lunedì 21 dicembre 2020

venerdì 18 dicembre 2020

La musica popolare in Brianza: dal canto alle bandelle, dai firlinfö alle bande musicali 


Roberto Leydi fu un etnomusicologo e accademico di fama nazionale che lavorò in maniera costante e diffusa sul territorio brianzolo, per studiarne il canto e la musica tradizionali. Questo lavoro, a dire il vero, fu estratto da un quadro d’insieme sulla situazione del canto popolare in Lombardia, contenuto in un disco che illustrava i principali generi dell’espressività orale e musicale popolare, del tipo le favole e i racconti, i giochi infantili e le ninne nanne, le orazioni religiose cantate, i canti e le ballate, le canzoni dei cantastorie, delle osterie e delle filande e via dicendo. Per quanto riguarda i canti che le donne cantavano nelle filande in Brianza, il Leydi li considera e li inserisce come documento di storia sociale, in quanto sono parte di un territorio segnato dall’integrazione tra economia agricola e industria manifatturiera almeno dall’800. I canti vengono contestualizzati ed integrati con altri tipi di fonti per analizzare condizioni di vita, relazioni familiari e di lavoro, aspetti della mentalità dei vari soggetti sociali che si muovono nella provincia lombarda. La presenza delle filande in Brianza è stata fondamentale per favorire la pratica del canto femminile. Da diverse testimonianze orali, raccolte da studiosi e scrittori nel secolo scorso, alcune operaie delle filande raccontavano che si cantava continuamente, magari intercalando qualche preghiera, per far trascorrere le interminabili giornate di un lavoro spesso duro e noioso. Bisogna anche dire che alcuni padroni favorivano il canto nelle filande e negli stabilimenti della lavorazione della seta, perché, se cantavano, le donne non potevano parlare con le altre lavoratrici vicine, distraendosi quindi dal lavoro e generando possibili interruzioni nella produzione. C’erano dei cartelli che recitavano: “È lecito cantare / è proibito parlare”. Molte canzoni che cantavano le filandiere arrivavano sia da membri della famiglia e da realtà del piccolo borgo di residenza sia dalla produzione dei cantastorie, suonatori e cantori professionisti che, durante le loro esibizioni nei mercati, nelle fiere e sulle piazze dei paesi, distribuivano i fogli con le parole dei pezzi presentati. 
Un altro luogo straordinario di diffusione della cultura popolare era l’osteria, luogo di ritrovo, di pettegolezzi, di allegria e di invettiva, di produzione del canto popolare tradizionale. L’osteria, negli ultimi decenni, anche se nel frattempo stava scomparendo, è stata analizzata e rivalutata da storici, antropologi e folkloristi perché, insieme alla piazza, è stata il luogo dove è stato possibile dare voce al popolo, dargli spazio e libertà per le sue esibizioni spontanee. A partire dal secondo dopoguerra, l’osteria ha rappresentato un estremo momento di resistenza della cultura popolare verso le radicali trasformazioni della società contadina e operaia, nella quale si cantava molto di più rispetto ad oggi, perché il canto svolgeva una funzione sociale dovuta ai vari cicli della vita. 
È nei vari contesti sommariamente sopraccennati che trovano posto in Brianza fenomeni socio-musicali legati ad eventi e momenti della tradizione, come, ad esempio, i coscritti di leva, i musici mendicanti, oppure le cosiddette bandelle ed i  suonatori di firlinfö. Questi fenomeni non erano tuttavia ben visti da tutti, soprattutto dai maestri delle bande musicali, perché distraevano i musicanti dagli impegni delle bande, dal clero locale e dalle autorità politiche, che vedevano in queste allegre compagnie possibili focolai di ribellione e protesta. 

La Brianzola di Olgiate Molgora in una foto recente

Le bandelle erano formate da non più di sette o otto elementi, provenienti dalle più grandi bande musicali, che soddisfacevano le esigenze di svago e di divertimento delle classi popolari brianzole. Facevano ballare la gente nelle osterie e nelle piazze dei piccoli borghi, accompagnavano coloro che si recavano in pellegrinaggio ai santuari o facevano gite e escursioni, suonavano durante le numerose festività religiose, facevano serenate alle ragazze e suonavano ai matrimoni ed alle feste civili. Era pura passione e divertimento, c’era voglia di allegria per combattere la vita dura di quegli anni. In ogni paese della Brianza c’erano i musicisti, tutti di livello dilettantistico, che avevano imparato a suonare uno strumento dal padre, da un amico, da un vicino di casa. Con ogni probabilità le orchestrazioni e gli arrangiamenti erano frutto di improvvisazione, di tecnica e creatività estemporanee ed il direttore musicale, di solito, era il suonatore più anziano, quello che era ritenuto il più bravo. 

Per quanto attiene invece il flauto di Pan, che in Lombardia veniva indicato con termini come firlinfü, fregamüsòn, orghenìi, sìful, si ricorda che  era già presente in Brianza tra il XVIII e il XIX secolo, come strumento di cascina e di osteria, collocato in piccole bande. Il firlinfö si afferma nella sua dimensione orchestrale a partire dalla fine dell’Ottocento, per poi svilupparsi e diffondersi dagli anni Venti e Trenta del Novecento. I pochissimi gruppi folcloristici oggi esistenti sono presenti principalmente nelle province di Bergamo, Como e Lecco. Il flauto di Pan è uno strumento musicale molto antico. Ci sono prove della sua esistenza intorno al 2500 a.C. nel Mar Egeo e nelle Cicladi. È composto da cinque o più tubi di lunghezza progressivamente crescente e legate tra loro come una zattera. I tubi di Pan sono strumenti realizzati a mano con cura ed esperienza, sono solitamente costruiti in canne comuni o di bambù, disposte in linea o riunite in fascio, con un unico foro su cui vengono appoggiate le labbra per l’insufflazione. Lo si può considerare come l'antenato dell'armonica a bocca e dell'organo a canne. Sulla presenza del flauto di Pan in area lombarda, segnatamente in un’area compresa tra la Brianza comasca, lecchese e milanese e la provincia bergamasca, si hanno poche documentazioni sia iconografiche sia scritte. Alcune persone residenti in Lombardia hanno lasciato testimonianze circa l’uso del flauto di Pan da parte di alcuni ragazzi, che formavano vere e proprie bande musicali, durante varie occasioni di vita comunitaria e feste locali, quali, per esempio, matrimoni, cerimonie pubbliche, coscritti o solo musiche da suonare sotto le finestre delle future spose. Che il flauto di Pan potesse essere già presente in Lombardia dalla seconda metà del XVIII secolo è confermato da una serie di documenti iconografici, quali dipinti di pittori lombardi e stampe di sapore romantico conservate presso alcuni musei o raccolte private. In quegli anni lo strumento ebbe un fine quasi esclusivamente pastorale o contadino che serviva ad allietare le povere serate della gente di campagna e i giorni di festa nelle cascine e nelle osterie dei paesi. Verso la metà dell’Ottocento, durante la dominazione austriaca, i primi costruttori di firlinfö cominciarono a fornirli ai nascenti gruppi di appassionati che formarono così le prime bande musicali. In Brianza e in area bergamasca nacquero così intere famiglie appassionate allo strumento. La formazione dei gruppi musicali di firlinfö anticipò di poco l’esordio delle prime bande di ottoni. Da questi primi nuclei contadini e popolari, nati come detto dalla necessità di aggregazione e divertimento, si sono diramate poi le varie correnti musicali in ossequio allo spirito ed alle “mode” del tempo. 
Nei primi decenni del Novecento il fenomeno assunse caratteri più associativi e di massa che generarono tracce di spettacoli in grande stile. All’interno di queste esibizioni musicali fecero il loro ingresso altri strumenti, quali la fisarmonica, il tamburello e la chitarra, oppure si vide la presenza di balletti femminili e l’uso di costumi tradizionali che ricordano gli abiti e le figure di Renzo e Lucia. Nell’intera Brianza sorsero e si svilupparono decine e decine di bande di canne, confermando che il flauto di Pan era talmente radicato nella tradizione brianzola da essere considerato una delle più autentiche espressioni di cultura popolare. 
Accanto ai gruppi organizzati e censiti, ve ne furono moltissimi altri non ufficiali e nati spontaneamente, che l’avvento delle due guerre mondiali del Novecento e la nascente “modernizzazione” dei costumi e dei gusti degli italiani, decimarono. 

Suonatori del flauto di Pan

Le bande musicali, o corpi bandistici, sono state realtà fortemente radicate nel territorio e nella considerazione della gente, proprio perché rappresentazione e fulcro del momento festivo celebrato dalla comunità. La banda si esibiva in occasione di sagre, feste patronali e celebrazioni di carattere civile, accompagnava le processioni nelle solennità religiose e i cortei funebri. Non più quindi rappresentazioni minori e “dilettantistiche” di cultura paesana ma anche mezzi per la diffusione della musica colta e di dignitoso rilievo artistico ed estetico. Come afferma lo stesso Roberto Leydi, le bande sono state quasi ovunque “il veicolo attraverso il quale la musica moderna ha potuto raggiungere vastissimi strati della popolazione. In questo la banda ha operato, dapprima accanto agli strumenti meccanici, ai cantastorie e ai suonatori da ballo, poi, a partire dal periodo fra le due guerre mondiali, al disco e soprattutto alla radio…”. Le bande musicali hanno rappresentato per la popolazione una delle rare occasioni di ascoltare musica di un certo livello, che non fosse quella liturgica. Le prime formazioni nacquero nei primissimi anni dell’Ottocento, ma sarà nel corso della seconda metà del secolo che avrebbe visto la luce la maggior parte delle formazioni musicali. Un buon numero di queste compagini furono l’espressione dei circoli operai, altre, in particolare quelle fondate all’inizio del secolo scorso, delle parrocchie e del mondo cattolico. Le bande musicali hanno rappresentato per la popolazione una delle rare occasioni di ascoltare musica di un certo livello, che non fosse quella liturgica. 
In Lombardia, e particolarmente nelle province pedemontane, le origini dei corpi bandistici vanno ricercate lungo le sponde dei fiumi e nelle valli delle Prealpi.
Anche qui in Brianza c’è stata una forte diffusione delle bande musicali, le quali  hanno allietato la vita delle comunità, prima contadine e poi operaie e artigiane, almeno fino alla fine del secolo scorso. 
Vorrei elencarne solo alcune di esse, di cui ho avuto conoscenza diretta durante gli anni della mia giovinezza oppure delle quali sono riuscito a reperire documentazione attendibile.

