Il blog “Storia
e storie di donne e uomini” augura buone feste ed un sereno anno nuovo
La Storia attraverso personaggi, luoghi ed eventi, nonchè storie di donne e uomini, non sempre potenti e famosi, spesso semplici e umili persone che, grazie al loro lascito di memorie e testimonianze quotidiane, ci consentono di conoscere meglio il loro tempo ed approfondire il nostro passato. Blog senza fini di lucro, che tratta argomenti storici, culturali e di costume.
venerdì 20 dicembre 2019
I lavatoi pubblici
della vecchia Brianza: luoghi di lavoro e socializzazione
Il lavatoio di Imbersago
Arlate Calco
Verderio, il lavatoio costruito nel 1895
I
lavatoi pubblici rappresentano una delle testimonianze più preziose e, in
moltissimi casi, meglio conservate della nostra storia pre-industriale e della
cultura contadina. Sino agli anni Cinquanta/Sessanta del secolo scorso, ossia
fin quando venne portata l’acqua corrente nelle abitazioni e fino all’avvento
delle lavatrici, in quasi tutti i comuni della Brianza si potevano ancora
incontrare alcune donne anziane, cariche di ceste di panni, che si dirigevano
verso il lavatoio pubblico.
Negli
anni, parecchi di questi manufatti sono stati restaurati dalle amministrazioni
comunali più sensibili e resi funzionanti; una buona parte versano ancora oggi in
condizioni di abbandono, altri sono stati lasciati in stato di abbandono e nell'incuria generale, come se si
trattasse di residui e inutili tracce del nostro passato.
Eppure
vi fu un’età in cui la costruzione di un lavatoio coperto era percepita da una
comunità come un’irrinunciabile conquista di carattere sociale. Presenti nelle
città mercantili e nelle comunità più ricche sin dall’inizio dell’età moderna,
in Brianza la costruzione di questi manufatti iniziò verso la metà del XIX
secolo e coincise con il lento e
graduale miglioramento delle condizioni economiche delle famiglie contadine e
operaie locali. Da alcuni documenti
d'archivio rinvenuti a Erba, Alta Brianza, si rileva che fin dal primo
trentennio dell'Ottocento nei sette comuni allora autonomi (prima che
si fondessero e costituissero la città di Erba) erano presenti lavatoi
pubblici, tutti annessi a fontane e con abbeveratoio per le bestie. Alcuni
erano alimentati da torrenti o rogge, altri dalle sorgenti
di cui il territorio era ricco.
Senna Comasco
Ravellino di Colle Brianza
Spesso,
come ad esempio il caso di Verderio, Imbersago e Senna Comasco, la costruzione
del lavatoio venne finanziata dalla famiglia borghese del posto, come segno di
munificenza verso la comunità che amministrava.
In assenza di fonti e vasche pubbliche
le ragazze e le donne lavavano i panni lungo i corsi d’acqua, presso qualche
sorgente o sulle sponde dei laghi, degli stagni e dei fossati di scolo delle
acque piovane. Le donne si inginocchiavano sulle sponde erbose e sporgendo il
corpo verso l’acqua sfregavano con forza gli indumenti su tavole di legno o
piani di granito.
Alcune fotografie storiche di quei
tempi, scattate da alcuni fotografi, mostrano in maniera cruda e reale lo
sforzo compiuto da gruppi di lavandaie sulle rive dei fiumi e dei laghi oppure
sui navigli milanesi per mantenersi in equilibrio. Altri documenti mostrano le
diverse fasi del lavoro femminile nei lavatoi della Brianza, in quegli anni
ancora ampiamente frequentati.
Come si scriveva all’inizio di questo
articolo, di queste vecchie e nobili strutture ne sono rimaste poche decine in
buone condizioni, grazie alla sensibilità di amministrazioni pubbliche,
associazioni e singoli benefattori. In alcuni paesi il lavatoio era comodamente
posizionato nel centro abitato, mentre in altre situazioni le strutture
orografiche del luogo non consentirono la captazione dell’acqua in un punto
centrale, e quindi il lavatoio venne costruito in aperta campagna a distanze
ragguardevoli dai centri abitati.
I lavatoi venivano ovviamente costruiti
in prossimità di una fonte, di una sorgente, dalle quali l’acqua veniva captata
e convogliata nella grande vasca centrale in pietra. Queste nuove strutture consentivano
alle lavandaie di lavorare in piedi, al riparo dal sole e dalle intemperie,
essendo la maggior parte coperte. La vasca, la cui dimensione permetteva contemporaneamente
il lavoro di alcune donne, era composta da un piano inclinato in pietra, sul
quale, le lavandaie, con la forza delle braccia, lavavano e risciacquavano gli
indumenti. Talvolta la vasca era suddivisa in due o anche tre bacini
comunicanti, dei quali, quello in prossimità dell’acqua sorgiva, era destinato
al risciacquo.
Monguzzo
Novate di Merate
Verdegò
Le strutture edilizie che normalmente
coprono le vasche si differenziavano spesso tra loro e venivano costruite in
conformità alle caratteristiche del luogo, ai materiali a disposizione, alle
esigenze ed alle risorse messe in campo da chi finanziava l’opera. Rispetto ai
lavatoi che ho avuto modo di visionare e fotografare, la maggior parte sono costituiti
da semplici strutture aperte a pianta rettangolare ed il tetto, strutturato da
capriate lignee e sorretto da pilastri in mattoni, è coperto da tegole o coppi.
In alcuni casi, i lavatoi sono aperti sui quattro lati, si veda Imbersago,
Vertemate e Verdegò, mentre in altri le strutture avevano uno o entrambi i due
lati minori chiusi da un muro. Altri ancora, come quelli di Arlate Calco e
Monguzzo, sono aperti solo su un lato.
