martedì 29 maggio 2012

La Storia nei romanzi
 

“Di cosa siamo fatti, se non delle storie che ci hanno attraversato, anche se non sono la Grande Storia.”

Verso la fine del suo nuovo romanzo “Una storia chiusa”, Clara Sereni mette in bocca a un personaggio questa domanda. “Ho smesso da un pezzo di chiedermi se è andata proprio così, se le cose che mi raccontano sono vere oppure no. Probabilmente sono vere quando me le raccontano, sono vere per chi me le sta raccontando. E come tali le accolgo”.



Mi è piaciuta questa definizione, l’ho condivisa in pieno, tanto che, tra le pieghe, ho scovato in essa le motivazioni che mi hanno indotto ad aprire un blog su fatti ed eventi storici.
Non tanto e non solo sulla grande storia, che probabilmente si può scrivere con la S maiuscola, ma quanto sulle storie, siano esse personali o comunitarie, di gente sconosciuta o famosa, di chi ha comunque partecipato e condiviso un piccolo pezzo di storia attraverso le proprie azioni quotidiane.  

Queste piccole invenzioni sono concesse agli scrittori quando fanno i conti con la Storia, quando scrivono i loro romanzi nei quali, al centro, sono narrate le vite e le azioni delle donne e degli uomini. Clara Sereni ha dato vita a una piccola folla di uomini e donne che portano addosso, ciascuno a suo modo, i segni delle vicende pubbliche del secondo ‘900 italiano. Ma sono vicende pubbliche che si scontrano con il privato, i conti si riaprono, il passato non è mai sepolto del tutto.

Quindi, il titolo del romanzo è giusto, è davvero una “storia chiusa”, la Storia?

Sereni se lo chiede attraverso i suoi personaggi: ne risulta una riflessione serrata sulla memoria condivisa. Si può davvero condividere la memoria? Non è forse ciò che di più personale esista? Romanzi come “Una storia chiusa” possono contribuire, accanto al lavoro storiografico, ad alimentare e ad ampliare il racconto della nostra storia recente.

Negli ultimi mesi sono comparsi sugli scaffali delle librerie molti libri di narrativa, sui nodi del nostro passato, da “Dove finisce Roma” di Paola Soriga, sulla Resistenza, a “La legge dell’odio” di Alberto Garlini, sulla violenza di matrice nera degli anni ’70, passando per “Nel tempo di mezzo” di Marcello Fois, sul 1943. Come possono, queste narrazioni, a posteriori, entrare in una ipotetica storia romanzesca del ‘900 italiano?

Uno studioso americano, Hayden White, ci invita a non tralasciare, quando ragioniamo sulla costruzione della memoria storica, le fonti letterarie e cinematografiche. Se la storia, egli scrive, non è una disciplina scientifica, se è dunque una narrazione, perché non accettare che, accanto agli storici, abbiano un loro posto scrittori e cineasti?
In effetti sembra almeno difficile immaginare un trattamento della realtà storica  che non usi le tecniche proprie dell’invenzione nella rappresentazione di eventi.

Se un evento storico è esteriorità, chi può recuperargli interiorità? La questione è complessa ed il pavimento su cui ci si misura può essere scivoloso.

Giorgio Bassani

Tuttavia, il rinnovato stupore che suscita ad esempio “Il romanzo di Ferrara” di Giorgio Bassani, che Feltrinelli ha appena rimandato in libreria, spinge a parteggiare per White. Bassani ha scritto un libro di storia in forma di romanzo. Certo, è una storia in gran parte vissuta, testimoniata, ma tutto è affidato alla reinvenzione narrativa e lirica. Il modo in cui racconta un ragazzino che si aggrega alla marcia su Roma, in quel bellissimo racconto che è “Una notte del ‘43”, è così palpitante e carico di emozioni da evitarci la domanda se sia o no vero.

Pasolini e Calvino

La I guerra mondiale, la disfatta di Caporetto, gli anni del fascismo e la persecuzione antisemita rivivono nelle pagine di Gadda, Moravia e Vittorini, ma anche in Pennacchi, Baricco e Camilleri. L’Italia degli anni ’60, la contestazione giovanile e il terrorismo li raccontano Pasolini e Calvino, ma anche scrittori più giovani quali Lidia Ravera e Silvia Ballestra.