Partiamo da Merate (Lecco)

La storia della Banda Sociale Meratese è una storia popolare. Oggi non c'è più nessuno che possa raccontare le origini della banda o rammentare episodi di quell'epoca; dovremo quindi accontentarci delle notizie che ci sono state tramandate per iscritto e ipotizzare l'evoluzione di questo complesso basandoci su riferimenti della vita di Merate. Si sa che la Banda nasce ufficialmente nel 1848 per l'interessamento del conte Rescalli, ma già nei quattro anni precedenti un gruppo di musicanti svolgeva una certa attività in paese. È difficile pensare che allora potesse esistere una scuola di musica per strumenti a fiato come oggi la intendiamo; quel che si può supporre è una sorta di ritrovo periodico tra appassionati autodidatti che, tra una chiacchierata ed un bicchiere di vino, cercassero una certa forma del suonare insieme. Cosa avvenne in quegli anni non lo si sa. Si conosce la situazione storica, il subbuglio generale, le rivoluzioni, ma non è automatico che tutto ciò possa aver inciso sulla vita quotidiana dei Meratesi. Probabilmente la banda, nelle sue prime uscite, si occupava di servizi religiosi e civili, legati alle circostanze del tempo. La metà dell'800 ha rappresentato il momento più alto dello sviluppo dell'opera italiana, che affondava le sue radici nella forma popolare; essa era, per una serie di motivi, estremamente vicina all'idea bandistica che stava via via formandosi. Possiamo allora immaginare che l'interesse dei musicanti si muovesse in tale direzione, che diverrà poi una delle più importanti nella storia del movimento bandistico; in principio si suonavano quasi certamente motivi conosciuti, romanze imparate ad orecchio per passare poi a spartiti appositamente scritti a mano. 
Fino alla fine del secolo poi tutto è assai difficile da ricostruire. Il primo documento fotografico è del 1902 per la presenza della banda all'inaugurazione della nuova chiesa di Verderio Superiore. Una foto ufficiale risale al 1922, con la presenza del Presidente Tettamanti e bisogna giungere all'anniversario del 1948 per avere un'altra fotografia. Sappiamo che fra le due guerre la Banda ha trascorso vicende alterne dividendosi in due gruppi detti "bandin" e "bandun", come è peraltro accertata l'esistenza di una fanfara di ottoni addetta ai servizi imposti dal regime fascista. Ciò che segue la guerra è storia recente, più conosciuta, grazie alle testimonianze dirette. La svolta avviene nella seconda metà degli anni '80. Fino a quel momento continuò ad essere un gruppo amatoriale. Non c'erano persone diplomate. Le nozioni e la pratica venivano tramandate. Chi aveva più esperienza contribuiva a formare le nuove leve. Spesso era un'unica figura ad insegnare più strumenti. 


Nel 1988 Pierantonio Merlini divenne il primo direttore diplomato. È sotto la sua direzione che cominciò una fase nuova. Il repertorio da quel momento ebbe un taglio più moderno. Il prof. Merlini attinse a composizioni di musica contemporanea originale per banda. In quella fase, allo studio più metodico si affiancavano anche momenti aggregativi al di fuori della sede. Erano i tempi delle gite sociali e dei gemellaggi artistico-culturali con bande straniere. È un'occasione per socializzare, ma anche per raccogliere dei fondi per sostenere le proprie attività musicali. La gestione dell'osteria è ormai rodata. I pranzi e le cene presso la sede di via Manzoni sono da tutto esaurito.
Uno dei vanti della banda meratese è la Scuola Allievi. Gli insegnanti sono diversi sulla base dello strumento scelto. Sono tutti diplomati e impartiscono le lezioni singolarmente. L'attuale presidente Andrea Arlati ricorda: «Un tempo per chi voleva suonare c'era solo la banda. Ora ci sono anche le scuole di musica, ma sono due cose diverse. Lì c'è solo lo studio. Da noi entri a far parte di un gruppo». Da qualche anno per i bambini c'è anche la miniband, che prevede anche un piccolo esame. Per attrarre nuovi allievi organizzano un open day di presentazione all'anno. Si recano anche alle scuole medie per farsi conoscere. Alcuni poi si avvicinano alla banda su consiglio di amici o parenti che ne fanno già parte. 
La Banda Sociale di Merate esegue quattro concerti all'anno, uno a stagione. In estate e in autunno si svolgono all'aperto, così come le manifestazioni classiche civili e i servizi religiosi. Un altro appuntamento tradizionale è l'immancabile Piva natalizia. Per tre giorni i musicanti suonano per le vie delle frazioni le melodie del Natale. Concludono il giorno della vigilia in città.

Cernusco Lombardone (Lecco)

Forse era la festa di San Giovanni del 1928. Non c'è alcun documento che lo possa testimoniare, ma in quel giorno debuttava il Corpo Bandistico S. Cecilia: la banda di Cernusco Lombardone. L'occasione della festa religiosa radunava le bande di Bernareggio e Robbiate, già attive da tempo, e la formazione da poco nata di Cernusco. Era dunque il periodo del fascismo, durante la sua fase di transizione verso la dittatura, quando spesso e volentieri il tempo libero degli adulti era mutuato dall'Opera Nazionale Dopolavoro e per i giovani dall'Opera Nazionale Balilla. Gli scioperi erano banditi e proprio in quell'anno l'organo supremo del regime, il Gran Consiglio del Fascismo, assunse competenze e ambiti di intervento maggiori. L'idea di far sorgere una banda a Cernusco era di pochi mesi prima, esattamente dell'aprile del 1928, quando Alessandro Claudio Pirovano si trasferiva da Albiate Brianza a Cernusco. Cominciarono subito le lezioni teoriche di musica, in attesa degli strumenti: per questi non bastavano la passione e la volontà, ma ci volevano i soldi. I benemeriti furono Giuseppe Ancarani, Luigi Villa ed il dott. Severino Ferrario. Gli allievi erano circa 50 e le prove si svolgevano presso un'aula delle scuole elementari, per poi trasferirsi presso l'attuale sede OMNI e quindi presso l'oratorio femminile. La cittadinanza seguiva con interesse sia le prove sia le uscite pubbliche. Non ci sono resoconti o documenti ufficiali ma solo foto e testimonianze orali, dai quali ricostruire la storia. Oggi, il Corpo Musicale Alessandro Pirovano è un'organizzata associazione senza fini di lucro, con un proprio statuto, un proprio consiglio e soprattutto con un ottimo organico di giovani appassionati. È apprezzata nel proprio territorio per la qualità della propria musica e per la serietà dell'organizzazione: offre infatti la possibilità di avvicinarsi al mondo della musica con corsi e lezioni di insieme tenuti da validi professionisti. Svolge un’importante attività di educazione alla cultura musicale presso i piccoli allievi delle scuole del territorio. 

La banda di Cernusco Lombardone verso la fine degli anni '70

Alessandro Claudio Pirovano, il fondatore, diresse la banda fino al 1977, anno della sua morte. Dalle testimonianze dirette delle sue tre figlie si capisce l'inclinazione naturale che aveva verso la musica. «Ci è stato raccontato - ha rammentato una di loro - che fin da ragazzino andava in giro alla ricerca di strumenti e amici con cui suonarli insieme». È stato uno degli ultimi a prendere parte all'esperienza fiumana. Lì si narra abbia conosciuto Gabriele d'Annunzio. 
Al termine del periodo bellico cominciò a suonare nelle ville e forse ebbe qualche passaggio in conservatorio. Imparò però a suonare tanti strumenti da autodidatta e studiò per conto suo i principî per l'orchestrazione e la composizione. Per questa ragione nel suo paese natale lo chiamavano "testa d'oro". Il suo mestiere era quello di artigiano e tessitore. Era organista in chiesa e col tempo organizzò una nuova cantoria. «Era religiosissimo - hanno ricordato all'unisono le figlie - e per lo più svolgeva le processioni e le altre celebrazioni religiose. Il suo armonium era sempre aperto, ma suonava un po' tutti gli strumenti. Non poteva vivere senza musica». E all'epoca non esistevano - e in seguito non erano ancora diffusi - la radio, i dischi né tantomeno la televisione. Chi voleva ascoltare la musica, doveva produrla da sé. Erano altri tempi. Le donne - comprese le figlie del maestro Pirovano - non si avvicinavano agli strumenti musicali. Non veniva reputato opportuno. L'intero mondo della musica era prerogativa maschile. 
Dopo la Seconda guerra mondiale Alessandro Pirovano avviò un'orchestrina di dieci elementi a Cernusco Lombardone. Fondò la banda di Airuno. Portò la musica anche a Montevecchia e a lui ricorrono le bande di Olgiate, Calco, Missaglia e Ronco Briantino. Diresse le cantorie di Lomagna e Osnago. Oltre alle trascrizioni per coro o per banda, compose di suo pugno alcuni spartiti. Erano per lo più marce, pastorali e brani di ispirazione religiosa.

