martedì 19 novembre 2013

Lev Tolstoj ed il racconto di una contadina russa

La casa editrice “Fratelli Treves” nacque a Milano nel 1861 e prese inizialmente il nome del suo fondatore, Emilio Treves, nato a Trieste nel 1834, secondogenito di Sabbato Graziadio, rabbino della comunità israelitica di Trieste. Sabbato Graziadio Treves insegnò all’università e fu considerato uno dei rabbini più liberali e illuminati del suo tempo.

Emilio, trasferitosi dopo alcuni anni a Milano, patria di quella coscienza italiana che sfociò nei moti antiaustriaci e nelle battaglie risorgimentali, aprì la sua prima tipografia in via Durini e iniziò quel lungo percorso che l’avrebbe portato ad essere uno dei più grandi editori italiani.

Treves avviò importanti collaborazioni con alcuni tra i più importanti scrittori del tempo, tra cui Edmondo De Amicis, Giovanni Verga, Camillo Boito, Emilio De Marchi, Gabriele D’Annunzio, Ada Negri e Luigi Pirandello. La casa editrice fu attiva con il proprio nome fino al 1939, anno in cui l'industriale Aldo Garzanti rilevò l'azienda, mutandone subito dopo il nome per ottemperare alle disposizioni delle leggi razziali fasciste, considerato che i Treves erano ebrei.

Circa quattro anni fa, durante una visita alla bancarella di libri usati di piazza Cairoli a Milano, comprai alcuni vecchi volumetti editi negli anni Venti e Trenta del secolo scorso. Sgualciti e ingialliti, ma di un certo interesse, almeno per me. Uno di essi, il cui titolo è La mia vita (1), edito nel 1924 dalla “Fratelli Treves Editori”, si riferisce ad un racconto dettato da una contadina russa a Tatiana Andréièvna Kouzminskaia, cognata di Lev Tolstoj. Il grande romanziere russo rivisitò il testo e ne corresse alcune parti. Accettò fin dal principio di essere il padrino di un’opera di cui non era l’autore, alla quale diede inizialmente il titolo Babia Dolia, la sorte della contadina.

Tatiana Andréièvna Kouzminskaia (La foto è nel pubblico dominio poiché il relativo copyright è scaduto).

Lo scritto fu dato dallo stesso Tostoj a Charles Salomon, amico dello scrittore, affinché lo leggesse, ne esprimesse le sue impressioni e si impegnasse a tradurlo. Il Salomon lo tenne quasi trent’anni. Quando restituì il racconto a Tolstoj, lo accompagnò da pareri favorevoli, densi di ammirazione. Scrive il Salomon nel proemio che, se una persona non ha vissuto in Russia non ha avuto occasione di “sperimentare le meravigliose qualità di narratore del contadino, di ammirare la precisione dei suoi racconti, il suo acuto senso del pittoresco, la sua finezza, la sua emozione comunicativa”. Prosegue affermando che “…il racconto è una narrazione di vita rustica e se, come io credo, è un capolavoro, è un capolavoro d’anima popolare”.

Fu solo allora che Lev Tolstoj raccontò le origini del racconto all’amico Charles.

Nelle vicinanze di Jasnaja Poljana(2) sorgeva il piccolo villaggio di Kotchaki. Le due località distavano tra loro solo una versta(3). A Kotchaki abitava una contadina di nome Anissia. Le vicissitudini della vita la portarono ad abitare per qualche anno in Siberia. Ritornata al villaggio, nel 1882 sposò il sagrestano. Anissia era sì una contadina di modeste origini, ma aveva il grande dono di saper raccontare storie vissute e fatti con grande sapienza. Fu così che Tatiana A. Kouzminskaia, sorella della moglie di Tolstoj, ne raccolse la storia e la sottopose al romanziere.
 
Jasnaja Poljana, casa museo di Tolstoj, tratta da Wikipedia.org

La storia ruota attorno a due figure centrali, Danilo e Anissia, contadini che vivono nella Grande Russia di metà Ottocento. L’uomo, dice Salomon ”non è all’altezza della donna, caso frequente in Russia e che si verifica in ogni classe sociale”. Danilo è spento, fiacco, poco comunicativo. Anissa è forte, svelta e vivace. La donna è oltremodo guidata da un netto sentimento del dovere nei confronti di suo marito e dei suoi figli. Ha conosciuto il servaggio(4) e non lo ricorda se non per osservare che in quei tempi alle giovani madri si usavano dei riguardi più tardi ignorati e che quando il padrone era forte, erano meno frequenti i furti. Anissa non sa né leggere né scrivere ma, fin dalla sua infanzia, ha frequentato la Chiesa locale. Crede all’intervento del Signore nei fatti della propria esistenza e di quelli della propria famiglia. Essa sa che Rachele, moglie di Giacobbe, non voleva essere consolata, e non ignora che il Signore ha visitato Giobbe per i suoi peccati.