Insomma, la Storia continua, per citare Elsa Morante.

Beniamino Colnaghi

lunedì 21 maggio 2012

Placido Rizzotto, la sua lotta per la terra e i diritti



Placido Rizzotto nacque a Corleone, in Sicilia, il 2 gennaio 1914.

Fu dirigente socialista, partigiano e segretario della Camera del Lavoro, nonché capo del movimento contadino siciliano.

Partito militare e dopo aver combattuto in Carnia, Rizzotto passò alla Resistenza, militando nelle Brigate Garibaldi. Iscritto all’ANPI, la sua storia è dunque quella di uno dei tanti “ragazzi di montagna”  che hanno cercato un nuovo orizzonte politico e democratico, socialmente più avanzato, un riscatto nazionale dalla tragedia in cui il regime fascista aveva spinto il Paese. Ma, a differenza di tanti altri partigiani, egli aveva dovuto continuare una battaglia che in Sicilia non si combatteva solo con le ragioni della politica e con metodi democratici. 

Nel 1948 fu ucciso dalla mafia a Corleone ed il suo corpo fu gettato in un anfratto della Rocca Busambra, la montagna che sovrasta la città. Quel corpo fu volontariamente occultato dai mafiosi per evitare che anche da morto Placido Rizzotto potesse continuare ad essere il simbolo della battaglia contro la mafia e per il lavoro, la giustizia e la libertà.




Placido Rizzotto

 
Perché, a distanza di 64 anni dalla sua uccisione, si avverte nel popolo italiano una speciale attenzione per la sua figura? E perché il ritrovamento dei suoi resti ha generato così tanta emozione nell’opinione pubblica?

Una prima importante ragione sta nel fatto che il ritrovamento e l’identificazione sono una rivincita contro chi aveva voluto cancellare, insieme al corpo, anche la memoria di questo giovane. Il capo mafia locale, Michele Navarra, non si era limitato solo ad ordinare di eliminare Rizzotto e fare sparire il suo cadavere, ma aveva provveduto ad uccidere l’unico testimone dell’omicidio, un pastorello di appena 13 anni.

Le indagini, condotte dal giovane capitano dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, avevano condotto all’identificazione degli esecutori materiali, che in un primo momento avevano confessato il crimine, salvo poi ritrattare tutto nel corso del procedimento giudiziario, che sfociò in una clamorosa assoluzione per insufficienza di prove.

Un’altra ragione è dovuta al fatto che questa storia si svolge a Corleone, il paese salito alla ribalta per essere stato il centro da cui il “capo dei capi”, Totò Riina, lanciò, negli anni ’80, la sanguinosa offensiva volta a rinsaldare il controllo centralistico sulla varie famiglie mafiose inaugurando, al contempo, quella sanguinosa strategia terroristica diretta a colpire tutti coloro che si opponessero all’egemonia dei corleonesi.

Non è però un caso se Corleone sia stato al centro di tutto ciò. Corleone non è un paese come tutti gli altri.



Corleone



Negli anni novanta dell’Ottocento proprio da Corleone partì quella grande agitazione contadina per la riforma dei patti agrari, nota come “i fasci siciliani” e proprio in questo comune il movimento socialista conobbe importanti affermazioni grazie a Bernardino Verro, capo del fascio cittadino e primo sindaco socialista, poi ucciso dalla mafia nel 1915.

E ancora di nuovo nel 1946, grazie a Placido Rizzotto, Corleone diventò uno dei più importanti centri dell’agitazione sindacale per il diritto alla terra, che divenne contemporaneamente agitazione politica, socialista e comunista ed epicentro di un terremoto politico che portò all’affermazione della sinistra alle elezioni regionali siciliane del 1947.

Questi cambiamenti comportarono, da parte dei mafiosi, uccisioni in serie di sindacalisti e dirigenti della sinistra, fino al compimento, il 1 maggio 1947, dell’eccidio di Portella della Ginestra, la prima strage dell’Italia repubblicana.