Robbiate (Lecco)

Il Corpo Musicale Robbiatese fa la sua prima apparizione per la Piva di Natale del 1984. L’atto di fondazione viene fatto risalire al gennaio 1984, quando fu eletto il primo Consiglio Direttivo. Tuttavia, se questa fosse la sceneggiatura di un film, sarebbe opportuno inserire un flashback, un salto all’indietro, per menzionare il passato musicale di questo paese. Bisognerebbe tornare alla metà degli anni Venti del secolo scorso, quando Robbiate si trovò ad avere una sua formazione di strumenti a fiato. Non è rimasto molto di quel periodo. Si sa che venne istituita per volontà del medico Mignoli e che accantonò le proprie pretese musicali con lo scoppio della guerra. Pochi sono i ricordi – oggi rimasti senza testimoni diretti – sufficienti però a far scattare una scintilla di riscossa negli anni Ottanta. Va chiarito che è stato uno spunto iniziale. Quarant’anni di stop sono troppi per parlare di continuità, e del resto nemmeno gli attuali musicanti e dirigenti la avvertono. Alcuni cittadini sentirono l’esigenza di avere una associazione di musica che si unisse alle già presenti attività culturali, sociali e sportive del paese. Furono in particolare Vincenzo d’Angelo e Vincenzo Panettiere, a cui si aggiunsero Carlo Sozzi e Giovanni Riva, a imprimere la prima fiammata. «Ricordo ancora il volantino che mi trovai tra le mani sul banco delle scuole elementari – ha raccontato Riccardo Corno, che ha aderito fin da subito al progetto – nel quale veniva pubblicizzata la nascente scuola di musica a indirizzo bandistico». Era l’ottobre del 1983. Le prime lezioni si svolsero proprio in un’aula delle elementari e nel giro di poco tempo si iscrissero 52 persone. L’amministrazione comunale riconobbe subito l’importanza dell’iniziativa e la sovvenzionò con 15 milioni di lire. Forse anche per questo ancora oggi il labaro riporta lo stemma del Comune. Come primo presidente fu eletto Vincenzo Panettiere. 


La prima uscita pubblica fu in occasione della “Festa dello sport” del giugno 1984. Nel Natale di quell’anno fu portata la Piva in giro per Robbiate. L’8 settembre 1985 si svolsero i primi due servizi ufficiali: l’inaugurazione della biblioteca al mattino e la processione alla festa patronale. Durante il primo concerto del 21 settembre 1985 i musicanti indossarono anche la prima divisa. Giacca azzurra, pantaloni o gonna grigi e camicia bianca. A dirigere c’era il maestro Vincenzo Bardaro, che rimase al timone fino al 1997. Fu dunque il primo direttore stabile. Si era diplomato al Conservatorio di Napoli, sua terra d’origine, ma il legame con il paese brianzolo lo portò a comporre nel 1987 la marcia “La Robbiatese”. Nel libro “Corpo Musicale Robbiatese. 1984-2009, 25 Anni di Musica a Robbiate” a cui abbiamo attinto, viene segnalato come anno particolare il 1986, quando la partecipazione della banda alla vita pubblica divenne più consistente, anche al di fuori del paese. A giugno partecipò per la prima volta al raduno provinciale che si svolse a Osnago, mentre nel mese precedente svolsero la prima gita sociale a Busseto, la città natale di Giuseppe Verdi. Gli anni Novanta sono stati anni di cambiamenti. Il presidente divenne Paolo Bassano nel 1994, figlio di un altro musicante/insegnante e fino ad allora maestro di percussioni a Robbiate. 
La svolta avvenne anche per la conduzione artistica. Il maestro divenne nel 1997 Massimo Mazza, che aveva una profonda conoscenza musicale, della quale vantava numerosi successi. Con l’inizio del nuovo millennio la bacchetta cambiò nuovamente di mano altre due volte. Nel 2003 la banda si  trasferì nella sede dell’ex sala civica (l’auditorium Monteverdi), dove tutt’oggi svolge le prove. Il successivo maestro Alessandro Castelli introdusse i concerti a tema.

Colnago di Cornate D’Adda (Monza e Brianza)

Correva l'anno 1891 quando per la prima volta si riunì la "banda" di Colnago. Era composta principalmente da contadini che imparavano a suonare lo strumento e la propria parte a memoria, poiché non sapevano leggere alcun spartito e non conoscevano le note musicali. Bisogna andare indietro fino all'Ottocento, quando la Chiesa svolgeva una funzione sociale di aggregazione molto più forte di adesso, per narrare gli esordi della prima filarmonica di Colnago. Non sono pervenute ai nostri giorni documentazioni scritte che lo certifichino, ma la tradizione orale fa risalire la sua nascita ,appunto, al 1891. Avvenne per volontà dell'allora ufficiale sanitario Luigi Resnati, originario di Milano, e costituì il primo esempio di passatempo culturale per gli abitanti del posto. Era lo stesso dottore, appassionato di filodrammatica, ad impartire le prime lezioni teoriche e pratiche presso la sua abitazione, nella corte di via Biffi. A sorreggere l'iniziativa fu il parroco don Luigi Martinenghi, grazie al quale il sodalizio di strumentisti assunse la denominazione di Corpo Filarmonico (o Musicale) parrocchiale S. Alessandro. L'appoggio della parrocchia non mancò nemmeno successivamente con l'arrivo di don Antonio Vismara. In quel periodo - dal 1901 al 1909 - la direzione musicale fu dell'organista della chiesa, Luigi Biffi. I musicanti aumentarono così come la qualità delle loro esecuzioni. Da Milano arrivò il francese Luigi Barrochet che, guidando la banda, riuscì a far completare l'organico in ogni sezione. Pare che l'attività non si interruppe neppure durante i due conflitti mondiali. Nel primo dopoguerra venne guidata da Giovanni Carta una fanfara di ottoni che, pur ridimensionando il repertorio e il numero dei musicanti, garantì lo stesso il proprio contributo durante le feste. I direttori venivano tutti da fuori, anche con i maestri Tulli, Conti e Frigerio, che proprio a causa delle distanze tenevano le lezioni di musica ogni quindici giorni. Invece nella prima metà degli anni Quaranta il corpo musicale fu diretto da un membro della banda, Michele Marcandelli. 


La prima divisa risale al periodo tra il 1930 e il 1935. Forse risentendo del clima politico, il colore dell'abito era nero con bottoni dorati. Più tardi si passò a un frak con un cappello dal folto piumaggio. A causa delle difficoltà economiche, dal 1948 don Giuseppe Visconti smise di elargire denaro alla banda. Le andarono incontro le persone che spesso cedevano parte del proprio raccolto di frumento, venduto poi al mugnaio. Negli anni Cinquanta ancora non tutti i musicanti avevano dimestichezza con la lettura dello spartito. L'allora maestro Attilio Nava si premurava facendo imparare la parte su imitazione della sua esecuzione al clarinetto. I tempi di apprendimento erano comprensibilmente piuttosto lunghi. Dal 1965 il maestro fu il figlio di Attilio Nava, Franco. Mantenne l'incarico per quasi quarant'anni, fino al 2002. La scuola Allievi nel frattempo crebbe e nel 1975 furono chiamati per la prima volta due insegnanti separati per le sezioni ance ed ottoni. Erano i fratelli Luigi e Costantino Ponti, musicanti professionisti. 
Quello stesso anno possiede un altro primato. Si iscrissero infatti delle ragazze, che erano ben 7 su 13 allievi totali. L'afflusso maggiore di musicanti lo si registrò nell'anno del centenario, il 1991, con 43 elementi, quando la media storica era di una trentina di componenti. In occasione dei 100 anni di storia, i membri hanno avuto l'onore di essere ricevuti in udienza privata da papa Giovanni Paolo II. Gli ultimi gemellaggi risalgono al 120° anniversario. Nell'ultima quindicina d’anni i maestri che si sono avvicendati alla direzione sono stati il giovane Luca Ponti, Alessandro Vismara e per ultimo  Paolo Luigi Belotti. 

Cantù (Como)

Fra le più antiche formazioni del territorio brianteo è da annoverare il corpo musicale La Brianzola di Cantù, la cui costituzione venne approvata dall’Imperial Regio Governo con Dispaccio datato 16 giugno 1843: si autorizzava la costituzione nel borgo di Cantù di “una Società Filarmonica, ossia Banda municipale tra gli individui nominati nell’elenco”, che porta in calce la firma di ventotto giovani che componevano il gruppo originario. Tuttavia l’inizio del sodalizio è fatto tradizionalmente risalire al 1836, anche se non esistono documenti. Nel 1888, il direttore dell’epoca, Angelo Broggi, affermava che la banda denominata La Brianzola fu fondata nell’anno 1840. A complicare ulteriormente la controversia intorno alla data di nascita del corpo musicale è il festeggiamento del primo centenario di fondazione, celebrato presso i giardini pubblici di Cantù il 26 settembre 1937. Promotori della costituzione della banda furono i fratelli Samuele e Giuseppe Salterio. Come attestato dallo Statuto del 1885, “la banda musicale già diretta dal signor Giuseppe Salterio avrebbe assunto il nome di Banda Sociale Musicale La Brianzola”. La nuova compagine si dotò di un’uniforme ed iniziò a riunirsi periodicamente nei locali dell’ex convento di Santa Maria. 
In seguito ai fatti rivoluzionari del 1848 e del 1849, i controlli esercitati dal governo asburgico sui gruppi costituiti si fecero gradatamente più coercitivi. Le autorità politiche intendevano verificare se i membri delle diverse associazioni fossero implicati nei moti patriottici manifestatisi in tutte le città lombarde, e che avevano investito anche Cantù. Samuele Salterio intervenne prontamente a tutela della compagine, difendendola da ogni sospetto di pratica politica. Ma, neppure tre anni più tardi il commissario distrettuale presentava in Comune una nota di rammarico circa il comportamento antipatriottico della banda musicale che, secondo l’uomo politico, non eseguì l’Inno Nazionale. 
Sotto la direzione del maestro Pagani, il corpo canturino ebbe modo di affermarsi in tutta la provincia di Como. Nell’agosto del 1859 la banda venne invitata, in insieme ad altre, a Como in occasione della visita di Vittorio Emanuele II. Si trattò del più alto riconoscimento che la banda di Cantù avesse ricevuto fino a quel momento. All’indomani della unificazione nazionale il Comune di Cantù, come compenso per i buoni servigi che la “Banda Musicale prestava in tutte le feste ed occasioni solenni…”, decideva di stanziare un contributo economici a sostegno delle sue attività. Nel 1866 la popolazione canturina, insieme al corpo musicale, accolse trionfalmente Giuseppe Garibaldi, giunto in Brianza con lo scopo di arruolare volontari per quella che sarebbe stata denominata la III guerra d’Indipendenza.

