mercoledì 22 febbraio 2012

Il Dopolavoro di Paderno d'Adda gestito da Cecilia Colnaghi

L'Opera Nazionale Dopolavoro fu un'associazione creata il 1° maggio 1925 dal regime fascista col compito di occuparsi del tempo libero degli italiani. Lo statuto prevedeva che il Dopolavoro dovesse "curare l'elevazione morale e fisica del popolo, attraverso lo sport, l'escursionismo, il turismo, l'educazione artistica, la cultura popolare, l'assistenza sociale, igienica, sanitaria, ed il perfezionamento professionale".
A partire appunto dal 1925 il regime fascista avviò il programma di "nazionalizzazione" del tempo libero, dai divertimenti agli sport, il cui primo passo fu la creazione dell'Opera Nazionale Dopolavoro (OND). La creazione dell'OND rese istituzionali le iniziative già esistenti, come i circoli ricreativi patrocinati dai sindacati fascisti sorti autonomamente nelle sedi socialiste, eliminandone il carattere politico e sopprimendo le analoghe organizzazioni antifasciste. Lo scopo primo dell'OND era inizialmente limitato alla formazione di comitati provinciali a sostegno delle attività ricreative, ma tra il 1927 e il 1939 da ente per l'assistenza sociale diventò "movimento" nazionale che vigilava sull'organizzazione del tempo libero degli italiani.
Le attività dei vari circoli erano suddivise, secondo un'uniforme programma per tutta la nazione, in una serie di servizi sociali, tra i quali cultura fascista e formazione professionale, educazione fisica, sport e turismo, educazione artistica, musica, cinema, radio e folklore.
Questo programma era rivolto agli ambienti urbani ed industriali; a partire dal 1929 si sviluppò anche il dopolavoro agricolo, le cui finalità convergevano nel proposito di "non distrarre dalla terra" i contadini. Alla fine degli anni Venti venne inoltre messo a punto un programma ricreativo femminile, che implicava un accurato addestramento per "l'elevazione morale" delle donne nella società fascista, e corsi di pronto soccorso, igiene ed economia domestica.
Il regime fascista aprì sedi del Dopolavoro in moltissime località italiane: nel 1933 furono ben 18.000 le sezioni aperte nella nostra penisola. Per quanto attiene la nostra zona, una sede venne aperta a Verderio Inferiore, un'altra a Paderno d'Adda. Il Dopolavoro di Paderno venne aperto in località Padernino, precisamente presso alcuni locali della cascina sant'Antonio in via Leonardo da Vinci 51, ove già esisteva un'osteria di proprietà della facoltosa famiglia Viscardi.




Foto 1 - Ingresso al Dopolavoro su via L. da Vinci, riservato ai militanti fascisti



   Foto 2 - Particolare

L'apertura avvenne presumibilmente nella seconda metà degli anni '20. Il "Dopolavoro Aziendale Viscardi", così fu chiamato in quel tempo, era composto da un bar e da un locale attiguo che accoglieva le riunioni degli attivisti fascisti. Il locale che ospitava il bar era molto ampio, arredato con un bancone e numerosi tavoloni attorno ai quali gli avventori bevevano del buon vino, chiacchieravano oppure giocavano a carte. La sala riservata ai fascisti era più intima, aveva il camino ed il pavimento in parquet ed era arredata con tavolini e mobili d'epoca. All'esterno, collegati con il bar, erano presenti due campi di bocce scoperti, affiancati da uno stretto passaggio dove i clienti potevano assistere alle partite. Ancora oggi, malgrado la cascina sia oppressa da un condominio, da villette e da un piccolo capannone commerciale, si possono notare i due ingressi al Dopolavoro: a quello interno potevano accedere i clienti del bar, mentre quello su via L. da Vinci era riservato ai gerarchi ed agli iscritti al Partito Fascista.

Cecilia Colnaghi, soprannominata Cia, proveniva da Verderio Superiore e precisamente dalla Curt dei Barbis, ove nacque il 25 novembre 1890. Il padre, Felice, e la madre, Maria Letizia Brivio, ebbero otto figli: Cecilia fu la secondogenita mentre mio nonno Beniamino, sestogenito, venne alla luce nel 1900.
 

Foto 3 - Ritratto di Cecilia Colnaghi

Trascorse l'infanzia e la giovinezza in paese, finché, in età da marito, il 22 gennaio 1910 si sposò con Luigi Valtolina, anch'esso nativo di Verderio superiore, precisamente della Curt dei Sartirona, il quale fu chiamato subito "a fare il soldato". Malgrado ciò, tra una licenza e l'altra di Luigi, tra il 1911 e il 1915 Cecilia ebbe tre figlie: Nicoletta, Giuseppina e Ines. Allo scoppiare della Prima Guerra mondiale, Luigi fu chiamato alle armi e partì per il fronte, dal quale non fece più ritorno, lasciando così in gravi difficoltà la famiglia. I suoi resti sono tumulati nel Sacrario militare del Passo Tonale.


Foto 4 - Luigi Valtolina

Una nipote di Cecilia, Giuditta Rotta, mi ha recentemente riferito che sua nonna si trasferì a Paderno, si presume con i genitori del marito, pochi mesi dopo aver partorito la prima figlia. Dovremmo pertanto essere nel 1912. Malgrado il marito fosse ancora soldato, Cia si spostò quindi alla cascina sant'Antonio, ove ebbe dalla famiglia Viscardi, come detto proprietaria dell'immobile e di alcuni terreni contigui, alcuni locali in affitto posti al primo piano e probabilmente la gestione dell'osteria al piano terra, già esistente all'epoca. Rimasta nel frattempo vedova, oltre al bar, si occupò della cucina e dei lavori domestici presso la villa padronale.