A Verderio ex Superiore le donne che abitavano nel centro storico facevano
il bucato presso il lavatoio pubblico di piazza Roma. Come si evince
dalla prima fotografia pubblicata qui sotto, il piccolo lavatoio era composto
da una parete di mattoni, una pensilina metallica utile a ripararsi dalla
pioggia e da due piccoli lavelli in granito, alimentati dall’acqua che veniva
“pescata” da un serbatoio interrato, attraverso l’azionamento di due pompe
manuali. Fu cosi fino al 1895, quando la famiglia Gnecchi Ruscone fece
costruire la fonte Regina, una condotta composta di tubi in ghisa che prendeva
l’acqua dal laghetto di San Rocco, sito appena sopra l’ospedale di Merate, e la
portava nella villa padronale di Verderio. L’acqua venne utilizzata anche per
alimentare un paio di fontane che abbellivano le proprietà degli Gnecchi, un
rubinetto ad uso pubblico posto di fronte al municipio ed un nuovo lavatoio a due
vasche, dinnanzi al quale, nel 1902 venne costruita la nuova chiesa
parrocchiale.
Verderio, il lavatoio di piazza Roma poi demolito nei primissimi anni Sessanta
Purtroppo, come spesso accade quando
l’uomo deve occuparsi dei segni della nostra storia e delle migliori tradizioni
di un territorio, tramandati da chi ci ha preceduti, troppo tardi si è presa
coscienza del valore storico, culturale e sociale rappresentato da questi
manufatti, parte dei quali, seppur tutelati e vincolati dalla legge, sono stati
lasciati in stato di abbandono per troppo tempo, come è toccato a numerose cascine
e corti della Brianza, o, ancor peggio, incautamente e frettolosamente distrutti.
Beniamino
Colnaghi
domenica 17 novembre 2019
giovedì 14 novembre 2019
La corte pluriaziendale
dell’Alta pianura asciutta(1)
Verderio, l'ingresso della cascina Bergamina
di Giorgio Federico
Brambilla
Nell’area lombarda la
corte rappresenta senza dubbio l’immagine più tipica e riconoscibile del
paesaggio agricolo. Vi è però una notevole differenza tra le corti della Bassa
pianura irrigua e quella dell’Alta pianura asciutta: a sud di Milano le grandi
corti sono “monoaziendali” cioè condotte direttamente dalla proprietà tramite
un fattore il quale, come un capitano d’industria, governa l’azienda agricola
in cui lavorano decine di contadini. A nord della città, in Brianza, le corti
sono invece “pluriaziendali”, cioè condotte da più famiglie contadine, ciascuna
delle quali è una piccola azienda autonoma.
Gli
edifici a corte, un tempo classificati come “architettura minore”, segnano il
territorio rurale e la sua evoluzione: solo di recente la storia
dell’architettura li ha considerati degni di studio, in quanto portatori di un
valore di testimonianza di una cultura materiale così complessa ed evoluta.
Tale tipologia architettonica è così
diventata oggetto di numerosi studi che ne hanno ipotizzato origini ed
evoluzioni differenti a seconda dell’ambito geografico a cui la corte si
insedia. Soprattutto l’origine è molto dibattuta: se dapprima veniva
esclusivamente fatta risalire al periodo della conquista romana, studi condotti
da Caraci(2)
negli anni Trenta la riconducono, per quanto riguarda l’area lombarda, al
periodo celtico, nel quale si sarebbe sviluppato il tipo base elementare,
matrice delle successive articolazioni tipologiche.
La
tipologia della corte era sicuramente assai diffusa in epoca romana, quando la
conquista di nuovi territori determinava un’organizzazione e una regolamentazione
del paesaggio agrario, basata sulla sua suddivisione in centurie. Nel mondo
romano la corte assume l’aspetto di “villa rustica”, luogo di organizzazione
della produzione agricola del latifondo, dove si sviluppa uno sfruttamento dei
terreni a coltura, grazie all’impiego di grandi quantità di manodopera
schiavile. La tipologia stessa trova conferma nella corte monastica in periodo
medievale, di cui si hanno molti esempi soprattutto nella Bassa pianura
irrigua, dove la fondazione di un monastero comportava la bonifica e il
dissodamento dei terreni che lo circondavano e l’instaurarsi di una produttiva
attività agricola.
In
merito comunque all’effettiva utilità di dimostrare una diretta origine della
tipologia rurale e corte da tali antichi ascendenti forse giova ricordare la
naturale tendenza dell’uomo a disporre i vari elementi della dimora quando si
sente la necessità e si ha la possibilità di aumentarne il numero intorno ad un
cortile quadrangolare, chiuso o aperto: così che le dimore a corte sono presenti
nelle più disparate e lontane regioni della terra.
Verderio, la cascina La Salette in una foto degli anni '80
Alla
fine del Seicento probabilmente non vi era ancora una grande differenza tra le
dimore rurali della Bassa e dell’Alta pianura, è stato solo a seguito dei
notevoli investimenti nella zona irrigua da parte dei grandi proprietari
terrieri dell’epoca, residenti principalmente a Milano, che ebbe inizio la
progressiva differenziazione ed evoluzione dell’agricoltura nella Bassa e
quindi lo sviluppo di un sistema di conduzione delle cascine in senso capitalistico
che portò all’affermazione della grande corte
monoaziendale come tipologia prevalente a sud della città, mentre a nord,
sull’altopiano asciutto, a causa della minore fertilità del suolo,
l’agricoltura non fu soggetta al medesimo radicale e rapido sviluppo, con una
conseguente più lenta e naturale evoluzione delle dimensioni delle dimore
rurali dalle semplici forme settecentesche a quelle più complesse
ottocentesche, con il consolidarsi della corte
pluriaziendale come tipologia usuale(3).
L’evoluzione
tipologica avviene per addizione di
nuovi corpi attorno alla corte centrale, tanto da portare, al suo massimo
sviluppo, alla formazione di una corte chiusa completamente all’interno di un
recinto fortificato. Se fino al Seicento, quindi, la tipologia maggiormente
diffusa è quella più semplice, con pochi corpi disposti attorno alla corte e
con un uso ancora unifamiliare, tra Settecento e Ottocento la tipologia si
evolve in forme più complesse, aumentando il numero dei fabbricati che tendono
alla chiusura della corte, diventando un organismo edilizio plurifamiliare.
