sabato 25 giugno 2016

Cenni di storia su Velate (Monza e Brianza), l’antico borgo sul colle

Per i residenti, e per coloro che ne conoscono la storia, Velate, provincia di Monza e Brianza, è il paese rannicchiato sulla collina, la “città posta sul monte”. In effetti, il vecchio borgo e gli edifici di un certo pregio storico-monumentale risiedono sul colmo del colle.
Velate faceva anticamente parte del Comitato di Milano. Nelle cronache milanesi si legge che Berengario I, riconoscente verso il Capitolo di Monza per vari benefici da esso ricevuti, con diploma 1 luglio 920 fece dono al Capitolo stesso del villaggio di Velate. In alcuni documenti citati da Paolo Frisi nelle sue Memorie, risulta che anche l'imperatore Lotario, nel 1136, confermò tale possesso. Centro agricolo delle colline briantee, Velate, Pieve di Vimercate, conobbe una significativa trasformazione tra Settecento e Ottocento. Nei primi anni dell'Ottocento, il conte Rinaldo di Barbiano, principe di Belgioioso d'Este concentrò nelle proprie mani larga parte dei beni agricoli della comunità velatese, cui aggiunse altri terreni siti in Usmate. Il conte fece della sua dimora nel centro del borgo una classica villa di delizie. L’architetto Giuseppe Pollack, figlio del più celebre Leopoldo, fu coinvolto nell’opera di trasformazione della struttura esistente, che divenne, insieme all’oratorio privato e al magnifico parco, luogo di villeggiatura di una delle più importanti famiglie del patriziato milanese.
I beni del conte passarono alla figlia Maria Beatrice, che nel 1812 sposò il conte Giorgio Giovanni Giulini della Porta. Particolarmente legata a Velate, dove fece costruire una tomba di famiglia, la Cappella S. Felice, Maria Beatrice sopravvisse al marito ed ai figli maschi. Alla sua morte i beni di Velate passarono alla figlia Anna, vedova di Camillo Casati. Attraverso complesse vicende famigliari, un cospicuo insieme di beni, concentrati nei centri di Velate, Arcore, Muggiò e Usmate, venne ad ampliare il patrimonio della famiglia Casati, in particolare di Alfonso Casati, quarto figlio di Anna Giulini della Porta e padre di Alessandro Casati, amico di Benedetto Croce ed esponente di rilievo del mondo liberale italiano. Nel 1929 la villa, il parco e diversi terreni situati a nord-est di Velate vennero venduti al commerciante Maurizio Scaccabarozzi di Vimercate.
L’edificio presenta una pianta a L. Gli elementi architettonici si ispirano a uno stile neoclassico, dando una sensazione di ricercata semplicità. Nei saloni del piano terra si possono ammirare i soffitti lignei a cassettoni e i pavimenti a mosaico. Dal 1996 la villa e il parco appartengono al Comune di Usmate Velate.


Villa Belgioioso Scaccabarozzi vista dall'ingresso principale e dal parco

Velate ebbe l'aggiunta "Milanese" con Regio Decreto 1054 del 14 dicembre 1862. L'unificazione dei comuni di Usmate e Velate risale al 24 febbraio 1869, quando Usmate, già comune autonomo, venne aggregato a Velate Milanese. Solo nel 1930, in pieno regime fascista, Velate Milanese fu autorizzato a trasferire la sede municipale a Usmate di Velate, assumendo così l'attuale denominazione di Usmate Velate.
Lo stemma del Comune si compone di tre sezioni: dall'alto, la prima raffigura un martelletto (ponzone) fra due ali di colore rosso su fondo oro, simboli degli antichi stemmi delle famiglie Ala e Ponzone; la sezione centrale presenta tre stelle d'argento a sei punte su fondo azzurro, ricavate dallo stemma della famiglia Osio; la sezione sottostante riproduce una scacchiera a quadri argento e rosso, presente nello stemma della famiglia Barbiano di Belgioioso.
Dall’ingresso principale della villa Belgioioso Scaccabarozzi, percorrendo in leggera discesa via Cottolengo, si arriva alla chiesa parrocchiale di Velate. Un tempo, la strada scendeva diritta fino a raggiungere un'antica chiesina. L’arroganza di un signorotto locale, appartenuto alla famiglia Osio, fece sì che la strada si interrompesse di fronte alla sua nuova casa, l’attuale corte dei Nobili o del Sacrista, in asse con la strada di accesso alla chiesina, sul sagrato della quale sorgeva il cimitero.