Anissa, che parla un bellissimo linguaggio popolare che si può considerare come il vernacolo campagnolo della Russia centrale, conosce non solo le sacre scritture ma le sono familiari anche le usanze ereditarie dei contadini russi e le pratiche quotidiane delle donne e degli uomini dei villaggi di campagna. Quindi, questa semplice storia di metà Ottocento, raccontata da una contadina analfabeta ad una nobildonna russa, così spoglia di letteratura, è invece piena di grandezza biblica e arcaica.

Secondo il parere di Tatiana, secondogenita di Tolstoj, morta a Roma nel 1950, il racconto è “il miglior racconto popolare russo(5).

Tolstoj con la moglie, uno dei figli ed il cane (Fonte Wikipedia.org)
Questa foto è nel pubblico dominio perché il relativo copyright è scaduto.
 
A proposito di Tatiana, è interessante aprire una breve parentesi sulla sua figura, tratta dalla pagina della Tolstaja dell’enciclopedia libera Wikipedia.
 
Nata a Jasnaia Poliana nel 1864, fin da ragazza si appassionò ai problemi di pedagogia. Conobbe Maria Montessori e s’interessò al suo metodo e ne portò in Russia tutte le pubblicazioni. Dopo la Rivoluzione bolscevica fondò insieme alla madre e ad alcuni fratelli il Museo Tolstoj. Lasciò la Russia per dirigersi prima a Praga, ospite del presidente Tomaš Masaryk (vecchio amico di Tolstoj) e poi a Vienna. Si spostò quindi in Francia e infine in Italia. Con modeste risorse (Tolstoj aveva rinunciato ai diritti d’autore), trascorse gli ultimi vent'anni con la figlia a Roma, dove allestì una «camera tolstoiana», ovvero un piccolo museo dedicato al padre. Nel dicembre del 1931 il Mahatma Gandhi sostò in Italia per tre giorni: durante quel soggiorno, la visita di Tat'jana Tolstaja fu l'episodio che gli fece più piacere. Come il padre fu sempre una convinta vegetariana, contraria al tabacco e profondamente antimilitarista. Quando si ammalò, poiché desiderava morire in piena coscienza, rifiutò decisamente l'uso di narcotici.

Per chiudere sulla storia di Anissa è utile ricordare che, per tutti i motivi contenuti nel libro e per la sua purezza e bellezza, Lev Tolstoj intervenne il meno possibile sulla struttura del racconto, limitandosi a rettifiche sulla costruzione di qualche periodo e su correzioni grammaticali. Tolstoj, a giudizio del Salomon e di sua cognata, giudicò entusiasticamente il racconto. Era sempre disposto a collocare molto al di sopra dei propri scritti ciò che veniva direttamente dal popolo.

Beniamino Colnaghi
 
Note
1. La mia vita, racconto dettato da una contadina russa a T.A. Kouzminskaia, riveduto e corretto da Leone Tolstoj, Milano, Fratelli Treves Editori, 1924.
2. Vedasi il post pubblicato su questo blog il 14 ottobre 2012 dal titolo “Il meleto di Lev Tolstoj”.
3. Versta è un'antica e ormai desueta unità di misura dell’impero russo. La lunghezza di una versta è pari a 1066,8 metri.
4. Il servaggio fu abolito il 19 febbraio 1861. Prima di tale data il proprietario terriero abbandonava ai contadini una parte del suo latifondo, generalmente un terzo, contro prestazioni di lavoro. Alla liberazione, i contadini ricevettero in media, per quota parte, un sesto delle terre.
5. Lettera di Tatiana Lvovna Soukhotina-Tolstaya a Charles Salomon, Mosca, 14 dicembre 1922.

sabato 2 novembre 2013

Le tradizioni popolari brianzole nel Museo Etnografico dell’Alta Brianza di Camporeso