Quando il Partito Fascista apre il Dopolavoro a Paderno, Cia ha quasi 40 anni, le tre figlie sono ormai grandicelle ed i parenti la aiutano nella gestione dell'osteria e nel buon mantenimento dei locali e dei campi di bocce. I tempi sono difficili, le malattie imperversano, la fame è una brutta bestia, la gente non ha possibilità di agire e parlare liberamente, le squadre fasciste controllano la vita delle persone e chi sgarra, o non si adegua, viene punito. Il Dopolavoro diventa una delle sedi nelle quali i fascisti locali progettano non solo iniziative politiche e propagandistiche, ma anche azioni punitive nei confronti dei comunisti e degli antifascisti più irriducibili. Uno dei quali era proprio un fratello di Cecilia, inserito nelle liste degli oppositori da punire, che Cecilia, con il suo carattere forte e risoluto, difese e protesse in più di un occasione, salvandolo dal manganello e dalla prigione. Mi è stato confermato che Cia, quando aveva "una soffiata", si dirigeva alla stazione ferroviaria di Paderno per avvisare suo fratello di non andare a casa quella sera perché i fascisti gli avevano teso un'imboscata presso "ul pianton", il grande platano, con l'intento di dargli una lezione.

Dopo la Liberazione e caduto il fascismo, il Dopolavoro cessò l'attività. A tale riguardo ho un aneddoto raccontatomi da Felice Colnaghi il quale mi ha riferito che un nipote di Cia, Rinaldo Frigerio, figlio di sua sorella Teresa, che già da ragazzino svolgeva attività di imbianchino, cancellò i fregi fascisti posti sopra il portone di ingresso principale. Ancora oggi si notano due macchie di colore bianco ai lati della scritta.
Il bar sopravvisse e nacque una trattoria. Cia è una buona cuoca e una donna intraprendente che vede lontano. Negli anni '50 e '60 cucina soprattutto per le comitive, per i cacciatori e pescatori e per le operaie dei numerosi maglifici presenti a Paderno: Imec, Baraggia, Consonni, Mafri, Fontana etc. Le clienti più assidue sono soprattutto le donne bergamasche e quelle che abitano lontano da Paderno e Verderio. Tra le sue clienti figuravano due nipoti di papa Giovanni XXIII abitanti a Sotto il Monte, e di questo Cecilia andava molto fiera.

                                              
Foto 5 - Cecilia con la figlia Nicoletta sulla porta d'ingresso del bar

Nel 1968 il bar-trattoria chiude e la cascina comincia un inesorabile e lungo declino. Cecilia Colnaghi ha quasi 80 anni, va ad abitare con la figlia Nicoletta e la nipote Giuditta, sempre a Paderno. La morte la coglie il 17 marzo 1976 all'età di 85 anni. Riposa nel cimitero di Paderno d'Adda.

Beniamino Colnaghi

P.s.: Considerato che è un articolo che non si sviluppa su documenti e testi storici, ma trae origine dalla memoria di persone in carne e ossa, ringrazio tutti coloro che mi hanno trasmesso le informazioni utili al fine di poter raccontare questa storia, in particolare Giuditta Rotta e Fulvia, Letizia e Felice Colnaghi.

lunedì 20 febbraio 2012

Il  poligono militare di Milovice (Repubblica Ceca) diventato campo di prigionia

Milovice, anticamente Milowitz, che nel XV/XVI secolo era il capoluogo di una Contea con un annesso maniero, divenne, fin dalla campagna di Napoleone contro la Russia nel 1800, luogo di deportazione dei prigionieri di guerra. A partire dal 1948, il nome Milovice (provincia di Nymburk, Repubblica Ceca) è stato associato alle forze del Patto di Varsavia, che qui vi avevano collocato il proprio comando occidentale, nonché una base logistica di notevole importanza e praticamente inaccessibile. Milovice era tuttavia noto a moltissime famiglie italiane, russe e serbe poiché lì vi finirono, a partire dal 1914, molti dei prigionieri del fronte austriaco durante la Prima guerra mondiale.

Cippo dedicato ai soldati italiani sepolti a Milovice

Originariamente l’area adiacente al villaggio di Milovice, chiamata in origine Starý Benátky, non era destinata a campo di prigionia, ma alle esercitazioni di tiro dell’artiglieria. La raccolta ed il concentramento di prigionieri non fu effettuato quindi, come spesso all’epoca, in aree create appositamente, ma in questo caso furono sfruttati gli spazi e le infrastrutture del preesistente poligono militare austro-ungarico.

