venerdì 20 dicembre 2019

Il blog “Storia e storie di donne e uomini” augura buone feste ed un sereno anno nuovo




Filippino Lippi, "L'Annunciazione"
I lavatoi pubblici della vecchia Brianza: luoghi di lavoro e socializzazione

I lavatoi pubblici rappresentano una delle testimonianze più preziose e, in moltissimi casi, meglio conservate della nostra storia pre-industriale e della cultura contadina. Sino agli anni Cinquanta/Sessanta del secolo scorso, ossia fin quando venne portata l’acqua corrente nelle abitazioni e fino all’avvento delle lavatrici, in quasi tutti i comuni della Brianza si potevano ancora incontrare alcune donne anziane, cariche di ceste di panni, che si dirigevano verso il lavatoio pubblico.
Negli anni, parecchi di questi manufatti sono stati restaurati dalle amministrazioni comunali più sensibili e resi funzionanti; una buona parte versano ancora oggi in condizioni di abbandono, altri sono stati lasciati in stato di abbandono e nell'incuria generale, come se si trattasse di residui e inutili tracce del nostro passato.
Eppure vi fu un’età in cui la costruzione di un lavatoio coperto era percepita da una comunità come un’irrinunciabile conquista di carattere sociale. Presenti nelle città mercantili e nelle comunità più ricche sin dall’inizio dell’età moderna, in Brianza la costruzione di questi manufatti iniziò verso la metà del XIX secolo e  coincise con il lento e graduale miglioramento delle condizioni economiche delle famiglie contadine e operaie locali. Da alcuni documenti d'archivio rinvenuti a Erba, Alta Brianza, si rileva che fin dal primo trentennio dell'Ottocento nei sette comuni allora autonomi (prima che si fondessero e costituissero la città di Erba) erano presenti lavatoi pubblici, tutti annessi a fontane e con abbeveratoio per le bestie. Alcuni erano alimentati da torrenti o rogge, altri dalle sorgenti di cui il territorio era ricco.
 

Il lavatoio di Imbersago
 

Senna Comasco
 
Ravellino di Colle Brianza

Spesso, come ad esempio il caso di Verderio, Imbersago e Senna Comasco, la costruzione del lavatoio venne finanziata dalla famiglia borghese del posto, come segno di munificenza verso la comunità che amministrava.  
In assenza di fonti e vasche pubbliche le ragazze e le donne lavavano i panni lungo i corsi d’acqua, presso qualche sorgente o sulle sponde dei laghi, degli stagni e dei fossati di scolo delle acque piovane. Le donne si inginocchiavano sulle sponde erbose e sporgendo il corpo verso l’acqua sfregavano con forza gli indumenti su tavole di legno o piani di granito.
Alcune fotografie storiche di quei tempi, scattate da alcuni fotografi, mostrano in maniera cruda e reale lo sforzo compiuto da gruppi di lavandaie sulle rive dei fiumi e dei laghi oppure sui navigli milanesi per mantenersi in equilibrio. Altri documenti mostrano le diverse fasi del lavoro femminile nei lavatoi della Brianza, in quegli anni ancora ampiamente frequentati.



Come si scriveva all’inizio di questo articolo, di queste vecchie e nobili strutture ne sono rimaste poche decine in buone condizioni, grazie alla sensibilità di amministrazioni pubbliche, associazioni e singoli benefattori. In alcuni paesi il lavatoio era comodamente posizionato nel centro abitato, mentre in altre situazioni le strutture orografiche del luogo non consentirono la captazione dell’acqua in un punto centrale, e quindi il lavatoio venne costruito in aperta campagna a distanze ragguardevoli dai centri abitati.
I lavatoi venivano ovviamente costruiti in prossimità di una fonte, di una sorgente, dalle quali l’acqua veniva captata e convogliata nella grande vasca centrale in pietra. Queste nuove strutture consentivano alle lavandaie di lavorare in piedi, al riparo dal sole e dalle intemperie, essendo la maggior parte coperte. La vasca, la cui dimensione permetteva contemporaneamente il lavoro di alcune donne, era composta da un piano inclinato in pietra, sul quale, le lavandaie, con la forza delle braccia, lavavano e risciacquavano gli indumenti. Talvolta la vasca era suddivisa in due o anche tre bacini comunicanti, dei quali, quello in prossimità dell’acqua sorgiva, era destinato al risciacquo.
 

Arlate Calco


Monguzzo


Novate di Merate
 

Verdegò

Le strutture edilizie che normalmente coprono le vasche si differenziavano spesso tra loro e venivano costruite in conformità alle caratteristiche del luogo, ai materiali a disposizione, alle esigenze ed alle risorse messe in campo da chi finanziava l’opera. Rispetto ai lavatoi che ho avuto modo di visionare e fotografare, la maggior parte sono costituiti da semplici strutture aperte a pianta rettangolare ed il tetto, strutturato da capriate lignee e sorretto da pilastri in mattoni, è coperto da tegole o coppi. In alcuni casi, i lavatoi sono aperti sui quattro lati, si veda Imbersago, Vertemate e Verdegò, mentre in altri le strutture avevano uno o entrambi i due lati minori chiusi da un muro. Altri ancora, come quelli di Arlate Calco e Monguzzo, sono aperti solo su un lato.
A Verderio ex Superiore le donne che abitavano nel centro storico facevano il bucato presso il lavatoio pubblico di piazza Roma. Come si evince dalla prima fotografia pubblicata qui sotto, il piccolo lavatoio era composto da una parete di mattoni, una pensilina metallica utile a ripararsi dalla pioggia e da due piccoli lavelli in granito, alimentati dall’acqua che veniva “pescata” da un serbatoio interrato, attraverso l’azionamento di due pompe manuali. Fu cosi fino al 1895, quando la famiglia Gnecchi Ruscone fece costruire la fonte Regina, una condotta composta di tubi in ghisa che prendeva l’acqua dal laghetto di San Rocco, sito appena sopra l’ospedale di Merate, e la portava nella villa padronale di Verderio. L’acqua venne utilizzata anche per alimentare un paio di fontane che abbellivano le proprietà degli Gnecchi, un rubinetto ad uso pubblico posto di fronte al municipio ed un nuovo lavatoio a due vasche, dinnanzi al quale, nel 1902 venne costruita la nuova chiesa parrocchiale.