Una vecchia foto di via Cottolengo (fonte sito del Comune di Usmate Velate)

Si è fatto cenno all’antica chiesina. Alcuni secoli orsono, là, sul colmo della collina, esisteva una piccola chiesetta, meta di preghiera dei contadini che abitavano nelle cascine e in un piccolo villaggio, nascosto e velato nei boschi circostanti. Secondo un documento conservato nella Biblioteca di Monza, la chiesetta si chiamava Sancta Maria de Vellate e le sue dimensione erano metri sette di lunghezza per metri quattro di larghezza. Mentre la vicina Usmate divenne parrocchia nel 1570, ai tempi di San Carlo Borromeo, Velate dovette aspettare, perché la sua povera chiesina non era adeguata ad ospitare una parrocchia. Trentasette anni dopo, nel 1607, per decreto del cugino di San Carlo, Federico, noto ai più come personaggio del capolavoro del Manzoni, I promessi sposi, Velate divenne parrocchia. Ma già nel 1634, alcuni documenti contenuti nell’archivio parrocchiale svelano che erano in corso i lavori per la costruzione di una nuova chiesa. L’edificio venne consacrato nel 1668 dal prevosto di Vimercate e venne dedicato a Santa Maria Assunta.  La nuova chiesa, a parte un brutto incendio nella parte alta del campanile, che causò la caduta delle campane, durò ininterrottamente per circa due secoli, ossia fino alla seconda metà dell’Ottocento, quando, esattamente nel marzo del 1856, l’allora arcivescovo di Milano, Carlo Bartolomeo Romilli, di origini bergamasche, durante una visita pastorale, sollecitò il parroco ed i fedeli velatesi ad ampliare la chiesa esistente o costruirne una nuova. Venne contattato l’architetto milanese Giacomo Moraglia, apprezzato dalla famiglia Belgioioso d’Este e progettista di numerose chiese e campanili della zona, il quale, in poco più di quattro mesi, consegnò al parroco di Velate il progetto di massima della nuova chiesa.
Molto spesso, però, la volontà degli uomini non tiene conto del fato, dell’imprevisto, che si intrufolano nell’incedere degli eventi. Il Moraglia morì qualche tempo dopo ed il parroco fu sostituito. Il progetto rimase nei cassetti fino al 1873, quando, il nuovo reggente, don Giuseppe Gorè, si rivolse allo stesso studio Moraglia, il quale incaricò l’architetto Alfonso Parrocchetti di occuparsi del progetto e di seguire le fasi realizzative, che terminarono nel 1885.


 
La vecchia chiesa del 1885 (fonte sito del Comune di Usmate Velate)
 