La banda Ranscett in una storica foto del 1872

Nel 1872, però, all’interno della compagine si aprirono forti dissidi su alcuni aspetti che portarono al distacco dal gruppo originario dei musicisti più giovani ed alla formazione di un nuovo corpo musicale, che assunse la denominazione di Ranscett. I 32 musicanti transfughi sottoscrissero l’atto costitutivo della nuova formazione presso il Municipio di Cantù. Paradossalmente, la rivalità fra i due gruppi fu in qualche modo efficace e contribuì ad accrescere la qualità musicale dei due organici, nonché ad ampliare il rispettivo repertorio. 
Nei primi anni del Novecento altre formazioni si aggiunsero alle due esistenti. Il 1911 segna una svolta decisiva nella storia musicale canturina grazie alla costituzione del corpo musicale La Cattolica, la cui formazione conquisterà ben presto una posizione di preminenza nel panorama locale. Il 15 maggio 1913 si costituì la Fanfara Ciclistica, poi diventata Banda Musicale Sociale di Vighizzolo, che nel 1921 prese definitivamente il nome di Corpo musicale Giuseppe Verdi di Vighizzolo. 

La Cattolica

Corpo musicale Giuseppe Verdi

Una statistica comunale redatta nel 1936 ci fornisce un quadro dettagliato dei gruppi musicali operanti in quel momento a Cantù: la Musica Sociale Ranscett  era composta da 40 musicanti ed era diretta dal maestro Enrico Annoscia. Altrettanti elementi costituivano La Brianzola, diretta dal maestro Achille Lizzi. Il maestro Franco Filippi dirigeva i 35 componenti La Cattolica, mentre la banda di Vighizzolo era diretta dal maestro Antonio Facci. Ai quattro corpi bandistici attivi si affiancava il gruppo dei Frega Muson, il quale, sulla scia di una tradizione ormai consolidatasi in Brianza, si avvaleva unicamente dell’antichissimo flauto di Pan. 
Negli anni fra le due guerre mondiali, l’attività delle quattro formazioni bandistiche canturine conobbe un considerevole fervore di esecuzioni, sia relativamente alle celebrazioni religiose sia per ogni tipo di ricorrenze civili. Malgrado il grande consenso della popolazione, sul finire degli anni Trenta cominciarono ad aggravarsi i conti economici delle bande, in modo particolare quelli della Brianzola e dei Ranscett, che le portarono al mesto scioglimento: quasi 100 anni di gloriosa storia musicale sembravano esaurirsi in una mera questione di bilanci. Molte persone si mobilitarono, su diretta disposizione delle autorità politiche, e, nel 1938, le due disciolte formazioni vennero riunite in un nuovo corpo bandistico che venne denominato Corpo Musicale Cittadino. Tempo un paio di anni, la nuova formazione entrò in crisi per le medesime problematiche, e si sciolse. All’indomani della fine del conflitto La Brianzola e il corpo musicale Ranscett ricostituirono i loro organici.  

La Brianza, nel senso più esteso del termine, ossia quel territorio compreso tra le attuali province di Como, Lecco e Monza Brianza, è quindi stata una terra di grandi tradizioni canore e musicali, un’area nella quale piccole e grandi formazioni, dalle bandelle ai corpi bandistici, hanno interpretato al meglio delle loro possibilità, considerate le difficoltà di quei tempi, ciò che emergeva dalla cultura popolare di genti umili e laboriose, diffondendole e portandole a conoscenza di tutte le realtà presenti sul territorio.

Beniamino Colnaghi     

venerdì 16 ottobre 2020

I capelloni, i primi beat e gli hippies: i simboli della contestazione giovanile negli anni Sessanta 

Negli anni Sessanta, per la prima volta, si prende coscienza di una nuova figura sociale, autonoma, scissa sia dal mondo infantile, sia dal mondo adulto: la figura del giovane. A partire dal 1960, si assiste ad una simultaneità di figure giovanili che si impongono sulla società adulta. Si fa riferimento agli antifascisti di Genova, agli operai meridionali che nel 1962 saranno a capo delle rivolte sindacaliste, ai beat e ai capelloni che anticiperanno di tre o quattro anni la rivolta studentesca. A causa di queste prime contestazioni, i giovani acquisiscono l’appellativo di “ribelli”. I giovani diventano sempre più coscienti delle proprie capacità di formulare una cultura diversa da quella tradizionale. La ragione di ciò risiede nel fatto che, questi, essendo elemento di rottura e al tempo stesso elemento innovatore, diventano il filtro attraverso cui passano le novità, i disagi e le rivolte degli anni Sessanta e attraverso cui si pongono le basi per costruire un obiettivo sociale futuro. Ecco perché questi nuovi soggetti diventano i protagonisti di un’epoca considerata critica, soprattutto per il nostro Paese, che stenta a mettersi in pari con i grandi cambiamenti raggiunti dal resto dell’Europa Occidentale e dagli Stati Uniti d’America. Il divario esistente può essere spiegato attraverso due chiari episodi: 1) la chiusura culturale causata dal ventennio fascista che comporta, con l’avvento degli anni Sessanta, un atteggiamento propenso soprattutto a recuperare tutto ciò che era stato messo al bando dal regime, piuttosto che prestare attenzione a quanto accade in Europa e America; 2) le resistenze conservatrici della Chiesa e di gran parte delle strutture sociali e politiche italiane. Il mancato riformismo, dovuto proprio a queste resistenze conservatrici, frena l’avanzamento della modernizzazione italiana e innesca quello che sarà definito “periodo di instabilità”. Il motivo che porta la società, in particolare quella giovanile, a chiedere prepotentemente una riforma istituzionale e culturale, nasce dal bisogno di rimescolare una situazione stagnante. E ciò spiega il motivo per cui, all’interno di una data situazione storica, si verificano spinte, sociali, economiche o culturali che provocano un “movimento” totale o parziale, capace di generare modifiche più o meno evidenti nel tessuto sociale stesso.

Un movimento di grande portata nel tessuto sociale italiano viene provocato dalla simbologia dei capelloni. I capelli diventano il simbolo anticonformista di rottura con la società adulta, diventando il segno della protesta giovanile e della critica al sistema. Quindi i giovani, per creare una netta differenziazione con gli adulti e trovandosi senza stabili punti di riferimento culturali e normativi, si rifugiano in strutture figurative autoprodotte e autorappresentate esclusivamente dai giovani per i giovani. La moda dei capelli lunghi, chiamati anche capelli alla “Nazarena”, cominciò a manifestarsi a Londra, in una isoletta del Tamigi, dove c’era una balera con pub che si chiamava Eel Pie Island Club. Adottata dagli adolescenti ribelli dei paesi dell’Europa settentrionale, la moda è, dunque, d’origine inglese. Questo non sorprende: in quegli anni, e per lungo tempo, fu infatti la gioventù inglese a dettar legge al resto del mondo in fatto di voghe e di gusto. Quel club era, come certi ritrovi di Liverpool, uno dei locali in cui convergevano più numerosi i “puri” della rivolta minorile: nascevano quasi tutti lì gli orientamenti che venivano quasi immediatamente registrati ed elaborati commercialmente dalle vie delle boutique dell’abbigliamento maschile e dalle case discografiche, dal cinema, dalla televisione. Il concetto del capellone ha un campo d’azione molto ampio: capellone è il beat, capellone è il sessantottino, capellone è colui che vive nelle comuni. Questo grossolano raggruppamento confluisce in un unico simbolo principale: la lunghezza dei capelli. L’insieme così composto costituisce la subcultura italiana, ovvero un insieme di modelli di comportamento come risposta ai problemi sociali preesistenti agli anni Sessanta. La causa che ha favorito la nascita di una controcultura è riscontrabile nelle incertezze generate dalle strutture dominanti, dentro le quali la nuova generazione cerca di sopravvivere mediante strategie di adattamento. Il movimento beat è la prima strategia di sopravvivenza a cui ci stiamo riferendo. Rappresenta la storia di una piccola sottocultura giovanile italiana che, per alcuni anni, prima dell’esplosione del Sessantotto, influenzerà settori marginali del mondo giovanile. Per gli adulti il fenomeno è una conseguenza causata dall’effetto di imitazione imposto dalla moda e da modelli provenienti da altri Paesi. Esiste comunque una distinzione tra i beat, e bisogna precisarla. Pur risultando anticonformisti nella loro totalità, i beat subiscono una scissione interna che li divide nel movimento radicale, legato alla protesta diretta, e nel movimento più moderato, legato alla protesta mediante la musica e la moda. La separazione tra i due mondi avviene quando la musica e la moda vengono commercializzate e istituzionalizzate. Il primo gruppo resterà ancorato alla controcultura e alla rivista Mondo Beat, il secondo incarnerà la produzione musicale successiva ai Beatles. La Beat Generation in Italia muove i primi passi a Milano nel 1965, “come conseguenza degli squilibri e dei difficili momenti di fronte ai quali si trovano, durante e subito dopo la Seconda guerra mondiale i giovani” che, per protesta, assumono atteggiamenti non conformi alle volontà del Paese, tanto da scatenare la repressione da parte della polizia, e quindi dello Stato, e da parte della gente comune, che li deride e li addita come disadattati. Come è stato appena spiegato, è in questo clima che nasce la rivista simbolo dei capelloni italiani, Mondo Beat. In contrasto con la stampa ufficiale, laica e borghese, è tra le esperienze più significative che si svolgono nel contesto della controcultura italiana. La testata alternativa, oltre a denunciare le calunnie e le ingiurie alle quali sono stati sottoposti i capelloni da parte degli organi di stampa controllati dal potere economico e politico, traccia un esauriente quadro della cultura, della mentalità, delle aspirazioni di questa frangia giovanile. Mondo Beat è la sintesi di quanto accade a Milano in questi anni tra le contestazioni e la nascita dei club culturali di periferia. In questi luoghi si riuniscono i giovani per discutere di politica o di cultura. I nuovi circoli, nati e gestiti autonomamente, rifiutano il coinvolgimento dei partiti che al contrario, vengono disertati. La caratteristica peculiare che attira l’interesse della gioventù italiana consiste sia nell’anticonformismo di cui sono composti i nuovi circoli culturali, sia nella possibilità che questi offrono circa la discussione di quegli argomenti che non vengono affrontati né nelle sezione dei partiti né in fondo da nessuna altra parte: la condizione delle donne in Italia, il problema del divorzio, l’organizzazione della famiglia, la scuola. Dalla necessità di creare una società alternativa vista dalla prospettiva “capellonica”, il primo maggio 1967, nasce New Barbonia, un campeggio beat situato in un’area regolarmente affittata per quattro mesi da Mondo Beat, diventando il simbolo della nuova generazione di “sovversivi”. Il progetto beat entra subito in contrasto con i perbenisti e con un quotidiano milanese che lo identifica come il covo dell’anarchia, dell’immoralità. A Nuova Barbonia viene presto collegato un nuovo fenomeno, quello delle fughe. Si tratta di un fenomeno che non riguarda le bravate di adolescenti disadattati, bensì un problema massificato che non va generalizzato con quanto accadeva nei decenni precedenti, quando le fughe erano programmate per inseguire i sogni di ricchezza. Quelle degli anni Sessanta nascondono ben altri disagi. Alla base di tutto risiede la paura di diventare come i propri genitori. Ad essere coinvolti sono soprattutto minorenni e in particolar modo ragazzine, che scappano di casa rifiutando i due più solidi princípi su cui è imperniata la società italiana, quello che vede i figli sottoposti all’autorità dei genitori, alloggiati in casa fino a quando si formano una loro famiglia, e quello che vuole la donna sottomessa all’uomo, incapace di prendere iniziative autonomamente. Le fughe saranno un fenomeno che durerà per tutto il decennio malgrado la vita precaria a cui saranno destinati i giovani capelloni fuggiaschi. La particolarità che la rende tanto affascinante è l’idea che, la fuga, dia la possibilità di sviluppare la libertà personale e che aiuti il soggetto a svincolarsi dalla morsa di un’educazione che troppo spesso acquista il significato di imposizione di una data esperienza e di un dato modo di vivere. Quest’ultimo è senza dubbio un concetto errato se si pensa che l’azione dell’educare non è sinonimo di obbligare a fare o non fare, ma rappresenta la delimitazione di uno spazio in cui ci si può muovere indipendentemente seguendo delle regole basilari.