 
Lasciato alle spalle l’abitato di Galbiate (Lecco), la strada che conduce all’antico borgo medievale di Camporeso si snoda stretta e sinuosa nel primo tratto, per poi procedere con maggiore decisione verso la parte finale. Il luogo è veramente bello e degno di essere visitato, non fosse altro per la splendida vista sul sottostante lago di Annone e per la presenza di una falesia, apprezzata e frequentata palestra di roccia con molteplici vie attrezzate. Ai tempi d’oro della presenza contadina nella zona, Camporeso ospitò fino ad un centinaio di coloni, che ridussero progressivamente la loro presenza fino agli anni Settanta, quando gli edifici si spopolarono. I nobili Tinelli di Gorla erano proprietari della porzione più consistente del borgo, mentre la parte più a monte apparteneva all’Ospedale Fatebenefratelli di Milano. Ora, quest’ultima porzione, acquistata dal Parco del Monte Barro nel 1991, ospita la sede del museo, i locali del quale sono stati ristrutturati grazie a finanziamenti pubblici.
 
Camporeso. La chiesina
 
Il Museo Etnografico dell’Alta Brianza, inaugurato nel 2003, è un centro di ricerca e di esposizione dedicato alla vita quotidiana delle donne e degli uomini che sono vissuti e vivono in alcune aree della Brianza, soprattutto in quelle collinari.

La porta di ingresso del museo è massiccia e ben solida, costruita in legno massello, probabilmente originale. Sopra di essa si scorgono labili tracce di un dipinto popolare, del quale, mi è stato riferito da uno dei volontari che svolgono la funzione di guida, è possibile individuare i principali soggetti, secondo un modello assai diffuso: la Madonna in piedi e Giobbe seduto alla Sua sinistra. A loro veniva affidato ogni anno nel mese di maggio la buona riuscita dell’allevamento dei bachi da seta. Non a caso la prima stanza del museo è dedicata alle attività ed agli strumenti che consentivano l’allevamento dei cavalèe. Per oltre due secoli, infatti, in Brianza e nel lecchese la bachicoltura ebbe grande importanza nell’economia e nella vita quotidiana dei contadini. Tra maggio e giugno i proletari della terra, con un lavoro molto impegnativo, portato avanti spesso dalle donne, si garantivano un’utilissima entrata di denaro, dopo le ristrettezze della stagione invernale. Verso la fine dell’Ottocento la produzione subì varie flessioni, dovute anche alla concorrenza straniera, fino allo smantellamento massiccio delle filande, che davano lavoro a migliaia di ragazze e donne, dopo il 1930 e alla loro chiusura negli anni Cinquanta (1).

 
Le tavole con i bachi da seta

 
Gelso e baco da seta, erba e fieno, mais, frumento, vite sono stati i prodotti principali dell’agricoltura brianzola fra Settecento e Novecento. La seconda sala è dedicata infatti all’agricoltura attraverso l’esposizione di strumenti atti alla coltivazione ed alla raccolta dei prodotti sopraccennati. “Il granoturco, ad esempio, divenne una coltura molto importante nella nostra zona e la sua diffusione fu voluta dai contadini più che dai proprietari delle terre. Il suo valore commerciale, infatti, era scarso. Mentre era molto richiesto il frumento, cui i proprietari chiedevano che fosse destinata la maggior parte dei fondi. I contadini, però, coltivavano il granoturco sotto le viti, sulle balze delle colline… Ciò perché la loro alimentazione era imperniata su pani di cereali misti e soprattutto sulla polenta, che fino alla seconda guerra mondiale si mangiava anche tre volte al giorno” (2).

 
La gerla
 
Il luogo forse più importante della civiltà contadina e tradizionale era la stalla. Destinata alla custodia ed alla cura degli animali, soprattutto bovini, equini e suini, la stalla era anche destinata all’incontro tra le persone, in particolare nelle ore serali e nel periodo invernale. Nei suoi locali i componenti delle famiglie contadine comunicavano tra loro, venivano educati i bambini, i giovani si corteggiavano, si recitavano i rosari, venivano tramandate le credenze popolari, si svolgevano lavori artigianali. Gli animali erano un bene molto prezioso per l’economia rurale dei coloni, che li affidavano alla protezione di sant’Antonio abate (3).

 
La stalla

Nel museo la stalla si apre sul portico, sotto il quale sono esposti i carri ed i mezzi usati per il trasporto, nonché le bardature per buoi e cavalli. Prima della meccanizzazione e della diffusione del benessere, che portò al largo uso di biciclette e veicoli a motore, i contadini trasportavano prodotti, merci e oggetti impiegando gli animali da soma, ma più spesso si usava il proprio corpo per portare i carichi a braccia, a spalla o sul dorso. Il trasporto era una dura necessità per tutti ed il colono, in più, aveva anche l’obbligo di trasportare alla casa del padrone ogni cosa di cui costui aveva bisogno.

