venerdì 25 gennaio 2019

27 gennaio “Giorno della Memoria”
Le cartoline di Otto e Elise Hampel, nella Berlino nazista di inizio guerra
 
Secondo Antonio Gramsci “Ogni movimento rivoluzionario è romantico per definizione” (L'Ordine Nuovo, 17 gennaio 1922). Fatte le debite differenze storiche e con l’intento di contestualizzarlo dentro la tragedia che il nazismo generò in Europa, questo assunto potrebbe aver ispirato anche Otto Hampel e sua moglie Elise, autori del tentativo di contrastare il Terzo Reich attraverso una romantica rivoluzione, armata di sole parole. Alla loro coraggiosa storia, resa nota dalla penna del celebre scrittore Hans Fallada, si ispirò, con qualche modifica, il libro Ognuno muore solo, riproposto in forma cinematografica da Vincent Pérez, con il film Alone in Berlin (Lettere da Berlino, nella versione italiana).
Era il 1940 quando una missiva della Wehrmacht annunciò ai coniugi Hampel che il fratello di lei  era caduto in battaglia sul fronte francese. Questa tragica notizia cambiò irrimediabilmente la vita della coppia. Vittime del dolore, in nome di una patria e di un Führer troppo follemente innamorati di sé e del potere, i due decisero, allora, di dare un nuovo senso alle loro esistenze che, da quel momento, furono dedicate alla lotta alla tirannia nazista.

Elise e Otto Hampel (Fonte Wikipedia nel pubblico dominio)

Sostenuto pienamente da Elise, Otto, scrupolosamente attento a non lasciare tracce, diede inizio alla sua personale sfida al nazismo attraverso la redazione di cartoline che mettevano duramente in discussione Hitler. I brevi componimenti, spesso anche singole frasi, furono di volta in volta rilasciati in punti strategici della città di Berlino, secondo uno schema ben preciso che permise, per due lunghi anni, ampia copertura e vasta diffusione del silenzioso grido antinazista.
Il loro fu un grido silenzioso che partiva dal basso, con l’ambizione di diventare una rivolta civile in grado di coinvolgere i cittadini stessi. Purtroppo i tempi non erano i più appropriati: la vittoria tedesca nel territorio francese e il conseguente sentimento di riscatto della Germania dallo sfacelo della Prima guerra mondiale fecero sì che il Führer e il suo partito godessero di una diffusa approvazione da parte della maggioranza dei cittadini del Terzo Reich. Gli sforzi dei due coniugi, entrambi di modeste condizioni e umili origini, volti a cercare di destare le coscienze assopite dei tedeschi, furono vani. Gli Hampel si trovarono a dover lottare con un nemico ben più forte: l’arma della propaganda nazista. Il lavaggio delle coscienze e l’indottrinamento alla denuncia instillato nei cittadini dal partito di Hitler era invincibile e i vicini di casa e di quartiere di Otto ed Elise si tramutarono ben presto nei loro aguzzini.
I coniugi, infatti, desideravano risvegliare la coscienza del popolo tedesco, esortandolo a ribellarsi a una dittatura che perseguiva violentemente non solo gli ebrei ma, anche, tutti coloro che a essa si opponevano. In un clima di terrore tale, però, sperare in una reazione fu davvero impresa ardua. Chi trovava i biglietti, infatti, si apprestava rapidamente a consegnarli alla polizia che, intanto, era sulle tracce degli autori di quella sommossa, unica nel suo genere ma priva, nei fatti, di una vera e propria organizzazione politica di opposizione.
Dal 1940 al 1942 per la Gestapo fu praticamente impossibile risalire ai due. Quella rivolta tra le mura di casa, la cura all’anonimato, la normalità di persone come Otto ed Elise – lui falegname in una fabbrica che produceva materiale per fini bellici, lei membro dell’associazione nazionale delle donne nazionalsocialiste – resero piuttosto complicata la loro individuazione, ritenuta sempre più necessaria perché pericolosa. Nessuno doveva sapere, nessuno doveva dubitare: il regime doveva continuare ad apparire saldo.
Le cartoline composte dagli Hampel, prima che una tasca bucata del cappotto tradisse Otto, furono circa 285. Quelle riconsegnate alla polizia tedesca 267. Solo diciotto, infatti, non furono mai denunciate. Forse, la perdita del fratello, il grosso rischio di essere scoperti, la paura e il bisogno di dire basta non erano stati così inutili: nel frastuono delle bombe, qualcuno aveva sentito le urla di denuncia di due persone stanche, arrabbiate, sole.