Il capellone è per natura apolitico ma, con la svolta del Sessantotto, ripiega su alcune scelte estremiste. L’estremismo giovanile è la manifestazione di una crisi dei modelli organizzativi rappresentati da alcuni partiti, i quali, non coincidendo più con i progetti di rinnovamento sociale e culturale proposti dai giovani, vengono abbandonati dagli stessi per optare verso ideologie più radicali e verso l’azione attiva e rivoluzionaria proposta da altri gruppi. Il movimento studentesco, che sta alla base della contestazione del Sessantotto, è la sintesi di due fenomenologie: la crisi dell’attivismo giovanile istituzionale e lo sviluppo di un associazionismo politico non istituzionalizzato, come ad esempio sono i gruppi della sinistra extraparlamentare e dell’anarchismo, termine che descrive diverse filosofie politiche e movimenti sociali che propongono lo scioglimento di tutte le forme di governo e di gerarchia sociale. Dunque, il Sessantotto italiano, per le ragioni appena espresse, si identifica con la controcultura emergente e con i capelloni, esprimendo però un disagio maggiore che va oltre alla “rivolta contro i padri”, poiché si propone come protesta sociale e fenomeno di mobilitazione collettiva contro l’ordine esistente costituitosi subito dopo la Seconda guerra mondiale che verte sul modello americano e su quello sovietico. Tutto quello che accade negli anni Sessanta e in particolar modo nel Sessantotto è relazionato quindi al fermento sociale promosso dal cambiamento. Infatti, le stesse manifestazioni di dissenso e di contestazione descrivono le tensioni della società che il secondo dopoguerra ha partorito, per poi volgere verso un nuovo carattere sociale, appunto, nato tramite l’azione dei giovani.

Beniamino Colnaghi

Sul “mondo giovanile” di quegli anni, nel blog sono presenti altri post:

Woodstock: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2014/08/woodstock-agosto-1969.html

Rock: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2014/02/il-club-27-del-rock-maledizione.html

Zanzara: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2012/11/la-zanzara-del-liceo-parini-di-milano.html

Evasi: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2012/06/vennero-e-poi-i-cleptomani-i-complessi.html

Il fenomeno dei capelloni venne analizzato anche da Pier Paolo Pasolini, il quale scrisse il proprio pensiero sul “Corriere della Sera” del 7 gennaio 1973. 

domenica 20 settembre 2020

               "La ragazza del secolo scorso"

             Rossana Rossanda se ne è andata

                        Rossana Rossanda (Pola, 23 aprile 1924 – Roma, 20 settembre 2020)

 

mercoledì 24 giugno 2020

Schirpa o ta, il corredo che la sposa portava in dote nel matrimonio

La dote è l’insieme dei beni conferiti dalla famiglia della sposa, o dalla sposa stessa, al marito. La dote era il contributo della donna “ad sustinenda onera matrimonii” ed era un elemento indispensabile al matrimonio, sia fra i ceti altolocati sia fra quelli popolari. Dal Medioevo in poi si comincia a parlare di exclusio propter dotem, cioè dell’esclusione delle donne dall’eredità paterna attraverso un indennizzo costituito appunto dalla dote, anche se vi sono numerose testimonianze di donne che continuarono a ereditare beni, oltre alla dote. La dote doveva essere proporzionata allo status della sposa e la sua entità era un indicatore della classe sociale. Fra i contadini era spesso in denaro ma, in alcune regioni italiane ed europee, era anche diffusa l’abitudine di portare in dote al marito un piccolo appezzamento di terra, del bestiame o attrezzi utili al lavoro dei campi. Gli altri beni, come le lenzuola, le camicie, i grembiuli, la biancheria facevano invece parte del corredo che la madre della sposa e la sposa stessa cucivano e portavano in dono allo sposo e alla sua famiglia.
Con questo antico atto, risalente al diritto longobardo, quindi, la famiglia della sposa concordava e quantificava con il futuro sposo e la sua famiglia la dote e il corredo, che, come abbiamo visto, poteva era costituita da beni immobili, oppure argenti o da denaro contante.
Fino al 1975 la dote era un bagaglio indispensabile e obbligatorio per la sposa e un onere necessario per padri e fratelli: non averla era per una donna una vera e propria tragedia, un ostacolo nel trovare un marito. Ovviamente la dote era proporzionata alle possibilità della famiglia della sposa e allo status sociale dello sposo a cui veniva concessa.
Dopo le nozze la dote non diventava di proprietà dello sposo ma era da lui soltanto amministrata. Alla morte del marito, la dote tornava alla vedova in piena e libera proprietà. Se invece moriva prima la moglie, senza aver messo al mondo dei figli, il marito era tenuto a restituire la dote alla famiglia della sposa.
Ma nella cruda realtà di quei tempi, anche il marito era tenuto a dare alla moglie una "controdote" e un mantenimento che dovevano servire alla moglie per far fronte ai suoi bisogni.
Prima della celebrazione del matrimonio, la descrizione dettagliata e il valore totale della dote e del corredo matrimoniale erano oggetto, per famiglie diciamo benestanti, di un atto davanti al notaio, oppure, più semplicemente, da un atto del dà paróla, cioè un impegno verbale delle parti o in alcuni casi persino l’accordo matrimoniale si sanciva con una stretta di mano tra galantomen, galantuomini. Spesso ai capitoli matrimoniali era annesso un elenco compilato a mano da una persona di famiglia o amica, capace di scrivere, dove erano riepilogati i beni in tessuti, mobili, oggetti di casa e gioielli assegnati alla sposa.
Insomma, anche se la dote non è più una cosa necessaria, è rimasta da parte delle famiglie la volontà di dare una continuità ai propri valori e delle proprie tradizioni, anche mediante il tramandarsi di beni materiali.
Per quanto riguarda il corredo, in passato, per ogni figlia femmina si cominciava il ricamo delle stoffe sin da quando queste erano bambine: ciò avveniva in tutte le famiglie, indipendentemente dall'estrazione sociale, che influiva solo sulla numerosità e sulla ricchezza dei tessuti. I pezzi erano  conservati in cassapanche o piccoli armadi di legno e dettagliati per iscritto su una lista. Un corredo era composto da una parte per la casa ed una personale. In una famiglia borghese, ad esempio, il corredo per la casa era generalmente costituito da 24 lenzuoli doppi di puro lino ricamati a mano, 24 semplici, 36 coppie di federe, 12 asciugamani di tela più 6 per gli ospiti, 12 tovaglie d'organza più 6 per tutti i giorni e così via. La parte personale invece contemplava capi di biancheria, camicie da notte di seta, camicie di tela, mantelle, fazzoletti e via dicendo.
Ovviamente, nelle famiglie contadine, i pezzi portati in dote e la qualità dei tessuti erano decisamente più limitati.
Dalle testimonianze orali raccolte da alcuni anziani qui in Brianza, tramandate dai loro “vecchi”, che venivano quindi dall’Ottocento, mi è stato riferito che la dote nuziale era chiamata ancora schirpa, mentre il termine dóta  è più vicino a noi, diciamo a partire dai primi anni del secolo scorso. Il termine schirpa pare deriverebbe, secondo il Cherubini e il Banfi, dal latino barbaro “scerfa”, che significherebbe dotazione.