Le
modificazioni non avvengono solo a livello planimetrico, ma anche in altezza:
la stragrande maggioranza degli edifici più antichi pervenuti sino a noi si
presentano su due piani, un’altezza legata alla tecnica costruttiva più diffusa
in ambito rurale costituita da murature portanti realizzate prevalentemente in
sassi con solamente alcuni corsi in mattoni.
Verderio, la cascina Airolda, in una recente foto
Alla
fine dell’Ottocento si cominciano invece a costruire normalmente edifici a tre
piani per due ragioni: da un lato si ha un generale incremento demografico, e
quindi una maggiore richiesta di vani d’abitazione, dall’altro, grazie alle
nuove tecnologie produttive, i mattoni di laterizio diventano disponibili in
grandi quantità e ad un costo decisamente inferiore rispetto al passato.
Il
consolidamento dell’ordine rurale di tipo mezzadrile, soprattutto
nell’altopiano, era avvenuto già a partire dal XVII secolo, ma fu dopo il
periodo delle riforme avviato dal governo austriaco, il quale promosse varie
iniziative per uno sfruttamento più razionale del suolo alla metà del XVIII secolo, che l’attività
agricola ebbe un impulso allo sviluppo come mai prima era accaduto.
Dal
Catasto Teresiano è così possibile desumere la situazione di partenza, mentre
dal confronto con il successivo rilevamento catastale, il nuovo Catasto
Austriaco di metà Ottocento, evidenzia come vi sia stata una notevole crescita
economica del comparto agricolo, soprattutto dove, come nel caso dell’Alta
pianura asciutta, la coltivazione della vite e del gelso associata a quella dei
cereali, era assai redditizia, con il conseguente consolidamento ed ampliamento
delle dimore rurali.
Tra la fine
dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento si assiste all’edificazione di
nuove cascine e corti, caratterizzate da grandi impianti regolari,
segno di una maturità psicologica che si arricchisce di un nuovo gusto per la
monumentalità, come esemplificato dalle tante facciate con timpano centrale
classicheggiante.
Al
di là delle diversità legate al grado di evoluzione raggiunto in ciascun luogo
dalla tipologia a corte, ciascun episodio è chiaramente riconducibile ad uno
schema insediativo comune, caratterizzato da uno spazio collettivo centrale in
cui si convogliano pratiche di vita comune e privata di più nuclei familiari,
tanto da definire l’insieme come un organismo autonomo, tendente all’isolamento
rispetto all’esterno. Ciò è facilmente ravvisabile nelle modalità di relazione
della corte con l’esterno. Gli edifici
si aprono verso l’interno con portici e loggiati, ribadendo una sorta di
autocontenimento delle risorse vitali all’interno della corte stessa. I portici
ed i loggiati antistanti i corpi residenziali, oltre a proteggere uomini e
attrezzature dalla pioggia, sono in genere rivolti a sud proprio per catturare
i raggi solari utili per l’essicazione dei prodotti della terra.
La
tipologia a corte è propria dell’architettura rurale e configura spazialmente
la risposta ad esigenze di tipo sociale ed economico produttivo: innanzitutto a
quella di non dispersione delle dimore rurali nel territorio, in modo di
conseguire una sorta di “economia di scala”, legata alle necessità primarie di
sussistenza. Esempio ne sia, soprattutto nell’Alta pianura lombarda, il
problema dell’approvvigionamento idrico: lo scavo di un pozzo era un’opera
assai ardua e onerosa, ma la presenza in ogni corte di un unico pozzo in comune
risolveva l’esigenza idrica di molte unità produttive contemporaneamente.
Le
corti monoaziendali della Bassa sono
più note alla cultura accademica in quanto le loro maggiori proporzioni le
hanno rese più appetibili agli occhi degli studiosi. Le corti pluriaziendali dell’Alta pianura asciutta sono meno
conosciute e vengono spesso confuse con le altre; sebbene normalmente di minori dimensioni
queste corti sono però la testimonianza di un’organizzazione
sociale basata sulla minima unità produttiva costituita dalla singola famiglia
contadina, che in circa due secoli e mezzo ha formato quella mentalità
microimprenditoriale che forse può contribuire a spiegare il successo
industriale ed economico della Brianza, fondata nella piccola e media impresa.
Le
dimore contadine dell’altopiano, pur mantenendo come elemento centrale la
corte, si differenziano dalle abitazioni rurali della Bassa per le dimensioni
più ridotte e per la diversa distribuzione degli edifici. Le dimensioni dei
lati variano normalmente da una lunghezza di 25-30 metri ad un massimo di 60
metri; non tutti i lati della corte sono occupati da edifici, ma possono essere
delimitati da un muro di cinta o di siepi.
La cascina Malpensata, a Verderio, meglio conosciuta come Casineta
Gli edifici principali
sono quelli riservati alle abitazioni ed alle stalle, tra i quali non
intercorre un rapporto spaziale definito a priori. L’ingresso alla corte delle
cascine è solitamente collocato lungo il muro di cinta o ricavato dallo spazio
esistente tra due costruzioni, mentre nei complessi posti nei centri abitati
l’accesso è costituito è costituito a un androne ad arco posto nel mezzo del
fabbricato che si affaccia sulla strada. Il
cortile interno è semplicemente pavimentato in terra battuta o rizzata,
ombreggiato da gelsi e alberi da frutto, in cui vi sono il pozzo e i servizi
comuni.
Qui
trovano posto le latrine (i cess),
mentre il pozzo, che è sempre
presente nelle cascine, lo è solo in alcuni casi nei centri abitati. Stesso
discorso vale per il forno, anche se è meno frequente, e spesso manca anche
nelle cascine più vicine al centro abitato. Il corpo di fabbrica delle
abitazioni presenta un impianto modulare, dato da un susseguirsi di ambienti
uguali: ad ogni nucleo famigliare è infatti assegnato un locale al piano terra
ed uno al piano superiore.
Al
piano terreno si trova la cucina, con il
focolare, un ambiente molto povero e spoglio, mentre al piano superiore
sono collocate le stanze con i letti.
