martedì 27 marzo 2012


Il vecchio insediamento ebraico di Golcuv Jenikov (Rep.Ceca)


Ghetti, sinagoghe e cimiteri: i grandi sopravvissuti della cultura ebraica
In Boemia e Moravia gli ebrei giunsero nel X secolo. Se da un lato quindi aprirono grandi vie commerciali e furono in qualche modo nomadi, dall’altro si stabilirono nei paesi e nelle città, creando insediamenti propri. La storia di persecuzione e discriminazione, vergognosamente culminata nella Shoah, ha radici lontane e da sempre il popolo giudeo è stato oggetto di diffidenza e critiche. Durante la seconda Guerra Mondiale il sistematico annientamento nazista sterminò il 90% degli ebrei in terra ceca. Oggi le comunità ebraiche censite sono solo 10, per un totale di 3.000 persone, ma dei passati insediamenti resta ampia testimonianza nel Paese: 180 quartieri ebraici, 200 sinagoghe e 200 cimiteri.
I siti ebraici sono oggi per lo più sotto tutela come monumenti nazionali.

Josefov, la Praga ebraica
E’ una sorta di città nella città. Quella che appare oggi è il frutto di sostanziali rimaneggiamenti operati tra il 1893 e il 1913, ai quali sopravvissero solo alcune testimonianze di lunghi secoli di presenza ebraica a Praga. Ciò nonostante, i monumenti fin qui tramandati costituiscono uno tra i nuclei meglio conservati di tutta Europa. Cuore di Josefov è la Sinagoga Vecchio-Nuova, la più antica in attività in Europa, cui se ne affiancano molte altre, tutte in stili architettonici diversi, magnificamente restaurate e custodi di pregevoli collezioni. La città con le sue sinagoghe fa parte dell’area del Museo Ebraico di Praga, il cui patrimonio artistico e culturale è unico al mondo, a cominciare dall’Antico Cimitero Ebraico, che risale alla prima metà del XV secolo e conta 12.000 lapidi gotiche, rinascimentali e barocche.


Vecchio cimitero ebraico di Praga
Non solo Praga
La città di Pilsen vanta due sinagoghe, tra cui la seconda per grandezza in Europa e due cimiteri ebraici, uno antico e l’altro nuovo. Altri siti ebraici si incontrano fuori città, lungo la cosiddetta Strada Ebraica che attraversa l’intera regione di Pilsen. Tra tutti quelli censiti in Europa, il quartiere ebraico di Trebic è il meglio conservato in assoluto. Pregevole complesso urbano, sotto l’effige Unesco, è il quartiere di Zamosti che si distende tra il fiume Jihlavka e la collina Hradek. Un percorso didattico conduce lungo le due vie principali e attraversa vicoli, vicoletti e portici coperti. In agosto il villaggio è preso d’assalto per lo Shamayim, importante festival di cultura ebraica.
Tra il XVI e il XIX secolo, centro spirituale, culturale e politico degli ebrei della Moravia fu Mikulov, sede dei rabbini provinciali. Oggi sopravvivono una novantina di edifici tra Rinascimento e Barocco: abitazioni ma anche una scuola, una casa delle anime e persino una cisterna per i bagni rituali.
Altri siti ebraici si rintracciano un po’ in tutto il Paese, a Brno, Hermanuv Mestec, Holesov, Jicin, Kolin, Polna, Rakovnik, Velke Mezirici.

L’insediamento ebraico su cui intendo soffermarmi in questo articolo, perché ne conosco la storia e ne ho visitato i luoghi più significatici, è quello che insiste a Golcuv Jenikov, piccolo paese di 2700 anime, situato nella splendida regione denominata Vysocina, la quale, grazie ad un’ottima conservazione del paesaggio e del territorio, è fra gli ambienti naturali più belli d’Europa.

Il primo insediamento di una comunità ebraica in questo paese si presume sia avvenuto nel XII secolo. Il dato non è comunque certo perché negli anni 1784, 1808 e 1871 sono scoppiati diversi incendi che hanno distrutto parecchia documentazione archiviata nella biblioteca e negli archivi custoditi dagli ebrei locali. Il primo documento scritto tuttora conservato presso il Museo Ebraico di Praga risale al 1654 e contiene un elenco di dieci nomi di ebrei maggiorenni, numero minimo indispensabile, secondo la legge di quel tempo, a formulare l’istanza per la costruzione della Sinagoga a Golguv Jenikov. Un dato certo è quello che gli ebrei di GJ, a differenza del ghetto classico, costruirono il loro quartiere secondo criteri urbanistici “di tipo aperto”, ossia un ghetto non delimitato da muri o recinzioni, formato da stradine strette e case basse senza giardino.
 