 Verderio, il lavatoio di piazza Roma poi demolito nei primissimi anni Sessanta 
 
 
Verderio, il lavatoio costruito nel 1895

Purtroppo, come spesso accade quando l’uomo deve occuparsi dei segni della nostra storia e delle migliori tradizioni di un territorio, tramandati da chi ci ha preceduti, troppo tardi si è presa coscienza del valore storico, culturale e sociale rappresentato da questi manufatti, parte dei quali, seppur tutelati e vincolati dalla legge, sono stati lasciati in stato di abbandono per troppo tempo, come è toccato a numerose cascine e corti della Brianza, o, ancor peggio, incautamente e frettolosamente distrutti. 

Beniamino Colnaghi   

domenica 17 novembre 2019

Leonardo Sciascia, trent'anni senza la sua lucida analisi sul nostro tempo
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Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989)
 

giovedì 14 novembre 2019

La corte pluriaziendale dell’Alta pianura asciutta(1)

di Giorgio Federico Brambilla

Nell’area lombarda la corte rappresenta senza dubbio l’immagine più tipica e riconoscibile del paesaggio agricolo. Vi è però una notevole differenza tra le corti della Bassa pianura irrigua e quella dell’Alta pianura asciutta: a sud di Milano le grandi corti sono “monoaziendali” cioè condotte direttamente dalla proprietà tramite un fattore il quale, come un capitano d’industria, governa l’azienda agricola in cui lavorano decine di contadini. A nord della città, in Brianza, le corti sono invece “pluriaziendali”, cioè condotte da più famiglie contadine, ciascuna delle quali è una piccola azienda autonoma.

Gli edifici a corte, un tempo classificati come “architettura minore”, segnano il territorio rurale e la sua evoluzione: solo di recente la storia dell’architettura li ha considerati degni di studio, in quanto portatori di un valore di testimonianza di una cultura materiale così complessa ed evoluta. Tale tipologia architettonica  è così diventata oggetto di numerosi studi che ne hanno ipotizzato origini ed evoluzioni differenti a seconda dell’ambito geografico a cui la corte si insedia. Soprattutto l’origine è molto dibattuta: se dapprima veniva esclusivamente fatta risalire al periodo della conquista romana, studi condotti da Caraci(2) negli anni Trenta la riconducono, per quanto riguarda l’area lombarda, al periodo celtico, nel quale si sarebbe sviluppato il tipo base elementare, matrice delle successive articolazioni tipologiche.
La tipologia della corte era sicuramente assai diffusa in epoca romana, quando la conquista di nuovi territori determinava un’organizzazione e una regolamentazione del paesaggio agrario, basata sulla sua suddivisione in centurie. Nel mondo romano la corte assume l’aspetto di “villa rustica”, luogo di organizzazione della produzione agricola del latifondo, dove si sviluppa uno sfruttamento dei terreni a coltura, grazie all’impiego di grandi quantità di manodopera schiavile. La tipologia stessa trova conferma nella corte monastica in periodo medievale, di cui si hanno molti esempi soprattutto nella Bassa pianura irrigua, dove la fondazione di un monastero comportava la bonifica e il dissodamento dei terreni che lo circondavano e l’instaurarsi di una produttiva attività agricola.
In merito comunque all’effettiva utilità di dimostrare una diretta origine della tipologia rurale e corte da tali antichi ascendenti forse giova ricordare la naturale tendenza dell’uomo a disporre i vari elementi della dimora quando si sente la necessità e si ha la possibilità di aumentarne il numero intorno ad un cortile quadrangolare, chiuso o aperto: così che le dimore a corte sono presenti nelle più disparate e lontane regioni della terra.

Verderio, la cascina La Salette in una foto degli anni '80

Alla fine del Seicento probabilmente non vi era ancora una grande differenza tra le dimore rurali della Bassa e dell’Alta pianura, è stato solo a seguito dei notevoli investimenti nella zona irrigua da parte dei grandi proprietari terrieri dell’epoca, residenti principalmente a Milano, che ebbe inizio la progressiva differenziazione ed evoluzione dell’agricoltura nella Bassa e quindi lo sviluppo di un sistema di conduzione delle cascine in senso capitalistico che portò all’affermazione della grande corte monoaziendale come tipologia prevalente a sud della città, mentre a nord, sull’altopiano asciutto, a causa della minore fertilità del suolo, l’agricoltura non fu soggetta al medesimo radicale e rapido sviluppo, con una conseguente più lenta e naturale evoluzione delle dimensioni delle dimore rurali dalle semplici forme settecentesche a quelle più complesse ottocentesche, con il consolidarsi della corte pluriaziendale come tipologia usuale(3).
L’evoluzione tipologica avviene per  addizione di nuovi corpi attorno alla corte centrale, tanto da portare, al suo massimo sviluppo, alla formazione di una corte chiusa completamente all’interno di un recinto fortificato. Se fino al Seicento, quindi, la tipologia maggiormente diffusa è quella più semplice, con pochi corpi disposti attorno alla corte e con un uso ancora unifamiliare, tra Settecento e Ottocento la tipologia si evolve in forme più complesse, aumentando il numero dei fabbricati che tendono alla chiusura della corte, diventando un organismo edilizio plurifamiliare.
Le modificazioni non avvengono solo a livello planimetrico, ma anche in altezza: la stragrande maggioranza degli edifici più antichi pervenuti sino a noi si presentano su due piani, un’altezza legata alla tecnica costruttiva più diffusa in ambito rurale costituita da murature portanti realizzate prevalentemente in sassi con solamente alcuni corsi in mattoni.