Il
corpo delle abitazioni è dunque solitamente a due piani con l’affaccio
principale a sud sul cortile, facciata in cui compaiono portico, loggiato e
ballatoio aggregati in diverse soluzioni compositive. Il portico è sicuramente
la struttura che caratterizza la tipologia a corte: esso regola il soleggia
mento degli ambienti retrostanti, funge da riparo per i prodotti agricoli e, in
caso di maltempo, consente ai contadini di svolgere le proprie mansioni in un
luogo riparato.
Negli
esempi più semplici, al primo piano si ha il ballatoio che conduce alle camere. Nelle corti più evolute al primo
piano si ha un loggiato che incrementa lo spazio disponibile all’aperto,
riparato dal porticato. In quest’ultimo caso è frequente l’utilizzo del sottotetto come locale di deposito cui
si accede direttamente dal loggiato con delle scale a pioli o con un ballatoio.
Nei
fabbricati della fine dell’ottocento o del principio del Novecento con tre
piani abitati, la soluzione normale è con un loggiato al primo piano e un
ballatoio al secondo piano, raramente si ha un secondo loggiato.
I rustici
sono disposti sui restanti lati e, come le abitazioni, sono suddivisi in unità
modulari assegnate ciascuna ad una famiglia: al piano terra vi è la stalla e nella parte superiore il fienile. La stalla può essere
ulteriormente ripartita mediante basse paretine in legno in tre spazi, per
ospitare le mucche, il cavallo o l’asino, talvolta il maiale; il fienile è
semplicemente costituito da campate scandite
da pilastri, separate da divisori in legno.
Nel
caso di corpi di fabbrica molto lunghi, alcuni divisori fra i fienili possono
essere realizzati in muratura, la quale, prolungata sopra il manto di
copertura, serviva ad evitare il propagarsi delle fiamme in caso di incendi; il
fronte sul cortile è aperto, mentre il lato posteriore è chiuso con stuoie in
paglia di segale o con dei pannelli di legno a listelli o tavole verticali
oppure, a partire dall’Ottocento, con grigliati di mattoni.
Note
1. Articolo
apparso sul periodico la curt, a cura
dell’Associazione Amici della Storia
della Brianza, N. 10 – settembre 2017
2.
G. Caraci, Le “corti” lombarde e l’origine della “corte”, in “Memorie” R
Società Geografica Italiana, n. XVII, Roma, 1932.
3. Cfr.
A. Pecora, La corte padana, in G.
Barbieri, L. Gambi, “La casa rurale in
Italia”, Firenze, 1970, p. 239.
Sitografia
Le
trasformazioni sociali in Brianza: https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2016/01/le-trasformazionisociali-e-culturali.html
Il
paesaggio rurale nella vecchia Brianza: https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2014/06/il-paesaggio-rurale-della-vecchia.html
Le
tradizioni brianzole: https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2013/11/le-tradizioni-popolari-brianzole-nel.html
martedì 5 novembre 2019
La struggente e desolante bellezza autunnale della "Fontana di Meleagro" a Verderio
Beniamino Colnaghi
Chi volesse saperne di più e approfondire l'argomento può prendere spunto dai due post qui sotto, contenuti nel blog di Marco Bartesaghi
La fontana nascosta: http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.com/2010/05/la-fontana-nascosta-di-marco-bartesaghi.html
Il parco della fontana: http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.com/2010/05/il-parco-della-fontana-di-meleagro.html
La cosiddetta Fontana di Meleagro venne commissionata dal maestro e compositore Vittorio Gnecchi Ruscone e realizzata verso la fine degli anni Venti del Novecento. Venne probabilmente pensata e progettata per dare continuità ai parchi che impreziosivano e valorizzavano la villa padronale e realizzata sul confine tra i comuni di Verderio Superiore e Paderno d'Adda (LC).
Da molti anni, dopo che gli Gnecchi decisero di dismettere il patrimonio verderiese, la fontana e l'area verde antistante versano in stato di abbandono. E non certo per "colpa" dei rovi e delle sterpaglie, che non fanno altro che occupare spazi e luoghi, dei quali l'uomo non si cura di valorizzare e munutenere. Il più pericoloso avversario della bellezza, dell'arte, della storia di molti luoghi e manufatti sparsi nella nostra meravigliosa Brianza, può diventare l'uomo, il grande predatore. Se al sentimento ed alla passione per il bello prevale l'ignoranza e la bramosia del denaro, il gioco è perso in partenza.
Le statue ed il gruppo scultoreo sono stati oggetto della predazione e del vandalismo di ladri e idioti, non possiamo chiamarli diversamente, che negli ultimi 10-15 anni hanno, a più riprese, rubato, saccheggiato, devastato tutto ciò che era possibile rubare e vandalizzare. Le fotografie che pubblico qui sotto, scattate nella mattinata del 5 novembre, sono eloquenti circa lo stato della fontana, soprattutto se comparate a quelle contenute nell'articolo pubblicato una decina d'anni fa dall'amico Marco Bartesaghi sul suo blog.
Ma l'avvento dell'autunno, con i suoi colori e con il rampicante che avvolge il manufatto, rende, a mio parere, la bellezza della fontana ancora più struggente e desolante. Bellezza che, dopo la recente acquisizione dell'area al patrimonio comunale, pone all'amministrazione pubblica di Verderio ed alla comunità tutta di interrogarsi e individuare con quali strumenti, con quali progetti credibili e praticabili e con quali risorse poter intervenire per porre fine al degrado e valorizzare un bene che è parte integrante della storia e del patrimonio culturale e monumentale di Verderio.
Cliccare sulle foto per ingrandirle
Beniamino Colnaghi
Chi volesse saperne di più e approfondire l'argomento può prendere spunto dai due post qui sotto, contenuti nel blog di Marco Bartesaghi
La fontana nascosta: http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.com/2010/05/la-fontana-nascosta-di-marco-bartesaghi.html
Il parco della fontana: http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.com/2010/05/il-parco-della-fontana-di-meleagro.html
mercoledì 30 ottobre 2019
Pasolini: il dialetto e la critica alla modernità
Il dubbio in Pasolini: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2015/11/pier-paolo-pasolini-applaudono-soltanto.html
Un paese di temporali e primule: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2013/12/un-paese-di-temporali-e-di-primule-le.html
Durante l’infanzia e
l’adolescenza, a causa dei continui trasferimenti del padre, ufficiale militare,
Pasolini si sposta prima a Parma, quindi a Belluno, Conegliano, Cremona e
Reggio Emilia. Fondamentali per lui rimangono i soggiorni estivi a Casarsa, «…
vecchio borgo… grigio e immerso nella più sorda penombra di pioggia, popolato a
stento da antiquate figure di contadini e intronato dal suono senza tempo della
campana». Casarsa della Delizia, paese friulano che diede i natali alla madre, incontaminato,
primitivo, puro mondo campestre a cui sarà strettamente legato il suo esordio
letterario e a cui emotivamente lo scrittore rimarrà legato per tutta la vita.
