venerdì 30 novembre 2018

2 dicembre 1968: sono trascorsi 50 anni dall'eccidio di Avola


"Che cosa è successo? C'è stato un gran dispiacere perché non
 erano morte delle bestie, ma erano stati uccisi dei compagni.»
(Testimonianza resa da un anziano operaio agricolo
il 3 dicembre 1968 all’inviato del periodico “Lotte agrarie”)
 
Il 5 giugno 1968 Sandro Pertini viene eletto Presidente della Camera. La sua elezione si inserisce nel clima di stallo della politica di centro-sinistra, che porta all'inizio della V legislatura, in attesa di un nuovo accordo tra democristiani e socialisti, alla nascita del II Governo Leone, monocolore DC. E’ l’Italia del ‘68, scossa dalle manifestazioni degli studenti, alla vigilia di un’imponente stagione di lotte operaie. Ma è anche l’Italia dove la destra cerca e innesca provocazioni proprio per bloccare un sempre più esteso e incontrollabile movimento di masse giovanili e operaie.
E, nell’appendice di questa Italia, i trentaduemila braccianti della provincia di Siracusa sono impegnati da molte settimane in una durissima vertenza con un’agraria tra le più ricche, le più potenti ma anche le più intransigenti del Mezzogiorno. Non è una vertenza qualsiasi. Intanto per la duplice posta, di evidente valenza: la parificazione delle zone salariali dell’agrumeto e dell’ortofrutta, una sottospecie delle “gabbie”, e la fine del mercato delle braccia che ha i suoi sfacciati, liberi centri di contrattazione nelle piazze di tutta la provincia. E poi perché si sa che una vittoria (o una sconfitta) nelle campagne di Siracusa non solo sarebbe decisiva per la lotta di quei braccianti, ma farebbe da traino (o da freno) alle analoghe vertenze aperte nelle altre zone dell’Isola: dall’altrettanto ricca piana catanese alle più povere province dell’interno, dove vegetano altri agrari. Per la vertenza di Siracusa si è ormai alle strette. Dopo tre settimane di sciopero, i risparmi degli operai agricoli sono agli sgoccioli. Aranci e limoni marciscono sugli alberi.


Alle porte di Avola, il pomeriggio di venerdì 29 novembre 1968 un centinaio di braccianti sta seduto in terra, blocca la strada. Il sindaco socialista di Avola Giuseppe Denaro, il deputato comunista Nino Piscitello, il pretore Cassata, il segretario della Federbraccianti siracusana convincono gli scioperanti a sospendere il blocco. Andranno loro, anzi torneranno loro, per l’ennesima volta, dal prefetto perché si decida a convocare nuove, immediate trattative. Seppur poco convinti, i braccianti vanno a casa.
Ma il prefetto, ottenuto lo sgombero, rinvia la convocazione delle parti all’indomani. E l’indomani i grandi proprietari terrieri non si presentano. Il prefetto ne giustificherà l’assenza prendendo per buono, e facendo proprio, un pretesto impudente: «Che volete farci? Questi blocchi stradali a intermittenza impediscono ai proprietari - chi viene da una parte e chi dall’altra - di riunirsi e di preparare le controproposte». E allora nuovo rinvio dell’incontro, prima a martedì poi, dal momento che la tensione cresce di ora in ora, l’anticipo alla sera di domenica, quando però in rappresentanza dei padroni si presenta solo un funzionario privo di qualsiasi potere di trattare e men che mai di firmare un eventuale, comunque improbabile accordo. Piscitello tempesta di telefonate la presidenza della Regione a Palermo, e soprattutto i ministri del Lavoro e degli Interni a Roma dove figuriamoci se, a crisi aperta, c’è qualcuno che ha tempo da perdere dietro alla vertenza dei braccianti di una lontana provincia.