Verderio, la cascina Airolda, in una recente foto

Alla fine dell’Ottocento si cominciano invece a costruire normalmente edifici a tre piani per due ragioni: da un lato si ha un generale incremento demografico, e quindi una maggiore richiesta di vani d’abitazione, dall’altro, grazie alle nuove tecnologie produttive, i mattoni di laterizio diventano disponibili in grandi quantità e ad un costo decisamente inferiore rispetto al passato.
Il consolidamento dell’ordine rurale di tipo mezzadrile, soprattutto nell’altopiano, era avvenuto già a partire dal XVII secolo, ma fu dopo il periodo delle riforme avviato dal governo austriaco, il quale promosse varie iniziative per uno sfruttamento più razionale del suolo  alla metà del XVIII secolo, che l’attività agricola ebbe un impulso allo sviluppo come mai prima era accaduto.
Dal Catasto Teresiano è così possibile desumere la situazione di partenza, mentre dal confronto con il successivo rilevamento catastale, il nuovo Catasto Austriaco di metà Ottocento, evidenzia come vi sia stata una notevole crescita economica del comparto agricolo, soprattutto dove, come nel caso dell’Alta pianura asciutta, la coltivazione della vite e del gelso associata a quella dei cereali, era assai redditizia, con il conseguente consolidamento ed ampliamento delle dimore rurali.
Tra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento si assiste all’edificazione di nuove cascine e corti, caratterizzate da grandi impianti regolari, segno di una maturità psicologica che si arricchisce di un nuovo gusto per la monumentalità, come esemplificato dalle tante facciate con timpano centrale classicheggiante.
Al di là delle diversità legate al grado di evoluzione raggiunto in ciascun luogo dalla tipologia a corte, ciascun episodio è chiaramente riconducibile ad uno schema insediativo comune, caratterizzato da uno spazio collettivo centrale in cui si convogliano pratiche di vita comune e privata di più nuclei familiari, tanto da definire l’insieme come un organismo autonomo, tendente all’isolamento rispetto all’esterno. Ciò è facilmente ravvisabile nelle modalità di relazione della corte con l’esterno. Gli edifici si aprono verso l’interno con portici e loggiati, ribadendo una sorta di autocontenimento delle risorse vitali all’interno della corte stessa. I portici ed i loggiati antistanti i corpi residenziali, oltre a proteggere uomini e attrezzature dalla pioggia, sono in genere rivolti a sud proprio per catturare i raggi solari utili per l’essicazione dei prodotti della terra.
 
Verderio, l'ingresso della cascina Bergamina

La tipologia a corte è propria dell’architettura rurale e configura spazialmente la risposta ad esigenze di tipo sociale ed economico produttivo: innanzitutto a quella di non dispersione delle dimore rurali nel territorio, in modo di conseguire una sorta di “economia di scala”, legata alle necessità primarie di sussistenza. Esempio ne sia, soprattutto nell’Alta pianura lombarda, il problema dell’approvvigionamento idrico: lo scavo di un pozzo era un’opera assai ardua e onerosa, ma la presenza in ogni corte di un unico pozzo in comune risolveva l’esigenza idrica di molte unità produttive contemporaneamente.
Le corti monoaziendali della Bassa sono più note alla cultura accademica in quanto le loro maggiori proporzioni le hanno rese più appetibili agli occhi degli studiosi. Le corti pluriaziendali dell’Alta pianura asciutta sono meno conosciute e vengono spesso confuse con le altre;  sebbene normalmente di minori dimensioni queste corti sono però la testimonianza di un’organizzazione sociale basata sulla minima unità produttiva costituita dalla singola famiglia contadina, che in circa due secoli e mezzo ha formato quella mentalità microimprenditoriale che forse può contribuire a spiegare il successo industriale ed economico della Brianza, fondata nella piccola e media impresa.
Le dimore contadine dell’altopiano, pur mantenendo come elemento centrale la corte, si differenziano dalle abitazioni rurali della Bassa per le dimensioni più ridotte e per la diversa distribuzione degli edifici. Le dimensioni dei lati variano normalmente da una lunghezza di 25-30 metri ad un massimo di 60 metri; non tutti i lati della corte sono occupati da edifici, ma possono essere delimitati da un muro di cinta o di siepi.
 