Agli inizi del XX secolo l’unico poligono di grandi dimensioni della monarchia asburgica si trovava in territorio ungherese, ad Hajmaskér. Tale poligono era destinato alle esercitazioni di tiro di artiglieria, ma non era sufficiente a tutte le esigenze militari a causa sia dell’accrescersi di intensità delle esercitazioni e sia per la notevole distanza di tale località dai singoli comandi d’armata austro-ungarici. Le esercitazioni leggere erano di solito effettuate in territori molto limitati situati in prossimità delle singole caserme cosicché l’erario austro-ungarico era costretto a prendere in affitto, sia da privati sia dalle amministrazioni locali, terreni da destinare temporaneamente alle esercitazioni con tiro a fuoco della fanteria. Nel 1903 cominciarono le trattative per allestire a Milovice un nuovo poligono, ovvero furono contattati dall’erario militare i vari proprietari di terreni e di immobili della zona. Nel 1904 furono quindi conclusi i contratti di acquisto e gli abitanti di un intero villaggio, Mladá, furono trasferiti altrove. Gran parte dei terreni appartenevano in origine alla famiglia Thun-Hohenstein, già però fortemente indebitata con la Länderbank austriaca, che quindi provvide ad incassare la maggior parte dei proventi dell’erario militare. A fine anno l’estensione del poligono raggiunse i 35 km², destinati comunque ad accrescere nel corso degli anni.
Le prime strutture furono immediatamente allestite subito dopo l’acquisto nel 1904 e furono collocate su un lieve pendio. Il primo quartiere era composto di 43 edifici ad un piano in mattoni destinati in massima parte all’alloggiamento delle truppe. Quattro edifici furono divisi in appartamenti destinati ai militari di carriera. Fu anche costruito un ospedale e, ad una certa distanza, un padiglione di isolamento. Non mancavano inoltre stalle per cavalli, officine di vario tipo ed un edificio per i bagni termali. Nel poligono non ci fu mai una guarnigione fissa e gli edifici erano occupati in maniera temporanea dalle truppe che si esercitavano al tiro a fuoco. Il complesso poteva ospitare 2 reggimenti di fanteria ed un battaglione di cacciatori, ovvero all’incirca 3400 uomini.
La costruzione del I campo di Milovice fu realizzata in tempi brevissimi, con la supervisione degli ufficiali dello stato maggiore austro-ungarico, comandati dal cav. Von Czibulka, ex comandante dell’VIII corpo d’armata di Praga. Il comando della base si sistemò nel villaggio di Lipník, ai confini del poligono e distante 9 km da Milovice.


E’ inoltre necessario aggiungere che Milovice, fino a quel momento villaggio di nessuna importanza, con la nascita del poligono subì una profonda trasformazione. Dopo il 1904 qui vi sorsero (così come in alcuni altri villaggi vicini) una chiesa, una casa parrocchiale e la posta. Si sviluppò inoltre il commercio e sorsero svariate botteghe artigiane e luoghi di ristoro. Ne approfittarono in particolare gli agricoltori, che, oltre a fornire di generi alimentari l’esercito, affittavano cavalli e locali durante i periodi di affollamento di truppe, ovvero dalla primavera all’autunno.

Allo scoppio della I guerra mondiale si assistette ad una serie di cambiamenti nella struttura del poligono. Sebbene continuasse l’afflusso delle truppe destinate alle esercitazioni per il tiro a fuoco, queste non furono più alloggiate nel campo poiché cominciarono ad affluire allo stesso tempo un numero imprevisto di prigionieri di guerra, all’epoca in prevalenza russi e serbi. Nei primi tre mesi di guerra i prigionieri alloggiati a Milovice ammontavano già a 5.000. Nell’autunno del 1914 l’erario austro-ungarico fu quindi costretto ad avviare la costruzione di nuove baracche per i prigionieri di guerra. Ad ovest del campo numero I, su di un lieve pendio, fu costruito il cosiddetto campo di prigionia numero II composto di 101 edifici. Questi erano in legno con pareti rivestite di carta catramata e fondamenta in mattoni. La costruzione fu affidata ai contadini della zona ed ai prigionieri russi. Le baracche erano lunghe dai 30 ai 45 metri ed erano larghe 10. In ogni baracca potevano essere alloggiati dai 200 ai 300 uomini. Nel campo c’erano inoltre cucine, vasche per l’igiene personale e per il lavaggio dei vestiti, ed altri tipi di servizi. Sono conservate ancora alcune circolari imperiali in cui veniva stabilito che il campo, nonostante la sua sobrietà, dovesse risultare pienamente funzionante.
Gli ufficiali prigionieri furono invece collocati nel campo numero uno.

Allo scoppio della guerra con l’Italia, a causa del continuo affluire di prigionieri, fu costruito il campo III. In questo campo furono costruite 46 baracche dello stesso tipo del campo II. Secondo le registrazioni del campo, al 19 giugno del 1915 erano presenti nel campo già 25.391 prigionieri di varie nazionalità. Sempre nel 1915 fu costruito il cimitero militare.
Nel secondo rendiconto annuale del 1916 si riporta che per quell’anno avevano soggiornato nel campo 46.000 prigionieri. Dall’ottobre del ’17, ovvero dopo lo sfondamento di Caporetto, la situazione nel campo di prigionia divenne complessa per le autorità del campo stesso e più che drammatica per i prigionieri. Un documento del febbraio 1918 riporta che al 27 novembre del 1917 i prigionieri erano in tutto 6.073, mentre al 10 gennaio il loro numero ufficiale era già salito a 15.363, creando non poche complicazioni alle autorità austriache che non riuscirono a sfamare in nessun modo i prigionieri, che così patirono la fame e enormi sofferenze.

