mercoledì 14 dicembre 2016

L'utopia di vendere libri e diffondere cultura
La nuova sede della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli a Milano
 
Il libro è uno strumento fantastico di conoscenza dotato di 
 una sua fisicità. Leggere un libro è diventato un gesto
rivoluzionario. Significa rimanere soli con se stessi, fare
 fatica. Ma è anche un investimento per stare meglio al mondo.
Carlo Feltrinelli
 
Feltrinelli ha aperto a Milano, proprio a ridosso di Porta Volta, lungo il tracciato delle antiche Mura Spagnole(1), la nuova sede della Fondazione che porta il nome di Giangiacomo Feltrinelli, il fondatore della casa editrice, morto sotto un traliccio dell'alta tensione a Segrate il 14 marzo 1972.
 
Giangiacomo Feltrinelli e Fidel Castro
 
La nuova sede, progettata da due architetti svizzeri, potrebbe essere assimilata alla struttura di una cascina lombarda, lunga e stretta, di vetro e cemento, che con la sua figura orizzontale sembra sfidare l'altezza e la maestosità dei grattacieli di Porta Garibaldi.
Nei sotterranei della nuova sede si snodano 12 chilometri di archivi, un milione e mezzo di carteggi, 260 mila libri, 16 mila riviste e molto altro ancora. E poi su, dal piano terreno, che ospita la libreria, fino ad arrivare al quinto piano, dove è stata realizzata la grande sala lettura, dominata dal sole e dal drappo rosso della Comune di Parigi, datato 2 gennaio 1871, acquistato da Giangiacomo Feltrinelli in persona.
 
La nuova sede Feltrinelli
 
Nelle intenzioni degli amministratori della Fondazione, la nuova sede di viale Pasubio dovrà diventare un centro di aggregazione culturale della comunità urbana milanese, vivace e collaborativo nei confronti delle istituzioni culturali pubbliche e private che operano sul territorio lombardo e nazionale. Grazie alle soluzioni architettoniche adottate, gli spazi della Fondazione si presteranno a essere utilizzati per realizzare convegni, incontri, corsi, rassegne cinematografiche, letture, mostre, ascolto di musica dal vivo, installazioni  artistiche,  forme  di  arte  partecipata,  laboratori  didattici. Inoltre, in viale Pasubio la presenza del punto vendita libreria consentirà l’organizzazione di iniziative congiunte.

Note
1. Mura, porte e pusterle di Milano: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2013/01/vecchie-storie-di-milano-la-pusterla.html

mercoledì 7 dicembre 2016

Archivio Storico Ricordi

Dal 5 dicembre l'Archivio Storico Ricordi è entrato in Rete. Da tale data sono online, sulla nuova piattaforma digitale www.archivioricordi.com, visibili a tutti, migliaia di documenti riguardanti ritratti, figurini, bozzetti e scenografie che vennero predisposti per la messa in scena delle opere liriche, da Rossini a Verdi a Puccini. Alla prima immissione in Rete, nel 2017 verranno inserite progressivamente lettere e corrispondenze dell'editore Giulio Ricordi con artisti e personaggi della lirica. L'anno successivo, il 2018, saranno poi inserite fotografie e manifesti  che hanno promosso la divulgazione delle opere.
L'obiettivo è quello di rendere gradualmente disponibile online tutto il patrimonio custodito da Archivio Storico Ricordi e dare la possibilità ai non musicologi, soprattutto ai giovani di tutto il mondo, di avvicinarsi alla lirica ed alla musica classica.
La casa editrice Ricordi, fondata a Milano da Giovanni Ricordi nel 1808, ha influenzato la storia musicale e culturale dell'Italia e dell'Europa. Ha pubblicato le opere dei cinque più grandi compositori lirici in Italia, e tra i primi al mondo: Gioachino Rossini, Gaetano Donizetti, Vincenzo Bellini, Giuseppe Verdi e Giacomo Puccini. Nel 1888 prese le redini della casa editrice di famiglia Giulio Ricordi, che le mantenne sino al 1912, anno della sua morte. Con lui Casa Ricordi raggiunse l'apice della fortuna e della fama. Nei primi anni del Novecento aprì diverse succursali della casa editrice, allargando in questo modo il suo raggio di azione nel mondo.
 