La cascina Malpensata, a Verderio, meglio conosciuta come Casineta
 
Gli edifici principali sono quelli riservati alle abitazioni ed alle stalle, tra i quali non intercorre un rapporto spaziale definito a priori. L’ingresso alla corte delle cascine è solitamente collocato lungo il muro di cinta o ricavato dallo spazio esistente tra due costruzioni, mentre nei complessi posti nei centri abitati l’accesso è costituito è costituito a un androne ad arco posto nel mezzo del fabbricato che si affaccia sulla strada. Il cortile interno è semplicemente pavimentato in terra battuta o rizzata, ombreggiato da gelsi e alberi da frutto, in cui vi sono il pozzo e i servizi comuni.
Qui trovano posto le latrine (i cess), mentre il pozzo, che è sempre presente nelle cascine, lo è solo in alcuni casi nei centri abitati. Stesso discorso vale per il forno, anche se è meno frequente, e spesso manca anche nelle cascine più vicine al centro abitato. Il corpo di fabbrica delle abitazioni presenta un impianto modulare, dato da un susseguirsi di ambienti uguali: ad ogni nucleo famigliare è infatti assegnato un locale al piano terra ed uno al piano superiore.
Al piano terreno si trova la cucina, con il focolare, un ambiente molto povero e spoglio, mentre al piano superiore sono collocate le stanze con i letti.
Il corpo delle abitazioni è dunque solitamente a due piani con l’affaccio principale a sud sul cortile, facciata in cui compaiono portico, loggiato e ballatoio aggregati in diverse soluzioni compositive. Il portico è sicuramente la struttura che caratterizza la tipologia a corte: esso regola il soleggia mento degli ambienti retrostanti, funge da riparo per i prodotti agricoli e, in caso di maltempo, consente ai contadini di svolgere le proprie mansioni in un luogo riparato.
Negli esempi più semplici, al primo piano si ha il ballatoio che conduce alle camere. Nelle corti più evolute al primo piano si ha un loggiato che incrementa lo spazio disponibile all’aperto, riparato dal porticato. In quest’ultimo caso è frequente l’utilizzo del sottotetto come locale di deposito cui si accede direttamente dal loggiato con delle scale a pioli o con un ballatoio.
Nei fabbricati della fine dell’ottocento o del principio del Novecento con tre piani abitati, la soluzione normale è con un loggiato al primo piano e un ballatoio al secondo piano, raramente si ha un secondo loggiato.
I rustici sono disposti sui restanti lati e, come le abitazioni, sono suddivisi in unità modulari assegnate ciascuna ad una famiglia: al piano terra vi è la stalla e nella parte superiore il fienile. La stalla può essere ulteriormente ripartita mediante basse paretine in legno in tre spazi, per ospitare le mucche, il cavallo o l’asino, talvolta il maiale; il fienile è semplicemente costituito da campate scandite  da pilastri, separate da divisori in legno.
Nel caso di corpi di fabbrica molto lunghi, alcuni divisori fra i fienili possono essere realizzati in muratura, la quale, prolungata sopra il manto di copertura, serviva ad evitare il propagarsi delle fiamme in caso di incendi; il fronte sul cortile è aperto, mentre il lato posteriore è chiuso con stuoie in paglia di segale o con dei pannelli di legno a listelli o tavole verticali oppure, a partire dall’Ottocento, con grigliati di mattoni. 

Note
1.     Articolo apparso sul periodico la curt, a cura dell’Associazione Amici della Storia della Brianza, N. 10 – settembre 2017

2.      G. Caraci, Le “corti” lombarde e l’origine della “corte”, in “Memorie” R Società Geografica Italiana, n. XVII, Roma, 1932.

3.     Cfr. A. Pecora, La corte padana, in G. Barbieri, L. Gambi, “La casa rurale in Italia”, Firenze, 1970, p. 239.

Sitografia



 

martedì 5 novembre 2019

La struggente e desolante bellezza autunnale della "Fontana di Meleagro" a Verderio

La cosiddetta Fontana di Meleagro venne commissionata dal maestro e compositore Vittorio Gnecchi Ruscone e realizzata verso la fine degli anni Venti del Novecento. Venne probabilmente pensata e progettata per dare continuità ai parchi che impreziosivano e valorizzavano la villa padronale e realizzata sul confine tra i comuni di Verderio Superiore e Paderno d'Adda (LC).
Da molti anni, dopo che gli Gnecchi decisero di dismettere il patrimonio verderiese, la fontana e l'area verde antistante versano in stato di abbandono. E non certo per "colpa" dei rovi e delle sterpaglie, che non fanno altro che occupare spazi e luoghi, dei quali l'uomo non si cura di valorizzare e munutenere. Il più pericoloso avversario della bellezza, dell'arte, della storia di molti luoghi e manufatti sparsi nella nostra meravigliosa Brianza, può diventare l'uomo, il grande predatore. Se al sentimento ed alla passione per il bello prevale l'ignoranza e la bramosia del denaro, il gioco è perso in partenza.
Le statue ed il gruppo scultoreo sono stati oggetto della predazione e del vandalismo di ladri e idioti, non possiamo chiamarli diversamente, che negli ultimi 10-15 anni hanno, a più riprese, rubato, saccheggiato, devastato tutto ciò che era possibile rubare e vandalizzare. Le fotografie che pubblico qui sotto, scattate nella mattinata del 5 novembre, sono eloquenti circa lo stato della fontana, soprattutto se comparate a quelle contenute nell'articolo pubblicato una decina d'anni fa dall'amico Marco Bartesaghi sul suo blog.
Ma l'avvento dell'autunno, con i suoi colori e con il rampicante che avvolge il manufatto, rende, a mio parere, la bellezza della fontana ancora più struggente e desolante. Bellezza che, dopo la recente acquisizione dell'area al patrimonio comunale, pone all'amministrazione pubblica di Verderio ed alla comunità tutta di interrogarsi e individuare con quali strumenti, con quali progetti credibili e praticabili e con quali risorse poter intervenire per porre fine al degrado e valorizzare un bene che è parte integrante della storia e del patrimonio culturale e monumentale di Verderio.
 