 
 

Ricordo che mia nonna paterna, classe 1904, rimasta purtroppo vedova a 37 anni, con due figli piccoli da crescere, quando era in fase di confidenze mi raccontava dei tempi della sua gioventù. Partiva dalla triste vicenda di sua madre, morta per le complicanze del parto un mese dopo la sua nascita, della crescita ad opera di una amorevole e affettuosa zia, della miseria vissuta durante il periodo della Grande guerra e concludeva con la perdita del marito, morto su un carro agricolo nel 1941(1). Al che, schiacciando l’occhio a mio padre, cercavo di riportarla su argomenti per lei più piacevoli, come quando i genitori di mio nonno e mia nonna decisero che fosse giunto il momento di far maritare i due ragazzi. Per mia nonna questo passo l’avrebbe portata ad entrare in una famiglia più “strutturata” che le avrebbe consentito di migliorare la sua condizione economica. Ciò che le piaceva raccontare erano i preparativi del matrimonio ed in particolare dei mesi impiegati a predisporre la dóta; parlava di un gran lavoro di ricamo e di cucito, di maglieria, di giorni e serate  intere passate con l’ago tra le dita per mettere insieme il suo modesto corredo matrimoniale. Modesto, ma fatto da lei, probabilmente con l’aiuto di qualche zia. Io ero già un ragazzo, ma mi piaceva ascoltare la nonna raccontare, perché lei parlava solo il dialetto brianzolo, il vecchio dialetto, con terminologia oggi pressoché scomparsa, schietta e sincera, proprio come era la gente contadina quando l’agricoltura era la regina della povera economia popolare.
Tuttavia, qui in Brianza, almeno fino al secondo dopoguerra, la famiglia che "perdeva un reddito" dalla formazione di una nuova famiglia era quella di origine della sposa. Dopo le nozze, infatti, i coniugi non costituivano un nucleo autonomo, ma andavano a vivere “in famiglia”, ossia insieme alla famiglia dello sposo. Tuttavia, la famiglia dell’uomo, pur non versando un risarcimento vero e proprio, anche se provvedeva a fornire qualche capo di biancheria, si sobbarcava le spese maggiori del matrimonio, volte a predisporre almeno un paio di locali, cucina e camera da letto, per la nuova coppia, il mobilio e le spese per i festeggiamenti nuziali.
Ma tutti i passaggi che portavano alla celebrazione del matrimonio, dote compresa, erano regolamentati, oltre che nei contenuti, anche nei tempi, in quanto essi si collocavano in un momento preciso delle varie tappe che componevano la sequenza rituale delle nozze, al cui centro vi era naturalmente il rito religioso.

Beniamino Colnaghi

Note

 

 

mercoledì 17 giugno 2020

Rachele Torri, la prozia di Pietro Valpreda

Il 1969 fu un anno di grandi tensioni in tutto il paese. Piccoli attentati che non causarono morti si erano succeduti per tutta la primavera e l’estate in molte parti d’Italia. Le contestazioni degli studenti iniziate in varie università nel 1968 si erano fatte sempre più forti, e più dura si era fatta anche la reazione della polizia. Nell’autunno di quell’anno, quello che venne chiamato “l’autunno caldo”, alla protesta degli studenti si affiancò quella degli operai di molte fabbriche e aziende, che iniziarono un periodo di proteste e scioperi per ottenere aumenti salariali e migliori condizioni di lavoro. Anche la situazione politica nazionale era molto turbolenta e precaria.
Il 12 dicembre 1969 furono quattro le bombe che esplosero: una a Milano e tre a Roma (una quinta bomba fu trovata inesplosa a Milano in piazza della Scala). L’unica a uccidere delle persone fu quella avvenuta intorno alle 16.35 nella sala principale della Banca dell’Agricoltura, in piazza Fontana a Milano, dove decine di agricoltori si erano trattenuti oltre l’orario di chiusura per depositare i loro guadagni di giornata (era venerdì, giorno di mercato). La bomba era costituita da sette chili di tritolo chiusi in una scatola di metallo all’interno di una valigia in pelle. La sala della banca, dall’alto soffitto a cupola, fu devastata dall’esplosione. Diciassette persone furono uccise, di cui tredici sul colpo. Altre 88 rimasero ferite dalle schegge e dalla potente onda d’urto. Poco dopo un’altra bomba esplose in un sottopassaggio della Banca del Lavoro a Roma, ferendo 14 persone. Seguirono altre due esplosioni, all’Altare della Patria e di fronte all’ingresso del museo del Risorgimento. Era l’attacco armato più esteso e violento dalla fine della seconda guerra mondiale in Italia.
La sera stessa dell’attacco alcune decine di persone furono fermate e interrogate in questura dalla polizia. Erano quasi tutti “soliti sospetti”, giovani con simpatie politiche radicali, in buona parte anarchici e neofascisti, fermati per controlli generici e senza che ci fossero particolari prove nei loro confronti. Tra loro c’era anche Giuseppe Pinelli, un ferroviere anarchico di 41 anni, ex partigiano, iscritto al Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa di Milano. Pinelli, in circostanze mai del tutto chiarite, fu trattenuto in questura e sottoposto a un duro e aggressivo interrogatorio per tre giorni, più delle 48 ore in cui la legge permetteva di prolungare un fermo senza l’autorizzazione di un magistrato. Il terzo giorno, Pinelli precipitò dalla finestra al quarto piano dell’edificio, e morì. Molti suoi compagni, e parte dell’opinione pubblica, sostennero che Pinelli sia stato gettato dalla finestra: o per coprire le ragioni della sua morte nella violenza dell’interrogatorio, o per errore mentre lo si minacciava di gettarlo. Della morte di Pinelli fu accusato il commissario Luigi Calabresi (che sarà ucciso a Milano due anni dopo: per il suo omicidio sarà condannato, molti anni dopo, un gruppo di militanti di Lotta Continua, al termine di un processo lunghissimo, con sentenze alterne e tuttora molto contestato). Il processò sulla morte di Pinelli stabilì la sua totale estraneità alle accuse e risolse le molte contraddizioni nelle testimonianze ed i misteri sulla sua morte, assolvendo i responsabili dell’interrogatorio in questura, con la formula del “malore attivo” che avrebbe portato Pinelli a perdere coscienza e cadere dalla finestra. Ma questo sarebbe successo comunque molto dopo: nei giorni immediatamente successivi le autorità di polizia – il questore per primo, che parlò persino di “un balzo felino” – annunciarono che Pinelli si fosse suicidato perché scoperto come responsabile della strage, e che il suicidio fosse una conferma della fondatezza della pista anarchica.
Il giorno dopo la morte di Pinelli, il 16 dicembre, un altro anarchico venne arrestato: Pietro Valpreda, milanese, classe 1933. Gran parte della stampa è contro Valpreda, perché, se anche non fosse il colpevole, è comunque un “pessimo cittadino, un ballerino, un lavoratore occasionale, uno senza famiglia, un anarchico”. Alcuni titoli di quotidiani del 17 dicembre: Valpreda è perduto. La furia della belva umana (“Corriere d’informazione”), L’anarchico Valpreda arrestato per concorso nella strage di Milano (“Corriere della Sera), Arrestati gli assassini (Il Messaggero), Un anarchico arrestato per la strage (Il Resto del Carlino), Arrestato un comunista per la strage di Milano (Il Secolo d’Italia), Il mostro è un comunista anarchico ballerino di Canzonissima: arrestato (Roma).
Cominciò così il calvario dell’anarchico, anni di sofferenze, di lotte, di umiliazioni. Valpreda era stato riconosciuto da un tassista che sostenne di averlo portato di fronte alla sede della Banca dell’Agricoltura, in piazza Fontana, dove avrebbe depositato una valigia prima di ritornare sul taxi. Valpreda fu immediatamente indicato come il sicuro colpevole da gran parte della grande stampa italiana. Ma oltre alla testimonianza del tassista non c’era nient’altro, e man mano che la pista neofascista appariva più plausibile, in molti iniziarono a dubitare del suo coinvolgimento. Nel 1972, dopo aver trascorso oltre 1.100 giorni di carcere, Valpreda fu liberato grazie a una legge ad personam che introduceva i limiti alla custodia cautelare anche per gli accusati di reati gravissimi, come la strage. L’assoluzione definitiva per lui sarebbe arrivata soltanto nel 1987.
Al termine dell'ultimo processo del 2005, la Cassazione ha affermato che la strage fu realizzata dalla cellula eversiva neofascista di Ordine Nuovo, diretta da Franco Freda e Giovanni Ventura, non più processabili in quanto assolti con sentenza definitiva nel 1987. Non è mai stata emessa una sentenza per gli esecutori materiali, coloro che cioè depositarono in banca la valigia con la bomba.
Chissà quante persone, soprattutto giovani, sanno che cosa è successo il 12 dicembre 1969 in piazza Fontana a Milano e che cosa avvenne negli anni successivi, con l’umiliante odissea della mancata verità dei fatti e della giustizia fallita, andata avanti 36 anni, tra 11 processi di condanna svolti in diverse città italiane, 4 giudizi in Cassazione, assoluzioni in appello, depistaggi e ostacoli di ogni genere, inganni, false testimonianze, deviazioni di uomini dei servizi segreti, apposizione del segreto politico e militare, fino alla sentenza del 3 maggio 2005: tutti assolti, strage senza colpevoli, i parenti delle vittime condannati persino a pagare le spese di giudizio.  