Così lunedì 2 dicembre è inevitabile che nel siracusano sia proclamato lo sciopero generale, in appoggio ai braccianti. Tutto chiuso in città, tutto fermo in provincia.
Già all’alba, al solito bivio di Avola, c’è di nuovo raduno di braccianti, ben più grosso stavolta: sono almeno in cinquemila. Molti stanno seduti in strada, altri mangiano pane e formaggio nelle campagne intorno o sui muri a secco che dividono agrumeti e mandorleti. Racconterà il sindaco Denaro: «Il prefetto D’Urso mi aveva telefonato alle otto del mattino. Un vero e proprio avvertimento: il blocco di Avola deve sparire, i braccianti devono andarsene, costi quel che costi». E’ minaccia aperta, frutto non solo dell’arroganza di un funzionario ma certo anche di pressioni degli agrari su quello stesso governo sordo da settimane ai richiami sempre più allarmati di sindacati e partiti di sinistra. I braccianti non se ne vanno? E allora che siano fatti sloggiare, «costi quel che costi» come ha intimato il prefetto.
Detto e fatto: alla due del pomeriggio sei furgoni e alcune camionette della Celere scaricano al bivio di Avola novanta agenti, un’avanguardia di quel famigerato battaglione speciale di stanza a Catania che costituisce la forza d’urto sempre all’erta per le imprese peggiori (come quella del luglio ‘60, proprio nella città dell’Etna, dopo i morti di Reggio Emilia, Palermo, Licata).
Gli agenti sono già con gli elmetti, pronti a inserire i lacrimogeni sulle canne dei moschetti, decisi a forzare il blocco con la violenza. Un commando di poliziotti pone di traverso sullo stradone una betoniera. Il blocco, quello vero, ormai l’ha fatto la Celere. Ed è il via alla provocazione.
Da dietro la betoniera partono a grappoli le bombe lacrimogene: dieci, venti, cinquanta.
I braccianti, colti di sorpresa, fuggono per le campagne a ripararsi dai fumi e tentano di difendersi  come possono, scagliando le pietre sulla strada per impedire almeno i forsennati caroselli che le camionette hanno cominciato a fare per creare panico. Tempo mezz’ora, da dietro un curvone alle spalle dei braccianti sbuca un altro centinaio di poliziotti, tutti armati sino ai denti come quelli che già fronteggiano gli scioperanti.
I braccianti sono presi letteralmente tra due fuochi. I mitra Beretta, i moschetti e le pistole di almeno due calibri diversi cominciano a sparare. Colpi a raffica, centinaia di proiettili: l’indomani Nino Piscitello scaricherà alla Camera due chili e mezzo di bossoli. Sono colpi precisi, diretti con cura ad alzo zero. Paolo Caldarella alza una mano in segno di tregua: un colpo gliela trapasserà. Poi cade Giorgio Garofalo: una fucilata gli ha forato in otto punti le anse intestinali (si salverà grazie a tre operazioni). Un’altra fucilata spezza un femore ad Antonino Gianò. E Sebastiano Agostino è colpito al petto poco lontano.
E’ un crescendo di violenza selvaggia, talmente insensata che a notte, all’ospedale di Siracusa, un agente colpito alla testa da una pietra continuerà per ore a gridare nel delirio: «Comandante! Comandante! E’ un’infamia... E’ il tiro al bersaglio... Lasci stare la pistola! Così li stiamo ammazzando!».
E infatti due braccianti moriranno tra atroci sofferenze.
Così viene ucciso Angelo Sigona, 25 anni da Cassibile: inseguito, braccato tra gli alberi, fucilato davanti ad un muretto. Raccolto in un lago di sangue da due compagni, non basteranno a salvarlo due interventi, prima all’ospedale di Noto e poi a quello di Siracusa. Così è ammazzato anche Giuseppe Scibilia, 47 anni da Avola, pure lui inseguito a trecento metri dal luogo degli scontri e centrato al petto.
Fulminea, la notizia della tragedia scuote l’Italia intera.
Immediata la proclamazione per l’indomani di uno sciopero generale dei braccianti in tutto il Paese e di tutti i lavoratori in Sicilia. Non c’è bisogno di direttive: già nella stessa serata dell’eccidio ci sono state le prime manifestazioni di protesta.
Ma l’eccidio non resterà senza conseguenze. L’indignazione è così grande, le preoccupazioni talmente diffuse, la pressione delle confederazioni sindacali tanto forte, l’allarme nel padronato così evidente che da Roma parte l’ordine della Confagricoltura di tornare a trattare. Così, proprio mentre ancora è in corso lo sciopero generale e si preparano i funerali di Scibilia e Sigona, a Siracusa si riprendono le trattative sempre rifiutate o rinviate dagli agrari. Si tratta ad oltranza, con l’intervento dei segretari confederali di Cgil, Cisl e Uil. Quindici ore ci vogliono per piegare le resistenze padronali, e alla fine l’accordo segnerà l’abolizione delle differenze salariali tra le due zone, l’aumento delle paghe, la rinuncia al mercato delle braccia. Ma c’è anche e soprattutto un punto fermo: Avola diverrà la scintilla di una stagione politica che, comunque la si riguardi a tanti anni di distanza, porrà fine all’intervento della polizia nei conflitti sindacali. Un intervento che dal ‘47 ad allora aveva provocato quasi cento morti. Un elenco chiuso, appunto, dai nomi di Giuseppe Scibilia e di Angelo Sigona.