Targa ricordo posta sullo stabile di Berlino dove vivevano gli Hampel (Fonte Wikipedia)

Gli Hampel tentarono di combattere il Führer dall’interno, in modo tanto silenzioso quanto deciso. Consci della potenza della propaganda nazista, ancor più efficace dei soldati schierati ovunque, scelsero di opporvisi imbracciando l’arma della parola, sperando in un risveglio dei loro concittadini tedeschi, tale da sovvertire lo stato delle cose. Sebbene la Gestapo abbia tentato di metterli a tacere, però, condannandoli alla decapitazione, avvenuta l’8 aprile 1943, proprio la polizia segreta con i suoi documenti, ha permesso alla loro storia di giungere fino a noi. La scrittura, l’unico mezzo a disposizione della temeraria coppia, alla fine ha vinto.
Anche se molte delle fonti ufficiali hanno sempre teso a presentarci la nazione tedesca dell’epoca come compatta e determinata nell’affermazione della presunta superiorità della razza ariana, la vicenda smentisce l’errata convinzione che Hitler non avesse oppositori in patria e ci ricorda che, ieri come oggi, nessuna rivolta, anche la più timida, anche la più apparentemente innocua, è inutile.
Ogni battaglia merita di essere combattuta, ogni regime dispotico e violento rovesciato, ogni libertà difesa. C’è un motivo per il quale il potere ha sempre temuto gli intellettuali: le parole fanno sì che le idee e i diritti non restino inespressi. Ma mentre le voci si possono mettere a tacere, la scrittura non si imbavaglia, non la si ferma in alcun modo. La sua eco supera persino il rimbombo delle armi.
Beniamino Colnaghi

Fonti
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domenica 20 gennaio 2019

Matera, capitale europea della cultura 2019
Quando Pasolini vi girò Il Vangelo secondo Matteo

Come nacque Il Vangelo secondo Matteo? Cosa spinse Pier Paolo Pasolini, nel 1964, un marxista non credente,  anticlericale, a realizzare un film sulla vita di Gesù così aderente al sacro testo, essenziale, privo di ideologismi?
Il regista era affascinato dal Cristo-uomo, apologeta degli ultimi, e rimase rapito dalla bellezza della Parola: ma poteva bastare, questo, a fare «il miglior film su Gesù di tutta la storia del cinema», come ha sostenuto non molto tempo fa L'Osservatore Romano, il giornale della Santa Sede? Sulla genesi del capolavoro cinematografico pasoliniano è stato detto e scritto molto, durante gli anni. Ma, si sa, lo scrittore e poeta nato a Bologna, friulano d’adozione, romano per necessità era un intellettuale complesso, non certamente facile da decifrare.
 