Golcuv Jenikov. Anno 1914, strada di accesso al quartiere ebraico


Gli edifici più importanti costruiti nel Ghetto furono la Sinagoga, inizialmente realizzata in legno nel 1659, la scuola che risale 1797, il cimitero del XIV secolo, la Mikveh (o Mikvah), risalente al 1745, è un bagno rituale ebraico usato a scopo di purificazione. Al numero civico 188 del Ghetto si trovava un importante edificio che nel XVIII secolo ospitò il centro di discussione e insegnamento del Talmud e fu sede dell’Università del Rabbino Aron Kornfeld.
Sulla piazza, confinante con il quartiere ebraico, si affacciavano alcune botteghe, tra cui, la più frequentata era quella del macellaio, che uccideva gli animali con il rito tradizionale ebraico. Presso i negozi di proprietà degli ebrei si rifornivano anche i cristiani e i non credenti, soprattutto per acquistare caffè, tè, spezie e merce pregiata. Il servizio era apprezzato per la professionalità dei titolari e per l’ottimo trattamento riservato ai clienti, che venivano omaggiati di piccoli regali durante le festività religiose più importanti. 
Un altro documento presente negli archivi conferma l’insediamento della comunità ebraica a GJ. Nel 1681, anno in cui si sviluppò in Boemia l’ennesima grande epidemia di peste, che colpì gran parte d’Europa, gli ebrei di Golcuv, per paura di essere contagiati, si rifugiarono nei boschi vicino a Rimovice, dove costruirono casupole di legno denominate Budky, che diedero successivamente luogo alla nascita di un paese che ancora oggi si chiama Budka.
Terminato il periodo della pestilenza, gli ebrei ritornarono a GJ ma ebbero una brutta sorpresa: il Comune li obbligò a ricomprare le loro case precedentemente abbandonate, pretendendo che la comunità ebraica donasse al paese una ciotola ricoperta d’oro.
Nel 1724 la comunità ebraica contava 27 famiglie, mentre nel 1847 le famiglie salirono a ben 100, pari a 613 persone, un quarto dei residenti totali di Golcuv. Nel 19° secolo vi fu un vero e proprio boom economico e demografico delle comunità ebraiche presenti in Boemia e Moravia che generò un miglioramento delle condizioni di vita di tutta la popolazione ceca.



A sinistra E. Roth Sindaco ebreo di Golcuv nel 1919
Al centro e a destra due Rabbini a capo della comunità ebraica nel XIX secolo.
La Rivoluzione indipendentista e liberale del 1848, poi repressa dall’Impero, portò comunque maggiori opportunità civili, religiose e economiche alle popolazioni boeme. Gli ebrei utilizzarono al massimo la libertà acquisita, investendo soprattutto in attività commerciali e nell’istruzione dei loro giovani. Si stima che gli studenti ebrei furono oltre il 18% degli studenti cechi nelle Università, nonostante siano stati solamente il 2,5% della popolazione boema.

La Sinagoga
La Sinagoga rappresentava il centro del quartiere ebraico. Gli ebrei si ritrovavano in quest’edificio non solo per la preghiera, ma anche per festeggiare le ricorrenze religiose e per assumere decisioni importanti riguardanti la loro comunità. Il primo documento scritto che testimonia l’esistenza della Sinagoga risale al 1659. Inizialmente venne costruita interamente in legno, compreso il tetto, e realizzata secondo le regole di una costruzione ebraica, che permettevano di differenziarla dagli edifici religiosi di altre fedi. Durante gli anni la Sinagoga fu danneggiata da alcuni incendi di cui l’ultimo, avvenuto alle ore 2.30 del 21 maggio 1871, la distrusse quasi completamente. Gli ebrei decisero quindi di costruirne una in muratura, su progetto dell’arch. J. Spidil, che venne inaugurata il 16 settembre 1873 in occasione di una importante festa religiosa. 
L’interno è molto sobrio: nel corridoio d’ingresso è presente un piccolo lavandino per permettere ai fedeli di risciacquare le mani prima di entrare e il pavimento della sala di preghiera è ribassato di un gradino, soddisfacendo così la parola del Talmud 130, testo sacro dell’ebraismo: “Dalle profondità Ti chiamo, Signore”. La Sinagoga rimase aperta alle funzioni religiose fino al 1942 quando i nazisti imposero la chiusura e deportarono gli ebrei locali. Dopo gli anni della guerra la gestione dell’edificio religioso venne affidata, in un primo momento, alla comunità cristiana, la quale decise di posizionare all’interno un altare con la Croce, e successivamente alla chiesa evangelica ceca.
Negli anni ’60 ci fu anche il solito amministratore locale buontempone che propose di trasformare l’edificio ormai in disuso in un centro culturale con annesso cinema e biblioteca. Per fortuna la Soprintendenza di Pardubice si oppose e del progetto non se ne fece nulla. La potente comunità ebraica di Praga si impegnò a trasferire la gestione della Sinagoga al Museo ebraico. Nel 1993 è stata completamente ristrutturata a spese degli ebrei praghesi ed ora è a disposizione del Museo Ebraico di Praga.