Beniamino Colnaghi

Fonti
Rai Storia, i fatti di Avola.
Vari siti web, in particolare un articolo di Giorgio Frasca Polara del 2 dicembre 2004 apparso sul sito di Brianza Popolare
http://www.brianzapopolare.it/sezioni/societa/20041202_avola_braccianti_1968.htm

Foto dell’epoca tratte dal sito della Cgil di Siracusa

lunedì 26 novembre 2018

Bernardo Bertolucci ci ha lasciati ma i suoi film resteranno pietre miliari del cinema mondiale

(Parma, 16 marzo 1941 - Roma, 26 novembre 2018)
 
 
Bertolucci e Pasolini a Roma nel 1961

sabato 10 novembre 2018

11 novembre, san Martino
Il pagamento degli affitti e gli sfratti dei contadini

Nato in Pannonia (un’antica regione dell’attuale Ungheria) intorno al 316 d.C., Martino seguì le orme paterne intraprendendo la carriera militare, arruolandosi giovanissimo nell’esercito romano delle Gallie. Nei pressi di Amiens compì il suo gesto più clamoroso, destinato a fissarsi nei secoli: incrociato un povero mendicante, Martino, già attratto dal cristianesimo, tagliò il suo mantello e ne donò la metà al povero. La notte stessa sognò Gesù che veniva a restituirglielo. E poiché al risveglio lo ritrovò integro, il miracolo rafforzò la fede del giovane, che si fece battezzare ed iniziò a percorrere la Gallia per evangelizzarne le popolazioni. Gli abitanti di Tours lo elessero vescovo, edificati dal fatto che egli prediligesse i servi ed i contadini, dei cui bisogni spirituali il clero poco si curava. Morì nel 397 diventando subito uno dei pochi e primi non martiri venerati come santi. 


"El San Martìn di poveritt", Milano, 1920
 

Fino a pochi decenni fa, nel giorno di san Martino, l'11 novembre,  e comunque prima del 1950, anno in cui venne varata la vera e propria riforma agraria, scadevano i contratti di locazione delle  terre e delle abitazioni dei coloni. Ciò avveniva principalmente nelle regioni del nord e della Pianura Padana, con punte nel Mezzogiorno. I contadini erano obbligati a pagare gli affitti, ma, per svariati motivi (economici, politici, morali...) ciò non li garantiva in pieno contro il rischio di essere cacciati dai poderi e dalle cascine dei grandi proprietari terrieri. In quella data, quindi, si verificava un grande spostamento di famiglie, in quei tempi anche molto numerose, che collocate le proprie povere cose su un carro trainato dai buoi o dai cavalli si apprestavano ad andare a servire altri proprietari, accontentandosi, molto spesso, come compenso per il lavoro, di cibo per sfamare la famiglia. Subito dopo gli spostamenti di san Martino il lavoro dei campi rallentava, anche se proseguivano le attività con gli animali nelle stalle e altri lavori che permettevano ai contadini di mantenere la famiglia. Perché la vita dei lavoratori della terra era in sintonia con la natura, che ogni anno compie il suo ciclo.  

