sabato 23 maggio 2020

I sequestri di persona in Brianza negli anni

Settanta e Ottanta

Il caso di Cristina Mazzotti

Il periodo compreso tra gli inizi degli anni Settanta e la fine degli Ottanta del secolo scorso è tristemente definito come quello degli “anni di piombo” e del terrorismo. La memoria collettiva corre immediatamente agli anni della strategia della tensione, all’eversione neofascista, a quella delle Brigate rosse, agli omicidi eccellenti compiuti dalla Mafia e dalla criminalità organizzata, in danno di magistrati e politici, in particolare al sequestro ed alla uccisione di Aldo Moro nel 1978.
Ma non è di questo che si intende parlare in questo articolo, anche se la stagione della violenza “politica” rappresentò il più pericoloso attacco alla nostra ancor giovane democrazia. Si intende, invece, parlare del fenomeno dei sequestri di persona a scopo di estorsione, che imperversò su tutto il territorio nazionale, a partire dalla fine degli anni Sessanta, per raggiungere la massima intensità nel decennio successivo, per poi proseguire negli anni ’80 con andamento discendente.
Furono complessivamente 671 i sequestri (fonte sito del Ministero degli Interni) e 694 il numero dei sequestrati, poiché è anche accaduto che a volte con un singolo sequestro si prendessero come ostaggi più persone. Le vittime furono 564 uomini e 130 donne. Alcune decine erano bambini o adolescenti. 80 furono coloro che non fecero più ritorno perché deceduti per malattie, privazioni e stenti subite durante la lunga prigionia (a volte superiore a due anni), oppure perché anziani e già sofferenti per malattie cardiache e altro, e mai i loro corpi furono restituiti alle famiglie, né venne mai data notizia dei luoghi nei quali erano stati seppelliti. Il triste primato di durata venne toccato dal giovane Carlo Celadon, rapito dalla ‘ndrangheta il 15 gennaio 1988, ad Arzignano, provincia di Vicenza, portato in Aspromonte, liberato il 4 maggio del 1990, dopo 831 giorni di prigionia, dalla quale uscì dimagrito di trenta chili e ridotto a una larva umana. Il riscatto, pagato in due rate, ammontò a ben sette miliardi di lire.
Quanto alle organizzazioni criminali che si occuparono di tale tipologia di reato, va osservato che i sequestri avvenuti in Sardegna e in parte nel Lazio e nella Toscana meridionale, furono compiuti da esponenti del banditismo sardo; quelli compiuti in Veneto (ma non tutti) dalla cosiddetta Mala del Brenta, facente capo a Felice Maniero e dalla banda dei giostrai, ma non solo in Veneto; pochi da Cosa Nostra e tutti i rimanenti sono da attribuirsi alla ‘ndrangheta calabrese.
L’anno in cui il numero dei sequestri raggiunse il suo massimo fu il 1977, nel quale avvennero ben 75 sequestri di persona. Un numero oggi impensabile, che se si ripetesse, creerebbe altissimo allarme sociale con ripercussioni politiche e sociali di fortissimo impatto sulla vita del Paese. Si tenga conto che l’Italia fu l’unico paese europeo che conobbe un genere di fenomeno criminale barbaro e violento, quasi a segnarla come patria indiscussa di fenomeni mafiosi unici e assai potenti, di fronte ai quali la risposta non era pari all’altezza della minaccia. Mentre al Nord gli obiettivi erano quasi sempre imprenditori operanti nelle ricche province lombarde e venete, in Calabria le vittime furono scelte tra i farmacisti e i professionisti. Non mancarono casi di ostaggi illustri, da Gianni Bulgari a Roma, a Fabrizio De André e Dori Ghezzi in Sardegna, al piccolo Farouk Kassam, sempre in Sardegna, al re delle pellicce, Giuliano Ravizza, titolare della pellicceria Annabella di Pavia, per finire con una delle prime vittime della ‘ndrangheta calabrese, Paul Getty III, nipote dell’omonimo miliardario americano, rapito a Roma e liberato dietro pagamento di una ingente somma di danaro, dopo che la ‘ndrangheta aveva recapitato al padre il lobo di un orecchio del sequestrato.