Nel 1942 pubblica a proprie spese
un volumetto di poesie che suscita l’interesse di Gianfranco Contini, Poesie
a Casarsa. La raccolta è scritta in dialetto friulano, in quella che per
lui è «lingua pura per poesia»: in quel momento della storia italiana -
motiverà più tardi in Passione e ideologia - «l’unica libertà rimasta
pareva essere la libertà stilistica». In quello stesso anno, intanto, il padre
- «antagonista e tirannico» con cui ha un rapporto conflittuale feroce e
tragico - è prigioniero degli inglesi in Africa.
Dopo la fuga dalle armi,
«ossessionato dall’idea di finire uncinato; ché così finivano nel Litorale
Adriatico i giovani renitenti alla leva o dichiaratamente antifascisti»,
Pasolini trascorre i lunghi mesi dell’occupazione nazista nella cittadina
friulana e nel vicino borgo di Versuta. Qui, in casa, con mezzi di fortuna,
organizza una scuola gratuita per pochissimi alunni, mentre continua ad
occuparsi del recupero del dialetto friulano con un gruppo di amici. Nel 1944
esce il primo di due quaderni intitolati Stroligut di cà de l’aga - il
primo documento dell’attività del gruppo che nel febbraio del 1945 fonderà l’Academiuta di Lenga Furlana.
Nell’autunno di quello stesso
anno, Pier Paolo si laurea con Carlo Calcaterra, con una tesi dal titolo Antologia
della lirica pascoliana (introduzione e commenti). Sempre in quell’autunno,
finita la guerra, torna dalla prigionia del Kenia il padre, oramai «reduce
malato, avvelenato dalla sconfitta del fascismo,… distrutto, feroce, tiranno
senza più potere». Il ritorno del padre, la morte del fratello e il dolore
sovraumano della madre rendono questo periodo il più tragico della sua vita.
Nel frattempo, cominciano le
pubblicazioni de «Il Stroligut», la
rivista dell’Academiuta di Lenga Furlana
e prosegue la sua attività poetica. Nel ’45 pubblica le raccolte di versi in
italiano Poesie e, per le Edizioni dell’Academiuta, I diarii e
nel ’46 I pianti. Gran parte dei versi scritti dal ’43 al ’49 saranno
raccolti poi nel volume L’usignolo della chiesa cattolica (1958). In
dialetto friulano, invece, uscirà nel ’49 Dov’è la mia patria? e nel ’53
Tal cour di un frut.
Nel 1947, sulla nuova rivista
dell’Academiuta, «Quaderno Romanzo», esce un suo intervento nell’ambito del
dibattito sull’autonomia del Friuli. Il ’47 è anche l’anno della «scoperta di
Marx» e della sua adesione al Partito comunista - ai suoi occhi strumento per
«trasformare la preistoria in storia, la natura in coscienza». Dopo un periodo
d’insegnamento nella scuola media di Valvasone, nel 1949 Pier Paolo, «come in
un romanzo», si sposta precipitosamente con la madre a Roma. «Per due anni -
racconta Pasolini - fui un disoccupato disperato, di quelli che finiscono
suicidi; poi trovai da insegnare in una scuola privata a Ciampino per
ventisettemila lire al mese».
(Bologna, 5 marzo 1922 - Roma, 2 novembre 1975)
La posizione di Pier Paolo
Pasolini nei confronti del dialetto ha una duplice motivazione: una
affettivo-romantica, legata al carattere bucolico dell’entourage familiare contadino
della madre; l’altra politica, di opposizione al paradigma che recita: dialetto
= autonomia regionale = frammentazione nazionale.
Approfondiamo questo argomento.
Con il friulano, come visto, non
aveva un rapporto distaccato. Lo coltivava con affetto, come successivamente
farà con altri dialetti: il romanesco (Ragazzi di vita, Una vita
violenta, Accattone), il napoletano (Decameron), il lucano,
il calabrese, l’abruzzese (Vangelo secondo Matteo) e le lingue e i
dialetti africani e orientali. Ne paventava la fine, anzi, la preannunciava. E
così gli pareva imminente la fine di ogni civiltà contadina e artigiana in ogni
parte del mondo. Nei suoi viaggi in Africa e in Oriente lamentava come ogni
cultura e, in particolare, ogni lingua venisse sopraffatta dal modello
occidentale.
Si accostava a qualsiasi dialetto
come ci si accosta a una lingua straniera; non come a un espediente letterario
o formale, da sfruttare per aggiungere «colore», ma con il rispetto che si
riserva a una cultura da difendere e salvare dall’aggressione di una barbarie
massificata.
Durante la guerra, quando era ancora
residente in Friuli, aprì una scuola, fatta subito chiudere dal Provveditorato
di Udine. Perciò le lezioni continuarono in privato. Gli alunni apprendevano a
scrivere versi in italiano e in friulano. All’interno di un sistema scolastico
«purista», come quello italiano, Pasolini sfidava i luoghi comuni, secondo cui
il dialetto possono usarlo solo i filologi. Fondò appunto una specie di
laboratorio linguistico, l’«Academiuta di
Lenga Furlana» e mentre continuava a registrare gli idiomi locali durante
lunghe uscite in bicicletta, curioso di approfondire le sue conoscenze, sempre
di più si avvicinava alle posizioni dell’autonomia friulana.
A Roma, nel 1950, inseritosi
prepotentemente nelle povere e degradate periferie, apprese subito il romanesco
dei ragazzi di strada e quello degli emigrati meridionali, non quello dei
cultori e dei poeti dialettali locali.