San Martino è radicato anche nella tradizione brianzola, non solo per la torchiatura dell’uva e neanche in qualità di protettore dei legionari, dei mercanti e dei cavalieri, ma soprattutto, come abbiamo visto poco sopra, per il pagamento dell’affitto al padrone. Chi non fosse stato in grado di pagarlo, veniva immediatamente cacciato dai poderi e dalle abitazioni. Ciò provocava ulteriore miseria nelle famiglie dei coloni e dei contadini, disperazione per la perdita del lavoro e della casa e tensioni crescenti tra i lavoratori della terra ed i proprietari terrieri. Questi ultimi, anche a causa del crescente consenso delle idee socialiste nel mondo agricolo, iniziarono ad assoldare squadre di fascisti che reprimessero le proteste e ristabilissero l’ordine.
 
 
 
 
Emblematica di ciò che avvenne in quegli anni è una scena del film Novecento, di Bernardo Bertolucci, una delle più drammatiche e significative di quel clima, che si rifà al giorno di san Martino, giorno in cui scadevano i contratti d’affitto. Il lavoro nei campi era finito, il raccolto era stato completato, silos e cantine erano a posto, fino alla primavera non c’era più bisogno di lavoranti. Il padrone dunque decideva chi poteva restare e chi doveva andarsene; e per molte famiglie iniziava la miseria. Dovevano caricare tutto quello che avevano su un carro e andarsene da un’altra parte. Non era problema del padrone. Una barbarie disumana, ma ciò è durato per secoli.
Nel film la scena è ancora più drammatica: un contadino sfrattato, Oreste, si ribella allo sfratto e fronteggia una squadra di militari a cavallo chiamati dai padroni. Si mette a urlare e ad imprecare, e, sostenuto da Olmo (Gérard Depardieu) e Anita (Stefania Sandrelli), vengono chiamati a raccolta gli altri contadini che stanno traslocando, percorrendo gli argini del fiume Po, i quali, scesi dai carri, si muniscono di bastoni e forconi per combattere contro i soldati. Ma, inaspettate, davanti a loro, le donne contadine, guidate da una fiera e battagliera Anita, si sdraiano sull’alzaia e fermano i soldati a cavallo, che preferiscono indietreggiare e ritirarsi, piuttosto che compiere una carneficina.

Novecento, grande film, grande regista, cinema d'autore.
 
Beniamino Colnaghi

venerdì 2 novembre 2018

Verderio Superiore: il 4 novembre ricordato nel 1968

 
 
Il 4 novembre 1918 terminò ufficialmente il primo conflitto mondiale, la Grande Guerra, un evento tragico e drammatico che fece diversi milioni di morti e che segnò per molti anni in Europa la vita di decine di milioni di persone.
Il giorno precedente, il 3 novembre, venne firmato l'armistizio a Villa Giusti, alle porte di Padova, tra i generali del Regio Esercito Italiano e l'Impero austro-ungarico.
Il "cessate il fuoco" entrò in vigore alle ore 15 del 4 novembre, mettendo così ufficialmente fine alla prima guerra mondiale, che per l'Italia durò quasi 3 anni e mezzo. Anche se non direttamente, quella firma sancì pure la fine del secolare Impero d'Austria-Ungheria, che si disgregò sotto le inarrestabili onde dei movimenti nazionalisti, e diede lo spunto per la nascita di nuovi Stati europei.
In questa giornata si ricordano anche tutti coloro che, anche giovanissimi, sacrificarono il bene supremo della vita per la difesa della Patria e della libertà.
A partire dagli anni successivi, in Italia ogni anno si svolgono manifestazioni in ogni città e in ogni piccolo paese, tese a ricordare l'anniversario della vittoria ed insieme la giornata dell’unità nazionale e la giornata delle forze armate, poiché quei giorni del 1918 vennero dedicati alle onoranze funebri per commemorare i soldati morti in guerra. 
Di seguito vengono pubblicate alcune fotografie che riprendono la partecipata manifestazione civile e religiosa avvenuta a Verderio Superiore il 4 novembre 1968.