venerdì 21 dicembre 2012

Leggende dal ghetto di Praga: Mordechai Maisel
 

Sull’argomento che riguarda l’insediamento dell’antico popolo ebraico a Praga e nelle terre boeme è stato pubblicato un post nel mese di novembre 2012, dal titolo “Gli Ebrei in Boemia”. Ora racconterò alcune leggende e storie di personaggi e fatti avvenuti, molti e molti anni fa, nel ghetto ebraico praghese. Questo post tratta la vita e le imprese di Mordechai Maisel, famoso fra gli ebrei per la sua modestia e generosità a favore della comunità praghese.

A causa dell’oscurità e del brutto tempo, la carrozza del Primate della comunità ebraica di Praga smarrì la strada e si perse in un fitto bosco. Improvvisamente i cavalli si fermarono, iniziando a fremere e impennarsi. Quando il cocchiere cercò di comprenderne la causa, da lontano, oltre gli alberi, vide una luce abbagliante. Rabbi Jizchak, il presidente, si avvicinò al luogo da dove proveniva la luce e si accorse che, in realtà, si trattava di un grosso fuoco alimentato da due piccoli omuncoli, i quali stavano riempiendo dei piccoli sacchi con monete d’oro e d’argento incandescenti. Terminato il lavoro, uno degli ometti, prima di andarsene, disse al Rabbi che le monete erano per una persona del suo popolo e che, se avesse voluto, avrebbe potuto scambiare alcune monete d’oro che giacevano a terra con altro denaro. Il Rabbi tirò fuori dal suo borsellino tre monete, che scambiò con quelle d’oro.

Il simbolo di Praga nel Pentateuco del 1530
 
Tornato alla sua carrozza, il Primate fece appello al volere di Dio per cercare di capire chi potesse essere il benefattore. Avvolse le tre monete d’oro ognuna in un pezzo di carta e ne lasciò cadere una fuori dalla finestra, sulla strada sottostante. Dopo un po’ di tempo saltò fuori un ragazzino di strada, a piedi nudi e con gli abiti logori, il quale si guardò attorno e con uno scatto veloce prese la moneta da terra e corse via. Il secondo giorno il Rabbi compì la stessa operazione, ma la moneta d’oro venne presa nuovamente dallo stesso ragazzo. Strano, borbottò sorpreso l’erudito Rabbi, come sono imperscrutabili le vie del Signore. Il terzo giorno la storia puntualmente si ripeté. Rabbi Jizchak, a quel punto, non ebbe più dubbi che quel ragazzo, al momento così povero e dall’aspetto trasandato, un giorno avrebbe ricevuto la grande quantità d’oro che aveva visto nel bosco.

Due giorni più tardi il giovane fu costretto a presentarsi al Rabbi. Timidamente raccontò di aver trovato le monete d’oro per strada, poiché il ritrovamento gli era stato indicato in un sogno. Ora avrebbe voluto restituire tutto al legittimo proprietario, secondo la legge di Mosè. A quel punto il Rabbi chiese: “Perché vorresti restituirle se nessuno ti ha visto? Chi ti avrebbe mai scoperto?”. Il ragazzo rispose onestamente: “Me ne guardi il Dio di Israele. Preferisco essere povero e giusto, piuttosto che arricchirmi in modo proibito. Ecco, queste sono le Vostre tre monete d’oro.” “Dio ti benedica. Sì, tu sei degno di essere il favorito del nostro Dio”, rispose commosso il Primate.

Avendo saputo il nome del ragazzo e la sua provenienza, Rabbi Jizchak andò a far visita ai genitori del giovane i quali, in quello stesso momento, erano seduti a tavola. Il padre fece accomodare il Rabbi, il quale espresse subito ai genitori il desiderio di prendersi carico di Mordechai: voleva educarlo e farlo studiare come se fosse suo figlio. Alle obiezioni sollevate dal padre sul fatto che con i figli non si fanno commerci e che Mordechai era l’unico figlio rimastogli di otto, Rabbi rispose che il suo unico intento era quello di averlo a casa sua per alcune ore, affinché potesse studiare e diventare un uomo perbene. I due genitori, impreparati ad una simile offerta, ebbero solo il tempo di dire: “E’ stato stabilito da Dio; voglia far scorrere la Sua grande benedizione celeste attraverso il lavoro delle Vostre mani.”

