venerdì 12 febbraio 2021

Il firunatt, il venditore di castagne al forno nelle sagre e nei mercati brianzoli

Cominciamo intanto col precisare il significato del termine firunatt. Il firon era una collana fatta con le castagne cotte al forno, normalmente non quelle di prima scelta, infilate con uno spago sottile. Una specie di grande collana oppure, come possibile configurazione, piuttosto simile alla colonna vertebrale, con le vertebre sovrapposte, che in dialetto brianzolo si dice firon, schiena. 
Negli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale, quando il popolo italiano cominciò faticosamente a riprendersi la propria libertà e la vita della gente, seppur con mille difficoltà e ristrettezze, iniziava ad intravvedere timidi miglioramenti la società era ancora di stampo contadino e patriarcale, la mezzadria regolava i rapporti economici tra i coloni e le grandi famiglie borghesi e aristocratiche proprietarie di immensi patrimoni in Brianza, la scolarizzazione di massa stava iniziando ad alfabetizzare i figli delle classi sociali più umili e  svantaggiate.
In questo contesto ripresero ad affacciarsi nelle sagre paesane, nelle fiere e nei mercati del territorio alcune figure che cercavano, oltre che di portarsi a casa qualche soldo per mantenere la famiglia, di riproporre antichi mestieri legati alla tradizione del posto: l’arrotino, lo spazzacamino, ul cadregatt (l’impagliatore di sedie), il sensale per la vendita di animali… Tra questi personaggi tipici di quel tempo c’era anche il firunatt, colui che vendeva le castagne al forno infilate con lo spago.
In merito a quest’ultima figura vorrei raccontare la storia di un tale che chiamavano Busen, letta sulle pagine strappate da un libro appartenuto a qualcuno della mia famiglia, che, presumo, raccontasse diverse storie delle genti di Brianza di un tempo.
Busen, in realtà, si chiamava Pio, ed era nato in un piccolo borgo brianzolo nei primi anni del Novecento. Nacque il 7 di dicembre, festa di sant’Ambrogio, ed in omaggio al Santo, molto venerato a Milano ed in Lombardia, la gente del suo paese lo soprannominò Busen, da Ambrös, Bös, Busen, piccolo Ambrogio. Piccolo era rimasto piccolo, di statura, ma aveva una caratteristica talmente evidente che veniva riconosciuto da tutti: le orecchie a sventola. Rossastre, larghissime e pendenti. La gente che frequentava le sagre ed i mercati lo aveva soprannominato uregiatt, orecchiuto, appunto.
Tuttavia, secondo una vecchia superstizione popolare, le orecchie a sventola, se riferite ad un uomo, indicavano un individuo quasi sempre soddisfatto della propria esistenza, anche se nella realtà era un povero diavolo, e, inoltre, additato dalle donne come sessualmente dotato ed inappagabile. In questo senso un bel uregiatt era un po’ il sogno proibito delle ragazze più esuberanti, che mal si adattavano ai rigidi costumi del tempo.
Nei giorni festivi, dalla Madona del Rusari (7 di ottobre) a San Giusepp (19 di marzo), sostava sul sagrato delle chiese brianzole con il suo banchetto stracolmo di firon di castagne cotte, in attesa che uscissero i fedeli dalle messe. Era anche usanza durante le fiere di fine inverno che si tentasse la fortuna con la balutera, un gioco condotto normalmente da un venditore che teneva in mano un sacchetto di panno grigioverde contenente palline numerate. Il tipo richiamava l’attenzione dei passanti infreddoliti e incuriositi gridando alcuni frasi per invitarli a giocare: Forza, o gent! Cinqu ghei tre ball! Dai, giuvinott, tira a la balutera! Per vincere un firon de castegn de metech al coll a la murusa, si doveva estrarre dal sacchetto tre palline numerate la cui somma non doveva superare 90 punti.
Certificato che non era dunque quello che si suol dire un bell omm, tuttavia al Busen non gli mancava niente di quanto allora era ritenuto essenziale per essere considerato un uomo da maritare, da mettere su famiglia. Soprattutto aveva una gran voglia di lavorare, era leale ed onesto con il prossimo, era molto religioso e devoto alla Madonna del Bosco, il santuario dedicato alla Vergine a Imbersago, dove non aveva mai perso una fiera. A quei tempi le ragazze da marito erano più interessate alle qualità morali ed ai principi dell’onestà dell’uomo che alla cosiddetta prestanza fisica.

Venditori di firon di castagne negli anni Cinquanta

Subito dopo la fine della guerra Busen, ormai quarantenne, aveva messo gli occhi addosso ad una donna del suo paese, non propriamente bella, ma tutta  casa e lavoro. Si chiamava Maria Teresa. Aveva un viso tondo, un nasino che terminava a punta e due grandi occhi color castano. Era rimasta vedova e senza figli dopo una decina d’anni di matrimonio, a causa di una bruta malatia del marito, che lo portò via a 35 anni. Ritornò a vivere in cascina a casa dei genitori, svolgendo il lavoro di sarta in casa, come molte ragazze del tempo, ed occupandosi della gestione domestica e degli animali della stalla, che permettevano alla sua famiglia di vivere dignitosamente.      