CONDIZIONI DI LAVORO DEI PRIGIONIERI DI GUERRA

Una parte dei prigionieri di guerra veniva utilizzata nel campo per eseguire soprattutto lavori di costruzione o di spianamento. L’orario di lavoro sarebbe dovuto corrispondere a quello dei lavoratori civili. A causa dell’alimentazione ridotta la loro produttività veniva però considerata molto scarsa. A tal proposito una commissione ministeriale imperiale in visita nell’aprile del 1918 a Milovice nota come più prigionieri italiani svolgevano lavori che in condizioni normali avrebbero svolto molto meno persone. In panetteria, ad esempio, erano impiegati 50 prigionieri italiani che giornalmente preparavano 4000 pezzi di pane. Il loro guardiano era un fornaio di professione che alla domanda del presidente della commissione di controllo di quanti uomini gli sarebbero bastati in condizioni normali afferma in tutto 4.

L’ALIMENTAZIONE DEI PRIGIONIERI

Nelle cucine del campo erano ammessi al lavoro anche quei prigionieri di guerra che come impiego civile erano stati cuochi, fornai o macellai. Nelle circolari è spesso ricordato che la dieta deve essere sufficiente affinché non sia compromesso lo stato di salute del prigioniero di guerra.

L’ASSISTENZA MEDICA AI PRIGIONIERI DI GUERRA

L’amministrazione austro-ungarica considerava tre tipi di malati:
a)    coloro i quali erano già in cattive condizioni fisiche prima di essere fatti prigionieri;
b)    coloro che erano stati feriti poco prima di essere fatti prigionieri;
c)    coloro che si erano ammalati nel campo stesso.
Fu il terzo tipo di ammalati ad essere il più frequente.

Ben presto, oltre all’ospedale, 10 baracche vennero trasformate in lazzaretto ed altre 2 quali reparti di isolamento per i casi di infezione. A Milovice venivano inoltre concentrati anche gli ammalati provenienti da altri campi della Boemia centro-occidentale. Nel 1916 l’ospedale già contava 874 ammalati permanenti. Fu quindi in fretta fornito di nuove attrezzature corrispondenti agli standard dell’epoca. Dal primo novembre 1914 fino al 31 dicembre 1915 risultavano essere stati in cura 5048 pazienti, mentre erano stati effettuati nello stesso periodo 239.676 interventi ambulanti, compresi quelli ai denti. Le diagnosi prevalenti riguardavano: polmonite, meningite, malattie dell’apparato digerente, deficit cardiaco, infarto, edema polmonare, tbc, tifo, spagnola, febbre purpurica, indebolimento generale, colera, ecc. A causa del crescente numero di ammalati, alla fine del 1916 furono assegnati all’ospedale del campo altri due medici provenienti dall’ospedale della riserva di Kolín. Furono stabilite severe misure preventive contro il diffondersi delle malattie infettive. Nel campo operavano sei disinfettori mobili, nei quali era possibile disinfettare gli indumenti. I prigionieri di guerra infetti, o sospetti di infezione, venivano separati dagli altri. Tutte queste misure risultarono però inutili e le infezioni si diffusero in maniera sempre più travolgente. Gli italiani inoltre, a differenza dei russi e dei serbi, abituati ai climi rigidi, patirono più di questi ultimi le privazioni della prigionia. La mortalità degli italiani ammontava quindi a minimo 3-5 prigionieri al giorno, con periodi in cui si arrivava ad oltre trenta casi giornalieri.
I Caduti venivano inizialmente inumati in bare e singolarmente. Successivamente, dopo i primi sessantaquattro decessi, furono sepolti in fosse comuni e senza bare. La morte del prigioniero veniva diligentemente registrata e veniva emesso un certificato di morte. In questo documento veniva riportato il nome, il cognome, il luogo di morte, il reparto di appartenenza, il grado, la data di nascita, l’indirizzo, lo stato civile, il credo religioso, la nazionalità, l’impiego, la causa di morte, il nome del medico che aveva diagnosticato la morte, il prete che aveva assistito al rito funebre.

 

L’ASSISTENZA SPIRITUALE

Nel campo operavano dieci preti che rappresentavano le diverse religioni a cui appartenevano i prigionieri. Alcuni di loro erano anche dottori in teologia.
Le celebrazioni religiose erano differenziate a seconda della liturgia. Per gli ebrei era inoltre previsto il Kocher ed il sabato festivo. I rispettivi curati assistevano a tutti i funerali dei Caduti, così come previsto anche dall’ordinamento interno del campo. Al funerale di tutti i morti italiani partecipò anche il prete cattolico di Milovice, padre Pavel Švankmaier.

LA VITA CULTURALE NEL CAMPO

La Croce Rossa internazionale poteva rifornire i prigionieri di libri e di giornali di carattere non politico. I prigionieri italiani inoltre formarono una banda militare, grazie agli strumenti donati sia dalla popolazione locale che dalla stessa amministrazione militare austro-ungarica. La banda era spesso presente ai funerali; intervenne quando fu firmata la pace tra russi ed austro-ungarici, quando furono rimpatriati i prigionieri russi e quando furono rimpatriati, alla fine dalla guerra, i primi prigionieri italiani.

IL CIMITERO
Il cimitero militare fu costruito nel 1915. La sua estensione è di 5.000 mq. Secondo alcuni documenti, il numero dei Caduti italiani ammonterebbe a circa 5.200. A questo numero si devono aggiungere i 182 italiani esumati nel maggio del 1927 dal cimitero di Broumov, e concentrati a Milovice.


Dal 1919, ogni anno, nei primi giorni di novembre, veniva reso onore ai Caduti. Tale tradizione, con tutti i suoi fasti, è stata ripresa a partire dal novembre 1991, anno in cui fu ricostruito il cimitero ove riposano le salme dei soldati italiani.