Pasolini sul set del film e sullo sfondo Matera

Pasolini maturò la decisione di raccontare la storia del Nazareno dopo aver riletto il Vangelo «come un romanzo», in una notte «illuminata», in occasione di un dibattito sul suo Accattone. Pasolini ambienta Il Vangelo secondo Matteo nell’Italia meridionale degli anni Sessanta, tra Lazio, Campania, Puglia e Lucania, e guarda al mondo contadino per individuare attori i cui volti rappresentino con rudezza la sofferenza dei palestinesi, si serve di amici intellettuali per gli apostoli e si rivolge a esponenti della borghesia per rappresentare i farisei, per consegnare della religione un ritratto quale strumento di dominio politico e sociale. Attraverso il suo sguardo, quindi, Pasolini ripropone quello delle scritture evangeliche e di Gesù, nel quale si rivede, tant’è che sceglie proprio sua madre, Susanna Colussi, per rappresentare la Vergine Maria, non come figlio di Dio, ma appunto come uomo fra gli uomini, portavoce e leader rivoluzionario dei più deboli, degli umili e degli oppressi palestinesi. L’autore e cineasta si era già avvicinato al mondo del sacro da una prospettiva “atea” e, anzi, solo l’anno precedente, nel 1963, era stato accusato di vilipendio della religione di Stato per l’episodio de La ricotta, laddove uno dei ladroni moriva per indigestione della ricotta rubata, tant’è che Pasolini riscontra difficoltà nel trovare un produttore che finanzi il film.
Sono anni in cui la Chiesa Cattolica, col Concilio Vaticano II e soprattutto grazie all’opera di papa Giovanni XXIII, si avvia ad una fase post-bellica, di rinnovamento e di apertura alle donne e alla sinistra intellettuale; ed è proprio alla persona del Papa che Pasolini dedica Il Vangelo secondo Matteo, poiché è a lui che pensa quando, aprendo per caso la Bibbia e leggendo il Nuovo Testamento, partorisce l’idea del film. Un ateo, anticlericale e marxista questa volta consegna una visione tutta personale del sacro, profondamente cristiana, che gli vale l’apprezzamento della parte più aperta del mondo della Chiesa. Anche se papa Giovanni era nel frattempo morto, Pasolini volle inserire una commovente dedica nei titoli di testa “Alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII” e il desiderio dell’autore di proiettare il film “nel giorno di Pasqua in tutti i cinema parrocchiali d’Italia e del mondo”. 
 
Una scena del film

Pasolini era un artista complesso e controverso, scandalizzava il mondo con il suo cinema e la sua letteratura, si trovava spesso in contrasto con il pensiero della Chiesa. Eppure sentiva vivo, dentro di sé, il senso religioso. La fede fu qualcosa di molto presente nella sua vita. Che l’intellettuale rivolgesse una particolare attenzione ai valori antichi radicati nella civiltà contadina, nonché al sacro, è un dato indiscutibile. La sua copiosa opera artistica e letteraria, d’altronde, rispecchia un costante impegno di denuncia nei confronti di una società consumistica risucchiata nell’abisso dell’assenza di Dio. Soprattutto, il Pasolini ateo ed anticlericale riconosceva nel Cristianesimo, essenza di quel mondo contadino che egli decantava nostalgicamente, una forza liberante dall’avvilimento borghese e dalla cultura moderna.Quello che forse rimane ancora da capire è quanti e quali spazi si era ritagliato Pasolini nel descrivere la vicenda di Cristo, pur riprendendo “punto per punto” il Vangelo, senza adattamento né sceneggiatura. E in questo sta, forse, il nocciolo della questione: riscoprire il  “destino corsaro” di un uomo, di un poeta, di un grande intellettuale, che sulla libertà si è giocato tutto. Anche la sua vita.

Beniamino Colnaghi
 

martedì 8 gennaio 2019

Il paesaggio rurale, dimore prestigiose, acqua e monti della Brianza
nella penna di poeti e scrittori
 
Sino alla prima metà del Novecento, il paesaggio brianteo conservava gran parte dei suoi principali tratti distintivi rurali che lo avevano caratterizzato da secoli e secoli. La massiccia, e a volte dissennata, espansione edilizia della seconda metà del secolo scorso non si era ancora manifestata. Certo, il paesaggio agrario e rurale, fino a quel momento presente in Brianza, ha subito dissodamenti e piccole trasformazioni da parte dell’uomo, per renderlo più produttivo. Il paesaggio naturale venne sostituito dal paesaggio agrario.
Il “poeta eterno” Giacomo Leopardi, all’inizio del XIX secolo, nelle Operette morali, Elogio degli uccelli, scrisse a tale proposito: “Una grandissima parte di quello che noi chiamiamo naturale, non è; anzi è piuttosto artificiale: come a dire, i campi coltivati, gli alberi e le altre piante educate e disposte in ordine, i fiumi stretti infra certi termini e indirizzati a certo corso non hanno quello stato né quella sembianza che avrebbero naturalmente”.
 