Portella della Ginestra


Ancora oggi quelle fila di contadini che egli guidava all’alba con le zappe in spalla e le loro bandiere rosse per occupare i feudi, così come quella cooperativa che egli aveva fatto nascere per gestire i feudi occupati, ci ricordano che i diritti non fioriscono da soli, spontaneamente, come le bellissime agavi del paesaggio siciliano. Che essi hanno bisogno, per nascere e crescere, di esperienze politiche condivise, e talvolta di una lotta che non si è sviluppata solo attraverso la propaganda e il dibattito delle idee, ma purtroppo anche attraverso la sopraffazione e la violenza.

La storia di Placido Rizzotto ci ricorda tutto questo.


Beniamino Colnaghi  

 

 

venerdì 11 maggio 2012

I fatti di sangue alla Cascina Preti di Cornate d’Adda


Dalla strada che conduce a Villa Paradiso si stacca un viottolo che sbocca su un tradizionale edificio contadino, ora ben ristrutturato e conservato, che nella prima metà del secolo scorso comprendeva stalle, fienili e case d'abitazione. E’ la “Casina di Pret“. Qui si consumò il più grave fatto di sangue avvenuto nel Comune di Cornate d’Adda durante l'ultimo periodo bellico.


 

Cascina Preti

 
Alcuni anni fa avevo letto di questo fatto su “La Voce di Cornate d’Adda”, periodico d’informazione del Comune; ne avevo conservato copia, ripromettendomi di approfondirlo non appena avessi avuto il tempo necessario.

Così, in una bella e soleggiata giornata primaverile, ho inforcato la bicicletta e mi sono diretto alla Cascina Preti, augurandomi che i residenti fossero benevoli e disponibili a fornirmi utili informazioni.

Nell’orto che precede l’ingresso alla cascina ho incontrato il sig. Enrico Crippa, che, gentilissimo, mi ha aperto il cancello e, accompagnato dalla moglie, mi ha fornito le informazioni che cercavo e mi ha autorizzato a scattare qualche fotografia.




Il sig. Enrico Crippa

Questo è il racconto di quel terribile crimine.

Nella Cascina Preti, come del resto in altre case di Cornate e di altri comuni limitrofi, avevano trovato rifugio ex-prigionieri di guerra; nel caso in specie erano di nazionalità serba, che contraccambiavano l’ospitalità aiutando le famiglie contadine nei lavori dei campi e nella gestione degli animali. I coloni che vivevano in cascina non erano proprietari ma pagavano l’affitto delle abitazioni e dei terreni coltivati ad una facoltosa famiglia del paese.

Era il 21 febbraio 1944, un giorno di pieno inverno. Dopo cena gli abitanti della cascina, come di consuetudine, erano raccolti nelle stalle a riscaldarsi ed a farsi compagnia. In una di queste stalle i contadini ed i rifugiati serbi stavano giocando a carte.

Improvvisamente, l’abbaiare nervoso dei cani allarmò i residenti. Giuliano, che allora aveva dieci anni, venne mandato a dare un'occhiata; uscì dalla stalla e scorse nel cortile un nugolo di uomini armati che, muniti di torce, si spargevano nell’aia. Erano una settantina di soldati tedeschi e fascisti della RSI (Repubblica Sociale Italiana) che, lasciate le camionette sulla strada per Villa Paradiso, si erano inoltrati a piedi verso la cascina.



La stalla ora ristrutturata

La prima cosa che il piccolo Giuliano fece fu quella di scappare verso la stalla di Luigi Porta, nella quale c’era suo padre, ma la corsa attirò una raffica di mitra che lo colpì alla caviglia destra (guarirà, ma gli rimarrà una menomazione permanente). Il bambino riuscì comunque ad arrivare alla stalla poco prima che i presenti decidessero di barricarsi dentro.

Ma tutto fu inutile, la lotta fu impari.