La sinagoga Maisel a Praga
 
Per il giovane Maisel trascorsero rapidamente e piacevolmente cinque anni. Era diventato un bel giovanotto ed aveva acquisito sapienza e conoscenza. Il suo buon cuore era rimasto immutato nella disponibilità verso i poveri genitori. Quando il giovane Mordechai compì vent’anni, il Rabbi lo fece fidanzare con sua figlia Sulamit, di sedici anni. Un anno più tardi la coppia si sposò nel cortile della Sinagoga Vecchia-Nuova. Quando i sette giorni di festeggiamenti di nozze furono trascorsi, Rabbi Jizchak pensò fosse giunto il momento di andare a prendere i sacchi d’oro promessi a suo genero.

Verso sera giunsero nel bosco, ma non trovarono nessuna traccia dei sacchi pieni d’oro. Il Rabbi andò ancora molte volte, ma inutilmente. Nella sua delusione, divenne giorno dopo giorno sempre più insofferente nei confronti di suo genero il quale decise di andare ad abitare, insieme alla moglie Sulamit, in un appartamento e di non vivere di carità nella casa del Rabbi.

Rilevò il piccolo negozio di sua madre e lo trasformò, in breve tempo, in una florida attività commerciale, riuscendo nel contempo a dare rifugio e ristoro a bisognosi e oppressi.
Un giorno un misero contadino, vestito di un lercio camice, si presentò nel suo negozio e propose a Mordechai uno scambio: “Signore, non ho denaro da darvi, ma ho assoluto bisogno di alcuni attrezzi per il mio lavoro. In cambio vi darò una grossa cassa di ferro che nessuno è mai stato in grado di aprire.” Detto fatto, il contadino consegnò la cassa presso il negozio del giovane Maisel, il quale, la sera stessa, tentò di aprirla, ma non appena la toccò il coperchio si sollevò da solo e lo stupefatto commerciante vide che conteneva sacchetti pieni di brillanti monete d’oro. A quel punto Maisel era diventato uno degli uomini più ricchi di Praga, ma si guardò bene dal farlo sapere in giro. Non lo disse nemmeno a sua moglie.

L'arca della sinagoga Maisel
 
Trascorso un anno da quel giorno, Mordechai Maisel andò dal rabbino capo e disse: “Signore, il Dio di Israele ha benedetto il lavoro delle mie mani ed io mi sono prefisso di costruire una casa nella quale il Suo nome venga lodato. Questo è l’oro che servirà per costruirla. Desidero che la sinagoga sia bella come nessun altra a Praga, ma vi chiedo di non fare il mio nome.”
La nuova sinagoga venne inaugurata durante un giorno di festa. Le persone più eminenti erano presenti ed il Rabbi tenne un discorso che arrivò dritto al cuore e che terminò con una preghiera: “Salute a Te, Israele, che hai uomini così valorosi! Fatti avanti, tu modesto Saul! Perché ti nascondi tra la gente?” Nel dire questo indicò proprio Mordechai Maisel.

La volta della sinagoga Maisel

Mordechai rimase ricco per tutta la vita, senza perdere né la devozione né l’umiltà. Non accettò mai onorificenze e la sua modestia venne da tutti presa ad esempio: “Maisel non ha un sedile nel tempio.” Le sue opere di carità possono essere lette ancora oggi nella sinagoga Maisel, scritte in versi ebraici imperfetti, scolpiti nel marmo. La sua vita fu tutta una catena ininterrotta di opere di bene.

Dopo la sua morte, non avendo avuto eredi, il patrimonio di Mordechai Maisel fu dichiarato illegittimo dalle autorità, le quali disposero la confisca dell’intera eredità per realizzare i loro scopi.
Per sua fortuna, Mordechai non venne mai a saperlo.

Beniamino Colnaghi

 
Riferimenti bibliografici

AA.VV. Collezione praghese di leggende ebraiche, nuova raccolta rivista,Vienna e Lipsia, 1926.
Chajim Bloch, “Der Pragher Golem” (Il Golem di Praga), Berlino, 1920.

giovedì 6 dicembre 2012

Il “Maglificio G. Baraggia” a Verderio Superiore

Il dato più attendibile circa il significato e l’origine del cognome Baraggia ci conferma che “la baraggia” è l’area pedemontana che dalle Prealpi, site sotto il massiccio del Monte Rosa, si sviluppa verso il piano a terrazzi o in lieve graduale declivio verso sud est. La baraggia è una terra che prende il suo nome dalla brughiera, ovvero un tipo particolare di landa ricoperta da brugo o erica, arbusto sempreverde. In tempi antichi, questo tipo di vegetazione la rese un luogo ideale per i pascoli invernali delle greggi transumanti dalle Alpi biellesi. Con i secoli e con una capillare quanto ingegnosa opera di canalizzazione, parte della baraggia è stata trasformata in risaia. Il riso è l’unica coltura che può sopravvivere a questo tipo di terreno e di habitat ed assume delle caratteristiche morfologiche e qualitative uniche.