L’agricoltura lombarda, fece osservare il milanese Carlo Cattaneo in Lombardia antica e moderna, “… trasfigurò ogni vestigio della vegetazione primitiva”, trasformando questa regione in una delle più rigogliose dell’intera Europa. I vari elementi che componevano il paesaggio, fossero campi coltivati, praterie o aree boschive, filari di gelsi, corsi d’acqua, terrazzamenti collinari, casolari o gli antichi borghi rurali, non presentavano alcuna soluzione di continuità. I quadri ambientali non creavano fratture del territorio, c’era armonia, ordine e equilibrio perché il lento e sapiente lavoro dell’uomo ha prodotto una sintesi perfetta.
A partire dall’età illuministica il fascino e la bellezza di questi luoghi seppero attrarre pittori e poeti, artisti di ogni genere. Giuseppe Parini, nato a Bosisio nel 1729, in pieno territorio brianteo, descrisse amabilmente le bellezze e le amenità del paesaggio da lui spesso percorso e visitato. Alcuni anni più tardi Ugo Foscolo, scrittore e poeta tra i più grandi dell’età neoclassica, in una corrispondenza dalla Brianza si compiacque al pensiero di ammirare alcuni scorci della regione, tra cui i Piani d’Erba. “Vedrò la primavera  sorridere su’ colli di Pusiano e sugli alberi fioriti del Monte di Brianza” (Epistolario 1809-1811, volume XVI).

Il lago di Pusiano visto dal santuario di Nostra Signora di Lourdes di Monguzzo

Proprio il lago di Pusiano stimolò le grandi menti di poeti e scrittori, come detto di Parini, che nei suoi versi cantò le bellezze del suo lago e degli altri specchi briantei.  
Anche Vincenzo Monti e ancora Ugo Foscolo scrissero di questi laghi. Non è quindi un caso che sia Foscolo sia Monti fossero soliti trascorrere le vacanze proprio ad Erba, ospiti magari di importanti famiglie erbesi in alcune ville come Villa Amalia, residenza situata nella parte alta di Erba.

Più o meno in quegli anni, uno dei più grandi scrittori europei dell’Ottocento, il francese Stendhal, sulla tomba del quale, presso il cimitero di Montmartre, l'epigrafe da lui stesso predisposta recita "Arrigo Beyle - milanese, scrisse, amò, visse", durante il suo lungo viaggio in Italia si fermò in diverse località briantee, tra le quali Inverigo, Canzo, Pusiano e Oggiono. Da queste fugaci apparizioni, avvenute nell’agosto 1818, in compagnia dell’amico Giuseppe Vismara, Stendhal stese un diario, cui l’autore non attribuì grande importanza e che infatti rimase abbandonato fra le sue carte. Conquistato dalla “bellezza sublime” del lago di Como, finì per ambientare buona parte del suo romanzo più noto, La Certosa di Parma, nel paesaggio dolcemente malinconico della Tremezzina. A Griante ha sede il castello della famiglia di Fabrizio del Dongo, il protagonista del romanzo. Costretto a fuggire inseguito dai gendarmi del Lombardo-Veneto austriaco, mentre cerca di riparare in Svizzera, lancia uno sguardo sulle bellezze del paesaggio, tra laghi e monti. “Non aveva ancora percorso una lega, quando le cime del Resegone di Lecco, celebre montagna del luogo, si profilarono a oriente in una striscia bianca, abbagliante. La strada si stava animando di contadini. Ma anziché ragionar da soldato, Fabrizio si lasciava commuovere dalla bellezza dei boschi attorno al lago di Como. Sono forse i più belli del mondo… quelli che più parlano all’anima”. Espressioni simili ritornano nelle note del Diario del viaggio in Brianza, quando Stendhal sta lasciando i laghi di Alserio e di Pusiano per dirigersi verso Annone. In più d’un occasione lo scrittore francese cita in dialetto, con familiarità, “el Rezegon del Leck”.