Quando si accorgerà che anche
nelle periferie romane non si parlava più il romanesco genuino dei Ragazzi
di vita e di Una vita violenta, abbandonerà il progetto dei romanzi di
borgata a cui aveva continuato a lavorare fino ai primi anni ’60, perfezionando
le espressioni gergali, con la «consulenza» dei ragazzi che frequentava. Dei
personaggi di Petrolio nessuno parlerà il dialetto perché, con la
televisione, ovunque si era imposto l’italiano degli –ismi, degli –isti e delle
–enze. Accattone sarà l’ultima opera contaminata col dialetto. Nel Decameron
farà parlare napoletano ai suoi personaggi, ma, eccezione, è solo un espediente
stilistico. A Gennariello, lettore ideale di alcuni articoli del ’75 (Lettere
luterane), tenta di restituire la memoria della cultura a cui apparteneva.
La perdita della speranza
nell’ultimo Pasolini si percepisce anche nelle sue considerazioni
sulla lingua e sulla possibilità di utilizzarla a fini
ricreativi. Egli vedeva l’italiano contemporaneo sempre più unitario per merito
della televisione, dei giornali e delle infrastrutture, e con un nuovo centro
linguistico, non più letterario, ma tecnico o tecnologico, che individuava in
Milano. Una lingua omologata e omologante alla quale si poteva opporre il senso
profondo della lingua latina o il senso vero ed esistenziale di quella
dialettale. La sua idea di lingua latina esprimeva proprio un senso di
opposizione all’appiattimento linguistico industriale. Era favorevole infatti
all’insegnamento del latino nelle medie ma solo attraverso una riforma
radicale della scuola. Era convinto infatti che il latino che si insegna a
scuola sia un’offesa alla tradizione, frutto del perbenismo piccolo-borghese e
accademico. Sotto tutta la cultura dominante, aleggia questo latino piccolo e
privilegio di cultura, frutto della scelta della classe dirigente che non vuole
difendere il passato ma solo in definitiva ridurlo ai minimi termini, se non
perfino banalizzarlo. Perché invece, studiare il latino a scuola equivale
radicalmente ad altro, rispetto alla cultura di massa. Pasolini sentiva un
senso profondo nei confronti del passato, cioè egli era per conoscere e amare
il nostro passato, contro la ferocia speculativa del nuovo capitalismo, che non
ama nulla, non rispetta nulla, non conosce nulla.
Il latino ed il
dialetto come difesa per non abiurare il proprio modello culturale e umano, in
antitesi al nuovo modello aziendale, industriale, televisivo che, essendo la
classe dominante a creare e a volere, tende ad omologare. Codici linguistici
come forma di resistenza contro l’omologazione culturale imperante, finalizzata
a “consumare” meglio. Codici linguistici che la nuova cultura industriale
sapeva di dover mettere da parte per uniformare i cittadini al linguaggio dei
consumatori, educati in primis dal linguaggio televisivo.
Dice infatti
Pasolini:
"La cultura che
essi producono, essendo di carattere tecnologico e strettamente pragmatico,
impedisce al vecchio «uomo» che è ancora in loro di svilupparsi. Da ciò deriva
in essi una specie di rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali. La
responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certo in
quanto «mezzo tecnico», ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa.
Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro
elaboratore di messaggi. È il luogo dove si fa concreta una mentalità che
altrimenti non si saprebbe dove collocare. È attraverso lo spirito della
televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere.
Non c’è dubbio, (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre…".
Non c’è dubbio, (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre…".
Beniamino
Colnaghi
Su Pasolini sono
presenti sul blog numerosi articoli, tra i quali proponiamo:
Il caso Pier Paolo Pasolini: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2016/11/il-caso-pier-paolo-pasolini-5-marzo1922.htmlIl dubbio in Pasolini: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2015/11/pier-paolo-pasolini-applaudono-soltanto.html
Un paese di temporali e primule: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2013/12/un-paese-di-temporali-e-di-primule-le.html
lunedì 23 settembre 2019
I careghéte, i seggiolai e impagliatori della Conca Agordina
La chiesa di Rivamonte e, sotto, alcuni murales dipinti sulle case del paese
Mi
sono recato a Rivamonte Agordino (BL), paese che ha dato i natali alla nonna
materna, per rivedere i luoghi, dopo alcuni anni di assenza, e incontrare un
paio di cugine di mia madre che risiedono lassù. Ho approfittato dell’occasione
per scattare alcune fotografie di nuovi murales dipinti su alcune case private e
raccogliere ulteriori informazioni sull’antico mestiere del careghéta, svolto da generazioni di
uomini e intere famiglie del posto.
Un
tempo l’importanza di Rivamonte Agordino era legata in particolare all’attività
estrattiva che si svolgeva nelle miniere di Valle Imperina, situate nel
fondovalle. Le prime testimonianze dell’operatività delle miniere risalgono all’inizio
del Quattrocento, sotto il dominio della Serenissima; un sito, quello di Valle
Imperina che fu sicuramente il più importante del Veneto per l’estrazione della
pirite cuprifera e la produzione di rame e che portò allo sviluppo di un vero e
proprio villaggio minerario, tuttora visibile dalla S.R. Agordina e oggetto
negli ultimi anni di un importante lavoro di recupero, che ha reso Valle
Imperina nuovamente fruibile dal pubblico come museo di archeologia industriale.
Probabilmente,
proprio la necessità di trovare un’alternativa alla dura e malsana occupazione
in miniera o di integrare in qualche modo il magro reddito, cominciò ad
espandersi, a partire dal XVI
Secolo, lo sviluppo nella parte bassa dell’Agordino, di un settore
manifatturiero particolarissimo: l’impagliatura
e la costruzione di sedie in legno. Prevalentemente provenienti dai
Comuni di Rivamonte Agordino, Gosaldo e Tiser (Secondo le testimonianze dello
storico locale, don Mosé Selle (1875-1952), si apprende che l’arte di costruire
e impagliare sedie nacque proprio a Tiser fin dal XVII secolo), i seggiolai, chiamati
“conze” o “careghéte”,
si dedicavano stagionalmente, o anche tutto l’anno per alcuni, a questo
mestiere, migrando verso i paesi e le città dell’Italia centro-nord o alla
volta di Svizzera e Francia. I bambini erano spesso coinvolti prestissimo in
questa attività, non perché fossero utili al lavoro, ma per evitare che gravassero
sul resto della famiglia che rimaneva a casa, mentre il capofamiglia era assente.