Fascisti e tedeschi sfondarono la porta ed entrarono nella stalla, individuando in Luigi Porta il maggior autore della resistenza. Nel trambusto generale, i prigionieri serbi tentarono di fuggire ma uno di essi fu colpito a morte, mentre altri due rimasero feriti. Tutti gli abitanti della cascina furono radunati sotto il portico principale, compresi i bambini piccoli e le donne anziane. Enrico Crippa, che all’epoca aveva sei anni, era a letto con la mamma; fu fatto scendere dal primo piano e radunato con tutti gli altri. Luigi Porta accennò una protesta, un lamento. Non fece in tempo a terminare le sue parole che alcuni soldati gli si scagliarono contro, massacrandolo a colpi di calcio di fucile alla testa, tanto che, ridotto in fin di vita, morirà nel suo letto dopo due giorni di agonia e sofferenze.

I nazifascisti misero a soqquadro le povere abitazioni delle sei famiglie che qui abitavano, asportando le poche cose in esse contenute, compresi i generi alimentari, trasformando così l‘operazione di polizia in un saccheggio. Il sig. Enrico Crippa mi ha raccontato che portarono via anche un maiale di oltre due quintali, appena macellato, salvo poi spargerne alcuni pezzi lungo la stradina sterrata. Il pretesto fu anche quello che, a dire dei fascisti, i contadini della cascina aiutassero i partigiani locali, dei quali, però, non trovarono nemmeno l'ombra.

Oltre la refurtiva requisita, i nazifascisti ripartirono con alcuni ostaggi che vennero in seguito rilasciati, tranne Battista Crippa, classe 1901, il papà di Enrico. Non si è mai saputo il motivo per il quale il buon Battista non fu liberato insieme agli altri prigionieri. E’ una legittima domanda che ancora oggi si pongono i suoi parenti.

Il contadino di Cornate d’Adda fu imprigionato nel carcere di S. Vittore. Il sig. Enrico mi ha riferito che sua mamma, accompagnata da alcuni parenti, andò a Milano a far visita al marito imprigionato, portandogli un pacco di indumenti e di generi alimentari.

Ma, purtroppo, il destino di Battista Crippa era ormai segnato. Dopo pochi giorni fu deportato al Campo di transito di Fossoli, in provincia di Modena, dove fu inserito nell‘elenco dei prigionieri da trasferire in Germania con il convoglio partito da Firenze nei primi giorni di marzo del 1944. Il treno ebbe destinazione Mauthausen. Qui fu immatricolato e classificato schutzhaftlinge (deportato per motivi di sicurezza).

Fu successivamente trasferito a Ebensee dove morì nel mese di maggio del 1944, due mesi dopo la sua partenza dall‘Italia.

I parenti non ebbero notizie certe sul destino del loro congiunto per molto tempo, tanto che la moglie di Battista diceva a tutti che suo marito era ancora vivo e che, prima o poi, sarebbe ritornato a casa.



A Luigi Porta, massacrato col calcio dei mitra e dei fucili, in ricordo di quei terribili fatti successi alla Cascina Preti, il Comune di Cornate d’Adda ha intitolato una via nel centro storico del paese.

A Battista Crippa e Luigi Porta lo stesso Comune, nel decimo anniversario dell’evento, ha dedicato una targa apposta sul muro di ingresso della cascina.

Fonti: notizie tratte da testi di Adriano Caiani, Mario Parma e dall’intervista a Enrico Crippa.

Beniamino Colnaghi

sabato 5 maggio 2012

La Prussia Orientale

È il mese di gennaio del 1945 nella regione della Prussia Orientale, un mese glaciale in cui tremende tempeste di neve si alternano a giornate calme, col cielo color grigio ardesia e la neve, bianchissima, che offusca la vista. Lungo una strada circondata da cumuli di neve e ghiaccio avanza una carovana. Sono civili prussiani che hanno fatto salti di gioia quando i carri armati di Hitler hanno invaso la Polonia nel 1939, rendendoli di nuovo cittadini tedeschi. Ora sono in fuga verso ovest. In fuga dai russi, che hanno occupato già buona parte della regione e inseguono a colpi di artiglieria i profughi. La carovana si arresta davanti alla Vistola. Il fiume è ricoperto da uno spesso strato di ghiaccio e brilla come una pista di pattinaggio. Le granate squassano il terreno e, a ogni esplosione, i cavalli si imbizzarriscono e i bambini, affamati e congelati, strillano. Anna Emmerich ha diciotto anni e i capelli dorati come le pannocchie. È la giovane figlia di un'influente famiglia tedesca con una bella casa e una vasta tenuta nei pressi di Thorn, nella quale probabilmente già bivaccano i russi. Suo fratello maggiore è a combattere da qualche parte nel sud, nei dintorni di Budapest, il secondo è stato spinto a unirsi al Volkssturm e il terzo ha appena smesso i calzoni corti.
Quella appena accennata è una brevissima recensione di un intenso romanzo che ho letto recentemente, “L’inverno più lungo” di Chris Bohjalian. Basato su una storia vera tratta da un diario, “L’inverno più lungo” narra di un’epica fuga dalla Prussia orientale devastata dalla guerra. Descrivendo con maestria la forza e l’emozione dell’amore insieme al terrore e alla crudeltà della guerra, Chris Bohjalian ha intessuto un ricca storia capace di dare volto a una delle grandi tragedie del ventesimo secolo.
 