Cliccare sulle foto per ingrandirle
 





Beniamino Colnaghi

Chi volesse saperne di più e approfondire l'argomento può prendere spunto dai due post qui sotto, contenuti nel blog di Marco Bartesaghi

La fontana nascosta: http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.com/2010/05/la-fontana-nascosta-di-marco-bartesaghi.html

Il parco della fontana: http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.com/2010/05/il-parco-della-fontana-di-meleagro.html

mercoledì 30 ottobre 2019

Pasolini: il dialetto e la critica alla modernità

Durante l’infanzia e l’adolescenza, a causa dei continui trasferimenti del padre, ufficiale militare, Pasolini si sposta prima a Parma, quindi a Belluno, Conegliano, Cremona e Reggio Emilia. Fondamentali per lui rimangono i soggiorni estivi a Casarsa, «… vecchio borgo… grigio e immerso nella più sorda penombra di pioggia, popolato a stento da antiquate figure di contadini e intronato dal suono senza tempo della campana». Casarsa della Delizia, paese friulano che diede i natali alla madre, incontaminato, primitivo, puro mondo campestre a cui sarà strettamente legato il suo esordio letterario e a cui emotivamente lo scrittore rimarrà legato per tutta la vita.
Nel 1942 pubblica a proprie spese un volumetto di poesie che suscita l’interesse di Gianfranco Contini, Poesie a Casarsa. La raccolta è scritta in dialetto friulano, in quella che per lui è «lingua pura per poesia»: in quel momento della storia italiana - motiverà più tardi in Passione e ideologia - «l’unica libertà rimasta pareva essere la libertà stilistica». In quello stesso anno, intanto, il padre - «antagonista e tirannico» con cui ha un rapporto conflittuale feroce e tragico - è prigioniero degli inglesi in Africa.
Dopo la fuga dalle armi, «ossessionato dall’idea di finire uncinato; ché così finivano nel Litorale Adriatico i giovani renitenti alla leva o dichiaratamente antifascisti», Pasolini trascorre i lunghi mesi dell’occupazione nazista nella cittadina friulana e nel vicino borgo di Versuta. Qui, in casa, con mezzi di fortuna, organizza una scuola gratuita per pochissimi alunni, mentre continua ad occuparsi del recupero del dialetto friulano con un gruppo di amici. Nel 1944 esce il primo di due quaderni intitolati Stroligut di cà de l’aga - il primo documento dell’attività del gruppo che nel febbraio del 1945 fonderà l’Academiuta di Lenga Furlana.
Nell’autunno di quello stesso anno, Pier Paolo si laurea con Carlo Calcaterra, con una tesi dal titolo Antologia della lirica pascoliana (introduzione e commenti). Sempre in quell’autunno, finita la guerra, torna dalla prigionia del Kenia il padre, oramai «reduce malato, avvelenato dalla sconfitta del fascismo,… distrutto, feroce, tiranno senza più potere». Il ritorno del padre, la morte del fratello e il dolore sovraumano della madre rendono questo periodo il più tragico della sua vita.
Nel frattempo, cominciano le pubblicazioni de «Il Stroligut», la rivista dell’Academiuta di Lenga Furlana e prosegue la sua attività poetica. Nel ’45 pubblica le raccolte di versi in italiano Poesie e, per le Edizioni dell’Academiuta, I diarii e nel ’46 I pianti. Gran parte dei versi scritti dal ’43 al ’49 saranno raccolti poi nel volume L’usignolo della chiesa cattolica (1958). In dialetto friulano, invece, uscirà nel ’49 Dov’è la mia patria? e nel ’53 Tal cour di un frut.
Nel 1947, sulla nuova rivista dell’Academiuta, «Quaderno Romanzo», esce un suo intervento nell’ambito del dibattito sull’autonomia del Friuli. Il ’47 è anche l’anno della «scoperta di Marx» e della sua adesione al Partito comunista - ai suoi occhi strumento per «trasformare la preistoria in storia, la natura in coscienza». Dopo un periodo d’insegnamento nella scuola media di Valvasone, nel 1949 Pier Paolo, «come in un romanzo», si sposta precipitosamente con la madre a Roma. «Per due anni - racconta Pasolini - fui un disoccupato disperato, di quelli che finiscono suicidi; poi trovai da insegnare in una scuola privata a Ciampino per ventisettemila lire al mese».

(Bologna, 5 marzo 1922 - Roma, 2 novembre 1975) 

 
La posizione di Pier Paolo Pasolini nei confronti del dialetto ha una duplice motivazione: una affettivo-romantica, legata al carattere bucolico dell’entourage familiare contadino della madre; l’altra politica, di opposizione al paradigma che recita: dialetto = autonomia regionale = frammentazione nazionale.
Approfondiamo questo argomento.
Con il friulano, come visto, non aveva un rapporto distaccato. Lo coltivava con affetto, come successivamente farà con altri dialetti: il romanesco (Ragazzi di vita, Una vita violenta, Accattone), il napoletano (Decameron), il lucano, il calabrese, l’abruzzese (Vangelo secondo Matteo) e le lingue e i dialetti africani e orientali. Ne paventava la fine, anzi, la preannunciava. E così gli pareva imminente la fine di ogni civiltà contadina e artigiana in ogni parte del mondo. Nei suoi viaggi in Africa e in Oriente lamentava come ogni cultura e, in particolare, ogni lingua venisse sopraffatta dal modello occidentale. 
Si accostava a qualsiasi dialetto come ci si accosta a una lingua straniera; non come a un espediente letterario o formale, da sfruttare per aggiungere «colore», ma con il rispetto che si riserva a una cultura da difendere e salvare dall’aggressione di una barbarie massificata.
Durante la guerra, quando era ancora residente in Friuli, aprì una scuola, fatta subito chiudere dal Provveditorato di Udine. Perciò le lezioni continuarono in privato. Gli alunni apprendevano a scrivere versi in italiano e in friulano. All’interno di un sistema scolastico «purista», come quello italiano, Pasolini sfidava i luoghi comuni, secondo cui il dialetto possono usarlo solo i filologi. Fondò appunto una specie di laboratorio linguistico, l’«Academiuta di Lenga Furlana» e mentre continuava a registrare gli idiomi locali durante lunghe uscite in bicicletta, curioso di approfondire le sue conoscenze, sempre di più si avvicinava alle posizioni dell’autonomia friulana.
A Roma, nel 1950, inseritosi prepotentemente nelle povere e degradate periferie, apprese subito il romanesco dei ragazzi di strada e quello degli emigrati meridionali, non quello dei cultori e dei poeti dialettali locali.
Quando si accorgerà che anche nelle periferie romane non si parlava più il romanesco genuino dei Ragazzi di vita e di Una vita violenta, abbandonerà il progetto dei romanzi di borgata a cui aveva continuato a lavorare fino ai primi anni ’60, perfezionando le espressioni gergali, con la «consulenza» dei ragazzi che frequentava. Dei personaggi di Petrolio nessuno parlerà il dialetto perché, con la televisione, ovunque si era imposto l’italiano degli –ismi, degli –isti e delle –enze. Accattone sarà l’ultima opera contaminata col dialetto. Nel Decameron farà parlare napoletano ai suoi personaggi, ma, eccezione, è solo un espediente stilistico. A Gennariello, lettore ideale di alcuni articoli del ’75 (Lettere luterane), tenta di restituire la memoria della cultura a cui apparteneva. 