Sempre nell’Ottocento, entrano sulle scena letteraria e artistica due personalità nate nel lecchese, che, seppur non conosciute al grande pubblico, sarebbe ingeneroso classificare come “minori”: Cesare Cantù e Antonio Ghislanzoni.
Il primo nacque a Brivio nel 1804 e, ancora bambino, venne mandato dal padre presso il ginnasio “S. Alessandro” di Milano, istituzione che avrebbe dovuto avviarlo alla carriera ecclesistica. Ma il giovane Cesare venne ben presto “etichettato” come molto irrequieto e “nemico della schiavitù”. Terminato il periodo di studi a Milano si candidò per l'ammissione al “Collegio Ghislieri” di Pavia, ma venne respinto probabilmente perché, mentre era studente a Milano, diffuse “opinioni proscritte”. Tuttavia, l'ordinamento scolastico austriaco non prevedeva il possesso di titoli legali per l'insegnamento nei ginnasi e perciò, da 1824 al 1827, Cantù ricoprì la cattedra di grammatica presso il ginnasio di Sondrio. Risale a questo periodo la vera formazione intellettuale del giovane, il quale si dedica ad ampie e diversificate letture dei classici, messi al bando dalla giurisdizione austriaca, ma ampiamente e clandestinamente letti da gran parte degli intellettuali lombardo-veneti. Da questo interesse storico-politico nasce probabilmente il poemetto Algiso, pubblicato a Como nel giugno del 1828 e avente come tema la lotta dei comuni lombardi contro Federico Barbarossa. Lo studio della storia con una particolare attenzione verso il patriottismo, impegna Cantù nella scrittura della Storia della città e della diocesi di Como. Questo lavoro, nonostante risenta di una certa inesperienza giovanile, rappresenta il primo tratto originario di un disegno che Cantù vorrebbe più completo e variegato, ovvero una storia dell'intera Lombardia. Le coordinate preliminari di questo progettato disegno vengono espresse nel volume Sulla storia lombarda del secolo XVII. Ragionamenti per servire di commento ai Promessi Sposi (1832) e Sul romanzo storico. Lettera di un romantico (1831), una costante rinascita dello spirito civile lombardo, alimentata dal ruolo educatore dei letterati e di cui Parini risulta essere l'esempio più alto. La posizione decisamente antiaustriaca ed il sospetto di appartenere al gruppo dei cospiratori della Giovane Italia gli costò quasi un anno di carcere. Sempre più isolato per le sue idee, si dedica alla scrittura del suo più importante romanzo storico, Margherita Pusterla, composto tra il 1835 e 1836. Il romanzo, caratterizzato da forti toni antiaustriaci e da tematiche vicine ai Promessi Sposi del Manzoni,  si rivela un romanzo storico “cupo” e più pessimista rispetto a quello manzoniano, sia per la mancanza del lieto fine, sia della divisione "manichea" tra buoni e cattivi. Nel suo ultimo scritto pubblicato in vita, Un ultimo romantico, esprimeva il rimpianto di non aver vissuto nei tempi in cui dominava la Chiesa e i piccoli Comuni prosperavano forti delle loro identità municipali. “Concedasi ad un romantico riverire l'inviolabilità della famiglia, l'autorità della Chiesa, la libertà morale e quella di pregare”. Muore a Milano nel 1895.
 

