"Dell’insurrezione di Milano nel 1848 e della
successiva guerra", testo fondamentale del Risorgimento e opera di un
Carlo Cattaneo in esilio, è molto più di una mera cronaca degli eventi: riesce
a trasfigurare quanto avvenne in quelle convulse giornate in una penetrante
analisi del "ventre" politico di una non ancora nata nazione. L’allora
storiografia ufficiale, per lo più vicina a casa Savoia, ritrasse in maniera agiografica
l'anelito del popolo verso la libertà; un anelito sicuramente presente, ma
mescolato a interessi economici potentissimi. Le pagine lucide e infuocate di
Cattaneo, allora a capo del consiglio di
guerra, ci fanno rivivere quelle giornate piene di passione civile come un
vero e proprio "documentario" in presa diretta. Ma, allo stesso
tempo, ci ricordano le profonde aspirazioni federaliste, nel senso più nobile
del termine, del suo autore, uno dei primi a sognare un'Italia unita nelle sue
differenze, cuore pulsante degli Stati Uniti d'Europa. Non a caso le sue
memorie, scritte oltre centosessanta anni fa, terminano con le parole testuali:
“Avremo pace vera, quando avremo gli Stati Uniti d’Europa”.
Il ritratto ed il monumento di Carlo Cattaneo a Milano
Facciamo un passo indietro. Quali furono le
premesse che portarono all’insurrezione?
Vediamole sinteticamente.
L’Impero austro-ungarico avviò sui suoi immensi
territori dei processi di modernizzazione che rappresentarono, al di là delle
buone intenzioni, un unicum in un’Europa che soprattutto si era
preoccupata, dopo il terremoto napoleonico, di restaurare i diritti delle case regnanti. Per
restare all’ambito che ci interessa, nel Regno Lombardo-Veneto, in cui
l’autorità imperiale era rappresentata da un viceré e da un governatore,
ricordiamo che lo scontro vero si attuò già da tempo tra nobiltà e grande
possidenza da una parte, e governo centrale di Vienna dall’altra.
Non era uno scontro aperto, ma piuttosto
un’avversione strisciante che andava consolidandosi da parte di coloro i quali
(nobili e grandi proprietari terrieri) si erano in certo senso sentiti traditi
da una politica viennese che, dopo la Restaurazione , non aveva potuto non tener conto
delle modernizzazioni comunque portate dalle riforme napoleoniche. Se
l’autorità centrale restava indiscutibilmente in mano all’imperatore, il
sistema di governo locale prevedeva una serie di organi rappresentativi che
avevano alla base le assemblee dei Convocati formate da tutti i
cittadini, purché iscritti nel registro delle tasse, che votavano in assemblea
per l’elezione dei governi locali nei comuni piccoli e medi. Sopra questo
livello esistevano le Congregazioni che raccoglievano nobiltà e
possidenza, le quali governavano i comuni maggiori e partecipavano alle
decisioni di guida dello Stato. La frizione fra questi due organi era
inevitabile perché, mentre le assemblee dei Convocati rappresentavano
una forma di democrazia diretta, capaci di raccogliere e dar voce anche agli
interessi delle classi più umili, le Congregazioni mantenevano un
atteggiamento estremamente conservatore e vedevano con ostilità il fatto che
venisse data voce alla plebe, tradendo, secondo il loro punto di vista,
il lavoro di riordino che si doveva fare in Europa dopo i “pasticci” causati dalla Rivoluzione francese
prima e dalle riforme napoleoniche poi. E infatti furono proprio le pressioni
delle Congregazioni sul governo centrale che causarono il progressivo
esautoramento delle assemblee dei Convocati; già nel 1835 i governi
locali allargati venivano ridotti ad organi consultivi. D’altra parte,
il Governo Imperiale non poteva non tener conto delle pressioni dei nobili e
della possidenza, che detenendo buona parte della ricchezza, erano anche le
maggiori fonti di entrate fiscali. Ma proprio su questo aspetto nasceva poi un
altro motivo di contrasto, forse il maggiore.
Una delle novità che il governo imperiale cercava
di imporre era quella di un riordino del sistema fiscale che privilegiasse
l’imposizione diretta, ossia quella che, colpendo i redditi, fa ovviamente
pagare di più a chi più guadagna. Cinquant’anni più tardi il governo sabaudo
avrebbe potuto sperimentare la popolarità delle imposte indirette, con quei
moti di piazza che videro a Milano la carneficina causata dai cannoni del
generale Bava Beccaris. Questi concetti in materia fiscale sono per noi, oggi,
ovvi e naturali. Un secolo e mezzo fa, in una società ancora basata
principalmente sui privilegi di classe e sulla conservazione degli stessi, la
leva fiscale poteva rappresentare una vera mina vagante, soprattutto perché un
sistema fiscale equo permette anche alle classi più umili di elevarsi
socialmente, mentre un sistema vessatorio, oltre che favorire i più ricchi, fa
sì che i poveri continuino disciplinatamente ad essere poveri. E questo è un
elemento essenziale per la conservazione dello status quo. "Vienna
ladrona": questa era una delle accuse principali lanciate dagli oppositori
del governo imperiale.