La perdita della speranza nell’ultimo Pasolini si percepisce anche nelle sue considerazioni sulla lingua e sulla possibilità di utilizzarla a fini ricreativi. Egli vedeva l’italiano contemporaneo sempre più unitario per merito della televisione, dei giornali e delle infrastrutture, e con un nuovo centro linguistico, non più letterario, ma tecnico o tecnologico, che individuava in Milano. Una lingua omologata e omologante alla quale si poteva opporre il senso profondo della lingua latina o il senso vero ed esistenziale di quella dialettale. La sua idea di lingua latina esprimeva proprio un senso di opposizione all’appiattimento linguistico industriale. Era favorevole infatti all’insegnamento del latino nelle medie ma solo attraverso  una riforma radicale della scuola. Era convinto infatti che il latino che si insegna a scuola sia un’offesa alla tradizione, frutto del perbenismo piccolo-borghese e accademico. Sotto tutta la cultura dominante, aleggia questo latino piccolo e privilegio di cultura, frutto della scelta della classe dirigente che non vuole difendere il passato ma solo in definitiva ridurlo ai minimi termini, se non perfino banalizzarlo. Perché invece, studiare il latino a scuola equivale radicalmente ad altro, rispetto alla cultura di massa. Pasolini sentiva un senso profondo nei confronti del passato, cioè egli era per conoscere e amare il nostro passato, contro la ferocia speculativa del nuovo capitalismo, che non ama nulla, non rispetta nulla, non conosce nulla.
Il latino ed il dialetto come difesa per non abiurare il proprio modello culturale e umano, in antitesi al nuovo modello aziendale, industriale, televisivo che, essendo la classe dominante a creare e a volere, tende ad omologare. Codici linguistici come forma di resistenza contro l’omologazione culturale imperante, finalizzata a “consumare” meglio. Codici linguistici che la nuova cultura industriale sapeva di dover mettere da parte per uniformare i cittadini al linguaggio dei consumatori, educati in primis dal linguaggio televisivo.
Dice infatti Pasolini:
"La cultura che essi producono, essendo di carattere tecnologico e strettamente pragmatico, impedisce al vecchio «uomo» che è ancora in loro di svilupparsi. Da ciò deriva in essi una specie di rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali. La responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certo in quanto «mezzo tecnico», ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere.
Non c’è dubbio, (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre…".

Beniamino Colnaghi

Su Pasolini sono presenti sul blog numerosi articoli, tra i quali proponiamo:
Il caso Pier Paolo Pasolini: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2016/11/il-caso-pier-paolo-pasolini-5-marzo1922.html
Il dubbio in Pasolini: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2015/11/pier-paolo-pasolini-applaudono-soltanto.html
Un paese di temporali e primule: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2013/12/un-paese-di-temporali-e-di-primule-le.html 

lunedì 23 settembre 2019

I careghéte, i seggiolai e impagliatori della Conca Agordina

Mi sono recato a Rivamonte Agordino (BL), paese che ha dato i natali alla nonna materna, per rivedere i luoghi, dopo alcuni anni di assenza, e incontrare un paio di cugine di mia madre che risiedono lassù. Ho approfittato dell’occasione per scattare alcune fotografie di nuovi murales dipinti su alcune case private e raccogliere ulteriori informazioni sull’antico mestiere del careghéta, svolto da generazioni di uomini e intere famiglie del posto.
Un tempo l’importanza di Rivamonte Agordino era legata in particolare all’attività estrattiva che si svolgeva nelle miniere di Valle Imperina, situate nel fondovalle. Le prime testimonianze dell’operatività delle miniere risalgono all’inizio del Quattrocento, sotto il dominio della Serenissima; un sito, quello di Valle Imperina che fu sicuramente il più importante del Veneto per l’estrazione della pirite cuprifera e la produzione di rame e che portò allo sviluppo di un vero e proprio villaggio minerario, tuttora visibile dalla S.R. Agordina e oggetto negli ultimi anni di un importante lavoro di recupero, che ha reso Valle Imperina nuovamente fruibile dal pubblico come museo di archeologia industriale.
Probabilmente, proprio la necessità di trovare un’alternativa alla dura e malsana occupazione in miniera o di integrare in qualche modo il magro reddito, cominciò ad espandersi, a partire dal XVI Secolo, lo sviluppo nella parte bassa dell’Agordino, di un settore manifatturiero particolarissimo: l’impagliatura e la costruzione di sedie in legno. Prevalentemente provenienti dai Comuni di Rivamonte Agordino, Gosaldo e Tiser (Secondo le testimonianze dello storico locale, don Mosé Selle (1875-1952), si apprende che l’arte di costruire e impagliare sedie nacque proprio a Tiser fin dal XVII secolo), i seggiolai, chiamati “conze” o “careghéte”, si dedicavano stagionalmente, o anche tutto l’anno per alcuni, a questo mestiere, migrando verso i paesi e le città dell’Italia centro-nord o alla volta di Svizzera e Francia. I bambini erano spesso coinvolti prestissimo in questa attività, non perché fossero utili al lavoro, ma per evitare che gravassero sul resto della famiglia che rimaneva a casa, mentre il capofamiglia era assente. Il mestiere del seggiolaio divenne ancora più praticato verso la fine dell’800, ovvero quando i posti da minatore iniziarono a scarseggiare ed il mestiere di seggiolaio divenne una necessità e permise la sopravvivenza del nucleo familiare.