Cenni storici
La Nazione nota come Prussia nacque sullo Stato fondato e governato fin dal Medioevo dall'Ordine dei Cavalieri Teutonici. Nel corso di secolari lotte contro la Polonia e la Lituania, i Cavalieri dovettero secolarizzare il loro Stato e cederne la zona occidentale alla Polonia nel 1466. Quanto restava ad Est divenne la storica Prussia Orientale (Ostpreussen). L'ultimo Gran Maestro dell'Ordine, Alberto di Brandeburgo, divenne il primo sovrano del Ducato di Prussia nel 1525. Egli fu anche il fondatore dell'Università Albertina dove nel XVIII secolo insegnò il filosofo Immanuel Kant, il più illustre dei figli di Königsberg. La storia assegna al Duca Federico Guglielmo di Hohenzollern - Brandeburgo detto «il Grande Elettore» (1620-1688) il ruolo di colui che pose le basi materiali, militari e politiche del futuro Regno di Prussia.


Una vecchia cartolina della Prussia Orientale

Nel XVIII secolo il Regno poté progressivamente espandersi sotto la guida di grandi condottieri militari, che furono anche grandi sovrani. La Prussia si diede ordinamenti civili e militari che eccellevano fra le nazioni dell'epoca. Le ricche città di Königsberg e Danzica divennero centri politici commerciali e artistici di rinomanza europea. All'inizio del XIX secolo le guerre napoleoniche travolsero anche la Prussia sul cui territorio ebbero luogo le battaglie di Eylau e Friedland che costrinsero il re Federico Guglielmo III e lo Zar Alessandro I alla pace di Tilsit nel 1807.


Ma le guerre napoleoniche si estinsero con le battaglie di Lipsia (1813) e Waterloo (1815). Da allora l'espansione della Prussia divenne inarrestabile. Sotto la guida del Cancelliere Bismarck combatte vittoriose guerre contro la Danimarca, contro l'Austria e infine contro la Francia (1870). Il Re di Prussia, Guglielmo I, venne proclamato nella reggia di Versailles Imperatore di Germania il 18 Gennaio 1871.

La Prussia Orientale, di colore rosso, all'interno dell'Impero Tedesco nel 1871

Lo storico nome di «Ostpreussen» diverrà il simbolo dell'unità della Germania e del nazionalismo tedesco. Nel corso della I Guerra Mondiale il maresciallo Hindenburg inflisse ai russi quella devastante sconfitta nella zona dei laghi Masuri che contribuirà alla capitolazione russa nel 1917.


Il corridoio di Danzica, 1923 - 1939

La pace di Versailles (iniqua sia per la Germania sia per l'Italia sebbene per motivi diversi) impose le utopie del Presidente americano Wilson, fra cui la costituzione del cosiddetto «corridoio polacco» che stravolse etnicamente e politicamente l'intera regione, perché separò territorialmente la Prussia Orientale dal Reich. Fece inoltre dell'area di Danzica, abitata da 300.000 cittadini tedeschi, una cosiddetta «Città Libera», separata anch'essa dal resto del Reich. Come è noto, la decisione polacca nel 1939 a non concedere le vie di comunicazione fra i due tronconi del Reich richieste dalla Germania, unita all'accanimento con il quale Roosevelt cercava di provocare il «casus belli» sfruttando il patto di assistenza militare fra Francia, Inghilterra e Polonia, ed infine l'ostentata neutralità italiana, nonostante il Patto d'Acciaio firmato da pochi mesi, indussero l'Inghilterra e la Francia a dichiarare guerra alla Germania per «proteggere l'integrità territoriale della Polonia».