Chiuso il secolo del Romanticismo, nei paesi rurali della Brianza il Novecento si aprì non certo all’insegna del miglioramento delle condizioni di vita dei contadini. Alla vigilia della prima guerra mondiale Usmate Velate era un paese di circa 3.600 abitanti, la maggior parte dei quali quotidianamente occupati nella coltivazione dei campi. Le terre, in una sostanziale continuità con i due secoli precedenti, erano di proprietà di poche famiglie nobili, le quali avevano la propria rendita assicurata dal fatto che il patto colonico applicato nelle campagne del Vimercatese era ancora quello del fitto a grano e mezzadria.  Tale patto era vantaggioso per i proprietari, ai quali erano assicurati una quota fissa in grano e la metà della seta e del vino prodotti, ed estremamente penalizzante per i coloni. Le uniche lavorazioni di tipo industriale che venivano effettuate nel periodo prebellico ad Usmate Velate riguardavano la lavorazione della seta, con due piccoli opifici ad Impari Inferiore e alla cascina Vega, nei quali era impiegata manodopera femminile.  In questo quadro di generale immobilità e, comunque, di sostanziale povertà per la popolazione, la crisi economica del 1913-14, con il calo produttivo e occupazionale registrato dalle industrie tessili, dai cappellifici e dai mobilifici in tutta la Brianza monzese, non aveva avuto ad Usmate Velate ripercussioni particolari, dato che in un paese di contadini il tenore di vita era già a livelli bassi, di sussistenza.
Fu l’entrata in guerra dell’Italia, nel maggio 1915, che venne a turbare, forse definitivamente, l’equilibrio delle piccole comunità, che era retto, come si è detto, da un lato dai lavori nei campi e dall’altro dalla partecipazione alla vita religiosa, in continuità con i due secoli precedenti. Molti uomini di Usmate Velate furono chiamati a combattere al fronte, togliendo così braccia dai campi e turbando la tranquillità delle famiglie. Mentre i figli partivano chiamati dal dovere, i vecchi e le donne si occupavano alla meglio dei lavori nei campi. Le chiamate di leva si susseguirono, ma pare che nessun velatese partì volontario per il fronte e, comunque, in tutta la Brianza di adesioni entusiastiche alla guerra non ce ne furono, sia perché la situazione lavorativa e la carenza di braccia non permettevano l’allontanamento dei giovani dalle famiglie, sia e soprattutto perché storicamente in Brianza non attecchirono le tesi interventistiche. Infatti, almeno fino allo scoppio della guerra, cattolici e socialisti (i due grandi movimenti di massa che si dividevano l’elettorato brianzolo) erano apparsi uniti nel condannare l’intervento in guerra, che avrebbe rubato alla famiglia e al lavoro milioni di giovani vite e la loro propaganda neutralista era ben penetrata nell’animo dei brianzoli.
Con il proseguo della guerra, il malcontento dei brianzoli crebbe, così come le reazioni al carovita e alle carenze alimentari. Già dall’ottobre 1915 si verificarono nel monzese nuove agitazioni delle maestranze tessili che chiesero una maggiorazione dei salari. Questo è solo un esempio delle innumerevoli agitazioni, anche spontanee e disordinate, che si ebbero per tutta la durata della guerra. Spiccano tra queste i gravi incidenti in Brianza del maggio 1917, quando le donne, esasperate dai disagi e dalla mancanza di generi di prima necessità, scesero nelle piazze a protestare, mentre nel luglio i contadini protestarono contro la proroga obbligatoria dei contratti e contro l’aumento dei prezzi del grano e dei bozzoli, dato che a loro restava ben poco dei prodotti della terra. A ciò si aggiungano le requisizioni del grano ad uso dell’amministrazione militare. E’ in questa assai critica situazione economica e sociale che passarono gli anni della guerra, la quale fu coronata, alla sua conclusione, nel novembre 1918, dalla comparsa dell’epidemia di spagnola, che fece le sue vittime anche tra l’indebolita popolazione di Usmate Velate.