La baraggia vicino a Biella
Il cognome Baraggia, seppur oggi non sia molto diffuso, pare abbia preso piede qui in Brianza verso la fine del Settecento. Dalle informazioni raccolte e dai contatti avuti con alcune persone del luogo, risulterebbe che alcuni antenati delle attuali famiglie Baraggia oggi presenti prevalentemente nelle province di Monza-Brianza, Milano e Lecco, si trasferirono dal Piemonte in alcuni comuni brianzoli.
Questo dato mi è stato confermato dal sig. Ismaele Baraggia, figlio di Giuseppe, fondatore del “Maglificio G. Baraggia“, di cui parlerò più avanti.
Il sig. Abele Biffi, già sindaco di Aicurzio fino ai primi anni Novanta, persona di vasta conoscenza storica, è andato oltre, informandomi che una patriarcale famiglia Baraggia possedeva un mulino a Paderno d’Adda, tanto è vero che venne soprannominata Murnèe, mugnai.
Un componente di questa famiglia si trasferì a Sulbiate Superiore dove iniziò anch’esso l’attività di mugnaio. Ebbe parecchi figli, alcuni dei quali continuarono la tradizione di famiglia, ampliandola successivamente con l’attività di panettiere, che estesero anche ad altri comuni limitrofi, uno dei quali fu Aicurzio.

La chiesa di Aicurzio
Non seguì la stessa strada Francesco Baraggia, soprannominato Cicö, nato ad Aicurzio e sposatosi con Luigia Robbiati, detta Bariöla, dalla quale ebbe quattro figli: Teresa, Nina, Battista e Giuseppe. Francesco e la moglie aprirono una merceria in paese che ben presto, con l’aiuto delle figlie maggiori, ampliò le proprie attività nel settore della maglieria. Nel centro storico di Aicurzio possedevano alcuni locali ove abitavano e svolgevano la loro piccola attività commerciale, che con gli anni si ingrandì.
Il sig. Abele Biffi mi ha confidato che, seppur a quel tempo fosse un bambino, si ricorda bene di Cicö che vendeva la merce prodotta spostandosi in bicicletta da un cortile all’altro del paese e nelle cascine periferiche.
Uno dei figli maschi della coppia nacque ad Aicurzio nel 1906 e venne chiamato Giuseppe.
Trascorsa la giovinezza e l’adolescenza in paese e lasciate alle spalle le macerie di morte e miseria prodotte dalla Prima guerra mondiale, il giovane Giuseppe si buttò nell’attività di famiglia, contribuendo a risollevare la precaria economia domestica.
Nei primi anni Trenta conobbe Pasqualina Pirola di Vimercate che svolgeva la professione di sarta. Era una buona sarta, la sig.ra Pasqualina, perché, lavorando in una sartoria di Milano, imparò le tecniche sartoriali e cominciò a disegnare modelli e produrre abiti su misura.
Giuseppe e Pasqualina decisero di sposarsi nel 1935 a Vimercate.

Il secondo obiettivo della coppia fu quello di mettersi in proprio, tanto che decisero di prendere in affitto un piccolo immobile e installarci un maglificio. Sì, ma dove?
Cercarono ad Aicurzio e nei paesi limitrofi. La scelta cadde su Verderio Superiore, in quanto fu loro offerta in affitto una porzione di stabile di proprietà della famiglia Gnecchi-Ruscone. L’immobile in parola esiste ancora oggi ed è ubicato in via Principale, tra la sede di una banca e la gesa vegia, la chiesa vecchia. E’ un bell’edificio in mattoni, tuttora ben conservato e mantenuto. I Baraggia ebbero la fortuna di trovarlo libero perché, nel 1936, la ditta “Arte del ferro”, rinomata fabbrica di ferro battuto, chiuse l’attività e liberò l’immobile, che fu occupato, dopo gli opportuni adeguamenti, dalla famiglia Baraggia nella parte posteriore e dalla tessitura Comi nella metà che si affaccia su via Principale.

Verderio Superiore: edificio che fu sede del "Maglificio G.Baraggia"
Giuseppe Baraggia e la moglie acquistarono tutto l’occorrente per impiantare una nuova fabbrica, in particolare si dotarono di macchine di maglieria a mano Dubied, società svizzera che produceva macchine rettilinee tra le migliori sul mercato. Ed il maglificio iniziò la produzione a Verderio Superiore, nel mese di luglio del 1937. Il sig. Ismaele Baraggia, il primogenito dei fondatori, dal quale ho avuto le principali informazioni che mi hanno permesso di scrivere questa storia, mi ha riferito che il maglificio occupava circa 30 dipendenti, tutte donne e ragazze di Verderio, contribuendo, per la sua parte, a garantire occupazione ed incrementare i redditi di alcune famiglie locali.