Differenti erano le motivazioni che spingevano le varie organizzazioni operanti sul territorio a compiere questo tipo di reato. Solo la ‘ndrangheta, a differenza di tutte le altre, che avevano il solo fine di arricchimento immediato fine a sé stesso, aveva usato tale genere di odioso reato con un fine ben preciso, di costituire cioè la provvista di denaro necessaria per entrare nel ricco mercato del traffico di sostanze stupefacenti, che richiedeva la disponibilità di ingente liquidità finanziaria. Peraltro, questo fu uno dei plurimi motivi che, una volta raggiunto l’obiettivo, rendeva inutile proseguire su quella attività criminosa sempre meno sicura e ormai rischiosa. Dal 1972 in poi, nella maggior parte dei casi le indagini avevano avuto esito positivo, con l’arresto di tutti, o almeno buona parte, dei sequestratori. Va detto che questo tipo di reato richiede necessariamente il concorso di numerose persone: il basista che segnala l’obiettivo, i suoi spostamenti e le sue abitudini, gli incaricati della cattura, altri del trasporto dell’ostaggio anche a centinaia se non migliaia chilometri di distanza, e ancora i custodi della prigione, i vivandieri, i telefonisti incaricati di tenere i contatti con le famiglie, sino ai riciclatori del riscatto. In 152 casi, invece, le indagini non diedero alcun risultato. Sono stati arrestati, processati e condannati oltre 2000 indagati. Oltre un centinaio i latitanti, dei quali tutti catturati in anni successivi.
In buona sostanza il dramma delle vittime dei sequestri si aggiungeva a quelle delle stragi, degli omicidi di giovani appartenenti ad opposti schieramenti ideologici, di esponenti delle forze dell’ordine, ai professionisti, avvocati, giornalisti, magistrati, politici, esponenti sindacali, docenti universitari, che hanno perso la vita sulle strade e le piazze d’Italia.
Chiudendo la sommaria ricostruzione storica di un fenomeno criminale, molti "esperti" formularono  diverse ipotesi sul perché vennero sequestrate così tante persone. La prima vide una sorta di ricatto delle mafie allo Stato con la minaccia di tenere il Paese in una situazione di costante allarme; altri invece intravvidero una strategia di distrazione di massa dell’opinione pubblica e dispersione delle energie investigative e repressive su più fronti, concordata con i poteri occulti dell’eversione. Erano quegli gli anni in cui le mafie e la banda della Magliana erano tutte presenti a Roma, avevano raggiunto forme di raccordo con strutture eversive neofasciste, come dimostrato negli omicidi di Pier Paolo Pasolini nel 1975, di Vittorio Occorsio nel 1976, di Giorgio Ambrosoli nel 1979, nella fuga di Franco Freda del 1978-79, con l’appoggio logistico della ‘ndrangheta reggina, e tanto altro ancora. Una storia ancora da esplorare, che forse potrebbe consentirci di comprendere il ruolo “politico” che le mafie italiane hanno avuto a fianco dei nemici esterni ed interni della nostra democrazia.