Un'intera famiglia intenta ad impagliare le sedie

Fare il seggiolaio non era certo un’occupazione facile, seppur preferibile alla miniera; i careghète erano costretti a spostarsi da una città all’altra, a volte all’estero, trasportando gli strumenti del mestiere e gli effetti personali in un continuo peregrinare. L’esigenza di spostamento cozzava poi con la comodità; i seggiolai erano costretti a limitare il peso degli oggetti personali da portare con sé, per cui anche l’abbigliamento era ridotto all’essenziale.
Neppure il processo di fabbricazione delle sedie era una materia semplice; innanzitutto erano necessari gli strumenti e gli utensili adatti, prodotti principalmente nelle zone d’origine e difficilmente reperibili in trasferta; poi servivano i diversi tipi di legno per le differenti parti della sedia. Infine, una grande abilità: la struttura della sedia doveva essere montata con il minimo utilizzo di chiodi, al tempo un bene di lusso: la maggior parte delle giunture era quindi fissata ad incastro, e doveva essere sufficientemente solida da resistere all’utilizzo finale. Ogni conza era geloso della propria arte, e solitamente si portava appresso dei ragazzini affidatigli dalle famiglie di compaesani affinché apprendessero già da piccoli i segreti della fabbricazione delle sedie. Ovviamente i piccoli apprendisti non percepivano un salario e dovevano rinunciare alla scuola ed ai giochi per tutta la stagione; in cambio ne traevano però la conoscenza di una mansione che in futuro avrebbe loro permesso di sopravvivere.
 
La chiesa di Rivamonte e, sotto, alcuni murales dipinti sulle case del paese

 
 

Per evitare che i segreti della lavorazione venissero carpiti da altri, o in particolari situazioni in cui desideravano non farsi comprendere (ad esempio durante la dominazione austriaca del Veneto nel XIX Secolo, il conza diventerà anche un’utile lingua per i patrioti agordini), i seggiolai utilizzavano la speciale lingua di loro invenzione, nota solamente a loro: lo “scapelamént del conza“. Si tratta di un linguaggio in codice tradizionalmente inventato dai seggiolai di Tiser e poi trasmesso agli altri artigiani della Conca Agordina, assolutamente incomprensibile per chi non ne fosse a conoscenza. Questa affascinante lingua segreta ha rischiato per lungo tempo di scomparire ed ha fortunatamente trovato in tempi recenti studiosi volenterosi che si sono prodigati per salvarla dall’oblio, trascrivendola in svariate pubblicazioni ed addirittura in dizionari.
Anche se al giorno d’oggi il mestiere del seggiolaio è stato praticamente cancellato dalla lavorazione industriale e dall’invenzione di materiali più versatili, il mestiere del seggiolaio non è scomparso dalle valli agordine; periodicamente vengono organizzati corsi dai Comuni della Conca o da varie associazioni locali, e sono tanti i giovani che, ascoltati i racconti dei nonni, desiderano apprendere i segreti di un’arte che fa parte della tradizione culturale locale. A Gosaldo sorge un interessante Museo Etnografico legato alla figura del seggiolaio, mentre in tantissime manifestazioni culturali agordine si può assistere a dimostrazioni di fabbricazione e impaglio tradizionale di sedie. Anche il Club UNESCO Agordino e diverse attività private di Rivamonte organizzano interessanti lezioni di impaglio alla maniera dei conze agordini.
Sempre a Rivamonte, in località Tos, sorge il museo dei seggiolai, un piccolo ma interessantissimo museo, dedicato all’antica tradizione del mestiere dei conza o careghéta, in dialetto locale. All'interno dell'area espositiva sono presenti due mostre permanenti dedicate ai seggiolai, corredate di splendide fotografie d'epoca, documenti originali, strumenti di lavoro e stanze ricostruite con mobili, abiti e oggetti tipici delle abitazioni delle Dolomiti.
Beniamino Colnaghi
Sitografia e bibliografia
 
Enrico Stalliviere, Storie di conze e gaburi (Storie di seggiolai e aiutanti), 2012.

mercoledì 19 giugno 2019

La “Guerra di Libia” (1911 – 1912) fu fatale per Ernesto Aldeghi, giovane militare nato a Verderio Superiore

L’avrò percorso centinaia di volte, il vialetto centrale del cimitero di Verderio ex Superiore. In genere, salvo ristrutturazioni radicali ed esumazioni dovute alla scadenza delle concessioni cimiteriali comunali, volte a creare spazio per altre sepolture, le tombe ed i monumenti funebri più antichi, e di un certo valore storico, sono posizionati nelle aree più vecchie dei cimiteri ed in corrispondenza dei vialetti centrali. Difatti, la tomba dove riposa il corpo di Ernesto Aldeghi è lì da oltre cento anni. Precisamente dal 2 aprile 1913.
Il monumento è composto da un basamento grezzo su cui è appoggiata una colonna spezzata in marmo bianco, che simboleggia la morte prematura di colui che è sepolto, sulla quale sono incise le epigrafi, i dati anagrafici e la fotografia. Il sepolcro, molto semplice, ma suggestivo, è incorniciato da una bassa recinzione.     