Monumento ai caduti italiani

L’inaugurazione del neo restaurato monumento ai Caduti d’Italia risale al 29 ottobre 1922. La nuova sala di esposizione, con cimeli e documenti originali sul campo di Milovice è stata inaugurata il 2 novembre 1996, mentre la strada che conduce al cimitero è stata intitolata Via Italia.

Tombe dei soldati di fede ortodossa


Beniamino Colnaghi

mercoledì 15 febbraio 2012

Alessandro Catalano - La Boemia e la riconquista delle coscienze. Ernst Adalbert von Harrach e la Controriforma in Europa centrale (1620-1667).

Premessa di Adriano Prosperi, Edizioni di storia e letteratura.

Dopo la battaglia della Montagna bianca (1620) la Boemia, paese a maggioranza protestante, è stata sottoposta a un duro processo di ricattolicizzazione forzata, al punto da diventare in pochi decenni, soprattutto agli occhi dei viaggiatori occidentali, uno dei paesi più cattolici d’Europa. Benché si tratti di un processo drammatico che è stato accompagnato da violente polemiche (si pensi solo al trentennale conflitto sull’università praghese tra l’arcivescovo e la Compagnia di Gesù) la storiografia liberale del XIX secolo, che ha tabuizzato tutta l’età moderna della Boemia “cattolica” e “asburgica”, ha sempre descritto tutto il Seicento come un’epoca di immobilismo e oscurantismo. In realtà le tensioni all’interno del campo cattolico, pure senza mai sfociare in veri e propri conflitti, sono state invece di notevole intensità, così come del resto i contrasti tra potere temporale e potere secolare. Coordinata da un giovane vescovo che aveva studiato a lungo a Roma, Ernst Adalbert von Harrach (1598-1667), la Controriforma boema si presenta come un’eccellente cartina di tornasole non soltanto per ricostruire i meccanismi attraverso i quali la Chiesa si è riappriopriata dei propri fedeli, ma anche per valutare le strategie di propagazione della fede messe in atto dalla curia romana nel XVII secolo.
Lavorando a stretto contatto con la Congregazione di Propaganda Fide l’arcivescovo di Praga (poi anche cardinale) elaborerà infatti negli anni Venti un imponente progetto di riconquista delle coscienze che, pur restando in gran parte sulla carta, costituirà la base dell’azione della Chiesa cattolica in Boemia quasi fino alla fine del Settecento. Dopo l’euforia seguita alla vittoria sugli eserciti dei protestanti, la Chiesa boema sarà constretta a una dura lotta con il potere secolare per affermare la propria autorità ed è proprio nel corso di questi duri scontri che al servizio di Harrach si verranno a trovare alcune delle figure più originali del Seicento, in primo luogo Valeriano Magni e Juan Caramuel y Lobkowitz. Anche grazie alla loro presenza, la dialettica tra arcivescovo e gesuiti, alimentata dal duro confronto sull’istruzione che caratterizzerà tutto il suo vescovato, renderà in pochi anni Praga una delle città europee in cui più vivace è stato il dibattito culturale. Potendo inizialmente contare su un imponente sostegno politico alla corte imperiale (era ad esempio cognato del generalissimo Wallenstein) Harrach riuscirà a superare anche il grande momento di crisi del suo sistema di allenze attorno a metà degli anni Trenta e a restituire alla Chiesa boema un’immagine forte e indipendente rispetto al potere secolare.
Se gli scontri, i conflitti giurisdizionali e le mutevoli alleanze che hanno accompagnato la vittoria del fronte cattolico sono sempre rimasti al di fuori della ricerca storiografica, sono invece proprio la frattura tra la rappresentazione propagandistica della Chiesa cattolica e la sua prassi quotidiana (fenomeno particolarmente evidente nel rapporto tra istituzioni ecclesiastiche e secolari) e le feroci contrapposizioni che hanno avuto luogo al suo interno (sia nel rapporto tra vescovo e ordini religiosi, sia nella distanza tra la realtà e l'ideale stabilito dai decreti del Concilio di Trento) a essere al centro di questo libro. Il modello di Carlo Borromeo, le polemiche che hanno accompagnato l’arrivo degli scolopi in Europa centrale e le alterne fortune della Compagnia di Gesù segnano il ritmo di un’azione vescovile sempre ostacolata da “strane“ alleanze tra segmenti della chiesa e istituzioni secolari.

Essenziale per valutare obiettivamente il Seicento boemo è naturalmente il ritorno negli archivi che nascondono, e questo perfino nel caso di personalità così studiate come Wallenstein, ancora molte sorprese. Del resto se in qualunque contesto storiografico la regola fondamentale dello storico è che la storia si fa con i documenti, ancora più urgente diventa questo imperativo quando, per motivi diversi, le generazioni precedenti hanno rimosso dalla loro analisi interi segmenti del passato. La maggiore sorpresa che nascondono gli archivi di Praga, Roma e Vienna utilizzati in questo lavoro è che proprio un periodo, tradizionalmente considerato il simbolo dell’oscurantismo per eccellenza, nasconde invece molte chiavi per comprendere i meccanismi che hanno portato alla formazione degli stati moderni.


La Sezione Combattenti e Reduci di Verderio Superiore

Il ‘900 è stato un secolo controverso: per alcuni aspetti straordinario e innovativo, per altri drammatico e lacerante. Lo storico Eric Hobsbawm lo ha definito “il Secolo breve”, un’espressione che è entrata nel linguaggio comune. Il Novecento ha compreso, al suo interno, progresso scientifico e tecnologico, due guerre mondiali e innumerevoli operazioni militari, crisi economiche, rivoluzioni, crollo dei regimi totalitari, rapidissime trasformazioni nelle società sfociate in decisi cambiamenti sociali e antropologici.