Il Teatro alla Scala di Milano e, sulla sinistra della foto, la statua di Giulio Ricordi

sabato 3 dicembre 2016

I proverbi della medicina popolare in Brianza

Come si possono definire i proverbi? Aforismi popolari? Sentire diffuso in forma ermetica? Modi di dire e pensare tramandati oralmente di generazione in generazione? Pillole di saggezza basate sull’esperienza e sulla perspicacia umana? Certamente, per capire il senso e la morale dei proverbi bisognerebbe conoscere e capire la cultura da cui provengono. Un dizionario definisce il proverbio “breve detto, di origine popolare, che esprime una norma, un pensiero, una ammonizione desunta dall’esperienza” (De Mauro). Lo scrittore e filologo Niccolò Tommaseo disse che “se tutti si potessero raccogliere e sotto certi capi ordinare i Proverbi italiani e i Praverbi d'ogni popolo, d'ogni età, colle varianti d' immaginazioni e di concetti, questo, dopo la Bibbia, sarebbe il libro più gravido di pensieri.”
Seppur oggi si è pienamente immersi nella società della comunicazione di massa, non sempre l’individuo sente il bisogno di ascoltare lunghi discorsi o noiosi consigli per convincersi della cosa giusta da fare. Un proverbio appropriato induce a pensare, aiuta a capire e può spingere a fare ciò che è giusto. Nei tempi andati, alcune categorie di persone erano ritenute sagge e colte perché avevano buona dialettica e conoscenza di fatti della vita o citavano proverbi che aiutassero la gente comune a disbrigarsi in faccende piuttosto complicate. E poi: come e quando va usato un proverbio? Dipende sia dall’argomento che dall’uditorio. Un argomento può perdere di efficacia se si fa un uso sbagliato dei proverbi. E dato che in alcune culture l’uso dei proverbi è una parte importante della conversazione, chi li usa a sproposito può dare agli altri una cattiva impressione di sé. Nella Bibbia si legge che il re Salomone, famoso per la sua saggezza, il suo sapere e la sua diplomazia, conosceva 3.000 proverbi. Naturalmente i proverbi biblici erano “divinamente ispirati” e ritenuti sempre veritieri. 


Ognuno di noi, nella propria vita, si è imbattuto in qualche proverbio, citato soprattutto da persone anziane. In alcuni casi ci siamo immedesimati e riconosciuti nel senso stesso del proverbio, apprezzandone l’acuta corrispondenza. Altre volte ne abbiamo rifiutato l’accostamento.
I proverbi sono una miniera di norme e valori sociali. Per esempio, il potere della parola è messo ben in risalto dal proverbio Uno scivolone con la lingua è peggio di uno scivolone con il piede. La lingua, se usata in modo sbagliato, può effettivamente causare gravi danni. Lo notiamo soprattutto in questi tempi, a causa dell’uso sconsiderato e volgare che spesso si fa dei social media. Invece, se è tenuta sotto controllo, la lingua può davvero contribuire alla pace, come è attestato dal detto In presenza della lingua, i denti non litigano. Vale a dire che le questioni si possono risolvere amichevolmente fra i contendenti, parlandone. E anche se questo non funziona, l’abile uso della lingua nel cercare una soluzione può placare un’accesa disputa.