E’ vero che la Lombardia , essendo la
regione più ricca, era anche il contribuente più importante dell’impero, ma è
altrettanto vero che gran parte di queste imposte, grosso modo la metà,
rientravano in Lombardia per il finanziamento di opere pubbliche e di incentivi
all’imprenditoria. La creazione dell’Università di Pavia, l’istruzione
elementare pubblica, l’organizzazione di pubblici ospedali, sono tutte
realizzazioni del periodo di dominazione austriaca.
E i dati di fatto ci dicono anche che si cercava,
insieme ad una modernizzazione amministrativa, che a tutt’oggi viene guardata
come esemplare, di sollevare le classi più umili, fornendo loro quei servizi di
cui si accennava sopra che erano appannaggio della Chiesa, come opere di
carità, o dei ricchi che potevano permetterseli. Già nell’Ottocento
dire che lo Stato doveva venire in soccorso dei più deboli, riconoscendo quindi
dei diritti anche alla "plebe", si faceva già un’opera di grande
modernizzazione, non fosse altro perché si comprese che le classi tendevano, per
loro natura, ad amalgamarsi, a confondersi, a generare nuovi livelli che sarebbero
andati, seppure in un sistema poliziesco e militarizzato, a scuotere i vecchi
equilibri, nella ricerca di una maggior giustizia sociale.
Nei primi mesi del 1848 avvennero diversi
fatti e avvenimenti che scossero l’Europa: la polizia austriaca uccise sei
milanesi in seguito allo sciopero del lotto e del tabacco, congegnato per
togliere alla finanza austriaca una delle sue principali entrate; Palermo insorse
contro i Borboni; ci fu la
Rivoluzione a Napoli, il giorno 29 gennaio re Ferdinando II
di Borbone annunciò la
Costituzione ; a Milano si svolse un imponente manifestazione
alla Scala a favore della Costituzione napoletana; la polizia vietò in tutto il
Lombardo-Veneto l'uso di portare cappelli alla Calabrese, all'Ernani, alla
Puritana e qualsiasi simbolo o distintivo politico; avvenne la Rivoluzione di
febbraio a Parigi che portò alla costituzione della Seconda Repubblica; Karl
Marx e Friedrich Engels pubblicarono a Londra il Manifesto del Partito
Comunista; il 13 marzo iniziò l’insurrezione
a Vienna e la conseguente caduta del cancelliere Von Metternich.
Il 17 marzo 1848 si diffuse a Milano la notizia delle
dimissioni di Metternich. La notizia provocò e
generò l'occasione per organizzare il giorno successivo una grande
manifestazione pacifica davanti al palazzo del governo, nell'attuale piazza
Mercanti, per richiedere alcune concessioni tese a dare maggiore autonomia a
Milano e alla Lombardia. Il 18 marzo la manifestazione ben presto si trasformò
in un assalto. In tutta Milano cominciarono i combattimenti in strada.
Colto alla sprovvista, Joseph Radetzky, nobile boemo, feldmaresciallo
austriaco ed a lungo governatore del Lombardo-Veneto, si rinchiuse con alcune
migliaia di uomini nel Castello Sforzesco, ordinando di riprendere il palazzo
del governatore e pieno possesso della città.
Scrive il Cattaneo: “E la ribellione scoppiava e vedevasi
correre a volo per la città il tricolore cisalpino. A quella vista, le guardie
austriache restavano immote e stupefatte! Il popolo gridava che il posto degli
uomini era nella strada; i giovani uscivano d’ogni parte con pistole, sciabole
e bastoni. Alle otto della sera, Radetzky scrisse ai municipali, intimando loro
di disarmare la guardia civica, conchiudeva dicendo “mi riservo poi di far uso
del saccheggio e di tutti li altri mezzi che stanno in mio potere per ridurre
all’obbedienza una città ribelle; ciò mi riuscirà facile, avendo a mia
disposizione un esercito agguerrito di centomila
uomini e duecento pezzi di cannone”.
Il Cattaneo, dalle informazioni in suo possesso, scrive: “Si è
fatto computo che in quella prima notte la città tutta non avesse a fronte del
nemico più di tre a quattrocento fucili d’ogni sorta…”.
Le barricate vennero montate in ogni parte della città ed i
milanesi si prodigarono affannosamente in cerca di armi. Venne proposto un
governo provvisorio. Molti capi della rivolta non furono d’accordo. Lo stesso
Cattaneo disse che sarebbe bastato fare un Consiglio
di Guerra, non trattandosi altro che di combattere. Il Consiglio venne costituito e ne fecero parte: Giulio Terzaghi,
Giorgio Clerici, Carlo Cattaneo, Enrico Cernuschi.