I decenni che vanno dallo scoppio della prima guerra mondiale fino agli esiti rovinosi della seconda, furono, per la società europea, un’epoca catastrofica. L’Italia ne uscì malissimo: a causa delle guerre e della dittatura fascista furono centinaia di migliaia i morti e diversi milioni  i poveri, i disoccupati ed i senzatetto. Il nostro Paese, gran parte distrutto ed alla fame, ma con la ritrovata libertà, cercò di risalire la china, non solo attraverso l’aiuto e la collaborazione delle nazioni più ricche e progredite, ma con uno straordinario e generoso impegno del popolo italiano, che si rimboccò le maniche e partecipò fattivamente alla rinascita della società ed alla ricostruzione del Paese e dello Stato democratico.

Negli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale, in Italia nacquero innumerevoli società e associazioni, cooperative e mutue, di diversa natura e differente orientamento culturale, con l’obiettivo non solo di creare le condizioni per il rilancio dello sviluppo economico e sociale, ma anche con l’intento, se vogliamo più prosaico e materiale, di aiutare economicamente e moralmente quella grande fetta di popolo che subì sulla propria pelle le tragedie e le malvagità del fascismo e della guerra.    

Per quanto attiene tutti coloro che parteciparono attivamente alle varie guerre ed alle operazioni militari, venne costituita l’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci. Era il 24 giugno 1949. A dire il vero, già dal 1923 era attiva un’Associazione simile, che raggruppava i Combattenti della I guerra mondiale. Con la nascita dell’A.N.C.R. il Governo De Gasperi intese ampliare gli scopi ed i fini della nuova associazione e ricomprendere tutti gli ex-militari di qualunque arma, volontari, soldati di leva, richiamati o di carriera arruolati nelle Forze Armate dello Stato italiano che avessero preso parte a operazioni di guerra, dalla campagna d’Africa del 1894 alla seconda guerra mondiale,  conclusasi con la Liberazione del Nord Italia il 25 aprile 1945.

L’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci ebbe tra i suoi nobili obiettivi quelli della difesa dei valori civili e morali della Patria, della memoria dei caduti e dell’affermazione della giustizia, del mantenimento della pace fra i popoli. All’Associazione venne affidato anche il consolidamento dei vincoli di fraternità fra gli associati e l’attuazione di ogni forma di assistenza che potesse aiutare i soci a superare le difficoltà della vita nonché ad assolvere i loro doveri nella società.

Al fine di poter svolgere efficacemente questo ruolo, all’A.N.C.R. venne data una struttura ben ramificata sul territorio, tanto è vero che nella maggior parte dei Comuni italiani era presente almeno una Sezione che, attraverso i suoi organi interni e nell’ambito dello Statuto e dei regolamenti, gestiva l’amministrazione ordinaria e straordinaria ed esercitava ogni funzione di assistenza e mutuo soccorso in favore degli associati. Ogni avente diritto, dopo aver presentato la domanda di iscrizione corredata dei documenti attestanti il possesso dei requisiti richiesti ed aver pagato la quota di iscrizione, otteneva la tessera di riconoscimento e la tutela ed il godimento di tutte le provvidenze e dei servizi forniti dall’Associazione.

In accordo a queste disposizioni nazionali, nei primissimi anni ‘50 venne costituita una Sezione dei Combattenti e Reduci anche a Verderio Superiore.
Non si hanno notizie certe e documentate circa quanti iscritti avesse la Sezione locale in quegli anni e chi fossero i responsabili direttivi né quali iniziative avesse intrapreso la Sezione a favore dei soci e dei cittadini verderiesi. Ciò che possiamo effettivamente registrare con una certa attendibilità  riguarda alcuni dati: i giovani di Verderio Superiore che parteciparono agli eventi bellici nei diversi fronti di guerra (1915 – 1945) o furono attivi nei gruppi organizzati di partigiani furono circa 400; i Caduti della prima e seconda guerra mondiale furono 54; oltre 70 furono i prigionieri nei vari campi di lavoro e di prigionia. Questi numeri così rilevanti, se rapportati alle piccole dimensioni del Comune, ci inducono a pensare che, al momento della costituzione della Sezione dei Combattenti e Reduci, i soci di Verderio Superiore fossero certamente numerosi. Vediamo più in dettaglio.

In ordine temporale, il primo documento giunto a noi risale al 1948 (doc. 1).



                                                                      


Si tratta di un “Elenco dei militari e militarizzati a tutti gli effetti già prigionieri di guerra in mano russa, tedesca, jugoslava e albanese cui spetta l’indennizzo mensile concesso ad alcune categorie di prigionieri di guerra (circ.292 G.M. 948)”. Il documento, redatto dal Comune di Verderio Superiore il 1 ottobre 1948 e firmato dal sindaco pro-tempore, contiene l’elenco dattiloscritto di 48 nominativi di militari, ai quali sono associate le date di nascita ed i luoghi di prigionia. Successivamente, probabilmente in tempi diversi, all’elenco sono state apposte cancellature e aggiunte di nuovi nomi. Si presume che tali modifiche postume si siano rese necessarie a seguito di notizie aggiornate che man mano giungevano dai ministeri competenti circa lo stato dei militari italiani intervenuti sui vari fronti di guerra; la maggior parte delle modifiche riguardarono militari inizialmente fatti prigionieri e/o dichiarati dispersi, dei quali poi si accertò la loro morte.

