mercoledì 20 marzo 2019

Anche “la lenta Brianza”, secondo il Cattaneo, partecipò all’insurrezione di Milano del marzo 1848

"Dell’insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra", testo fondamentale del Risorgimento e opera di un Carlo Cattaneo in esilio, è molto più di una mera cronaca degli eventi: riesce a trasfigurare quanto avvenne in quelle convulse giornate in una penetrante analisi del "ventre" politico di una non ancora nata nazione. L’allora storiografia ufficiale, per lo più vicina a casa Savoia, ritrasse in maniera agiografica l'anelito del popolo verso la libertà; un anelito sicuramente presente, ma mescolato a interessi economici potentissimi. Le pagine lucide e infuocate di Cattaneo, allora a capo del consiglio di guerra, ci fanno rivivere quelle giornate piene di passione civile come un vero e proprio "documentario" in presa diretta. Ma, allo stesso tempo, ci ricordano le profonde aspirazioni federaliste, nel senso più nobile del termine, del suo autore, uno dei primi a sognare un'Italia unita nelle sue differenze, cuore pulsante degli Stati Uniti d'Europa. Non a caso le sue memorie, scritte oltre centosessanta anni fa, terminano con le parole testuali: “Avremo pace vera, quando avremo gli Stati Uniti d’Europa”.


Facciamo un passo indietro. Quali furono le premesse che portarono all’insurrezione?
Vediamole sinteticamente.
L’Impero austro-ungarico avviò sui suoi immensi territori dei processi di modernizzazione che rappresentarono, al di là delle buone intenzioni, un unicum in un’Europa che soprattutto si era preoccupata, dopo il terremoto napoleonico, di restaurare i diritti delle case regnanti. Per restare all’ambito che ci interessa, nel Regno Lombardo-Veneto, in cui l’autorità imperiale era rappresentata da un viceré e da un governatore, ricordiamo che lo scontro vero si attuò già da tempo tra nobiltà e grande possidenza da una parte, e governo centrale di Vienna dall’altra.
Non era uno scontro aperto, ma piuttosto un’avversione strisciante che andava consolidandosi da parte di coloro i quali (nobili e grandi proprietari terrieri) si erano in certo senso sentiti traditi da una politica viennese che, dopo la Restaurazione, non aveva potuto non tener conto delle modernizzazioni comunque portate dalle riforme napoleoniche. Se l’autorità centrale restava indiscutibilmente in mano all’imperatore, il sistema di governo locale prevedeva una serie di organi rappresentativi che avevano alla base le assemblee dei Convocati formate da tutti i cittadini, purché iscritti nel registro delle tasse, che votavano in assemblea per l’elezione dei governi locali nei comuni piccoli e medi. Sopra questo livello esistevano le Congregazioni che raccoglievano nobiltà e possidenza, le quali governavano i comuni maggiori e partecipavano alle decisioni di guida dello Stato. La frizione fra questi due organi era inevitabile perché, mentre le assemblee dei Convocati rappresentavano una forma di democrazia diretta, capaci di raccogliere e dar voce anche agli interessi delle classi più umili, le Congregazioni mantenevano un atteggiamento estremamente conservatore e vedevano con ostilità il fatto che venisse data voce alla plebe, tradendo, secondo il loro punto di vista, il lavoro di riordino che si doveva fare in Europa dopo i “pasticci” causati dalla Rivoluzione francese prima e dalle riforme napoleoniche poi. E infatti furono proprio le pressioni delle Congregazioni sul governo centrale che causarono il progressivo esautoramento delle assemblee dei Convocati; già nel 1835 i governi locali allargati venivano ridotti ad organi consultivi. D’altra parte, il Governo Imperiale non poteva non tener conto delle pressioni dei nobili e della possidenza, che detenendo buona parte della ricchezza, erano anche le maggiori fonti di entrate fiscali. Ma proprio su questo aspetto nasceva poi un altro motivo di contrasto, forse il maggiore.
Una delle novità che il governo imperiale cercava di imporre era quella di un riordino del sistema fiscale che privilegiasse l’imposizione diretta, ossia quella che, colpendo i redditi, fa ovviamente pagare di più a chi più guadagna. Cinquant’anni più tardi il governo sabaudo avrebbe potuto sperimentare la popolarità delle imposte indirette, con quei moti di piazza che videro a Milano la carneficina causata dai cannoni del generale Bava Beccaris. Questi concetti in materia fiscale sono per noi, oggi, ovvi e naturali. Un secolo e mezzo fa, in una società ancora basata principalmente sui privilegi di classe e sulla conservazione degli stessi, la leva fiscale poteva rappresentare una vera mina vagante, soprattutto perché un sistema fiscale equo permette anche alle classi più umili di elevarsi socialmente, mentre un sistema vessatorio, oltre che favorire i più ricchi, fa sì che i poveri continuino disciplinatamente ad essere poveri. E questo è un elemento essenziale per la conservazione dello status quo. "Vienna ladrona": questa era una delle accuse principali lanciate dagli oppositori del governo imperiale.
E’ vero che la Lombardia, essendo la regione più ricca, era anche il contribuente più importante dell’impero, ma è altrettanto vero che gran parte di queste imposte, grosso modo la metà, rientravano in Lombardia per il finanziamento di opere pubbliche e di incentivi all’imprenditoria. La creazione dell’Università di Pavia, l’istruzione elementare pubblica, l’organizzazione di pubblici ospedali, sono tutte realizzazioni del periodo di dominazione austriaca.
E i dati di fatto ci dicono anche che si cercava, insieme ad una modernizzazione amministrativa, che a tutt’oggi viene guardata come esemplare, di sollevare le classi più umili, fornendo loro quei servizi di cui si accennava sopra che erano appannaggio della Chiesa, come opere di carità, o dei ricchi che potevano permetterseli. Già nell’Ottocento dire che lo Stato doveva venire in soccorso dei più deboli, riconoscendo quindi dei diritti anche alla "plebe", si faceva già un’opera di grande modernizzazione, non fosse altro perché si comprese che le classi tendevano, per loro natura, ad amalgamarsi, a confondersi, a generare nuovi livelli che sarebbero andati, seppure in un sistema poliziesco e militarizzato, a scuotere i vecchi equilibri, nella ricerca di una maggior giustizia sociale.