 
 
 
Ernesto Aldeghi nacque alla Cascina Isabella di Verderio Superiore il 2 giugno 1890, da Eugenio e Angela Mauri. Si hanno poche informazioni sul suo conto, se non quelle riportate nei registri di stato civile del Comune di Verderio e sul monumento funebre.
Trascorsa l’infanzia e l’adolescenza in paese, il ragazzo venne arruolato nel servizio di leva del Regio Esercito italiano nel marzo 1910 e, sette mesi dopo, il 29 ottobre dello stesso anno, era già sotto le armi. Il 29 ottobre 1910 furono parecchi i giovani militari di Verderio Superiore chiamati a combattere nella breve, ma terribile guerra Italo – Turca, conosciuta ai più come guerra di Libia. 

Dopo la battuta d’arresto di Adua, il colonialismo italiano riprese slancio negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale. Allontanato dalla memoria il ricordo della sconfitta con l’Etiopia, l’Italia si scoprì più convinta della necessità e della giustezza di crearsi un impero in Africa. Mentre proseguiva l’opera di effettiva presa di possesso delle colonie del Corno d’Africa,  l’attenzione della politica e della finanza italiana si spostò sulla Libia, a qual tempo divisa nelle due province di Tripolitania e Cirenaica, entrambe sotto la sovranità nominale dell’Impero ottomano.
Dopo un acceso dibattito interno, il fronte interventista, composto da nazionalisti, cattolici moderati e varie grandi personalità, convinte delle potenzialità della Libia di offrire terre ai nostri contadini, riuscì infine a vincere le diffidenze dei timorosi e l’opposizione dei socialisti. Così quando nel 1911 la Francia estese il suo protettorato al Marocco, l’Italia decise di inviare in Libia 35mila uomini (autunno 1911), facendo valere un accordo del 1902 che sanciva la priorità italiana in Tripolitania e Cirenaica. La guerra fu più lunga e difficile del previsto, poiché i turchi attuarono tattiche di guerriglia, spalleggiati dalle tenaci popolazioni arabe locali. Per risolvere la situazione vennero inviati altri 75mila uomini in Libia ed occupate alcune isole del Dodecaneso, nel Mar Egeo.


In questo contesto le operazioni militari italiane nel Dodecaneso ebbero inizio nella notte fra il 17 ed il 18 aprile 1912, quando navi italiane tagliarono i cavi telegrafici che univano alcune isole al continente asiatico. Il giorno 28 fu occupata l’isola di Stampalia e il 4 maggio toccò a Rodi, l’isola più importante sia dal punto di vista politico sia strategico. Dalle pochissime informazioni di cui si dispone, ai combattimenti per l’occupazione di Stampalia e Rodi partecipò anche il caporale maggiore della fanteria Ernesto Aldeghi.
Dopo l’occupazione di alcune isole dell’Egeo, tra cui appunto Rodi, diversi corpi militari italiani vennero spostati in Libia. Oltre che nella vasta area di Tripoli, le truppe italiane furono mantenute in continuo stato di allarme anche nei dintorni di Homs e del Mergèb, rinforzati con altri contingenti di fanteria, di alpini e di bersaglieri. Altre operazioni interessarono poi la città di Misurata e la zona di confine verso la Tunisia. Per interdire il contrabbando di guerra proveniente dalle zone di frontiera ed al fine  di dominare le carovaniere confinanti con la Tunisia e controllarne il traffico, l'operazione fu proseguita con obiettivo finale Zuara. Effettuate alcune ricognizioni, tutte le truppe della 5ª divisione avanzarono lungo la linea costiera per procedere alla conquista di Sidi Alì, che fu presa il 14 luglio. Il 6 agosto le truppe del generale Garioni si congiunsero con la brigata del generale Tassoni, sbarcata nei pressi di Zuara e composta dal 34º e dal 57º fanteria, da un battaglione alpini e da alcuni reparti di artiglieria. La città venne conquistata verso la metà di agosto del 1912.
 
Molto probabilmente è in questa fase della battaglia volta a conquistare Zuara che il nostro giovane caporale venne gravemente ferito, tanto è vero che sulla colonna del monumento funebre viene riportato che Ernesto Aldeghi è ferito a Zuara di Libia il 15 agosto. Non siamo in possesso di altre informazioni, se non quelle che certificano la sua morte il giorno 1 ottobre 1912, presso l’ospedale militare di Livorno. Questo dato è certo, perché è riportato anche sul registro dei giovani arruolati di leva e dei combattenti presente nel Comune di Verderio.
Trascorrono sei mesi esatti prima che il corpo di Ernesto venga trasferito a Verderio Superiore, ove viene inumato nel cimitero locale, nello stesso luogo ove ancora oggi riposa. Era il 2 aprile 1913.
Il 15 giugno dello stesso anno, il caporale maggiore della fanteria, Ernesto Aldeghi, viene decorato della medaglia al valore militare. 

Beniamino Colnaghi

Sitografia e nota

Comune di Verderio. La guerra di Libia, le lettere di alcuni militari verderiesi: http://www.comune.verderio.lc.it/verderio/zf/index.php/servizi-aggiuntivi/index/index/idtesto/73

La guerra Italo-Turca, Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Guerra_italo-turca

L'alpino Andrea Colombo: https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2018/04/verderiosuperiore-dopo-61-anni-lalpino.html

Il signor Giulio Oggioni ha scritto un volumetto dal titolo "Verderio, 1915-1918, Tre anni della nostra storia e la Prima Guerra Mondiale", all'interno del quale è contenuto un capitolo dedicato alle "Lettere dal fronte libico (1911-1912) di alcuni verderiesi". Il libretto non è stato dato alle stampe.