viti, sulle balze delle colline… Ciò perché la loro alimentazione era imperniata su pani di cereali misti e soprattutto sulla polenta, che fino alla seconda guerra mondiale si mangiava anche tre volte al giorno” (2).

 
La gerla
 
Il luogo forse più importante della civiltà contadina e tradizionale era la stalla. Destinata alla custodia ed alla cura degli animali, soprattutto bovini, equini e suini, la stalla era anche destinata all’incontro tra le persone, in particolare nelle ore serali e nel periodo invernale. Nei suoi locali i componenti delle famiglie contadine comunicavano tra loro, venivano educati i bambini, i giovani si corteggiavano, si recitavano i rosari, venivano tramandate le credenze popolari, si svolgevano lavori artigianali. Gli animali erano un bene molto prezioso per l’economia rurale dei coloni, che li affidavano alla protezione di sant’Antonio abate (3).

 
La stalla

Nel museo la stalla si apre sul portico, sotto il quale sono esposti i carri ed i mezzi usati per il trasporto, nonché le bardature per buoi e cavalli. Prima della meccanizzazione e della diffusione del benessere, che portò al largo uso di biciclette e veicoli a motore, i contadini trasportavano prodotti, merci e oggetti impiegando gli animali da soma, ma più spesso si usava il proprio corpo per portare i carichi a braccia, a spalla o sul dorso. Il trasporto era una dura necessità per tutti ed il colono, in più, aveva anche l’obbligo di trasportare alla casa del padrone ogni cosa di cui costui aveva bisogno.

 
I carri

Sotto il portico si apre una stanza che raccoglie attrezzi utilizzati un tempo per alimentare la vocazione vitivinicola delle genti brianzole. In passato i vini prodotti nella nostra area pedemontana erano estremamente apprezzati. A partire dalla metà dell’Ottocento tuttavia una serie di calamità e malattie giunte dall’estero si abbatté sulla viticoltura locale, distruggendo numerosi vitigni. Oggi solo nei comuni intorno alla collina di Montevecchia, Muntavègia, si produce vino secondo gli standard moderni con un’attività economica specializzata.

Un’altra sezione del museo riguarda gli aspetti della vita festiva. In questa prospettiva si colloca la sezione dedicata al flauto di Pan, che in Lombardia veniva indicato con termini come firlinfü, fregamüsòn, orghenìi, sìful. Già presente in Brianza tra il XVIII e il XIX secolo, come strumento di cascina e di osteria, collocato in piccole bande, il firlinfü si afferma nella sua dimensione orchestrale a partire dalla fine dell’Ottocento per poi svilupparsi e diffondersi dagli anni Venti e Trenta. Oggi alcuni gruppi folcloristici sono presenti principalmente nelle province di Bergamo, Como e Lecco.

 
I flauti di Pan
 
Altri locali, allestiti con mobili “poveri” della tradizione contadina, raffigurano una cucina con un grande camino e la camera da letto. E’ presente, inoltre, la sala dei beni immateriali e del dialogo antropologico, nella quale vengono proiettati filmati e documentari che il museo ha prodotto sui vari aspetti della cultura brianzola e lariana. Qui vengono proposte conferenze, incontri con i testimoni della tradizione, convegni, corsi di formazione, presentazioni di ricerche che evidenziano la peculiarità della ricerca antropologica basata sulla tessitura di rapporti umani tra persone che si incontrano e dialogano per comprendersi.

Il museo intende dedicare particolare attenzione agli anziani, ai quali ricorda la loro infanzia e giovinezza, ed ai bambini e ragazzi, ai quali suscita curiosità e stupore per la distanza con il presente. Nel book-shop si possono acquistare numerosi libri e audiovisivi. Le visite sono generalmente accompagnate da guide dell’Associazione Amici del Meab.

Beniamino Colnaghi

Note
1. Per maggiori approfondimenti sul tema, vedere il post “Il baco da seta“ di Livia Colnaghi, pubblicato il 3 maggio 2013.
2. Massimo Pirovano (studioso di etnografia, dirige il Meab), Lavoro e vita quotidiana delle classi popolari in Brianza. Oggetti, voci e gesti della tradizione in un nuovo museo di società.
3. Un articolo su sant’Antonio abate è stato postato il 14 gennaio 2013.