 
La scuola 
Inizialmente i bambini ebrei frequentavano la scuola pubblica del paese. A seguito del boom economico e demografico, nel 1797 la comunità ebraica di Golcuv costruì una scuola elementare, per la cui realizzazione e funzionamento si sobbarcò tutti i costi. Il primo insegnante si chiamava Giuda Steiner. L’insegnamento della scuola fu di ottima qualità grazie a maestri capaci e preparati, tanto è vero che alcuni alunni provenivano da famiglie cattoliche e benestanti del luogo. Nel 1859 venne ristrutturata e ampliata.
Nell’anno scolastico 1907/08, a causa di forti migrazioni di famiglie ebree verso Praga e Vienna, il numero dei bambini che frequentavano la scuola si ridusse a 13 unità, dato che indusse i responsabili della comunità ebraica a chiudere la scuola. 

Il cimitero ebraico
Vi sono fonti documentali che attestano che il cimitero ebraico di Golcuv Jenikov risalga al 14° secolo. Si estende su una superficie di 7.336 mq ed è recintato da un muro di pietre alto due metri. Nel 1872 fu costruito un piccolo edificio contenente la sala per onoranze funebri, tuttora esistente.



 
Le lapidi più antiche, realizzate in pietra chiara, si trovano nella parte orientale del cimitero e si stima siano databili intorno al 16° secolo. Originariamente le sepolture avvenivano in direzione da est a ovest. Il più antico epitaffio ancora oggi leggibile su un monumento funebre risale all’inizio del XVIII secolo e cita testualmente: “Abramo del villaggio è morto il 20 settembre 1705” . Il cippo è decorato con una Stella di David e un piccolo rilievo floreale al centro.
Difatti, il cimitero locale è famoso per le sue lapidi in stile barocco del tardo seicento, decorate con graziosi rilievi. Alcune di esse sono smussate e aggraziate da capitelli decorativi o da gusci di chiocciola e da vari tipi di ornamenti.  Ad esempio il simbolo della brocca, presente su alcuni monumenti, rappresenta l’appartenenza al ceppo storico dei Leviti, al quale apparteneva la famiglia Milrath. Un altro simbolo molto frequente sui monumenti funebri è quello del leone che rappresentava la tribù di Yehuda Lev, nome molto comune nel Medioevo.
Purtroppo, molte scritte sulle steli di pietra e tantissimi tra gli epitaffi più antichi sono oggi in gran parte illeggibili, a causa dell’utilizzo di una pietra poco resistente alle intemperie ed all’assenza di manutenzione e restauro.

Molto pregiate sono le tombe in marmo risalenti al periodo fine ottocento/primo novecento, di fattura semplice e con finiture ad arco o ondulate. Agli inizi del ‘900, le tombe di defunti di religione ebraica non erano poi molto diverse da  quelle dei cristiani. Ad esempio, sulla tomba della famiglia Offer, ebrei residenti a Golcuv, era stata posta anche la fotografia in bianco e nero di Bertha e Samuel Offer.