Brivio, il ponte sul fiume Adda ed il castello

Antonio Ghislanzoni nacque nell’attuale rione di Maggianico di Lecco nel 1823. Oggi questo nome parla solo agli amanti dell’opera lirica, o ancor meglio ai devoti di Giuseppe Verdi ed agli studiosi della cultura lombarda. Da Milano il movimento della Scapigliatura, al quale appartiene Ghislanzoni, si estende fino al lecchese e l’autore ne prende l’essenza, correggendone gli eccessi e le spigolature milanesi. Nella personalità di Antonio Ghislanzoni, infatti, si miscelano sia le componenti ribellistiche ed eversive sia i fascinosi e suggestivi influssi del territorio di Lecco, da lui descritto con dovizia di particolari nelle sue numerose opere.
Ai più il Ghislanzoni è famoso, non solo per aver scritto il libretto di una delle opere più note e riuscite di Verdi, Aida, ma anche per essere stato uno degli intellettuali più vivaci e interessanti della cultura lombarda, non solo “scapigliata”. Fu anche cantante, giornalista, poeta, romanziere, commediografo, librettista di opere musicali.

Antonio Ghislanzoni

Figura poliedrica forse poco conosciuta ai più, Romano Guardini, filosofo e teologo tedesco di origine italiana, sconfinò volentieri nei campi della critica artistica e letteraria, del pensiero scientifico o politico. A 50 anni dalla morte, avvenuta a Monaco l’1 ottobre 1968, emergono oggi sempre più nitide e illuminanti le sue analisi attorno all’uomo, al suo valore infinito, ultimamente messo a repentaglio dalle sue stesse conquiste scientifiche e tecnologiche.
E fra i luoghi che segnarono il percorso che Guardini svolse, il contesto di Como e del suo lago assume un particolare rilievo: proprio nei periodi trascorsi a Varenna, catturato da infinite e suggestive immagini, da paesaggi che gli si imprimevano nella mente in ogni minimo dettaglio, scrisse infatti le famose Lettere dal lago di Como. Nel suo caso non si tratta infatti di un soggiorno in una località turistica, privilegiando l’Italia e i suoi laghi, secondo una tendenza che accomunava diversi intellettuali stranieri ma, in realtà, i lunghi periodi estivi trascorsi sulle rive del Lario, a Varenna, per il teologo radicato in Germania rappresentavano un vero ritorno a casa. Per raggiungere Varenna, il teologo attraversava la regione collinare comasca. “Quando passai attraverso le valli della Brianza, da Milano al lago di Como, valli rigogliose, opulente, coltivate con cura diligente, contornate da monti aspri, non volevo credere ai miei occhi… Tutta quanta la natura lavorata e modellata dall’uomo. Ciò che si chiama cultura nel senso più raffinato, mi si presentava nella sua forma più armoniosa… Una cultura nobilissima e nello stesso tempo così semplice, così naturale! Modellata nelle forme, pervasa di spiritualità, tuttavia perfettamente semplice”.

La stessa dimora rurale per eccellenza, la cascina, di cui la campagna briantea era ricca, si inseriva nelle linee del paesaggio secondo criteri dettati dalla cura e dall’equilibrio. Come già sopra accennato, l’espansione edilizia civile e industriale degli ultimi decenni, assorbendo in una maglia inestricabile la casa contadina e gli antichi borghi storici, non solo ha soffocato questi contesti, ma li ha anche sfigurati, privandoli del loro originario rapporto con il paesaggio e la natura.
Ma la descrizione certamente più conosciuta dell’orografia del territorio di Lecco è in apertura al primo capitolo de I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. “Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni”. Il milanese Manzoni, che aveva trascorso infanzia e adolescenza a Lecco, dimostra di conoscere bene il territorio che intende descrivere. E così prosegue: “La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui, l’uno detto di san Martino, l’altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione, non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune.
Per chi ha vissuto in quei luoghi ed è costretto, dalle circostanze o dai prepotenti di turno, ad abbandonarli, come il Renzo manzoniano, che lasciata Lucia a Monza, in cammino verso Milano “… voltandosi indietro vide all’orizzonte quella cresta frastagliata di montagne, vide distinto e alto tra quelle il suo Resegone, si sentì tutto rimescolare il sangue…”.