Nei primi mesi del 1848 avvennero diversi fatti e avvenimenti che scossero l’Europa: la polizia austriaca uccise sei milanesi in seguito allo sciopero del lotto e del tabacco, congegnato per togliere alla finanza austriaca una delle sue principali entrate; Palermo insorse contro i Borboni; ci fu la Rivoluzione a Napoli, il giorno 29 gennaio re Ferdinando II di Borbone annunciò la Costituzione; a Milano si svolse un imponente manifestazione alla Scala a favore della Costituzione napoletana; la polizia vietò in tutto il Lombardo-Veneto l'uso di portare cappelli alla Calabrese, all'Ernani, alla Puritana e qualsiasi simbolo o distintivo politico; avvenne la Rivoluzione di febbraio a Parigi che portò alla costituzione della Seconda Repubblica; Karl Marx e Friedrich Engels pubblicarono a Londra il Manifesto del Partito Comunista; il 13 marzo iniziò l’insurrezione a Vienna e la conseguente caduta del cancelliere Von Metternich.
Il 17 marzo 1848 si diffuse a Milano la notizia delle dimissioni di Metternich. La notizia provocò e generò l'occasione per organizzare il giorno successivo una grande manifestazione pacifica davanti al palazzo del governo, nell'attuale piazza Mercanti, per richiedere alcune concessioni tese a dare maggiore autonomia a Milano e alla Lombardia. Il 18 marzo la manifestazione ben presto si trasformò in un assalto. In tutta Milano cominciarono i combattimenti in strada.



Colto alla sprovvista, Joseph Radetzky, nobile boemo, feldmaresciallo austriaco ed a lungo governatore del Lombardo-Veneto, si rinchiuse con alcune migliaia di uomini nel Castello Sforzesco, ordinando di riprendere il palazzo del governatore e pieno possesso della città.
Scrive il Cattaneo: “E la ribellione scoppiava e vedevasi correre a volo per la città il tricolore cisalpino. A quella vista, le guardie austriache restavano immote e stupefatte! Il popolo gridava che il posto degli uomini era nella strada; i giovani uscivano d’ogni parte con pistole, sciabole e bastoni. Alle otto della sera, Radetzky scrisse ai municipali, intimando loro di disarmare la guardia civica, conchiudeva dicendo “mi riservo poi di far uso del saccheggio e di tutti li altri mezzi che stanno in mio potere per ridurre all’obbedienza una città ribelle; ciò mi riuscirà facile, avendo a mia disposizione un esercito agguerrito di centomila uomini e duecento pezzi di cannone”.
Il Cattaneo, dalle informazioni in suo possesso, scrive: “Si è fatto computo che in quella prima notte la città tutta non avesse a fronte del nemico più di tre a quattrocento fucili d’ogni sorta…”.
Le barricate vennero montate in ogni parte della città ed i milanesi si prodigarono affannosamente in cerca di armi. Venne proposto un governo provvisorio. Molti capi della rivolta non furono d’accordo. Lo stesso Cattaneo disse che sarebbe bastato fare un Consiglio di Guerra, non trattandosi altro che di combattere. Il Consiglio venne costituito e ne fecero parte: Giulio Terzaghi, Giorgio Clerici, Carlo Cattaneo, Enrico Cernuschi.