Il mestiere del seggiolaio divenne ancora più praticato verso la fine dell’800,
ovvero quando i posti da minatore iniziarono a scarseggiare ed il mestiere di seggiolaio
divenne una necessità e permise la sopravvivenza del nucleo familiare.
Un'intera famiglia intenta ad impagliare le sedie
Fare il
seggiolaio non era certo un’occupazione facile, seppur preferibile alla
miniera; i careghète erano costretti
a spostarsi da una città all’altra, a volte all’estero, trasportando gli
strumenti del mestiere e gli effetti personali in un continuo peregrinare.
L’esigenza di spostamento cozzava poi con la comodità; i seggiolai erano
costretti a limitare il peso degli oggetti personali da portare con sé, per cui
anche l’abbigliamento era ridotto all’essenziale.
Neppure
il processo di fabbricazione delle sedie era una materia semplice; innanzitutto
erano necessari gli strumenti e gli utensili adatti, prodotti principalmente
nelle zone d’origine e difficilmente reperibili in trasferta; poi servivano i
diversi tipi di legno per le differenti parti della sedia. Infine, una grande
abilità: la struttura della sedia doveva essere montata con il minimo utilizzo
di chiodi, al tempo un bene di lusso: la maggior parte delle giunture era
quindi fissata ad incastro, e doveva essere sufficientemente solida da
resistere all’utilizzo finale. Ogni conza
era geloso della propria arte, e solitamente si portava appresso dei ragazzini
affidatigli dalle famiglie di compaesani affinché apprendessero già da piccoli
i segreti della fabbricazione delle sedie. Ovviamente i piccoli apprendisti non
percepivano un salario e dovevano rinunciare alla scuola ed ai giochi per tutta
la stagione; in cambio ne traevano però la conoscenza di una mansione che in
futuro avrebbe loro permesso di sopravvivere.
Per
evitare che i segreti della lavorazione venissero carpiti da altri, o in
particolari situazioni in cui desideravano non farsi comprendere (ad esempio
durante la dominazione austriaca del Veneto nel XIX Secolo, il conza diventerà anche un’utile lingua
per i patrioti agordini), i seggiolai utilizzavano la speciale lingua di loro
invenzione, nota solamente a loro: lo “scapelamént
del conza“. Si tratta di un linguaggio in codice
tradizionalmente inventato dai seggiolai di Tiser e poi trasmesso agli altri
artigiani della Conca Agordina, assolutamente incomprensibile per chi non ne fosse a
conoscenza. Questa affascinante lingua segreta ha rischiato per
lungo tempo di scomparire ed ha fortunatamente trovato in tempi recenti
studiosi volenterosi che si sono prodigati per salvarla dall’oblio,
trascrivendola in svariate pubblicazioni ed addirittura in dizionari.
Anche
se al giorno d’oggi il mestiere del seggiolaio è stato praticamente cancellato
dalla lavorazione industriale e dall’invenzione di materiali più versatili, il
mestiere del seggiolaio non è scomparso dalle valli agordine; periodicamente
vengono organizzati corsi dai Comuni della Conca o da varie associazioni
locali, e sono tanti i giovani che, ascoltati i racconti dei nonni, desiderano
apprendere i segreti di un’arte che fa parte della tradizione culturale locale.
A Gosaldo sorge un interessante Museo Etnografico legato alla figura del seggiolaio,
mentre in tantissime manifestazioni culturali agordine si può assistere a
dimostrazioni di fabbricazione e impaglio tradizionale di sedie. Anche il Club UNESCO Agordino
e diverse attività private di Rivamonte organizzano interessanti lezioni di
impaglio alla maniera dei conze agordini.
Sempre
a Rivamonte, in località Tos, sorge il museo dei seggiolai, un
piccolo ma interessantissimo museo, dedicato all’antica tradizione del mestiere
dei conza o careghéta, in dialetto
locale. All'interno dell'area espositiva sono presenti due mostre permanenti dedicate ai seggiolai, corredate di splendide fotografie d'epoca, documenti originali, strumenti di lavoro e stanze ricostruite con mobili, abiti e oggetti tipici delle abitazioni delle Dolomiti.
Beniamino Colnaghi
mercoledì 19 giugno 2019
La
“Guerra di Libia” (1911 – 1912) fu fatale per Ernesto Aldeghi, giovane militare
nato a Verderio Superiore
Sitografia e nota
Comune di Verderio. La guerra di Libia, le lettere di alcuni militari verderiesi: http://www.comune.verderio.lc.it/verderio/zf/index.php/servizi-aggiuntivi/index/index/idtesto/73
La guerra Italo-Turca, Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Guerra_italo-turca
L'alpino Andrea Colombo: https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2018/04/verderiosuperiore-dopo-61-anni-lalpino.html
Il signor Giulio Oggioni ha scritto un volumetto dal titolo "Verderio, 1915-1918, Tre anni della nostra storia e la Prima Guerra Mondiale", all'interno del quale è contenuto un capitolo dedicato alle "Lettere dal fronte libico (1911-1912) di alcuni verderiesi". Il libretto non è stato dato alle stampe.
L’avrò
percorso centinaia di volte, il vialetto centrale del cimitero di Verderio ex
Superiore. In genere, salvo ristrutturazioni radicali ed esumazioni dovute alla
scadenza delle concessioni cimiteriali comunali, volte a creare spazio per
altre sepolture, le tombe ed i monumenti funebri più antichi, e di un certo
valore storico, sono posizionati nelle aree più vecchie dei cimiteri ed in
corrispondenza dei vialetti centrali. Difatti, la tomba dove riposa il corpo di
Ernesto Aldeghi è lì da oltre cento anni. Precisamente dal 2 aprile 1913.