Museo Etnografico dell'Alta Brianza, località Camporeso di Galbiate (Lecco), tel. 0341.542266. Per contatti, orari di apertura e info il sito www.parcobarro.it potrà offrire tutte le informazioni necessarie.
Madonna di La Salette. Un contributo del signor Giulio Oggioni




Il 21 settembre 2013 è stato postato l'articolo "La Madonna di La Salette a Verderio Superiore e Caglio". Giulio Oggioni mi ha fatto pervenire un contributo che integra e completa il quadro delle motivazioni che indussero il conte Confalonieri a dedicare la cascina alla Madonna di La Salette. Lo pubblico volentieri (bc).

"Il conte Confalonieri dedicò la cascina alla Madonna su suggerimento di padre Adeodato, rettore del monastero di Concesa (carmelitani) perchè Melania si fece carmelitana e quindi entrò in contatto con padre Adeodato (cugino del conte). Questi suggerì al conte di andare in Francia e farsi raccontare l'apparizione e lui fece scolpire la statua su loro indicazione. Infatti, a Concesa ci sono ancora manoscritti di allora che parlano della veggente e della sua vita, a dimostrazione che tra i due c'era stato un contatto epistolare e forse anche di persona".
"Quindi, il vero motivo della dedica è probabilmente dovuto all'influenza del cugino carmelitano al quale il conte era molto legato, tanto che comprò, restaurò e regalò il santuario di Concesa a loro, all'inizio dell'800. Prima era una vecchia filanda, poi ristrutturata in convento e accanto fu costruito il santuario".

lunedì 21 ottobre 2013

L’alpino Mario Rigoni Stern sul fiume Don

“Ho ancora nel naso l'odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli starnuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don.”1
Così inizia il diario autobiografico dell’alpino Mario Rigoni Stern, terzo di sette fratelli, nato il 1 novembre 1921 ad Asiago, un piccolo paese dell’Altopiano dei Sette Comuni nelle Prealpi venete, in provincia di Vicenza.

Mario Rigoni Stern

Il sergente nella neve ripercorre i momenti cruciali e drammatici della Campagna di Russia del corpo di spedizione italiano, tra la fine del 1942 e l’inizio dell’anno successivo. Il ricordo copre i tre mesi in cui gli alpini italiani, impegnati nella resistenza contro i sovietici in un caposaldo sulle rive del Don, minacciati dall’accerchiamento russo, verso la metà di gennaio 1943 ricevono l’ordine della ritirata e procedono tra le steppe russe allo sbaraglio, stremati, affamati, di chilometro in chilometro, di villaggio in villaggio. La colonna in ritirata si riversa così nelle gelide steppe russe. Appena passata la frontiera ucraina una violenta battaglia scuote l’apparente calma della ritirata. È il 26 gennaio 1943, una data che moltissimi soldati e le loro famiglie non scorderanno mai: a Nikolajewka diversi plotoni ed intere compagnie andarono incontro alla morte; qui dopo un confuso assalto delle truppe di testa, aspettando il sostegno dei carri armati tedeschi e del resto della colonna, che arrivò troppo tardi, più della metà dei soldati italiani rimasero uccisi.

“...Corro e busso alla porta di un'isba. Entro.
Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No. Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz'aria. - Mnié khocetsia iestj, - dico. Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C'è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d'ogni mia boccata. - Spaziba, - dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto. - Pasausta, - mi risponde con semplicità. I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi. Nel vano dell'ingresso vi sono delle arnie. La donna che mi ha dato la minestra, è venuta con me come per aprirmi la porta e io le chiedo a gesti di darmi un favo di miele per i miei compagni. La donna mi dà il favo e io esco...”2