Dalla seconda metà dell’800, a seguito di alcune riforme introdotte dall’Impero tedesco, le iscrizioni funebri sui monumenti sono espresse in due lingue, quella ebraica e quella tedesca. Più tardi gli epitaffi in lingua tedesca saranno la maggioranza, in quanto si sentì l’influenza delle riforme introdotte dalla Monarchia Asburgica. A seguito di tali riforme il tedesco diventò la lingua ufficiale delle comunità ebraiche su tutto il territorio della Monarchia. Nonostante ciò, su alcune tombe del cimitero compaiono scritte in lingua ceca: la più vecchia, risalente al 1862, riguarda un epitaffio di quattro righe scolpito sulla tomba di Ysrael. Di grande rilevanza e interesse sono le tombe a forma di sarcofago. La leggenda narra che lì riposino i resti di alcuni Rabbini medievali. In un sarcofago si presume si trovino i resti di Aron Maimonides, successore di Mosè Maimon, filosofo ebreo, matematico, astronomo e famoso medico alla corte di un sultano d’Egitto. Lo stesso Aron esercitò la scienza medica e filosofica presso lo stesso sultano.

Pregiate tombe barocche (XVII secolo)


Un drammatico capitolo della storia del cimitero ebraico riguarda la testimonianza di Josef Johanides che aveva la sua casetta nelle vicinanze del piccolo cimitero: “Il 12 aprile del 1942 tutta la comunità ebraica sta lentamente arrivando al cimitero ebraico in piccoli gruppi. Il loro viso è triste e molti di loro hanno le lacrime agli occhi. Stanno venendo a salutare i loro antenati che riposano in questa terra. Sanno già che a breve sarebbe arrivata loro, dal quartier generale nazista di Kolin, la convocazione per la deportazione. Tornando presso le loro case, gli ebrei si interrogano su quale fosse il luogo dove sarebbero state deposte le loro ossa. Chi e quando si sarebbe ricordato di loro?”.
Il 9 giugno dello stesso anno vengono caricati sui camion diretti alla stazione di Kolin e deportati a Terezin, campo di prigionia a nord di Praga. Il più vecchio degli ebrei  ha 87 anni, il più giovane solo 8. La gran parte ha proseguito verso i campi di concentramento della Polonia, e nessuno di loro è ritornato a casa. Solo cinque ebrei di Golcuv si sono salvati perché sono rimasti al campo di prigionia di Terezin.

Altrettanto tragico sguardo ebbe il gestore del cimitero, Jarmil Ronovskij, cinquant’anni più tardi. Domenica 17 gennaio 1993 ha scoperto, durante un sopralluogo periodico, un grave atto sacrilego che ha causato l’estirpazione di 62 tombe, sette delle quali rotte a metà. Chi avrà potuto commettere un’azione simile, si è chiesta la comunità del paese? Sarà stata dettata da un antico odio contro gli ebrei o da un atto generato da stupidità e ignoranza? Da allora il cimitero ebraico rimane chiuso al pubblico ed il cancello è sbarrato da una vistosa catena in ferro.

La Mikveh o Mikvah
La Mikve è quel luogo dove veniva svolto il bagno rituale ebraico, luogo essenziale di qualsiasi ghetto.
Questo edificio, fino al 1745, si trovava sotto la chiusa di un piccolo laghetto, tuttora esistente a GJ. A causa di un forte temporale, che causò un alluvione e lo straripamento dell’acqua del lago, fu distrutto. Quando venne costruito l’edificio che ospitò la scuola, la Mikveh venne aggregata a tale edificio. I locali interni erano divisi in due parti: il primo conteneva la caldaia che serviva a riscaldare l’acqua, il secondo le vasche di legno all’interno delle quali avveniva il bagno purificatore. L’acqua proveniva dal pozzo adiacente la struttura, mentre lo scarico veniva deviato nel ruscello che scorreva accanto. 

Ringrazio mia moglie Katerina che mi ha supportato pazientemente nella traduzione dei testi scritti in lingua ceca.

Beniamino Colnaghi

venerdì 9 marzo 2012

La nuova strada che da Verderio conduce alla stazione ferroviaria di Paderno d'Adda

Fino all’anno 1938, coloro i quali intendevano dirigersi verso la stazione ferroviaria di Paderno-Robbiate, giunti alla “salida de Padernu” dovevano necessariamente percorrerla fino in cima per poi svoltare a sinistra verso il centro abitato. Oltrepassato il ponticello sopra la ferrovia e giunti in prossimità della chiesina di Santa Marta, si prendeva nuovamente la sinistra e si scendeva verso la stazione, dalla parte di Paderno e Robbiate. In verità, coloro i quali intendevano raggiungere la stazione per vie più brevi, avevano un’altra possibilità, anzi due. La prima, meno usata perché fuori mano, era data dalla stradina campestre che si imboccava partendo dalla cappella di san Rocco, incrociava via Maggioli e proseguiva a nord verso Paderno d’Adda (l’attuale via san Rocco). Sulle antiche mappe catastali questa stradina prendeva il nome di “Strada comunale detta delle cave” perché conduceva a due cave insistenti proprio sui terreni a confine con il comune limitrofo.
La seconda opzione, la più usata dai residenti e dai viandanti, perché più vicina al centro storico, partiva dal “cerchio dei platani”, in fondo a via dei contadini verderesi, virava a sinistra tracciando il confine tra i comuni di Verderio Superiore e Paderno e incrociava la prima campestre in prossimità della cava di ghiaia. Le due stradine, evidenziate sulla mappa, sono ancora oggi visibili e percorribili.