 Il ritratto ed il monumento di Carlo Cattaneo a Milano

Alla fine del terzo giorno di rivolta la penuria delle armi ebbe fine.
“Presso la sera del terzo giorno - scrive il Cattaneo - la bandiera tricolore fu inalberata sulla aguglia del Duomo da Luigi Torelli e Scipione Bagaggia. Eravamo ormai padroni della cerchia più interna e popolosa della città, sino a quella larga fossa che i nostri antichi scavarono già per difendersi dall’imperator Federico…”.  Ma come fare per informare dell’insurrezione chi viveva fuori della fossa interna ed anche nelle circostanti campagne? “A tal uopo il Consiglio di Guerra invitò li astronomi e li ottici a collocarsi su li osservatorii e i campanili e di là spedirci d’ora in ora brevi note. E poco di poi si pensò di mandare in aria palloni che seco portassero i nostri proclami. Li Austriaci, accampati sui bastioni, stavano attoniti mirando quelli aerei messaggeri sorvolare alle loro linee, e li bersagliavano con vari colpi”. “A tutte le città e a tutti i communi del Lombardo Veneto. Fratelli! Diceva uno dei proclami, la vittoria è nostra. Il nemico in ritirata limita il suo terreno al castello e ai bastioni. Accorrete; stringiamo una porta fra due fuochi ed abbracciamoci”.
“Molti di quei palloni - aggiunge il Cattaneo - caddero in luoghi ove li abitanti non avevano udito il suono del cannone, o non ne avevano sospettato la causa; altri giunsero fin oltre il confine svizzero, piemontese, piacentino. In molti dei nostri territori furono segnale di sollevamento; dappertutto misero in fermento i popoli. Turbe di contadini condotte da studenti, da medici, da curati, da doganieri, movevano d’ogni parte verso Milano. Cinquecento uomini giunsero dalla Svizzera italiana, la quale per la sua vicinanza aveva non meno di noi patito del nostro malgoverno; congiunti coi montanari del lago di Como e ai giovani di quella città. Poi, combattendo con nuova vittoria a Monza, erano giunti sotto le nostre mura verso tramontana. Dal lato di mezzodì una squadra partiva dalle vicinanze del Po. Il comitato di Lecco armava quel territorio, la Val Sassina, la Valtellina, e sommoveva la lenta Brianza. Bergamo mandò parecchie centinaia de’ suoi cittadini e valligiani. Gerolamo Borgazzi, ispettore della via ferrata di Monza, raccolti duemila uomini, penetrò furtivo in città verso il meriggio del quarto giorno…”.
Nella notte tra il 21 e il 22 marzo si formò il Governo provvisorio di Milano, presieduto da Gabrio Casati. Ne fu segretario Cesare Correnti. Nel corso della stessa notte si svolse una “battaglia” sul naviglio per conquistare il convento di S. Sofia e poi prendere il Collegio di S. Luca.
Il 23 marzo, il giorno successivo alla fine dei combattimenti in città, le truppe piemontesi passarono il Ticino dirigendosi verso Milano, dando inizio alla prima guerra d’indipendenza. L'esercito piemontese si mosse con estrema lentezza dando modo agli austriaci di ritirarsi senza rilevanti perdite nel Quadrilatero. L'incapacità di assumere l'iniziativa da parte piemontese dette in ogni caso modo agli austriaci di ricevere rinforzi che gli permisero di riconquistare Vicenza e di riprendere l'offensiva. Il 10 giugno, Carlo Alberto ricevette una delegazione guidata dal podestà di Milano, Casati, che recava l'esito trionfale del plebiscito che sanciva l'unione della Lombardia al regno di Sardegna. La situazione dell'esercito sardo-piemontese era però compromessa e il re ordinò una ritirata verso l'Adda e Milano, dove i piemontesi vennero accolti da una città fredda e deserta, delusa di aver offerto una vittoria, trovandosi senza colpe in una sconfitta. Il re, sebbene inizialmente respinse ogni proposta di abbandonare la città, decise di porre fine alla guerra, scatenando l'ira dei milanesi che si ammassarono attorno alla sua residenza. Nella sera i bersaglieri sgomberarono la folla e scortarono Carlo Alberto fuori dalla città.
Il 5 agosto 1848 venne firmata la capitolazione. Il giorno dopo gli austriaci rientrarono a Milano, da dove nel frattempo la maggior parte dei partecipanti alla lotta di liberazione era fuggita. Come nuovo governatore fu posto Felix Schwarzenberg, statista austriaco che restaurò l'impero asburgico come grande potenza europea dopo le rivoluzioni del 1848.
Quei giorni di rivolta, durante i quali i cittadini milanesi e lombardi riuscirono a sconfiggere l’esercito straniero, sono ricordati come le “Cinque giornate di Milano”.

Beniamino Colnaghi

 

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