 
Soldati italiani in Russia

Accanto a Rigoni Stern, protagonista e narratore, i compagni Marangoni, Meschini, Bodei, Giuanin, Moreschi, Tourn, Antonelli condividono ansie e fatiche: persone semplici, di montagna, che compiono il proprio dovere e sanno perfino ridere delle proprie disgrazie. A Nikolajewka, a tentare di uscire dalla sacca in cui erano stati rinchiusi, insieme a Mario Rigoni Stern c’erano anche migliaia di alpini che in quel momento avevano in testa un solo obiettivo: “arrivare a baita”. Per gli alpini di Russia in ritirata, “arrivare a baita” significava, non solo ritornare a casa, bensì un ritorno agli affetti dei propri cari, al calore del focolare, alla serenità dopo un lungo periodo di sacrifici e sofferenze. Per Giuanin, uno dei personaggi più commoventi de Il sergente nella neve, era diventata una giusta e sacrosanta ossessione. “Ogni volta che gli capitavo a tiro mi chiamava in disparte, mi strizzava l’occhio e sottovoce mi chiedeva:”Sergentmagiù, ghe rivarem a baita?”. Ma Giuanin, giovane falegname delle valli bergamasche, non è tornato a casa, è morto sulla neve mentre trasportava munizioni. Come Moreschi, come Raul, il primo amico della vita militare di Rigoni. Morto a Nikolajewka mentre andava all’assalto su un carro armato e saltando a terra prese una raffica di mitra. Come Marangoni, la sua salma è tornata in Italia solo alcuni anni fa. “Rideva sempre” racconta Rigoni, “e quando riceveva posta mi mostrava la lettera agitandola in alto: è la morosa”. Anche lui è morto. Una mattina, smontato all’alba, era salito sull’orlo della trincea a prendere la neve per fare il caffè e vi fu un solo colpo di fucile. Piombò giù nella trincea con un foro nella tempia.
E così fu per migliaia di soldati russi, uomini semplici e coraggiosi, pur se apparentemente duri e crudeli, che hanno perso la vita per difendere la propria terra e la propria gente.
L’invio di truppe italiane in Unione Sovietica al fianco degli alleati nazisti fu una delle scelte più disastrose e tragiche del fascismo e di Mussolini. Nel 1941 venne costituito un primo corpo di spedizione composto da circa 60mila uomini. L’anno successivo giunsero ingenti rinforzi e fu creata l’Armir, l’armata composta da quasi 230mila effettivi. Schierati lungo il fiume Don, i soldati italiani, del tutto impreparati e con pochi mezzi, falcidiati dalla fame e dal freddo micidiale, finirono in gran parte annientati dall’offensiva dell’Armata Rossa, tra il dicembre 1942 ed il gennaio 1943. Il bilancio delle varie fasi della guerra fu catastrofico, le perdite di vite umane furono impressionanti.

 
La ritirata dell'esercito italiano

Fatto prigioniero dai tedeschi dopo la firma dell'armistizio dell’8 settembre 1943, Rigoni Stern fu deportato in un campo di concentramento nell’allora Prussia Orientale, ove rimase prigioniero un paio d’anni, rifiutando, come la maggioranza dei militari italiani catturati dai nazisti, di ottenere la libertà in cambio dell'arruolamento nelle forze armate della Repubblica sociale italiana. Dopo la liberazione del campo durante l'avanzata dell'Armata Rossa verso il cuore della Germania, rientrò a casa a piedi il 5 maggio 1945.

A proposito di quella guerra Rigoni Stern dirà:
“I russi erano dalla parte della ragione, e combattevano convinti di difendere la loro terra, la loro casa, le loro famiglie. I tedeschi d'altra parte erano convinti di combattere per il grande Reich. Noi non si combatteva né per Mussolini né per il Re, si cercava di salvare la nostra vita.”3

Mario Rigoni Stern muore il 16 giugno 2008 all’età di 86 anni. Per sua stessa volontà la notizia della morte verrà data solo a funerali celebrati. Durante la malattia chiese di non essere ricoverato in ospedale e fu assecondato. Sempre su sua richiesta venne sepolto senza vestiti nella nuda terra sotto ad una semplice croce di legno d'abete, come tanti soldati caduti sull’Altopiano durante la Prima guerra mondiale.

Beniamino Colnaghi
Note e riferimenti bibliografici
1 Mario Rigoni Stern, Il sergente nella neve, Einaudi, Torino, 1953
2 Mario Rigoni Stern, op. cit.
3 Ritratti: Mario Rigoni Stern di Carlo Mazzacurati e Marco Paolini, 1999.

mercoledì 16 ottobre 2013

mercoledì 2 ottobre 2013

Milano, dal Naviglio al Duomo attraverso Porta Ticinese

Prosegue la collaborazione del signor Pietro Marchisio con il blog “Storia e storie di donne e uomini“. (b.c.)