 Rachele Torri

Furono diverse le persone che testimoniarono l’innocenza di Pietro Valpedra, confermarono l’alibi dell’anarchico, ossia che quel maledetto 12 dicembre era a letto malato. Tra le prime figure ci sono quattro donne, le parenti più strette di Valpreda: la madre, Ele Lovati, la sorella Maddalena, la nonna, Olimpia Torri e la prozia, Rachele Torri. Quest’ultima certamente la più combattiva, l’anello forte della famiglia, il vero avvocato del nipote Pietro. Aveva lavorato come guardarobiera e dama di compagnia in famiglie borghesi e benestanti milanesi, aveva modi gentili e eleganza di linguaggio. Tenne testa a tutti, anche in tribunale, donna ricca di temperamento, di passione, di cultura, anche se le mancavano gli studi.
La prozia così ricorda quel pomeriggio: “Pietro era a letto con la febbre. Bisognava andare a prendere il cappotto che avrebbe usato l’indomani per andare in ordine dal giudice Amati. Bene ci andai io. Saranno state le 19-19,30 e ricordo che salendo sull’autobus E in piazza Giovanni Dalle Bande Nere una signora ha aperto “La notte” e ho visto a grossi caratteri qualcosa di morti; le chiesi se fosse stato un incidente e lei mi rispose che erano state le bombe. Sono scesa in piazza del Duomo e passando in via Dogana per prendere il tram 13 per andare in piazza Corvetto dai genitori di Pietro, mi sono fermata all’edicola e ho comprato “La notte“. Arrivata da mia nipote le ho detto che Pietro era arrivato, che stava male che perciò ero andata io a prendere il cappotto. La sorella di Pietro, la Nena, mi ha raccomandato di farlo mangiare, mi ha dato il cappotto e le scarpe. Allora sono tornata subito a casa, ho detto a Pietro che sua sorella gli raccomandava di mangiare, poi gli ho dato il giornale” (Intervista a Rachele Torri pubblicata su “A-rivista anarchica” del febbraio 1971).
Nel dicembre 1978, il giornalista Corrado Stajano intervistò la signora Rachele, che così si espresse in merito all’accusa contro suo nipote e ad alcune fasi del dibattimento giudiziario e processuale. “Se i morti di piazza Fontana potessero lasciare le loro tombe, farebbero vedere le streghe, gli aggiusterebbero le ossa ai generali, ai ministri. E questi personaggi, allora, le loro medagli, i loro cilindri, sarebbero costretti a lasciarli sulla povera terra delle fosse. Che vergogna, eh che vergogna. Quando ho saputo dell’infame richiesta del pubblico ministero, sono rimasta amareggiata. E qui, sola, ho pensato: Signore santo, allora in Italia non c’è un minimo di giustizia. Occorre coscienza e onestà per giudicare. Ho visto la passerella che hanno fatto a Catanzaro politici e militari, uno più vigliacco e bugiardo dell’altro, facce di palta, si dice a Milano. Ho visto il presidente del Consiglio negare il Cristo in croce. Due o tre giorni dopo l’ho visto in San Pietro con un libro da messa in mano. Il più indignato sarà stato Gesù Cristo perché la religione è un’altra cosa. Che vergogna. Dopo nove anni tirano in ballo quel povero Valpreda. Guardi, lei sta parlando con una persona profondamente cattolica: sa che cosa ho pensato quando ho saputo? Ecco, esistono uomini che non temono la giustizia di Dio, che ne hanno dimenticato l’esistenza. Non ci sono ragioni di stato, segreti politici e militari, non c’è il Sid per la legge di Dio. La giustizia di Dio è inesorabile e qualcuno dovrà pur pagare per gli scandalosi errori, per la prigione, il linciaggio, la sofferenza di Valpreda”.
Così poi prosegue la signora Torri. “Io sono una povera donna di 75 anni e ho vissuto una tragedia più grande di me quando ho visto alla televisione quei testimoni, l’ammiraglio, soprattutto l’ammiraglio Henke, il capo del Sid che diceva: “Era scritto, non era scritto, la matita rossa, la matita verde, io non l’ho mai usata la matita verde, io non c’ero, lui non c’era, c’era quell’altro, ma è morto e quell’altro ancora, ma è scappato all’estero”, allora ho pensato: ma sono questi, dunque, gli uomini che ci governano, possibile che giochino ai bussolotti con la vita degli italiani? Che farsa se non fosse una terribile tragedia. E quei poveri morti! Valpreda è ancora vivo, ma è stato ucciso un po’ da tutti perché è un povero Cristo, perché è un anarchico, non vorrei mai essere la zia di Andreotti, per esempio. Quando alla tv lìho visto a Catanzaro, mi son detta: vi ringrazio, Signore, di non essere la zia di quest’uomo. Io volevo andare al processo a sentire la requisitoria del pubblico ministero, ma poi ho fatto i conti di cassa – la mia pensione è di 101.000 lire al mese. In gennaio diventeranno 123.000 – e ho dovuto rinunciare. Per fortuna, perché avrei senz’altro parlato, avrei gridato nell’aula contro lo scandalo e l’ingiustizia e mi avrebbero messo dentro e sarei diventata io la colpevole della strage di piazza Fontana…”.
“L’unica persona in cui credo è il presidente della Repubblica (Sandro Pertini, ndr). Io non penso a lui come al capo della magistratura, ma come al rappresentante del popolo. Mi sembra una figura pulita, diversa da tutte le altre. Ho una grande stima per quest’uomo: intervenga come può e cerchi di porre fine a uno scandalo così grande. Io voglio l’assoluzione completa per il mio Pietro, non voglio nessuna grazia. Non abbiamo bisogno di nessuna grazia. Stimo Pertini per tutto l’insieme, per il suo comportamento, per il suo passato glorioso. Signor Presidente della Repubblica: chi ci governa ha dimenticato i sacrifici dei nostri giovani, i nostri sacrifici, ha dimenticato la Resistenza. Lei ha fatto la Resistenza, ha combattuto il fascismo, ha subito carcere, esilio, persecuzione. È stato sempre povero come noi. Parli, dica che l’Italia è di chi l’ha fatta, che l’Italia è del popolo, non di questi predoni.” (Corrado Stajano, La zia Rachele e il presidente Pertini, in “Il Messaggero”, 3 dicembre 1978, tratto dal libro, sempre dello stesso Stajano, La città degli untori, 2009, Garzanti, Milano).

Rachele Torri muore il 23 agosto 2000, ha 97 anni; l’amato nipote, Pietro Valpreda, muore a Milano il 6 luglio 2002, all’età di 69 anni. 

Beniamino Colnaghi

sabato 23 maggio 2020

I sequestri di persona in Brianza negli anni

Settanta e Ottanta

Il caso di Cristina Mazzotti

Il periodo compreso tra gli inizi degli anni Settanta e la fine degli Ottanta del secolo scorso è tristemente definito come quello degli “anni di piombo” e del terrorismo. La memoria collettiva corre immediatamente agli anni della strategia della tensione, all’eversione neofascista, a quella delle Brigate rosse, agli omicidi eccellenti compiuti dalla Mafia e dalla criminalità organizzata, in danno di magistrati e politici, in particolare al sequestro ed alla uccisione di Aldo Moro nel 1978.
Ma non è di questo che si intende parlare in questo articolo, anche se la stagione della violenza “politica” rappresentò il più pericoloso attacco alla nostra ancor giovane democrazia. Si intende, invece, parlare del fenomeno dei sequestri di persona a scopo di estorsione, che imperversò su tutto il territorio nazionale, a partire dalla fine degli anni Sessanta, per raggiungere la massima intensità nel decennio successivo, per poi proseguire negli anni ’80 con andamento discendente.
Furono complessivamente 671 i sequestri (fonte sito del Ministero degli Interni) e 694 il numero dei sequestrati, poiché è anche accaduto che a volte con un singolo sequestro si prendessero come ostaggi più persone. Le vittime furono 564 uomini e 130 donne. Alcune decine erano bambini o adolescenti. 80 furono coloro che non fecero più ritorno perché deceduti per malattie, privazioni e stenti subite durante la lunga prigionia (a volte superiore a due anni), oppure perché anziani e già sofferenti per malattie cardiache e altro, e mai i loro corpi furono restituiti alle famiglie, né venne mai data notizia dei luoghi nei quali erano stati seppelliti. Il triste primato di durata venne toccato dal giovane Carlo Celadon, rapito dalla ‘ndrangheta il 15 gennaio 1988, ad Arzignano, provincia di Vicenza, portato in Aspromonte, liberato il 4 maggio del 1990, dopo 831 giorni di prigionia, dalla quale uscì dimagrito di trenta chili e ridotto a una larva umana. Il riscatto, pagato in due rate, ammontò a ben sette miliardi di lire.
Quanto alle organizzazioni criminali che si occuparono di tale tipologia di reato, va osservato che i sequestri avvenuti in Sardegna e in parte nel Lazio e nella Toscana meridionale, furono compiuti da esponenti del banditismo sardo; quelli compiuti in Veneto (ma non tutti) dalla cosiddetta Mala del Brenta, facente capo a Felice Maniero e dalla banda dei giostrai, ma non solo in Veneto; pochi da Cosa Nostra e tutti i rimanenti sono da attribuirsi alla ‘ndrangheta calabrese.
L’anno in cui il numero dei sequestri raggiunse il suo massimo fu il 1977, nel quale avvennero ben 75 sequestri di persona. Un numero oggi impensabile, che se si ripetesse, creerebbe altissimo allarme sociale con ripercussioni politiche e sociali di fortissimo impatto sulla vita del Paese. Si tenga conto che l’Italia fu l’unico paese europeo che conobbe un genere di fenomeno criminale barbaro e violento, quasi a segnarla come patria indiscussa di fenomeni mafiosi unici e assai potenti, di fronte ai quali la risposta non era pari all’altezza della minaccia. Mentre al Nord gli obiettivi erano quasi sempre imprenditori operanti nelle ricche province lombarde e venete, in Calabria le vittime furono scelte tra i farmacisti e i professionisti. Non mancarono casi di ostaggi illustri, da Gianni Bulgari a Roma, a Fabrizio De André e Dori Ghezzi in Sardegna, al piccolo Farouk Kassam, sempre in Sardegna, al re delle pellicce, Giuliano Ravizza, titolare della pellicceria Annabella di Pavia, per finire con una delle prime vittime della ‘ndrangheta calabrese, Paul Getty III, nipote dell’omonimo miliardario americano, rapito a Roma e liberato dietro pagamento di una ingente somma di danaro, dopo che la ‘ndrangheta aveva recapitato al padre il lobo di un orecchio del sequestrato.
Differenti erano le motivazioni che spingevano le varie organizzazioni operanti sul territorio a compiere questo tipo di reato. Solo la ‘ndrangheta, a differenza di tutte le altre, che avevano il solo fine di arricchimento immediato fine a sé stesso, aveva usato tale genere di odioso reato con un fine ben preciso, di costituire cioè la provvista di denaro necessaria per entrare nel ricco mercato del traffico di sostanze stupefacenti, che richiedeva la disponibilità di ingente liquidità finanziaria. Peraltro, questo fu uno dei plurimi motivi che, una volta raggiunto l’obiettivo, rendeva inutile proseguire su quella attività criminosa sempre meno sicura e ormai rischiosa. Dal 1972 in poi, nella maggior parte dei casi le indagini avevano avuto esito positivo, con l’arresto di tutti, o almeno buona parte, dei sequestratori. Va detto che questo tipo di reato richiede necessariamente il concorso di numerose persone: il basista che segnala l’obiettivo, i suoi spostamenti e le sue abitudini, gli incaricati della cattura, altri del trasporto dell’ostaggio anche a centinaia se non migliaia chilometri di distanza, e ancora i custodi della prigione, i vivandieri, i telefonisti incaricati di tenere i contatti con le famiglie, sino ai riciclatori del riscatto. In 152 casi, invece, le indagini non diedero alcun risultato. Sono stati arrestati, processati e condannati oltre 2000 indagati. Oltre un centinaio i latitanti, dei quali tutti catturati in anni successivi.
In buona sostanza il dramma delle vittime dei sequestri si aggiungeva a quelle delle stragi, degli omicidi di giovani appartenenti ad opposti schieramenti ideologici, di esponenti delle forze dell’ordine, ai professionisti, avvocati, giornalisti, magistrati, politici, esponenti sindacali, docenti universitari, che hanno perso la vita sulle strade e le piazze d’Italia.
Chiudendo la sommaria ricostruzione storica di un fenomeno criminale, molti "esperti" formularono  diverse ipotesi sul perché vennero sequestrate così tante persone. La prima vide una sorta di ricatto delle mafie allo Stato con la minaccia di tenere il Paese in una situazione di costante allarme; altri invece intravvidero una strategia di distrazione di massa dell’opinione pubblica e dispersione delle energie investigative e repressive su più fronti, concordata con i poteri occulti dell’eversione. Erano quegli gli anni in cui le mafie e la banda della Magliana erano tutte presenti a Roma, avevano raggiunto forme di raccordo con strutture eversive neofasciste, come dimostrato negli omicidi di Pier Paolo Pasolini nel 1975, di Vittorio Occorsio nel 1976, di Giorgio Ambrosoli nel 1979, nella fuga di Franco Freda del 1978-79, con l’appoggio logistico della ‘ndrangheta reggina, e tanto altro ancora. Una storia ancora da esplorare, che forse potrebbe consentirci di comprendere il ruolo “politico” che le mafie italiane hanno avuto a fianco dei nemici esterni ed interni della nostra democrazia.