Lecco e il Resegone visti da Paré

Uno scrittore del Novecento che non rimase per nulla soddisfatto di aver vissuto alcuni periodi della sua giovinezza in Brianza fu Carlo Emilio Gadda. Probabilmente più per motivi legati ai pessimi rapporti familiari con il padre e la madre, che per l’insensibilità verso le bellezze dei paesaggi briantei. O forse per l’uno e per l’altro motivo. Gadda detestò con tutte le sue forze quella villa a Longone al Segrino, fatta costruire dal padre sul finire dell’Ottocento. “Il pensiero di Longone è sempre motivo di grande irritazione e di profondo scoraggiamento per me, è come la pietra di una tomba posta sulla nostra vita, sui nostri sacrosanti interessi e diritti… Non parlarmi quindi mai né di Longone né del sozzo contadiname a cui manteniamo una casa…”. Così, in una lettera del 1927 alla sorella Clara, Carlo Emilio Gadda parla della villa di famiglia di Longone al Segrino, in Brianza. Per costruirla il padre si era rovinato, gettando in miseria l’intera famiglia; come se non bastasse poco prima di morire aveva ipotecato l’immobile per restituire alla figlia di primo letto la controdote materna; ovviamente dopo la morte di lui a dover far fronte alle spese era stato lo stesso Gadda, in qualità di capo famiglia, a costo di quelle privazioni di cui non cesserà mai di lamentarsi.
Per quanto per anni fosse stata causa della miseria della famiglia, la madre, l’ungherese Adele Lehr, si era talmente attaccata alla villa da opporre un caparbio rifiuto a qualunque ipotesi di vendita. Sarà soltanto dopo la morte di quest’ultima che Gadda potrà finalmente disfarsi della “fottuta casa di campagna” che aveva “incenerito” la sua giovinezza.
Il panorama che si godeva dalla terrazza della casa dei Gadda spaziava su di una “orografia serena”, dove la “tristezza dei colli” invitava però alla malinconia. Nel romanzo a cui la villa fa da sfondo, La cognizione del dolore, Gadda maschera i riferimenti geografici della sua autobiografia e storpia i toponimi con un lessico spagnoleggiante, non mancando di rendere riconoscibile l’alta Brianza attraverso continui echi manzoniani.

Villa Gadda in una foto dei primi anni del Novecento

Giuseppe Pontiggia era nato a Como nel 1934, ma aveva trascorso la sua infanzia, prima che la famiglia si trasferisse in Liguria, a Erba. Poi visse lunghi anni a Milano, ove si laureò ed entrò a far parte del mondo letterario milanese e italiano. Ottenne importanti riconoscimenti e premi letterari, tra i quali il Premio Strega nel 1989 con La grande sera e il Premio Campiello con Nati due volte.
Prima di morire chiese di essere sepolto ad Arcellasco, una frazione di Erba. Molti si sono chiesti le ragioni della volontà dello scrittore di essere sepolto ad Arcellasco. Di certo egli lo ha considerato come un ritorno a casa, nel cimiterino sulla collina che domina il Piano d’Erba. Ad Incasate, piccolo rione accanto ad Arcellasco, si trovava la casa dei nonni di Pontiggia; qui il piccolo Peppo, veniva spesso da bambino e poi da ragazzo e qui aveva collocato, ormai scrittore affermato, la sua seconda casa. Lì vicino, a un tiro di schioppo, Carlo Emilio Gadda, come abbiamo appena letto, possedeva la casa paterna, alla quale giungeva spesso in treno, salendo poi in calesse a Longone e passando proprio dal cimitero di Arcellasco.
 