Circoscrivendo il fenomeno dei sequestri di persona alla Brianza, area di crescente benessere e nuova ricchezza, solo nel Lecchese e nel Comasco i sequestri di persona in pochi anni furono poco meno di trenta. Ricordiamo qualche nome: i due cugini Meroni di Arosio, uno dei quali titolare del gruppo Lema; Giovanni Stucchi, industriale di Olginate, mai tornato a casa; Maurizio Colombo di Imbersago, nipote di Felice, ex presidente del Milan; Piero Fiocchi di Lecco, ex senatore del Partito liberale; Davide Agrati, 8 anni, di Monticello Brianza, figlio del patron del marchio di motociclette Agrati-Garelli; Elena Corti, 13 anni, di Lecco;  Gaby Kiss Maerth, 18 anni, che abitava con la famiglia a Moltrasio e molti altri ancora.
La maggior parte dei sequestrati, come visto, dopo patimenti e grandi sofferenze, fecero ritorno a casa, dopo il pagamento di riscatti molto alti o grazie all’azione di Carabinieri, Polizia e al polso fermo della Magistratura, che cominciò a bloccare i capitali delle famiglie.
I  sequestri più tragici, invece, che scossero profondamente l’opinione pubblica, furono quelli in cui le vittime non ritornarono più a casa. Vennero uccise e in alcuni casi non venne ritrovato nemmeno il corpo. Oltre al già citato sequestro di Giovanni Stucchi di Oginate, uno dei più orrendi, che qui in Brianza generò sconcerto e rabbia, fu quello della ragazza diciottenne Cristina Mazzotti, di Eupilio, piccolo borgo che si affaccia sullo splendido lago di Pusiano, a due passi da Longone al Segrino, che ospitava la villa dello scrittore Carlo Emilio Gadda.
 