Circoscrivendo il fenomeno dei sequestri di persona alla Brianza, area di crescente benessere e nuova ricchezza, solo nel Lecchese e nel Comasco i sequestri di persona in pochi anni furono poco meno di trenta. Ricordiamo qualche nome: i due cugini Meroni di Arosio, uno dei quali titolare del gruppo Lema; Giovanni Stucchi, industriale di Olginate, mai tornato a casa; Maurizio Colombo di Imbersago, nipote di Felice, ex presidente del Milan; Piero Fiocchi di Lecco, ex senatore del Partito liberale; Davide Agrati, 8 anni, di Monticello Brianza, figlio del patron del marchio di motociclette Agrati-Garelli; Elena Corti, 13 anni, di Lecco;  Gaby Kiss Maerth, 18 anni, che abitava con la famiglia a Moltrasio e molti altri ancora.
La maggior parte dei sequestrati, come visto, dopo patimenti e grandi sofferenze, fecero ritorno a casa, dopo il pagamento di riscatti molto alti o grazie all’azione di Carabinieri, Polizia e al polso fermo della Magistratura, che cominciò a bloccare i capitali delle famiglie.
I  sequestri più tragici, invece, che scossero profondamente l’opinione pubblica, furono quelli in cui le vittime non ritornarono più a casa. Vennero uccise e in alcuni casi non venne ritrovato nemmeno il corpo. Oltre al già citato sequestro di Giovanni Stucchi di Oginate, uno dei più orrendi, che qui in Brianza generò sconcerto e rabbia, fu quello della ragazza diciottenne Cristina Mazzotti, di Eupilio, piccolo borgo che si affaccia sullo splendido lago di Pusiano, a due passi da Longone al Segrino, che ospitava la villa dello scrittore Carlo Emilio Gadda.
 
Cristina Mazzotti
 
Cristina era figlia di Elios Mazzotti, molto noto in zona per l’importazione di cereali dall’Argentina. La ragazza fu rapita la notte del 30 giugno 1975 mentre stava rientrando a casa, nella villa di famiglia a Galliano di Eupilio, quando l’auto su cui viaggiava con amici fu bloccata lungo una stradina buia da una Fiat 125 gialla, messasi di traverso. Cominciò così il penoso calvario della ragazza, che durò fino alla sua morte. Il cadavere venne rinvenuto il primo di settembre in una discarica a Varallino, vicino a Galliate, in provincia di Novara, tra carrozzine rotte, sacchi della spazzatura e topi.
Il sequestro di Cristina era stato ideato da una “banda mista”, composta da elementi di una famiglia calabrese della ‘ndrangheta e da malviventi locali comuni, per nulla esperti, che gestirono il sequestro, la custodia dell’ostaggio e la trattativa con i genitori di Cristina. Le Forze dell’ordine e la Magistratura individuarono molto presto alcune persone sospette, che vennero pedinate e fotografate. Il giorno dopo il sequestro al padre fu chiesto un riscatto, che si rivelò molto oneroso per i Mazzotti. La banda si rifece sentire, riducendo le pretese. I genitori, ipotecando la casa, affrettarono il pagamento di una prima rata del riscatto, pare intorno al miliardo di vecchie lire. La ragazza era prigioniera presso una cascina di Castelletto Ticino. A Cristina, oltre al poco cibo e acqua, venivano somministrati quotidianamente psicofarmaci e sedativi. Il fisico cominciò a debilitarsi e a non sopportare il fortissimo stress. Un mese dopo il rapimento la ragazza era ormai in fin di vita. Non è chiaro come avvenne il decesso, datato il giorno prima del pagamento del riscatto dai familiari, ignari della tragica conclusione.
Le indagini degli inquirenti ebbero una svolta decisiva quando uno del gruppo dei malviventi locali commise un errore fatale. Infatti, questi ultimi ricevettero il loro compenso, pare il 10% del riscatto, probabilmente meno di quanto pattuito con i calabresi. Appena ricevuta la somma, uno dei complici, colui che aveva portato il corpo in discarica, esportatore illegale di valuta, pensò bene di trasferire subito i soldi in Svizzera, per “ripulirli”. Qui avviene l’imprevisto: il dipendente della banca avverte la polizia cantonale dell’anomalo versamento di una grossa somma da parte del cliente; gli svizzeri, peraltro convinti che la ragazza fosse ancora viva, avvertirono subito la polizia italiana che si mise a indagare sull’esportatore di valuta, scoprendo che era una persona nota alla famiglia Mazzotti. Gli interrogatori, i pedinamenti e le intercettazioni telefoniche portarono ad alcuni esponenti della banda. La perquisizione nella casa del capo banda permise di trovare oggetti appartenenti alla ragazza, tra cui un orologio Rolex. La confessione dello “svizzero” condurrà al luogo dove era stato gettato il corpo di Cristina, al nome dei complici e dei calabresi coinvolti, ma stranamente non di chi aveva eseguito materialmente il sequestro. Si saprà molti anni dopo, solo nel 2008, grazie all’impronta di un pollice rinvenuta sull’auto della rapita, e rimasta da qualche parte in un computer degli inquirenti, che uno di questi era un coetaneo di Cristina, giovane ma già pericolosissimo. Il ragazzo confessò, indicando peraltro i nominativi dei due complici che parteciparono al rapimento e che, con lui, fermarono armi in pugno la Mini Minor su cui Cristina viaggiava con i due amici. E raccontò come ottenne venti milioni di vecchie lire per rapire una studentessa di diciotto anni e consegnarla ai suoi carnefici. Dirà agli investigatori che ebbe la commissione da gente che non aveva mai visto né conosciuto.
Ancora oggi, i 100 milioni di lire consegnati dai calabresi ai componenti locali della banda, sono gli unici recuperati del miliardo pagato dalla famiglia Mazzotti. In capo a quattro anni furono comminati otto ergastoli e due condanne a molti anni di prigione. Quello che non si comprenderà mai abbastanza della vicenda è perché i criminali locali coinvolsero la ‘ndrangheta nel rapimento, la quale ebbe tutto sommato un ruolo marginale. Probabilmente venne deciso per ottenere una “copertura” e non avere fastidi. Gli articoli dei giornali riferivano di voci raccolte fra gli inquirenti su un probabile “primo livello” rimasto parzialmente sconosciuto. Si intravvedeva, in sostanza, non solo un legame di tipo nuovo fra malavita lombarda e criminalità organizzata calabrese, ma anche, visti i trascorsi del capo banda dei locali, un collegamento con l’eversione nera di estrema destra.

I genitori di Cristina vollero costituire una Fondazione che ricordasse l’amata figlia, scomparsa a soli 18 anni, e che contribuisse a mantenere viva la memoria e a fare in modo che altre persone non dovessero affrontare le stesse sofferenze materiali e psicologiche. Sofferenze che causarono la morte di Elios Mazzotti, il padre di Cristina, solo pochi mesi dopo il ritrovamento del corpo.

Beniamino Colnaghi

Sitografia