Il
monumento è composto da un basamento grezzo su cui è appoggiata una colonna
spezzata in marmo bianco, che simboleggia la morte prematura di colui che è
sepolto, sulla quale sono incise le epigrafi, i dati anagrafici e la fotografia.
Il sepolcro, molto semplice, ma suggestivo, è incorniciato da una bassa
recinzione.
Ernesto
Aldeghi nacque alla Cascina Isabella di Verderio Superiore il 2 giugno 1890, da
Eugenio e Angela Mauri. Si hanno poche informazioni sul suo conto, se non
quelle riportate nei registri di stato civile del Comune di Verderio e sul monumento
funebre.
Trascorsa
l’infanzia e l’adolescenza in paese, il ragazzo venne arruolato nel servizio di
leva del Regio Esercito italiano nel marzo 1910 e, sette mesi dopo, il 29
ottobre dello stesso anno, era già sotto le armi. Il 29 ottobre 1910 furono
parecchi i giovani militari di Verderio Superiore chiamati a combattere nella breve,
ma terribile guerra Italo – Turca, conosciuta ai più come guerra di Libia.
Dopo la
battuta d’arresto di Adua, il colonialismo italiano riprese slancio negli anni
immediatamente precedenti la prima guerra mondiale. Allontanato dalla memoria
il ricordo della sconfitta con l’Etiopia, l’Italia si scoprì più convinta della
necessità e della giustezza di crearsi un impero in Africa. Mentre proseguiva
l’opera di effettiva presa di possesso delle colonie del Corno d’Africa, l’attenzione della politica e della finanza
italiana si spostò sulla Libia, a qual tempo divisa nelle due province di
Tripolitania e Cirenaica, entrambe sotto la sovranità nominale dell’Impero
ottomano.
Dopo un
acceso dibattito interno, il fronte interventista, composto da nazionalisti,
cattolici moderati e varie grandi personalità, convinte delle potenzialità
della Libia di offrire terre ai nostri contadini, riuscì infine a vincere le
diffidenze dei timorosi e l’opposizione dei socialisti. Così quando nel 1911 la
Francia estese il suo protettorato al Marocco, l’Italia decise di inviare in
Libia 35mila uomini (autunno 1911), facendo valere un accordo del 1902 che sanciva la priorità
italiana in Tripolitania e Cirenaica. La guerra fu più lunga e difficile del
previsto, poiché i turchi attuarono tattiche di guerriglia, spalleggiati dalle
tenaci popolazioni arabe locali. Per risolvere la situazione vennero inviati
altri 75mila uomini in Libia ed occupate alcune isole del Dodecaneso, nel Mar
Egeo.
In questo
contesto le operazioni militari italiane nel Dodecaneso ebbero inizio nella notte fra il 17 ed
il 18 aprile 1912, quando navi italiane tagliarono i cavi telegrafici che
univano alcune isole al continente asiatico. Il giorno 28 fu occupata l’isola
di Stampalia e il 4 maggio toccò a Rodi, l’isola più importante sia dal punto
di vista politico sia strategico. Dalle pochissime informazioni di cui si
dispone, ai combattimenti per l’occupazione di Stampalia e Rodi partecipò anche
il caporale maggiore della fanteria Ernesto Aldeghi.
Dopo l’occupazione
di alcune isole dell’Egeo, tra cui appunto Rodi, diversi corpi militari
italiani vennero spostati in Libia. Oltre che nella vasta area di Tripoli, le
truppe italiane furono mantenute in continuo stato di allarme anche nei
dintorni di Homs e del Mergèb, rinforzati con altri contingenti di fanteria, di
alpini e di bersaglieri. Altre operazioni interessarono poi la città di
Misurata e la zona di confine verso la Tunisia. Per interdire il contrabbando
di guerra proveniente dalle zone di frontiera ed al fine di dominare le carovaniere confinanti con la
Tunisia e controllarne il traffico, l'operazione fu proseguita con obiettivo
finale Zuara. Effettuate alcune ricognizioni, tutte le truppe della 5ª
divisione avanzarono lungo la linea costiera per procedere alla conquista di
Sidi Alì, che fu presa il 14 luglio. Il 6 agosto le truppe del generale Garioni
si congiunsero con la brigata del generale Tassoni, sbarcata nei pressi di
Zuara e composta dal 34º e dal 57º fanteria, da un battaglione alpini e da
alcuni reparti di artiglieria. La città venne conquistata verso la metà di
agosto del 1912.
Molto
probabilmente è in questa fase della battaglia volta a conquistare Zuara che il
nostro giovane caporale venne gravemente ferito, tanto è vero che sulla colonna
del monumento funebre viene riportato che Ernesto Aldeghi è ferito a Zuara di
Libia il 15 agosto. Non siamo in possesso di altre informazioni, se non quelle
che certificano la sua morte il giorno 1 ottobre 1912, presso l’ospedale
militare di Livorno. Questo dato è certo, perché è riportato anche sul registro
dei giovani arruolati di leva e dei combattenti presente nel Comune di
Verderio.
Trascorrono
sei mesi esatti prima che il corpo di Ernesto venga trasferito a Verderio
Superiore, ove viene inumato nel cimitero locale, nello stesso luogo ove ancora
oggi riposa. Era il 2 aprile 1913.
Il 15 giugno
dello stesso anno, il caporale maggiore della fanteria, Ernesto Aldeghi, viene
decorato della medaglia al valore militare.
Beniamino
Colnaghi
Sitografia e nota
Comune di Verderio. La guerra di Libia, le lettere di alcuni militari verderiesi: http://www.comune.verderio.lc.it/verderio/zf/index.php/servizi-aggiuntivi/index/index/idtesto/73
La guerra Italo-Turca, Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Guerra_italo-turca
L'alpino Andrea Colombo: https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2018/04/verderiosuperiore-dopo-61-anni-lalpino.html
Il signor Giulio Oggioni ha scritto un volumetto dal titolo "Verderio, 1915-1918, Tre anni della nostra storia e la Prima Guerra Mondiale", all'interno del quale è contenuto un capitolo dedicato alle "Lettere dal fronte libico (1911-1912) di alcuni verderiesi". Il libretto non è stato dato alle stampe.
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