 
I carri

Sotto il portico si apre una stanza che raccoglie attrezzi utilizzati un tempo per alimentare la vocazione vitivinicola delle genti brianzole. In passato i vini prodotti nella nostra area pedemontana erano estremamente apprezzati. A partire dalla metà dell’Ottocento tuttavia una serie di calamità e malattie giunte dall’estero si abbatté sulla viticoltura locale, distruggendo numerosi vitigni. Oggi solo nei comuni intorno alla collina di Montevecchia, Muntavègia, si produce vino secondo gli standard moderni con un’attività economica specializzata.

Un’altra sezione del museo riguarda gli aspetti della vita festiva. In questa prospettiva si colloca la sezione dedicata al flauto di Pan, che in Lombardia veniva indicato con termini come firlinfü, fregamüsòn, orghenìi, sìful. Già presente in Brianza tra il XVIII e il XIX secolo, come strumento di cascina e di osteria, collocato in piccole bande, il firlinfü si afferma nella sua dimensione orchestrale a partire dalla fine dell’Ottocento per poi svilupparsi e diffondersi dagli anni Venti e Trenta. Oggi alcuni gruppi folcloristici sono presenti principalmente nelle province di Bergamo, Como e Lecco.

 
I flauti di Pan
 
Altri locali, allestiti con mobili “poveri” della tradizione contadina, raffigurano una cucina con un grande camino e la camera da letto. E’ presente, inoltre, la sala dei beni immateriali e del dialogo antropologico, nella quale vengono proiettati filmati e documentari che il museo ha prodotto sui vari aspetti della cultura brianzola e lariana. Qui vengono proposte conferenze, incontri con i testimoni della tradizione, convegni, corsi di formazione, presentazioni di ricerche che evidenziano la peculiarità della ricerca antropologica basata sulla tessitura di rapporti umani tra persone che si incontrano e dialogano per comprendersi.

Il museo intende dedicare particolare attenzione agli anziani, ai quali ricorda la loro infanzia e giovinezza, ed ai bambini e ragazzi, ai quali suscita curiosità e stupore per la distanza con il presente. Nel book-shop si possono acquistare numerosi libri e audiovisivi. Le visite sono generalmente accompagnate da guide dell’Associazione Amici del Meab.

Beniamino Colnaghi

Note
1. Per maggiori approfondimenti sul tema, vedere il post “Il baco da seta“ di Livia Colnaghi, pubblicato il 3 maggio 2013.
2. Massimo Pirovano (studioso di etnografia, dirige il Meab), Lavoro e vita quotidiana delle classi popolari in Brianza. Oggetti, voci e gesti della tradizione in un nuovo museo di società.
3. Un articolo su sant’Antonio abate è stato postato il 14 gennaio 2013.


Museo Etnografico dell'Alta Brianza, località Camporeso di Galbiate (Lecco), tel. 0341.542266. Per contatti, orari di apertura e info il sito www.parcobarro.it potrà offrire tutte le informazioni necessarie.
Madonna di La Salette. Un contributo del signor Giulio Oggioni




Il 21 settembre 2013 è stato postato l'articolo "La Madonna di La Salette a Verderio Superiore e Caglio". Giulio Oggioni mi ha fatto pervenire un contributo che integra e completa il quadro delle motivazioni che indussero il conte Confalonieri a dedicare la cascina alla Madonna di La Salette. Lo pubblico volentieri (bc).

"Il conte Confalonieri dedicò la cascina alla Madonna su suggerimento di padre Adeodato, rettore del monastero di Concesa (carmelitani) perchè Melania si fece carmelitana e quindi entrò in contatto con padre Adeodato (cugino del conte). Questi suggerì al conte di andare in Francia e farsi raccontare l'apparizione e lui fece scolpire la statua su loro indicazione. Infatti, a Concesa ci sono ancora manoscritti di allora che parlano della veggente e della sua vita, a dimostrazione che tra i due c'era stato un contatto epistolare e forse anche di persona".
"Quindi, il vero motivo della dedica è probabilmente dovuto all'influenza del cugino carmelitano al quale il conte era molto legato, tanto che comprò, restaurò e regalò il santuario di Concesa a loro, all'inizio dell'800. Prima era una vecchia filanda, poi ristrutturata in convento e accanto fu costruito il santuario".