Abbiamo visto, nel post dello scorso mese di marzo, che la via privilegiata per far arrivare le materie prime, necessarie alla Fabbrica del Duomo di Milano, era il Naviglio Grande e che il primo facile approdo in città era la darsena di Porta Ticinese.
Quella era la Milano dei navigli che hanno accompagnato la sua storia e la sua crescita per molti secoli, rappresentando, fin dal Medioevo, l’espressione milanese e lombarda della scienza e dell’ingegneria idraulica, copiata in ogni parte d’Europa.
 
La Milano dei navigli non c’è quasi più. A Nord-Est è rimasto un tratto della Martesana, il canale che derivato dal fiume Adda a Trezzo collegava la città col Lario; a Sud rimane il complesso della darsena di Porta Ticinese cui perviene il Naviglio Grande, derivato un tempo dal Ticino a Tornavento e alimentato ora sempre dalle acque del Ticino, incanalate a Somma Lombardo soprattutto per scopi irrigui, industriali e per la produzione di energia elettrica. Presso la darsena ha l’incile il Naviglio Pavese, che torna al Ticino a Sud di Pavia.


Mappa dei navigli lombardi nel XVIII secolo
Fonte Regione Lombardia, settore coordinamento per il territorio
 
Grazie ai traffici sviluppatisi presso la darsena, il cuore pulsante di tutti i traffici mercantili di Milano divenne ufficialmente Porta Ticinese, più nota e cara ai milanesi come Porta Cicca, presumendo tale appellativo derivato, in epoca di dominio spagnolo, da chica (piccola) e poi trasformato nella vulgata popolare in “cicca”.

 
Milano. Porta Ticinese nel 1901
Fotografia nel pubblico dominio in quanto il copyright è scaduto
 
A Porta Cicca vennero installati mulini e casere, tant’é che il quartiere lungo Corso San Gottardo era detto el borg di furmagiatt. Qui si trovavano le famose osterie dove si potevano degustare autentici risotti con l’ossobuco, le costolette alla milanese con la “gremulada” e la frittura di rane, il tutto circondato dall’andirivieni dei barconi, degli scaricatori, tencitt, delle lavandaie, dei venditori ambulanti e di tutti i popolani che, risalendo il Naviglio da Boffalora a bordo dei famosi barchett, raggiungevano Milano.

Le vecchie botteghe di Corso di Porta Ticinese 
Fotografia nel pubblico dominio in quanto il copyright è scaduto
 
Il carattere laborioso e mercantile di Porta Ticinese aveva lontane origini, infatti, la vecchia piazza interna ai bastioni si chiamava Piazza Mercato, uno dei luoghi cittadini più vocato a scambi commerciali, proprio perché alimentati dalle merci provenienti da fuori città.
In seguito, venuta meno la peculiarità dei navigli, il mondo di Porta Cicca cambiò radicalmente subendo un lungo e duro periodo di declino e di abbandono.

Le botteghe ed i vecchi cortili vennero pian piano occupati da artigiani di ogni genere: falegnami, ferraioli, riparatori di biciclette, rutamatt, fino a giungere ai giorni nostri, epoca in cui il quartiere più popolare di Milano è stato riscoperto da artisti di ogni genere e dalla nuova borghesia, trasformandosi nella cosiddetta Montpartnasse meneghina.

E’ così che le vecchie osterie hanno lasciato il posto a ristoranti finto-antichi ed ai pianobar e che l’artigianato povero si è trasformato in artigianato d’elite. Gli ultimi barconi ormai in disuso sono stati ancorati davanti ai ritrovi notturni e trasformati in giardini galleggianti.

 
Milano. Alzaia Naviglio Pavese di notte
 
A vegliare su tutti questi cambiamenti è comunque rimasto l’Arco Trionfale di piazza XXIV Maggio, inaugurato da Luigi Cagnola nel 1815 a ricordo della vittoria Napoleonica di Marengo sugli Austriaci e che prese temporaneamente il nome di Porta Marengo, ritornata Porta Ticinese col rientro dell‘imperatore d’Austria Francesco II, che anziché distruggere il monumento lo dedicò alla pace, sostituendo le lodi a Napoleone con la scritta “Alla pace liberatrice dei popoli”.