Cristina Mazzotti
 
Cristina era figlia di Elios Mazzotti, molto noto in zona per l’importazione di cereali dall’Argentina. La ragazza fu rapita la notte del 30 giugno 1975 mentre stava rientrando a casa, nella villa di famiglia a Galliano di Eupilio, quando l’auto su cui viaggiava con amici fu bloccata lungo una stradina buia da una Fiat 125 gialla, messasi di traverso. Cominciò così il penoso calvario della ragazza, che durò fino alla sua morte. Il cadavere venne rinvenuto il primo di settembre in una discarica a Varallino, vicino a Galliate, in provincia di Novara, tra carrozzine rotte, sacchi della spazzatura e topi.
Il sequestro di Cristina era stato ideato da una “banda mista”, composta da elementi di una famiglia calabrese della ‘ndrangheta e da malviventi locali comuni, per nulla esperti, che gestirono il sequestro, la custodia dell’ostaggio e la trattativa con i genitori di Cristina. Le Forze dell’ordine e la Magistratura individuarono molto presto alcune persone sospette, che vennero pedinate e fotografate. Il giorno dopo il sequestro al padre fu chiesto un riscatto, che si rivelò molto oneroso per i Mazzotti. La banda si rifece sentire, riducendo le pretese. I genitori, ipotecando la casa, affrettarono il pagamento di una prima rata del riscatto, pare intorno al miliardo di vecchie lire. La ragazza era prigioniera presso una cascina di Castelletto Ticino. A Cristina, oltre al poco cibo e acqua, venivano somministrati quotidianamente psicofarmaci e sedativi. Il fisico cominciò a debilitarsi e a non sopportare il fortissimo stress. Un mese dopo il rapimento la ragazza era ormai in fin di vita. Non è chiaro come avvenne il decesso, datato il giorno prima del pagamento del riscatto dai familiari, ignari della tragica conclusione.
Le indagini degli inquirenti ebbero una svolta decisiva quando uno del gruppo dei malviventi locali commise un errore fatale. Infatti, questi ultimi ricevettero il loro compenso, pare il 10% del riscatto, probabilmente meno di quanto pattuito con i calabresi. Appena ricevuta la somma, uno dei complici, colui che aveva portato il corpo in discarica, esportatore illegale di valuta, pensò bene di trasferire subito i soldi in Svizzera, per “ripulirli”. Qui avviene l’imprevisto: il dipendente della banca avverte la polizia cantonale dell’anomalo versamento di una grossa somma da parte del cliente; gli svizzeri, peraltro convinti che la ragazza fosse ancora viva, avvertirono subito la polizia italiana che si mise a indagare sull’esportatore di valuta, scoprendo che era una persona nota alla famiglia Mazzotti. Gli interrogatori, i pedinamenti e le intercettazioni telefoniche portarono ad alcuni esponenti della banda. La perquisizione nella casa del capo banda permise di trovare oggetti appartenenti alla ragazza, tra cui un orologio Rolex. La confessione dello “svizzero” condurrà al luogo dove era stato gettato il corpo di Cristina, al nome dei complici e dei calabresi coinvolti, ma stranamente non di chi aveva eseguito materialmente il sequestro. Si saprà molti anni dopo, solo nel 2008, grazie all’impronta di un pollice rinvenuta sull’auto della rapita, e rimasta da qualche parte in un computer degli inquirenti, che uno di questi era un coetaneo di Cristina, giovane ma già pericolosissimo. Il ragazzo confessò, indicando peraltro i nominativi dei due complici che parteciparono al rapimento e che, con lui, fermarono armi in pugno la Mini Minor su cui Cristina viaggiava con i due amici. E raccontò come ottenne venti milioni di vecchie lire per rapire una studentessa di diciotto anni e consegnarla ai suoi carnefici. Dirà agli investigatori che ebbe la commissione da gente che non aveva mai visto né conosciuto.
Ancora oggi, i 100 milioni di lire consegnati dai calabresi ai componenti locali della banda, sono gli unici recuperati del miliardo pagato dalla famiglia Mazzotti. In capo a quattro anni furono comminati otto ergastoli e due condanne a molti anni di prigione. Quello che non si comprenderà mai abbastanza della vicenda è perché i criminali locali coinvolsero la ‘ndrangheta nel rapimento, la quale ebbe tutto sommato un ruolo marginale. Probabilmente venne deciso per ottenere una “copertura” e non avere fastidi. Gli articoli dei giornali riferivano di voci raccolte fra gli inquirenti su un probabile “primo livello” rimasto parzialmente sconosciuto. Si intravvedeva, in sostanza, non solo un legame di tipo nuovo fra malavita lombarda e criminalità organizzata calabrese, ma anche, visti i trascorsi del capo banda dei locali, un collegamento con l’eversione nera di estrema destra.