In Italia, alla fine della guerra erano maturi i tempi per nuove riforme politiche, che si attuarono con l’approvazione di una nuova legge elettorale, la quale eliminava le ultime residue limitazioni del suffragio universale e, soprattutto, introduceva il principio della rappresentanza proporzionale. Di conseguenza, si affermò l’importanza dei due grandi partiti di massa, il Partito socialista e i Popolari.  Le elezioni politiche, che si svolsero nel novembre del 1919, ebbero una grande importanza in quanto proprio questi due grandi partiti raccolsero complessivamente più della metà dei voti validi. Nel circondario monzese il Ppi era forte specialmente nelle campagne, mentre nelle più industrializzate Monza e Vimercate il Partito socialista godeva di maggiori consensi.
Il rapporto che si venne a creare tra i proprietari ed i coloni cambiò. Questi ultimi, abituati da secoli a sottostare alle direttive degli agenti padronali, si trovavano ora a poter trattare la propria condizione, anche grazie alla fondazione di cooperative agricole e all’accesso al credito delle nuove casse rurali. Oltre alla Cooperativa Agricola di Usmate, nacquero nello stesso anno, nel dicembre 1920, la Cooperativa San Giacomo a Bernate e la Cooperativa di consumo San Rocco a Velate(1).   Nel giugno del 1920, ad Usmate Velate, i contadini pattuirono l’affittanza conformemente al concordato per il nuovo patto colonico nell’Alto milanese; a Velate il Conte Alessandro Casati trattò tramite il suo agente direttamente con i coloni, mentre più complessa fu la trattativa ad Usmate. Il biennio 1919-1920, che in Italia fu caratterizzato dalle rivendicazioni sindacali della cosiddetta “ondata rossa”, fu quindi agitato anche nelle campagne brianzole, con alcuni episodi anche nella tranquilla Usmate Velate. Nelle campagne brianzole, successivamente, gli agrari cominciarono a reagire alle conquiste degli affittuari con le disdette, fenomeno che non ebbe dimensioni irrilevanti, tanto che la tregua sociale, perseguita dal movimento cattolico (grazie anche all'azione dei parroci) e consolidata dal concordato per l'affitto a denaro del marzo del 1919, fu bruscamente interrotta.
Dopo la presa del potere da parte del fascismo, in Brianza, tale movimento, nelle elezioni politiche del 1924, non riuscì ad ottenere risultati significativi. Come sopraccennato, la connotazione antifascista del voto in Brianza fu confermata e talmente evidente da scatenare la violenta reazione fascista tesa a colpire il radicato associazionismo cattolico e socialista che caratterizzava il tessuto sociale brianzolo. Ad Usmate Velate i fascisti avevano ottenuto, come in tutta la Brianza, scarsi risultati sia nelle elezioni politiche del 1921 (Partito popolare 403 voti, Socialisti 223, Blocco 157), sia, come si è detto, in quelle dell'aprile del 1924 che segnarono un'affermazione delle forze popolari e socialiste (su 835 votanti: Ppi 256, socialisti 113, comunisti 111, fascisti 109, massimalisti 62 voti). Il primo atto amministrativo di stampo fascista ad Usmate Velate può forse essere considerato quello in cui venne concessa la cittadinanza onoraria a Benito Mussolini, nel maggio del 1924. Fino all’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale nel giugno del 1940, il fascismo cercò di consolidare il consenso attraverso elargizioni di danaro e ampliamento di servizi e iniziative a favore della popolazione. Ma con l’ingresso del nostro Paese in guerra, le maglie del regime si strinsero. Dalle Prefetture giunse la raccomandazione ai comuni di non procedere a spese elevate, mentre vennero istituite nuove tasse per finanziare le spese militari.
Finalmente arrivò il giorno della Liberazione. L'ultima delibera del podestà di Usmate Velate è datata 22 aprile 1945. Il sindaco e la giunta nominati dal Cln rimasero in carica fino al 7 aprile 1946, quanto si tennero le elezioni amministrative comunali, alle quali si presentarono due liste: quella democristiana e quella socialcomunista. Prevalsero i primi per 1.556 voti a 1.157. La percentuale dei votanti sfiorò il 94% degli aventi diritto. Fu eletto sindaco Alessandro De Ponti di Bernate, il quale, come tutti i nuovi sindaci italiani, si trovò di fronte enormi problemi lasciati irrisolti durante il periodo bellico. I militari usmatesi-velatesi al fronte, rimasti vivi durante il conflitto mondiale, cominciarono a rientrare alle loro abitazioni. La vita riprese, seppur lentamente e tra mille difficoltà. Il popolo, ottenuta la libertà, tentò faticosamente di ritornare alla vita normale.
La comunità di Velate non fece in tempo a riprendersi dalla ventennale dittatura fascista e dai cinque anni di guerra che si trovò sul tavolo un grosso grattacapo: l’ampliamento della chiesa parrocchiale.
Già nei decenni precedenti gli arcivescovi di Milano, Ferrari e Schuster, durante le loro visite pastorali ebbero modo di indicare la necessità di affrontare e risolvere il problema della chiesa, ritenuta troppo piccola e inadeguata. Una struttura, è bene ricordarlo, che aveva solo sessant’anni. L’esigenza nacque dal fatto che Velate, nel corso della seconda metà dell’Ottocento, ebbe un poderoso incremento demografico, passando da 870 a 1880 abitanti nel 1900.  
Venne eletto un apposito comitato, che cominciò a discutere e dibattere sui possibili interventi da intraprendere. Il dilemma, nel quale si trovarono il comitato e la comunità civile e religiosa, era essenzialmente questo: ampliare e restaurare la chiesa esistente o costruirne una nuova? Fino all’estate del 1949, da alcuni verbali e lettere custodite nell’archivio parrocchiale, pareva che l’opinione dominante fosse quella dell’ampliamento. Il parroco, don Carlo Fantoni, tuttavia, aveva in mente qualcosa di diverso se, durante alcune dichiarazioni cominciò a parlare di ricostruzione e della necessità di prolungare e allargare l’edificio esistente, incorporando il campanile. La “manovra” del parroco fu chiara poco dopo, quando trattò con la famiglia Scaccabarozzi la donazione dell’area necessaria all’ampliamento e fece preparare il progetto della nuova chiesa dalla Scuola Beato Angelico di Milano. I lavori iniziarono nel febbraio del 1950 e la copertura del tetto fu ultimata l’8 settembre dello stesso anno. La struttura esterna ed interna venne conclusa nel 1955, mentre servì ancora un anno per le rifiniture, i complementi, gli arredi.
 