Pietro Marchisio

sabato 21 settembre 2013

La Madonna di La Salette a Verderio Superiore e Caglio

Comune di La Salette-Fallavaux. Diocesi di Grenoble. Alpi francesi. Nel primo pomeriggio del 19 settembre 1846, due pastorelli, Melania Calvat e Massimino Giraud, stanno pascolando alcune mucche sugli alpeggi del monte Planeau, a circa 1800 metri di altitudine, quando scorgono un globo di luce. In quello splendore quasi accecante vedono una donna seduta con i gomiti sulle ginocchia e il volto nascosto tra le mani. La Signora li chiama a sé e, in lacrime, affida loro il suo messaggio, prima in lingua francese e poi in dialetto provenzale per farsi capire meglio, dato che i due ragazzini sono analfabeti.
 
Statua della Madonna con i due veggenti sul monte Planeau, ove avvenne l'apparizione (Fonte Giulio Oggioni).
 
Monsignor Filiberto de Brouillard, vescovo di Grenoble, cinque anni più tardi dichiarò l’apparizione “indubitabile e certa” ed approvò, di conseguenza, il testo del messaggio, affermando che ai due pastorelli fu affidato dalla Madonna un “segreto” ciascuno. I documenti sui quali vennero trascritti i testi dei racconti e i due “segreti” furono consegnati a Roma a papa Pio IX. Attualmente sono conservati negli archivi della Congregazione della Fede.

La Madonna apparsa a La Salette venne definita la “Madonna dei contadini” perché apparve vestita da contadina, perché scelse due ragazzini umili intenti a sorvegliare due mandrie di mucche e perché comunicò gran parte del messaggio nel dialetto del luogo. Da quanto sopraesposto si può comprendere perché in alcune località d’Italia la Madonna di La Salette sia stata invocata come la “Madonna dei contadini”, ossia Colei che si interessava della vita e dei problemi di chi viveva e lavorava la terra.
Il culto mariano si esprimeva attraverso la raffigurazione della Madonna che recava sul capo la corona formata da spighe di grano intrecciate e la realizzazione di statue, cappelle o edicole all’interno delle cascine o lungo i viottoli dei piccoli nuclei storici di campagna.

Per questi motivi, e probabilmente per altri che non conosciamo, venne dedicata alla Madonna di La Salette una cascina a Verderio Superiore, Brianza lecchese, e un’edicola sacra a Caglio, alta Valassina, provincia di Como.
 
La cascina La Salette di Verderio Superiore nei primi anni Ottanta (Fonte Giulio Oggioni)
 
Verderio Superiore. Inverno 1856. “…il conte Luigi Confalonieri Strattmann assegnò a quattro famiglie contadine di Verderio Superiore (Aldeghi, Colombo, Frigerio e Oggioni) una nuova cascina costruita il località Sernovella…”. “Il mese di gennaio, secondo la tradizione, segnò anche l’arrivo in cascina di una statua in legno raffigurante la Madonna e due pastorelli, Melania e Massimino, i protagonisti dell’apparizione avvenuta a La Salette…”. “Il conte si era recato personalmente in Francia per sentire dalla viva voce dei due veggenti il racconto dell’apparizione. Al suo ritorno aveva fatto scolpire la statua e, una volta terminata, aveva voluto che fosse collocata in una nicchia al centro della cascina”. “In onore della Madonna, della quale era devotissimo, il conte chiamò la nuova cascina ”La Salette”.1
 
La statua della Madonna con i due veggenti posizionata nella cappella centrale della cascina (Fonte Giulio Oggioni).

Più in generale non deve destare meraviglia che alla Vergine siano dedicate non solo moltissime chiese e numerosi santuari, ma anche cappelle, patronati, grotte, santelle e strutture religiose perché la venerazione della Madre di Dio è fondamentale nella religiosità popolare del mondo cristiano. Sollecitate dalla riforma tridentina e favorite da san Carlo Borromeo, le dedicazioni di edifici di culto alla Vergine hanno avuto maggiore diffusione nelle campagne, ove la tendenza alla conservazione di un sistema sacro di riferimento si è protratta sino all’età contemporanea. I brianzoli sono sempre stati attenti alla miracolistica mariana, anche a quella avvenuta fuori loco. In Brianza, infatti, vennero dedicate chiese parrocchiali anche alla Madonna di Lourdes e alla Madonna di Fatima. E non è certamente da sminuire il fatto che la religiosità popolare briantea abbia dedicato, non una chiesa, ma una cascina contadina, seppur tra le più belle di Lombardia, alla Madonna di La Salette, proprio per rimarcare i tratti fondanti e originali di questa terra.