Nel campo della salute, la cura degli acciacchi e delle malattie era compito incontrastato della anziane di casa, depositarie di una tradizione secolare, esperte conoscitrici delle virtù terapeutiche delle piante, abili manipolatrici di articolazioni e muscoli, giustaoss. Era il campo d’azione di una medicina del popolo che per secoli era stato l’unico modo di cura delle malattie. Da sempre tra i ceti più umili delle società rurali, che costituivano la gran parte della popolazione del contado e dei centri rurali a nord di Milano, la ricerca di aiuto e di assistenza in caso di malattia s’indirizzava alle tradizioni tramandate di generazione in generazione e ai rimedi conosciuti e usati dalle donne. Questa “medicina del popolo” era una medicina semplice, che rispecchiava le virtù medicinali delle erbe che i contadini trovavano nei campi o coltivavano negli orti; era una medicina povera, come le risorse impiegate e le pratiche utilizzate da un’utenza non dissimile; era una medicina umile.
La salute, quindi, prima di tutto. Cap primm ghe vör la salüt (Per prima cosa ci vuole la salute), dicevano, e aggiungevano La salüt chi ghe l’ha, l’è un tesor che non se sa, oppure anche Un puerett san, l’è sciur a metà (Un povero sano è un ricco a metà). Poi c’erano i detti per conservare la salute e vivere bene: Se te voeret diventà vecc, mongia al colt e dorma al frecc (Se vuoi diventare vecchio, mangia al caldo e dormi al freddo), ed anche Per stà begn, ciapa ul munt traqual ‘al vegn (Per stare bene prendi le cose come vengono). Le donne anziane raccontavano ai giovani nipoti una filastrocca che trasmetteva loro sani principi di vita: A lecc prest la sira / sü dal lecc prest la matina / poch emusiun / e tanti urasiun. / Mai pensach al duman / fa cünt in de la Pruvidensa, / ma pussè de tutt / stà indrèe in del mangià (A letto presto la sera / alzarsi preso il mattino / poche emozioni / e tante preghiere / Mai pensare al domani / confida nella Provvidenza / ma soprattutto / non mangiare troppo).


Nei tempi passati, per la gran parte dei contadini reperire il cibo o mangiare a sufficienza non erano certo operazioni così scontate. Tanto è vero che i nostri vecchi lamentavano il fatto che El sacch voj al stà minga in peè (Il sacco vuoto non sta in piedi) e Dieta e brod lung ménen l’om a l’alter mund, (Dieta e brodo allungato conducono l’uomo all’altro mondo).
Impegnata da sempre nella lotta contro le malattie, la famiglia brianzola era restia a rivolgersi alla medicina scientifica, preferendo ricorrere invece con grande fiducia alla medicina popolare, quella empirica del popolo. La scarsa propensione per la “medicina dei dottori” era dovuta ad alcuni motivi, tra i quali: quello storico, poiché sino ad oltre la metà dell’Ottocento il medico era scarsamente presente nei paesi più piccoli e ancor meno nell’ambiente rurale; quello economico, perché il medico si doveva pagare e ciò era il più delle volte impossibile all’umile gente dei borghi e delle campagne; il terzo motivo era culturale, in quanto del medico ci si fidava poco, mentre al contrario c’era una grande fiducia nei rimedi della tradizione medica popolare, i medegòss, cioè i rimedi empirici realizzati utilizzando le proprietà medicamentose di piante o di altri prodotti la cui efficacia nel determinare la guarigione era indiscussa. La diffidenza nei medici era ben riassunta da un proverbio molto citato: Préet, dutur e aucàt / mèi pèrdi che truài (Preti, medici e avvocati / meglio perderli che trovarli)[1]. Ecco allora spiegato l’uso delle polentine bollenti di linosa nelle affezioni broncopolmonari, gli infusi di camomilla e i fomenti per il raffreddore, le frizioni con l’aglio o la cipolla nei geloni: rimedi riscaldanti in affezioni da freddo. O ancora la fredda lama della falce per le punture d’insetto, le fresche foglie di verza, il miele o l’olio per le scottature e le contusioni, l’infuso di malva o di tiglio per le detossicazioni interne: rimedi rinfrescanti per le calde infiammazioni esterne o interne. 


Si era convinti che Con l’acqua e l’erba di praa, se cura tucc i maa (Con l’acqua e l’erba di prato si curano tutti i mali) oppure che Ghe minga erba che guarda in sù, che la gabia no la sua virtù (Non c’è erba che non abbia le sue proprietà medicinali) e La malva tucc i maa i a calma (La malva calma tutti i mali) oppure Ch’el rimedi lì l’è sta una scua (Quel rimedio è stato una scopa, cioè ha spazzato via tutti i mali).
I vecchi brianzoli conoscevano bene quali erano i nemici della salute, da cui stare alla larga. Vino, fumo e donne hanno generato i seguenti proverbi: Bacch, tabacch e Vener regunden l’om in scénder (Bacco, tabacco e Venere riducono l’uomo in cenere) e Per vif son, ghe vör tonta papa, pöca pipa e mea pepa (Per vivere sani ci vuole tanto cibo, poco fumo e niente donne) e ancora El vin e i donn trann allari el coo de l’om (Il vino e le donne fan perdere la testa all’uomo). Anche allora c’era la categoria degli scansafatiche, di quelli che avevano la Canèta de vèder, ossia di coloro che non volevano lavorare e piegare la schiena per far fatica perché avrebbe potuto comportare la rottura della "canèta de vèder", ossia della colonna vertebrale. Questa categoria di persone prendeva la vita come veniva, senza patemi d’animo e senza troppi doveri. I loro motti erano: La cüra del Tòt, mangià, bef e fa negòtt (La cura del Tot, mangiare, bere e non far niente), A taula se ven mai vècc (A tavola non si diventa mai vecchi), Crepa la panza ma minga roba che vanza (Scoppi la pancia ma non ci sia roba che avanzi), Ne a l'usteria ne in lecc se diventa vecc (Né in osteria né a letto si diventa vecchi) e anche Mangia bev e caga e lassa che la vaga (Mangia bevi e vai di corpo e lascia che vada). 