Negli anni seguenti, il numero dei soci della Sezione si ridusse notevolmente, probabilmente a causa del decesso di alcuni iscritti ed a seguito di una fase di stanca e disinteresse che si presenta periodicamente all’interno di molte associazioni e gruppi organizzati. Questo stato di cose indusse il Presidente della Federazione Provinciale di Como dell’A.N.C.R., prof. Luigi Colombo, sentito il Sindaco di Verderio Superiore, a scrivere una lettera al sig. Carlo Salomoni, giudicata persona capace e attiva, al quale fu richiesto il suo intervento al fine di “tentare la ricostruzione della locale Sezione Combattenti e Reduci”.  La lettera porta la data del 22 aprile 1964.                          

Non si conoscono gli esiti delle eventuali azioni intraprese. Ciò che risulta agli atti riguarda l’elenco degli iscritti alla locale Sezione dell’anno 1965. A fronte di 52 cittadini aventi diritto, furono solo 28 coloro che si iscrissero alla Sezione, ogni socio versò 500 lire ma il bilancio si chiuse in deficit, con una perdita di 4.050 lire. Negli anni successivi le adesioni si trascinarono stancamente, anche a causa del decesso di alcuni soci.


Ricordavo in premessa che fra le finalità dell’Associazione erano comprese azioni di solidarietà e fraternità fra gli associati nonché l’attuazione di ogni forma di assistenza volta ad aiutare i soci a superare le difficoltà della vita.
Vediamo tre casi documentati registrati verso la fine degli anni ’60.

1) Nel 1966 i soci della Sezione di Verderio Superiore, unitamente ai compagni di leva, donarono, grazie all’apertura di una sottoscrizione, oltre 54.000 lire a favore dei figli minori di un socio deceduto.

2) L’anno successivo, l’Associazione nazionale informò tutte le sezioni, attraverso una circolare, che il Decreto Ministeriale 12 febbraio 1966 permetteva, a chi ne avesse titolo e diritto, la concessione di crediti a favore dei Reduci di professione artigiani, singoli o costituiti in cooperative (doc. n.2).


                                                            

3) L’11 aprile 1968 una circolare (doc. n. 3) comunicava agli associati che era in corso la vendita di blocchi di biancheria di buona qualità a prezzi convenienti. Il prezzo del blocco ammontava a lire 40.000 e comprendeva, a scelta oltre la biancheria, un servizio di piatti di porcellana o di posate, oppure una batteria di pentole di alluminio. Era prevista la possibilità di pagare ratealmente 5.000 lire ogni due mesi e ad  ogni singolo atto di vendita la sezione locale avrebbe percepito 500 lire per il proprio sostentamento.



                                                                      
Ancora oggi l'Associazione fa parte integrante del Consiglio Nazionale Permanente delle Associazioni d’Arma ed è iscritta all'Albo del Ministero della Difesa. È un' associazione apolitica e apartitica che ha la rappresentanza e la tutela degli interessi materiali e morali dei combattenti e dei reduci di guerra iscritti all'associazione.

Beniamino Colnaghi

martedì 14 febbraio 2012

Antiche Croci di pietra in Boemia e Moravia

Nel corso dei miei viaggi in Repubblica Ceca ho notato la presenza di numerosi simboli religiosi in prossimità della strade, all’ingresso delle città e dei più piccoli villaggi sperduti nella campagna, nelle vicinanze di fiumi e castelli e addirittura nelle adiacenze di boschi e strade campestri.

Al di là dell’ovvio motivo circa la presenza di queste croci, ho cercato di capire se, dietro il posizionamento di questi simboli, ci fossero altri motivi legati magari a fatti e circostanze avvenute in quel luogo. Così ho acquistato un libro/catalogo presso una libreria di Praga e, con il prezioso aiuto di mia moglie, ho scoperto cose veramente interessanti dal punto di vista storico e monumentale.

Tra il 1982 ed il 1996 un gruppo di studiosi e storici cechi ha raccolto dati e informazioni su circa 1800 croci di pietra presenti in Boemia e Moravia, le ha fotografate, catalogate e raccolte in un corposo volume. Nel catalogo non sono presenti edicole sacre ed i classici crocifissi posizionati generalmente all’ingresso delle città e dei borghi, meta di pellegrinaggi e processioni durante le festività religiose, e dei luoghi di sepoltura, cimiteri, cappelle e ossari.
Questi storici hanno studiato la natura delle croci in pietra, analizzato il materiale impiegato, visitati i territori e fatte ricerche storiche dei luoghi ed, infine, hanno ascoltato testimonianze dei residenti e fatto tesoro di alcune leggende locali tramandate di generazione in generazione.

In merito a quest’ultime, quelle più citate riguardano fatti che hanno come sfondo duelli, disgrazie e morti violente. Alcune croci pare siano state installate per ricordare eventi tragici quali, ad esempio, la strage dei partecipanti ad un corteo nuziale ad opera dell’ex fidanzato geloso (doppia e tripla croce) oppure la morte di uno o più bambini causata dal rovesciamento di un carro agricolo.

Foto 1 - Borek: croce di pietra calcarea in cattive condizioni con scritta illeggibile in lettere gotiche


Foto 2 - Kamenice: pietra rettangolare con al centro la croce di Malta e con raffigurazioni di una forbice, della spada, della vanga e di una freccia.