Veniamo ora a Caglio. Seminascosto fra le vecchie case dell’antichissimo borgo storico, una parte del quale è di origine medievale, c’è un affresco votivo raffigurante la Madonna di La Salette e i due pastorelli. La piccola edicola sacra è stata realizzata sul muro di un tortuoso e stretto vicolo, posta sulla sinistra di un vecchio portoncino in legno che conduce all’interno di una corte chiusa, ristrutturata con sapienza e nel rispetto delle tradizioni locali.

 
L'edicola votiva di Caglio
 
Le informazioni circa la committenza e la datazione del dipinto mi erano del tutto sconosciute. Poche righe lette su un testo che tratta storia e cultura brianzola non sono certo sufficienti a stendere un articolo che abbia la necessaria profondità e soprattutto possa fornire, a chi legge, utili e interessanti notizie. Si è reso pertanto necessario compiere una breve trasferta in alta Valassina al fine di scattare qualche fotografia e sperare nella buona sorte. La fortuna mi è stata buona amica. Ho chiesto alla prima persona incrociata, un signore di mezza età, originario del posto, il quale non solo mi ha accompagnato fin sotto l‘edicola votiva ma ha anche bussato al portoncino chiedendo al proprietario dell’edificio di uscire.
Il dipinto era seminascosto da un vitigno di uva “americana” che, partendo dall’interno della corte, diramava rami e tralci per alcune decine di metri, fin oltre l’alto muro di recinzione. La vite, mi ha riferito il proprietario, è probabilmente coeva del dipinto, al quale ha garantito energia e protezione.

 

 



Non si conosce il nome del frescante. Le immagini sacre dipinte sui muri dei vecchi vicoli e sotto i portici della cascine venivano spesso realizzate da pittori girovaghi. Si sa invece chi fu il committente ed è noto l’anno in cui fu realizzato l’affresco. Sulle spalle interne dell’edicola, come mostrano le due fotografie sottostanti, sono riportati il nome del proprietario dell’immobile, Bianconi Luigi, probabile committente del dipinto, e l’anno dell’avvenuta realizzazione, il 1892. Quasi cinquant’anni dopo l’apparizione.

 

 

 
L’immobile appartenne ai Bianconi, originari di Caglio, per alcune generazioni fintanto che non venne venduto all’attuale proprietario.
Il pittore di Caglio sarà stato messo ben al corrente della descrizione del fatto miracoloso data dai protagonisti: la Madonna è vestita come le donne dell’antico borgo, ma la cuffia, l’orlo dello scialle e i piedi sono ornati da ghirlande di rose. Alle sue spalle sono ben visibili le cime delle montagne che circondano il monte Planeau. La stessa cura e attenzione ai particolari fu dedicata dal conte Confalonieri e da coloro che realizzarono la statua lignea della Madonna di Verderio Superiore.

 

Tra i due eventi trascorsero quasi quarant’anni. Possono trovare fondamento eventuali analogie tra la costruzione di una cascina e la realizzazione di un dipinto, entrambi dedicati alla Madonna di La Salette? Nulla lo fa pensare. Non esistono dati certi né tantomeno indizi, anche se ciò non sia da escludere a priori. Il fatto che i due borghi appartenessero alla stessa provincia e fossero distanti tra loro solo 50 kilometri non autorizza a pensare che tra i due eventi possano essere esistite analogie o collegamenti di qualsivoglia natura.

Rimaniamo invece al dato certo. Dai nostri saggi antenati abbiamo ereditato testimonianze che, soprattutto negli ultimi secoli, sono diventate pietre miliari della Brianza antica: le cascine contadine sparse nelle campagne, tra linee regolari dei campi ed ampie distese di prati e filari di gelsi, e la devozione e la fede diffusa della sua gente.

 

La cascina La Salette oggi


La cascina La Salette di Verderio Superiore e l’affresco votivo di Caglio rappresentano due esempi positivi, due tracce della nostra cultura e della nostra storia che si è riusciti a conservare e salvare dall’oblio. Ma molti altri, troppi, sono andati definitivamente perduti.

Beniamino Colnaghi

Note e bibliografia
1. Giulio Oggioni, Padre Umberto Paiola. Verderio. La Salette. Storia di una cascina e della sua Madonna, Marna, 2005, pag.13.
Ringrazio il signor Giulio Oggioni per avermi fornito le prime tre fotografie pubblicate.