 

La chiesa parrocchiale di Velate oggi

Ma la nuova chiesa non piacque a tutti. Il vecchio edificio del 1885, progettato dall’architetto Parrocchetti dello Studio Moraglia, poi demolito per far posto alla nuova parrocchiale, era, a detta di gran parte dei velatesi, un capolavoro. La facciata era splendida, esteticamente giocata sul cotto degli elementi del tardo romanico lombardo con richiami gotici, gli archetti pensili, le lesene, i pinnacoli sulla sommità, i rosoni sovrastanti i tre portali d’ingresso, le lunette affrescate…
Ci fu smarrimento e incredulità tra la popolazione, ma ormai i giochi erano fatti. Fu così che Velate ebbe la nuova parrocchiale; un edificio più grande, “moderno”, funzionale alle esigenze della Chiesa, che si avviava verso i grandi cambiamenti voluti dal Concilio di Giovanni XXIII.

Beniamino Colnaghi

Bibliografia e note   



Marina Comi, Il Novecento ad Usmate Velate, dalla prima guerra mondiale agli anni Sessanta
1. Vedasi anche la Cooperativa San Giuseppe di Verderio Superiore http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2014/02/la-cooperativa-di-consumo-san-giuseppe.html

mercoledì 1 giugno 2016

18 ottobre 1953: il grande ciclista Gino Bartali fu coinvolto in un grave incidente automobilistico nei pressi di Cantù

Gino Bartali, Ginettaccio per amici e tifosi, nacque a Ponte a Ema, provincia di Firenze, il 18 luglio 1914. Nella sua carriera agonistica vinse tutto ciò che si poteva vincere, dal Giro d’Italia al Tour de France, dalla Milano-Sanremo al Campionato italiano. Un palmarès ricco di vittorie e soddisfazioni. Oltre alle sue memorabili imprese ciclistiche, Bartali viene ricordato per due episodi rimasti nel cuore degli italiani e nella storia del nostro Paese. Due storie vere che presero le mosse da fatti drammatici che segnarono quei periodi storici.