Macchina di maglieria rettilinea a mano Dubied
I prodotti finiti, sia di lana sia di cotone, erano di buona qualità ed i modelli rispecchiavano le mode dell’epoca. Una quota di produzione veniva venduta ad alcuni commercianti locali mentre una parte della maglieria era venduta direttamente dal titolare, che installava i banchi vendita nei più grossi mercati di alcuni paesi comaschi e monzesi.
A tre anni dall’apertura dell’attività, malgrado l’entrata in guerra dell’Italia, la produzione non solo non cessò, ma le richieste di maglieria aumentarono, in quanto alcuni maglifici chiusero i battenti a causa dei bombardamenti e, inoltre, la politica autarchica fascista privilegiò la produzione nazionale.
Terminata la Seconda guerra e nella scia della ricostruzione del Paese, i coniugi Baraggia, oltre ad aver aumentato i componenti della famiglia con l’arrivo di due figli, ebbero una giusta intuizione: costruire un nuovo e più grande stabilimento al fine di ampliare l’attività e aumentare la produzione. Giuseppe Baraggia cercò un’area idonea, sempre a Verderio Superiore. Individuò un terreno in via Rimembranze, adiacente la chiesa parrocchiale, ma la famiglia Gnecchi, proprietaria del lotto, non vendette. Allora, a malincuore, guardò altrove. Gli venne indicata un’area su cui sorgeva una fornace, ormai in disuso, insistente sul territorio del Comune di Paderno d’Adda. La fornace, che produceva mattoni, e l’area attigua, prendevano il nome di Genasa, presumendo che derivasse dal nome, o dal soprannome, del proprietario.
L’affare fu fatto. L’area era bella e verdeggiante e abbastanza grande per costruirvi lo stabilimento e la villa padronale. Nel 1947 gli edifici furono approntati e la produzione cominciò. 
Il “boom economico” degli anni Sessanta e la capacità dei titolari di saper comprendere gli orientamenti del mercato e le nuove tendenze in atto fecero incrementare la produzione e il fatturato. Nella metà degli anni Sessanta, grazie all’aumento della richiesta ed allo sviluppo della produzione, l’occupazione raggiunse le 90 unità. La maggior parte delle maestranze e delle operaie provenivano dai due Verderio; ciò anche grazie ad un reciproco atto di stima e fiducia che è sempre intercorso fra i titolari e le dipendenti.

Nel 1965 muore il fondatore, Giuseppe Baraggia, e la direzione passa alla moglie ed al figlio maggiore, Ismaele, i quali, per cercare di arginare la concorrenza sempre più agguerrita che arrivava dai nuovi poli tessili e magliai, tra i quali Carpi e Gallarate, tentarono di percorrere nuove e più impegnative strade. L’idea fu quella di porre la qualità al centro delle produzioni.
Vennero acquistate nuove e moderne macchine di maglieria circolari e rettilinee, Dubied, Stoll, Protti e telai Cotton, veloci e multifunzionali, che consentirono una maggiore produzione e la riduzione dei costi. Verso la fine degli anni Sessanta i titolari tentarono di entrare nel mondo del prêt-à-porter e, nei primi anni Settanta, si avvalsero della collaborazione e della professionalità di un giovane architetto di Legnano, Gianfranco Ferrè.

Gianfranco Ferrè
Ferrè creò il marchio Blu 4, una nuova linea di moda, un mix sportivo ed elegante che incontrò il favore dei giovani e del nuovo ceto medio emergente, e innovò modelli, scelse nuovi colori e usò filati più pregiati. In questa sua ricerca fu aiutato dall’esperienza che lo stilista fece in India, dove visse per alcuni anni. Ma lo stilista legnanese, colto, raffinato e dalle idee innovative, non rimase a lungo in un maglificio di provincia: la maison Dior lo chiamò a Parigi e il marchio “GFF” divenne famoso in tutto il mondo. La concorrenza cinese e asiatica, gli alti costi, la burocrazia asfissiante e la difficoltà del sistema industriale italiano ad adeguarsi ai tempi fecero il resto.

Il “Maglificio Giuseppe Baraggia” chiuse le attività nel 1983.
Uno ad uno, uno dietro l’altro, gli storici maglifici di Paderno d’Adda hanno chiuso tutti. Il nostro territorio ha perso, per sempre, non solo risorse e posti di lavoro, ma anche antichi saperi artigiani e preziose manualità e capacità di centinaia e centinaia di donne brianzole.

Beniamino Colnaghi