Foto 3 - Protivec: croce ben conservata con una scritta che nel 1945 lo scrittore Karel Sramek così interpretava “1571, Katerina Klvrz di Tavzema è stata uccisa il sabato, giorno dell’Assunzione di Maria”. Sotto la scritta è disegnata una scure.


Sono stati così individuati sette possibili motivi per i quali gli autori pensano che le croci siano state posizionate in quei determinati luoghi:


1) Evocare e ricordare il culto della morte.
Il nesso tra la croce e la morte ha un legame antico. Nella storia del cristianesimo la croce rappresenta il simbolo del supplizio e della morte di Cristo. In molti casi citati sul libro il posizionamento di una croce ha voluto ricordare la morte di una personalità del luogo o la data di un evento (battaglie, disgrazie) che ha provocato comunque la morte di qualcuno.
2) Simboli di pacificazione.
Teoria abbastanza probabile perché riguarda la stipula di accordi di pacificazione fra due o più contendenti. Gli autori fanno riferimento ad un raro documento che riguarda un accordo di pacificazione datato 1513.
3) Delimitazione di un territorio e/o proprietà.
Spesso le croci di pietra venivano usate come cippo che indicava una frontiera o delimitava proprietà della Chiesa o di privati, generalmente nobili o signorotti del luogo. La simbologia adottata per la costruzione delle croci non era univoca e per gli autori è tuttora difficile comprenderne le ragioni.
4) Origine missionaria.
Al riguardo occorrerebbe approfondire la vita e le opere dei santi Cirillo e Metodio, nati in Macedonia ed evangelizzatori bizantini di Moravia, Pannonia e dei popoli slavi nel IX secolo. Tali teorie, tuttavia, non sono sufficientemente documentate e suffragate da dati storici certi. Gli autori hanno comunque preso in considerazione anche questa possibilità perché nel Nord Europa, soprattutto in Scandinavia e Irlanda, si sono trovate delle croci missionarie molto simili a quelle presenti in Boemia e Moravia.
5) Espressione della simbologia germanica, fede nella divinità e nei trattati epici.
La simbologia germanica è stata formulata dal dr. Walter Dreyhausen nel 1940 in contrapposizione con la precedente teoria missionaria, perché, se male intesa, avrebbe potuto sfociare in una speculazione nazionalista a favore della Germania nazista che reclamava a sé i territori della Cecoslovacchia occupati dai Sudeti, popoli di origine tedesca.
6) Simboli della Controriforma cattolica.
Durante gli anni della Controriforma cattolica ed a seguito degli esiti della battaglia della Montagna Bianca (1620) la Boemia, paese a maggioranza protestante, fu sottoposta a un duro processo di ricattolicizzazione forzata, al punto di diventare in pochi decenni uno dei paesi più cattolici d’Europa. Fu un processo drammatico che è stato accompagnato da parecchia violenza. In alcuni territori della Boemia vi fu l’abitudine di manifestare per la vittoria della Chiesa cattolica contro la Riforma protestante, posizionando delle croci di pietra.
7) Contrassegni delle vie di comunicazione.
Un’ultima lettura formulata recentemente dagli autori del testo presuppone che le croci siano state installate per tracciare alcune principali vie di comunicazione, nonché segnalare dogane o luoghi ove si pagavano dazi per entrare in un fondo privato. In questo caso le croci vennero chiamate “ruota doganale” e furono inserite all’interno di pietre rotonde. Questi manufatti rappresentano circa il 3% del totale delle pietre catalogate e si trovano nella Boemia occidentale, vicino al confine con la Germania.

Le croci più vecchie risalgono ai primi anni del 1500 e a tutto il 1600. Numerose sono le croci del XVIII e XIX secolo ovvero sono state costruite e posizionate nel secolo scorso pur ricordando fatti e personaggi di epoche precedenti.



Foto 4 - Veznice: croce con la testa asimmetrica a forma di fiamma con simboli e scritte non decifrate. In un secondo tempo è stata affiancata da una cappella.


Foto 5 - Volfirov: croce scolpita su un cippo commemorativo con la scritta “29.7.1887 L.P. stava ammucchiando il fieno quando è caduto sotto il carro e la sua anima è salita al cielo”.


Foto 6 - Martinice: croce di pietra arenaria curvata verso sinistra, sulla quale è riprodotto il simbolo di una spada primitiva. In seguito è stata affiancata da un crocefisso in pietra.

La presenza di numerosi simboli sacri e religiosi sul territorio delle due Regioni ceche ha ispirato artisti, letterati e uomini di cultura che hanno lasciato traccia ai posteri delle loro opere, attraverso testi scritti e poemi, atti teatrali e dipinti e sculture di buona qualità.

Le antiche croci di pietra sono classificate monumenti di valore storico e artistico e tutelate dalle competenti Soprintendenze della Repubblica Ceca.

Seguono alcune fotografie di crocifissi e cappelle.



Foto 7 - Backov: cappella


Foto 8 - Golcuv Jenikov: crocefisso in pietra


Foto 9 - Vrtesice: crocefisso in ferro


Foto 10 - Sirakovice: crocefisso in ferro inserito fra alcuni cipressi


Foto 11 - Chrenovice: crocefisso in ferro




Foto 12 - Stuparovice: crocefisso in pietra e ferro



Foto 13 - Nejepin: crocefisso in ferro
Beniamino Colnaghi