I genitori di Cristina vollero costituire una Fondazione che ricordasse l’amata figlia, scomparsa a soli 18 anni, e che contribuisse a mantenere viva la memoria e a fare in modo che altre persone non dovessero affrontare le stesse sofferenze materiali e psicologiche. Sofferenze che causarono la morte di Elios Mazzotti, il padre di Cristina, solo pochi mesi dopo il ritrovamento del corpo.

Beniamino Colnaghi

Sitografia

martedì 12 maggio 2020

La Salette, il fascino di una cascina salvata(1)

di Giulio Oggioni (storico verderiese)

“La Salette”, inaugurata nel gennaio del 1856, è stata recentemente restaurata, non più per le famiglie contadine come una volta, ma trasformata in un residence per l’ospitalità e il benessere, dove ci si può curare e gustare anche specialità culinarie molto ricercate.

 
In questi anni torna di moda il tema “Salviamo le cascine della Brianza”. Sono tantissime. Di alcune è già iniziato il restauro, mentre altre sono andate distrutte.
Una tra le più belle, per la sua imponenza architettonica, si trova a Verderio, sul confine di Bernareggio e Ronco Briantino: è la cascina “La Salette”, costruita con grande ingegno tra gli anni 1850 e 1855.
La sua inaugurazione risale al 1856. Fu progettata dall’architetto milanese Gaetano Besia, su richiesta del conte Luigi Confalonieri Strattmann di Milano. Il conte, che ebbe ben tredici figli, oltre alla residenza milanese, non disdegnava di passare molto tempo anche nella sua villa in centro paese, nell’allora Verderio Superiore.
Perché la chiamò “Cascina La Salette” è subito detto. Dieci anni prima, esattamente il 19 settembre 1846, la Vergine Maria era apparsa a due pastorelli, Melania e Massimino, in un piccolo paese delle Alpi francesi: La Salette, non lontano da Corps, zona di Gap. La veggente di quella apparizione si fece suora Carmelitana e alcuni documenti che parlano di lei e dell’apparizione si trovano nel convento di Concesa (Trezzo sull’Adda).
Il priore, padre Adeodato Bonzi, si mise in contatto con il cugino, conte Luigi Confalonieri, che si incontrò con i veggenti per conoscere ogni dettaglio dell’apparizione. Per la sua nuova cascina, ordinò una pregevole statua di legno della Madonna con i due veggenti, esattamente come l’avevano descritta e le mise in una cappella al centro delle abitazioni.
La statua arrivò in cascina nel mese di gennaio del 1856 e la tradizione popolare racconta che c’era la neve alta e faceva molto freddo, ma quando fece il suo ingresso in corte, un pesco vicino al portone d’ingresso, fiorì improvvisamente come fosse primavera inoltrata. La gente gridò al miracolo e ne strappò i rami. Era il segnale che la Vergine aveva gradito il gesto del conte e della sua gente. Del resto, non è l’unico miracolo accaduto in cascina, ma molti altri si possono leggere nel libro uscito nel 2006, in occasione del 150° anniversario della sua costruzione.
La cascina era molto ampia e, in passato, ha ospitato anche più di un centinaio di persone. A pianterreno, sotto i porticati si trovavano le ampie cucine, mentre al piano rialzato, raggiungibile con due larghe scale di granito, erano poste le camere e, sotto il tetto, i solai. Ai due lati vennero erette anche due torri con altri locali ad uso abitativo per le famiglie, mentre ai lati del corpo centrale vennero costruite le stalle, i servizi igienici in comune, un pozzo e una cisterna per l’acqua piovana.
Il pozzo aveva una caratteristica unica: si pescava l’acqua fresca alla profondità di circa ottanta metri, probabilmente derivante da una falda dell’Adda ed era anche curativa come quella delle terme di oggi.
Il cortile, di erba con larghi sentieri laterali e uno centrale di acciottolato, era molto ampio e in esso giocavano i bambini, stendevano la biancheria al sole le mamme, starnazzavano gli animali domestici, ma soprattutto, ci lavoravano i contadini.
Tutto questo è durato fino ad una ventina di anni fa, poi, con l’addio dei contadini che l’abitavano, la cascina restò disabitata e iniziò l’abbandono. Fortunatamente qualcuno si prese premura di acquistarla per ristrutturarla completamente, trasformandola in un residence, senza però cambiare le sue sembianze, ma restituendole la bellezza di un tempo.
Immersa nel verde, ora è un luogo di ospitalità e benessere, con esperti di medicina generale e sportiva, di fisioterapia, di dermatologia e altre specialità. In essa c’è anche un ricercato ristorante dove, su prenotazione, si possono gustare specialità e anche organizzare pranzi di lavoro e di cerimonie varie.
Entrando, per chi ci ha vissuto a lungo in cascina, si prova ancora la nostalgia del tempo passato, della gente che ci abitava, dei suoi animali ruspanti.
Va dato quindi il merito a chi ha voluto ristrutturarla evitando il crollo definitivo come è successo a molti altri gioielli della nostra Brianza.
La cascina, esternamente e internamente, ha conservato il suo fascino, ma soprattutto è rimasta la cappella con la sua Madonna e i veggenti che aspettano la vostra visita per soddisfare non solo la curiosità e le necessità fisiche, ma anche per rivolgere alla Madre Celeste un saluto e una breve preghiera. 

Nota
1. Articolo apparso sul periodico la curt, a cura dell’Associazione Amici della Storia della Brianza, N. 10 – settembre 2017
 
Sitografia
La cascina La Salette di Verderio: https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2013/09/la-madonna-di-la-salette-verderio.html