Nei mesi finali della II Guerra la regione in questione fu attraversata da feroci e sanguinarie battaglie, di offensive sovietiche e alleate e controffensive tedesche. La gloriosa storia della Prussia diverrà fatale per questa tormentata terra, perché Stalin la identificherà con lo spirito stesso della Germania e del nazionalismo tedesco. Volle Königsberg distrutta e ne deportò la quasi totalità della popolazione.
 
Il dopoguerra
L'inverno '45-'46 fu rigidissimo ed il freddo si aggiunse alla fame, alle malattie e alle deportazioni. Nel 1946 Königsberg prese il nome di Kaliningrad, dal nome Stalin, Kalinin, secondo presidente dell'Unione Sovietica. La città fu ripopolata con russi che, volenti o nolenti, vi furono trasferiti dalle più remote frontiere dell'Unione Sovietica, mentre la popolazione tedesca veniva sistematicamente lasciata ai margini. Il risultato è oggi evidente: non c'è più un singolo volksdeutscher (tedesco etnico) in tutta la «exclave» di Kaliningrad. L'avvicinarsi dell'Armata Rossa aveva già causato l'esodo della popolazione dalle abitazioni, dai campi, dai villaggi che avevano costituito per secoli la sua patria. Le altre mutilazioni imposte dagli Alleati alla Germania alla fine della guerra con la perdita della Slesia, dell'Alsazia e dei Sudeti, unitamente a quella della Prussia Orientale, generarono un flusso di profughi ammontante a quattordici milioni di tedeschi, dei cui destini nessuno nel dopoguerra volle più occuparsi.
 
Il futuro dell'exclave di Kaliningrad
Dopo la caduta dell'Unione Sovietica è rinato l'interesse di storici e studiosi per il passato teutonico prussiano e germanico della splendida Königsberg. Dopo mezzo secolo di silenzi rivive nelle giovani generazioni il desiderio della riscoperta del proprio passato. 

Come è sempre avvenuto dopo ogni guerra, gli stati vincitori si sono spartiti e annessi parte dei territori dei perdenti. Nel 1945 si trattò soltanto della annessione di territori ex-nemici all'Unione Sovietica, ma poiché anche la Lituania era allora parte integrante dell'Urss vi era la piena continuità territoriale fra il territorio di Kaliningrad ed il resto dell'Urss.
Non vi erano quindi problemi di comunicazione. Tre eventi hanno in seguito influenzato la situazione politica e commerciale di questa strana «exclave» che confina a Nord con la Lituania, a Est e a Sud con la Polonia: l'indipendenza della Lituania nel 1991, l'ingresso della Polonia nella Nato e l’inclusione sia della Lituania sia della Polonia nell'Unione Europea. Non esiste più la continuità territoriale con l'attuale Russia, anche se la Russia ne ha mantenuto la sovranità.

È difficile tuttavia immaginare che il territorio di Kaliningrad rimanga indefinitamente nella situazione in cui si trova oggi. Negli ultimi anni sono state formulate diverse ipotesi sul possibile futuro dell’exclave russa. Quella forse più praticabile potrebbe prevedere la costituzione di una quarta Repubblica Baltica, in analogia con le repubbliche ex-sovietiche Lituania, Lettonia, Estonia divenute indipendenti. Questa ipotesi costituisce la massima aspirazione della popolazione locale che si sente ormai distaccata ed orfana. Ciò significherebbe però la rinuncia da parte della Russia alla sovranità sulla propaggine più occidentale del suo territorio, con l'importante base navale di Pillau e si tratta pertanto di un'ipotesi utopistica, almeno per le attuali generazioni.

Beniamino Colnaghi

Fonti
Chris Bohjalian, L’inverno più lungo, Neri Pozza, 2009.
Vari siti web che si occupano di storia.