Il primo attiene a fatti avvenuti tra il 1943 e il 1944, piena seconda guerra mondiale, quando Gino Bartali salvò oltre 800 persone con un mezzo che conosceva bene: la sua bicicletta. “L'autunno del '43 è stato uno dei momenti più terribili della guerra. Bartali iniziò a trasportare documenti falsi da Assisi, dove c'era una stamperia clandestina, al vescovo di Firenze che poi li distribuiva agli ebrei per farli espatriare”, ha raccontato Simone Dini Gandini, autore di La bicicletta di Bartali. “Percorreva 185 chilometri avanti e indietro in un solo giorno: se fosse stato scoperto sarebbe andato incontro alla fucilazione”. Non raccontò a nessuno queste sue imprese. Lo disse a suo figlio solo anni dopo, perché non amava far sapere le sue gesta e perché secondo lui "il bene si fa ma non si dice". “Nell'autunno del '43 Bartali venne arrestato dalla polizia fascista: a Firenze c'era il temutissimo comandante Mario Carità, persona crudele e spietata”, racconta ancora Dini Gandini. “Venne fermato ma nessuno ispezionò la sua bicicletta: grazie a questa 'dimenticanza' il campione si salvò”.
Nel 2006, sei anni dopo la sua morte, gli venne conferita alla memoria la Medaglia d'oro al valore civile e nel 2013 gli è stata assegnata dallo Stato di Israele l'onorificenza di Giusto fra le Nazioni.
 
Gino Bartali e Fausto Coppi
 
Il secondo episodio riguarda un fatto che, secondo molti italiani, evitò la guerra civile: la vittoria di Bartali al Tour de France del 1948. Un Paese senza identità nazionale e semidistrutto dai bombardamenti degli alleati e dalla guerra contro il nazifascismo aveva bisogno di ritrovarsi e di avere fiducia. E il ciclismo consentì a molti italiani di identificarsi nella fatica consumata sulla strada. Quella stessa strada che vide partigiani e fascisti spararsi, ora è il luogo in cui si aspettano i ciclisti che salgono sulle montagne, le quali consumano divisioni e rivalità.
Il 1948 segnò una svolta cruciale per la storia italiana: fu l'anno della nuova Carta costituzionale e delle prime elezioni dell'Italia repubblicana dopo il ventennio fascista e la seconda guerra mondiale. Nei primi mesi di quell’anno iniziò anche la Guerra Fredda. Il mondo venne diviso dagli accordi di Yalta e anche in Italia il mondo politico si spaccò: da un lato la Democrazia Cristiana, dall’altro il neonato Fronte Democratico Popolare, costituito da socialisti e comunisti. Oleograficamente è l’Italia di Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti, di un giovane Giulio Andreotti e di Pietro Nenni, dei personaggi di Don Camillo e Peppone, creati dalla realistica fantasia di Guareschi, ritratti quanto mai fedeli della netta spaccatura politica tra la gente di quegli anni.
Il ‘48 fu anche l'anno in cui il Paese sfiorò la guerra civile per via dell'attentato a Palmiro Togliatti.
A Roma, la mattina del 14 luglio, il segretario generale del Pci venne gravemente ferito dai colpi di pistola sparati dal giovane studente neofascista Antonio Pallante. La notizia dell'attentato portò alla rivolta spontanea il popolo della sinistra, con gravi ripercussioni in molte città della Penisola. Malgrado l’invito a mantenere la calma da parte dei dirigenti comunisti e dello stesso Togliatti, per due giorni uno stato di ansia febbrile e generalizzata fece temere per le sorti della democrazia appena nata. Ma le vittorie di tappa sulle Alpi francesi di Gino Bartali, rimaste nella storia del ciclismo, che permisero al campione toscano di recuperare 21 minuti di ritardo dal leader della corsa Bobet e di vincere il Tour de France, contribuirono ad allentare lo sguardo sull’attentato ed a rasserenare il clima di tensione nel Paese.
In quegli anni venne lanciato uno schema, tanto banale quanto semplicistico, che però fece effetto sulla gente, che identificava Bartali, cattolico e democristiano, come il 'De Gasperi del ciclismo' e Coppi, uomo di sinistra, nel 'Togliatti della strada'. Il tifo sportivo e lo scontro ideologico s'intrecciavano. Erano loro i simboli di un’Italia che cercava faticosamente di rialzarsi, dopo la triste esperienza della seconda guerra mondiale. Questi due campioni, rivali nello sport, ma senza mai sconfinare nell’inimicizia, hanno rappresentato quei miti sportivi capaci di distrarre gli animi degli italiani dalla miseria, dalla distruzione e dalla desolazione che regnavano in quegli anni nel nostro Paese.