Quando i rimedi domestici utilizzati non ottenevano i risultati sperati, oppure ci si trovava di fronte a situazioni più gravi, le cui origini erano attribuite a fattori o entità extra-naturali, il contadino chiedeva l’intervento di guaritori specialisti, segnòn, in grado di “segnare” con appositi rituali magico-religiosi, segn, il malato. Dai semplici orzaioli al mal di fegato, dal catarro intestinale alle vere infestazioni da parassiti, dalla dolorosa sciatica ai lancinanti parossismi del fuoco di sant’Antonio, dalle semplici forme di nervosismo alle manifestazioni psichiatriche più gravi e all’epilessia, il ricorso alle pratiche dei segnòn era indispensabile.    
Quando poi né medegòsssegnòn erano in grado di riportare la salute perduta non restava che un’ultima possibilità: invocare la Madonna o i santi perché concedessero una grazia. Fallito il livello naturale e quello magico, si approdava al divino. Ciò soprattutto se il male era ritenuto d’origine soprannaturale. Gli ex-voto, offerti da devoti e “graziati” alla Madonna o ai santi per grazia ricevuta costituiscono una singolare testimonianza di questo particolare modo di vivere la malattia e la salute. In particolare gli ex-voto dipinti, le tavolette votive, consentono sovente di “osservare” le malattie all’origine delle richieste di grazia attraverso la loro raffigurazione diretta sulla tavoletta.

Beniamino Colnaghi

Note


[1] Nelle terre lombarde durante il XIX secolo le condizioni di vita e di lavoro dei contadini e degli operai delle prime fabbriche erano spesso davvero malsane e l’amministrazione statale, che con i suoi servizi avrebbe dovuto provvedere alla salute dei cittadini, era troppo spesso latitante. Di fronte ai problemi di ordine sanitario, per insufficienza di organizzazione e di mezzi, lo Stato non fu mai all’altezza della situazione: anche agli inizi del secolo, quando l’Austria, da cui dipendeva il Lombardo-Veneto, aveva creato un ordinamento sanitario ritenuto il migliore d’Italia, con una rete di ospedali, con distribuzione gratuita di medicinali ai poveri, con medici, ostetriche, farmacisti e veterinari, i risultati concreti furono assai modesti. Infatti i medici furono nel complesso quantitativamente insufficienti e spesso anche non sufficientemente preparati. Erano malpagati e la loro carica era elettiva: ciò favoriva imbrogli, prepotenze e clientelismi, a discapito dell’effettiva capacità. Si capisce perciò il perché di certi detti e la mentalità, del tutto naturale per le genti di allora, di affidarsi ai medegòss, cioè a quei rimedi che per tradizione erano capaci di guarire ogni tipo di male.
 
Bibliografia
F. Bassani, I medegozz di nost vecc, Bertoni, Merate, 1981.
A. Airoldi, A. Banfi, 500 proverbi ascoltati in Brianza, Licinium, Erba, 1975.
Vittorio Sironi, Medicina popolare in Brianza. Come si curavano un tempo, quando non c’erano le medicine, i nostri nonni, I Quaderni della Brianza, numero 30, 1983.
Vittorio Sironi, Salute e malattia nei proverbi brianzoli e milanesi, I Quaderni della Brianza, numero 38/39, 1985.