Alla fine del terzo giorno di rivolta la penuria delle armi
ebbe fine.
“Presso la sera del terzo giorno - scrive il Cattaneo - la
bandiera tricolore fu inalberata sulla aguglia del Duomo da Luigi Torelli e
Scipione Bagaggia. Eravamo ormai padroni della cerchia più interna e popolosa
della città, sino a quella larga fossa che i nostri antichi scavarono già per
difendersi dall’imperator Federico…”. Ma
come fare per informare dell’insurrezione chi viveva fuori della fossa interna
ed anche nelle circostanti campagne? “A tal uopo il Consiglio di Guerra invitò li astronomi e li ottici a collocarsi su
li osservatorii e i campanili e di là spedirci d’ora in ora brevi note. E poco
di poi si pensò di mandare in aria palloni che seco portassero i nostri
proclami. Li Austriaci, accampati sui bastioni, stavano attoniti mirando quelli
aerei messaggeri sorvolare alle loro linee, e li bersagliavano con vari colpi”.
“A tutte le città e a tutti i communi del Lombardo Veneto. Fratelli! Diceva uno
dei proclami, la vittoria è nostra. Il nemico in ritirata limita il suo terreno
al castello e ai bastioni. Accorrete; stringiamo una porta fra due fuochi ed
abbracciamoci”.
“Molti di quei palloni - aggiunge il Cattaneo - caddero in
luoghi ove li abitanti non avevano udito il suono del cannone, o non ne avevano
sospettato la causa; altri giunsero fin oltre il confine svizzero, piemontese,
piacentino. In molti dei nostri territori furono segnale di sollevamento;
dappertutto misero in fermento i popoli. Turbe di contadini condotte da
studenti, da medici, da curati, da doganieri, movevano d’ogni parte verso
Milano. Cinquecento uomini giunsero dalla Svizzera italiana, la quale per la
sua vicinanza aveva non meno di noi patito del nostro malgoverno; congiunti coi
montanari del lago di Como e ai giovani di quella città. Poi, combattendo con
nuova vittoria a Monza, erano giunti sotto le nostre mura verso tramontana. Dal
lato di mezzodì una squadra partiva dalle vicinanze del Po. Il comitato di
Lecco armava quel territorio, la Val Sassina ,
la Valtellina ,
e sommoveva la lenta Brianza. Bergamo mandò parecchie centinaia de’ suoi
cittadini e valligiani. Gerolamo Borgazzi, ispettore della via ferrata di
Monza, raccolti duemila uomini, penetrò furtivo in città verso il meriggio del
quarto giorno…”.
Nella notte tra il 21 e il 22 marzo si formò il Governo
provvisorio di Milano, presieduto da Gabrio Casati. Ne fu segretario Cesare
Correnti. Nel corso della stessa notte si svolse una “battaglia” sul naviglio
per conquistare il convento di S. Sofia e poi prendere il Collegio di S. Luca.
Il 23 marzo, il giorno
successivo alla fine dei combattimenti in città, le truppe piemontesi passarono
il Ticino dirigendosi verso Milano, dando inizio alla prima guerra
d’indipendenza. L'esercito piemontese si mosse con estrema lentezza dando modo
agli austriaci di ritirarsi senza rilevanti perdite nel Quadrilatero. L'incapacità
di assumere l'iniziativa da parte piemontese dette in ogni caso modo agli
austriaci di ricevere rinforzi che gli permisero di riconquistare Vicenza e di
riprendere l'offensiva. Il 10 giugno, Carlo Alberto ricevette una delegazione
guidata dal podestà di Milano, Casati, che recava l'esito trionfale del
plebiscito che sanciva l'unione della Lombardia al regno di Sardegna. La situazione
dell'esercito sardo-piemontese era però compromessa e il re ordinò una ritirata
verso l'Adda e Milano, dove i piemontesi vennero accolti da una città fredda e
deserta, delusa di aver offerto una vittoria, trovandosi senza colpe in una
sconfitta. Il re, sebbene inizialmente respinse ogni proposta di abbandonare la
città, decise di porre fine alla guerra, scatenando l'ira dei milanesi che si
ammassarono attorno alla sua residenza. Nella sera i bersaglieri sgomberarono la folla e scortarono Carlo Alberto
fuori dalla città.
Il 5 agosto 1848 venne firmata la capitolazione. Il giorno dopo
gli austriaci rientrarono a Milano, da dove nel frattempo la maggior parte dei
partecipanti alla lotta di liberazione era fuggita. Come nuovo governatore fu
posto Felix Schwarzenberg, statista austriaco che restaurò l'impero
asburgico come grande potenza europea dopo le rivoluzioni del 1848.
Quei giorni di rivolta, durante i quali i cittadini milanesi e
lombardi riuscirono a sconfiggere l’esercito straniero, sono ricordati come le
“Cinque giornate di Milano”.
Beniamino Colnaghi
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