Il Messaggero riporta la notizia in prima pagina dell'incidente a Bartali

Veniamo ora all’incidente del 1953 in Brianza. Il 18 ottobre Gino Bartali fu coinvolto in uno scontro tra due auto mentre era diretto a Lugano, dove era atteso per il gran premio a cronometro Vanini. All’altezza del bivio per Asnago-Cantù, sulla statale Milano-Como, la Lancia Aurelia su cui viaggiava in compagnia del suo massaggiatore e di tre amici venne investita da un’altra vettura, una Fiat 1100 che non aveva rispettato lo stop. La Lancia fece un paio di giri su se stessa e si capovolse in un prato. Bartali fu catapultato fuori dalla vettura e rimase al suolo semisvenuto e dolorante. Le conseguenze apparvero immediatamente serie e gravi, tanto da far temere la definitiva conclusione della carriera agonistica del corridore. Bartali, come da lui richiesto, venne ricoverato presso la casa di cura Don Camillo di Milano. Il giorno successivo il Corriere della Sera, in un ampio servizio sull’accaduto, insieme al resoconto delle condizioni di salute del corridore toscano, pubblicò una grande foto di Alcide De Gasperi al capezzale del malato. Nei giorni della degenza perfino il cardinale Schuster si recò alla clinica Don Camillo a portare parole di conforto, riferendo a Bartali che il Santo Padre si interessava delle sue condizioni di salute. Il 22 ottobre toccò a Fausto Coppi far visita a Ginettaccio, in un incontro definito amichevole e cordiale. Ciò che si rivelò veramente sorprendente fu la generale emozione che da subito si diffuse in ogni parte del Paese, coinvolgendo ogni ceto sociale della popolazione.
Gino Bartali si riprese, tanto che nel maggio del 1954 partecipò al Giro d’Italia, l’ultimo per lui. Al compimento dei quarant’anni si ritirò dalle competizioni agonistiche, pur rimanendo nel mondo del ciclismo. Ancora oggi il mondo ricorda Bartali, scomparso nel 2000 a 86 anni, per le sue leggendarie vittorie e per la sua grande personalità.

Paolo Conte, il noto cantautore di origine piemontese, gli dedicò una canzone per la vittoria al Tour, che fa così: “Oh, quanta strada nei miei sandali, quanta ne avrà fatta Bartali, quel naso triste come una salita, quegli occhi allegri da italiano in gita, e i francesi ci rispettano che le balle ancora gli girano, e tu mi fai - dobbiamo andare al cine - e vai al cine, vacci tu. C'è un po' di vento, abbaia la campagna, e c'è una luna in fondo al blu. Tra i francesi che si incazzano e i giornali che svolazzano, e tu mi fai - dobbiamo andare al cine - e vai al cine, vacci tu!”

Beniamino Colnaghi