 
Arcellasco in una cartolina d'epoca e villa Torricella
 
Proprio dietro il muro cimiteriale comincia a salire la collina di Torricella. In cima al colle si erge la storica villa settecentesca che è uno dei luoghi storicamente più importanti dell’alta Brianza. Qui, Alessandro Manzoni, nel 1859, fu ospite quando gli consigliarono di lasciare Milano perché gli austriaci lo tenevano d’occhio. A Torricella visse per qualche anno il poeta milanese Carlo Porta, sposatosi con l’aristocratica Vincenza Prevosti, proprietaria della villa. Successivamente la proprietà passò al conte Cesare Borri, padre di Teresa Borri Stampa, la seconda moglie del Manzoni, il cui figliastro, Stefano Stampa, fece costruire il camposanto di Arcellasco.
Di tutti questi richiami al Manzoni, al Porta, a Gadda parlava spesso Giuseppe Pontiggia, quando tornava nella sua Erba. “Con gli anni ho riscoperto il mondo della mia infanzia, dell’adolescenza e della provincia. La provincia è importante perché è straordinariamente ricca di figure e esperienze. La campagna è un terrazzo di osservazione molto più ampio di quello metropolitano. In quasi tutti i miei libri c’è il paese”, disse in una sua intervista poco prima di morire.   

Beniamino Colnaghi

venerdì 4 gennaio 2019

Museo Etnografico dell'Alta Brianza
Parco Monte Barro
Loc. Camporeso di Galbiate (LC)
 
Che bel museo! Non sapevamo che c'era... Bisogna farlo conoscere!
Molti visitatori che arrivano al museo reagiscono così dopo la visita
 
Oltre alla visita, il MEAB propone, per le scuole e per le famiglie, numerosi laboratori sulle culture umane. Volete saperne di più?
 
Troverete tutte le proposte, pensate per gli alunni della scuola dell'infanzia, della scuola
primaria e per gli allievi della scuola secondaria di primo e di secondo grado
Eccone un elenco:
Al museo con un nonno
La terra del Barro
Al museo delle voci
Che cosa ne vuoi fare?
Il granoturco: dalla terra alla tavola
Al museo con Pagliò
Tutta un'altra vita
Mangia 'sta minestra
Sul filo di lana
Giocare con poco
Intonato, per un soffio. Costruire e suonare il flauto di Pan
Canta... che ti passa?
Storici per un giorno
Un bell'intreccio
Facciamo canestro
Così su due piedi: scarpe e zoccoli dall'uso quotidiano al lavoro artigiano
 
Tutti i laboratori sono stati pensati con i ricercatori del museo, a partire da
una documentazione etnografica e storico sociale
 
Essi conducono a sperimentare alcune attività legate al tema scelto o ad esercitare la pratica del ragionamento per rintracciare affinità o differenze tra le esperienze studiate dal museo e il vissuto dei bambini o dei ragazzi, attraverso il confronto con i conduttori dei gruppi.
Nel sito trovate le indicazioni sui destinatari di ogni laboratorio, sui tempi necessari per lo svolgimento e sui costi delle varie proposte.
 
Il museo auspica che la visita e il laboratorio si inseriscano in un percorso formativo già avviato o da sviluppare a partire dall’incontro al museo; pertanto i docenti che stanno lavorando in tale direzione - se lo vogliono - possono concordare preventivamente con la direzione del museo o con il responsabile dei servizi ducativi del MEAB, come dare un taglio particolare alla visita e al laboratorio scelto. E’ sempre opportuno che i docenti facciano una visita al MEAB prima di venirci con gli allievi. Va infatti ricordato che questo museo del settore demoetnoantropolgico è fatto di oggetti e di ambienti, ma è anche un museo delle voci e dei gesti di persone con cui sono state realizzate, da diversi ricercatori, registrazioni sonore, riprese fotografiche e 20 documentari etnografici, visibili su maxischermo nella sala conferenze del MEAB.
 
Per maggiori informazioni sui percorsi didattici è possibile contattare il responsabile dei sevizi educativi: 347 8531367. Per prenotazioni: Cooperativa ELIANTE: 031.3100868, 366.2380659 e 333.9127227, oppure scrivere a educazione@eliante.it
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Il museo è aperto nei seguenti orari:
martedì, mercoledì, venerdì dalle 9 alle 12.30
sabato e domenica dalle 9 alle 12.30 e dalle 14 alle 18
Info: MEAB tel. 0341.240193 Parco Monte Barro tel. 0341.542266
  
Sul sito troverete anche questo post sul museo di Camporeso: https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2013/11/le-tradizioni-popolari-brianzole-nel.html