Pio e Maria Teresa si sposarono il 26 maggio del 1948, festa di san Filippo Neri, un mese dopo le prime elezioni politiche libere, svoltesi dopo la sconfitta del fascismo e la fine della guerra. Durante il tragitto dalla Cascina Immacolata alla chiesa parrocchiale, un paio di chilometri su stradine campestri polverose e malandate, il piccolo corteo della sposa venne sorpreso da un improvviso quanto violento acquazzone. Arrivarono in chiesa bagnati fradici. Il vestito bianco della sposa a storcel ghe vegneva foera una segia d’aqua. Il prete officiante, vedendo il viso triste e contrariato della Maria Teresa, che continuava a gocciolare da ogni parte, le disse ridendo: “Stà alegra tusa! Spusa bagnada, spusa furtunada!”
Ma purtroppo, il tempo non le aveva portato fortuna. La gioia per il matrimonio durò fino alla nascita del primo figlio, un anno dopo, quando la donna morì per gravi complicazioni durante il parto. Il bambino, gravemente asfittico, seguì la madre due giorni dopo.
Il Busen, distrutto da dolore, vendette una vacca ed un maiale che aveva in stalla per ricavare la cifra necessaria per erigere al cimitero del paese un monumento funebre degno della giovane moglie e del figlio. Un bel gruppo in pietra viva raffigurante una giovane donna con il capo reclinato su una colonnina spezzata in marmo bianco. Ai lati del monumento aveva piantato due piccoli cipressi.
Con l’avvento dell’autunno e dell’inverno riprese l’attività di firunatt nelle sagre e nei mercati della zona. Girava, quasi come un automa, di fiera in fiera, da un sagrato all’altro, instancabile. Aveva bisogno di stare in mezzo alla gente, di distrarsi, per cercare di lenire il suo grande dolore per la perdita della sua amata Maria Teresa e del piccolo figlio. Il pover uomo, dopo il lavoro, faceva vita ritirata, come un eremita. Non andava più in osteria a chiacchierare con i vecchi amici ed a bersi un calicino di rosso pugliese.  
In cuor suo e nella sua mente aveva deciso di mettere da parte più soldi che poteva per fare, prima di morire, una cospicua donazione al santuario della Madonna del Bosco di Imbersago, in memoria della sua sposa ed a favore delle persone più sfortunate e bisognose. A quel santuario era andato insieme alla Maria Teresa ed ai rispettivi genitori il giorno che ritirarono il consenso alle nozze, sul careten del Peder dei Galbusera, un amico di famiglia. Il ricordo di quel giorno felice non lo abbandonava mai.
Purtroppo la Provvidenza sulla sua sorte aveva deciso diversamente. I guai per Busen non ebbero mai fine, come Giobbe. Anzi, peggio di Giobbe. Almeno il santo della Bibbia aveva ricevuto tanto da Dio, che poi gli aveva tolto, ma il nostro, oltre a non ricevere niente, si era visto togliere anche la sua amatissima moglie e il figlioletto.
Trascorse diversi anni di esistenza grama e di incomprensioni con i suoi pochi parenti, i quali erano più interessati al suo “bottino” che stava mettendo da parte, giorno dopo giorno, per la Madonna del Bosco, piuttosto che alle sue condizioni di salute. Che peggiorarono drasticamente verso la metà degli anni Sessanta. Un pomeriggio nebbioso di novembre lo trovarono esanime che era ormai quasi buio lungo una stradina campestre, riverso nel fossato. La sua bicicletta, poco distante. Probabilmente ebbe un infarto o un malore improvviso, che non gli diede scampo. I contadini che lo rinvennero chiamarono immediatamente il parroco, don Paolo, che si adoperò per portarlo nella chiesina adiacente all’oratorio del paese, dove venne allestita la camera ardente. Due giorni dopo venne officiato il funerale nella chiesa parrocchiale, la stessa dove Busen e sua moglie si sposarono, e la salma venne poi accompagnata da un lungo corteo verso il cimitero e sepolta accanto alla sua amata Maria Teresa ed al figlio.     
La domenica successiva, durante la messa cantata, quella più frequentata dai fedeli, don Paolo annunciò dal pulpito che ul Busen, circa tre anni prima di morire, gli fece avere, durante la confessione, una busta ben sigillata, nella quale era contenuta una lettera con le sue volontà testamentarie, che, secondo le sue stesse disposizioni, avrebbe dovuto essere letta in chiesa davanti a tutti i fedeli del paese. E così don Paolo, scrupolosamente, fece. Di fronte a diversi bisbigli e mormorii, il prete prese la busta, la aprì e cominciò a leggerne il contenuto. Poche righe, ma le volontà del “de cuius  non potevano essere più chiare: lasciò il piccolo castagneto, la sua casa e la stalla con gli animali all’unico amico che gli era rimasto, un certo Tugnen, un firunatt che abitava in una cascina nelle valli di Muntavegia, Montevecchia, e che metteva il banchetto con i firon di castagne accanto al suo nei mercati e nelle fiere di paese. Un poveraccio, ma animato da sani principi religiosi e cristiani, che doveva mantenere sulle proprie spalle la moglie, cinque figli e il vecchio padre invalido. Don Paolo proseguì la lettura del breve testamento annunciando che tutti i soldi che il Busen aveva messo da parte nei suoi lunghi anni di lavoro erano destinati al santuario della Madonna del Bosco. Indicò, in una chiesa ammutolita, nella quale non si sentiva volare una mosca, che i sudati risparmi erano nascosti in una nicchia ricavata nella parete, chiusa da un mattone, dietro il quadro della Sacra Famiglia, a capo del suo letto.    
La messa domenicale terminò poco dopo, ma contrariamente al solito, la maggior parte dei fedeli sostò a lungo sul sagrato, quasi non volesse tornare a casa per il pranzo. Si formarono diversi capannelli di persone che discutevano di quanto accaduto poco prima in chiesa. Ci pensò il vecchio parroco a richiamare gli astanti a ritornare presso le loro abitazioni, invitandoli a meditare e riflettere sulle scelte sagge, di buon cristiano, operate dal Busen, un uomo umile e sfortunato nella vita, che però diede buon esempio a tutti, per le sue azioni a favore della Chiesa e dei più bisognosi.

Beniamino Colnaghi