Mappa catastale di fine ‘800

Dalla cava venivano prelevate quantità necessarie di terra e ghiaia affinché le imprese, che stavano realizzando opere per conto della famiglia Gnecchi, proprietaria dei terreni, potessero utilizzarne per i fini prestabiliti.
Proseguendo verso nord-ovest, in comune di Paderno d‘Adda, la stradina fiancheggiava il muro di cinta di villa Corti, costruito con buona manualità e maestria da abili muratori. Volendoci soffermare brevemente sul giardino della villa in questione, si dovrebbe accennare al fatto che lo stesso fosse pieno di alberi da frutto, generosi e rigogliosi, che producevano dell’ottima e gustosa frutta. L’unico inconveniente, per la famiglia Corti, riguardava il possibile interessamento di numerosi giovinastri dei paesi vicini, che durante le ore serali e notturne, complice il buio, si dedicavano agli “espropri proletari” della frutta presente sugli alberi. Gli espropri, tuttavia, non furono sempre di facile attuazione, perché, da una leggenda che passò di bocca in bocca, il giardino venne poi sorvegliato da un severo custode. Oggi, il muro di pietre della villa è stato quasi interamente demolito per far posto ad alcune villette e palazzine che fiancheggiano via Gasparotto, mentre è rimasto quasi del tutto intatto verso il lato che si affaccia sui campi interni. Oltre villa Corti, la stradina proseguiva verso la stazione ferroviaria e sbucava in corrispondenza dell’attuale strada dei Roncà.

Dicevamo del 1938. Nel mese di marzo muore Gabriele D’Annunzio e in giugno la nazionale di calcio conquista il titolo mondiale, battendo l’Ungheria nella finale di Parigi. A luglio Bartali è primo al Tour de France.
Ma il ‘38 passerà alla storia per un evento terribile e drammatico, una tragedia italiana ed europea, una vergogna mondiale. Il regime fascista emana, a partire appunto dal 1938, le leggi razziali, che ricalcano essenzialmente quelle promulgate in Germania da Hitler. Il primo documento ufficiale da cui sono poi scaturite le suddette leggi razziali è il “Manifesto sulla purezza della razza” pubblicato il 14 luglio. Quando si ricordano le leggi antiebraiche del 1938 si intende un complesso di provvedimenti legislativi e di atti amministrativi che determinarono la “morte civile” degli ebrei in Italia; ciò avvenne tramite la privazione dei più elementari diritti, premessa della successiva deportazione nei campi di sterminio nazisti ove, nella quasi totalità, trovarono la morte.



A Verderio Superiore, nel 1938, le sorti del comune erano rette da Vittorio Gnecchi Ruscone, noto compositore e musicista nonchè podestà dell‘ente locale. Dal 1927 al 1945 gli organi democratici dei comuni furono soppressi dal fascismo e tutte le funzioni in precedenza svolte dal sindaco e dagli organi comunali furono trasferite al podestà, nominato con Regio decreto.
La famiglia Gnecchi, negli anni a cavallo fra l’800 e i primi anni del ‘900, costruì in paese numerosi edifici pubblici e opere di grande utilità e pregevole bellezza, quali il municipio, l'asilo Giuseppina Gnecchi, la nuova chiesa parrocchiale, l'ambulatorio, la fonte regina, il cimitero ecc.
Per la realizzazione di tali opere, la famiglia Gnecchi si avvalse della collaborazione di eccellenti professionisti, quali architetti, ingegneri e urbanisti che, a seguito di indagini e studi in sito, “calarono“ con logica e rigore le opere nel territorio. E‘ necessario inoltre considerare che la famiglia Gnecchi Ruscone era proprietaria pressoché della maggior parte delle terre e degli immobili di Verderio superiore ed aveva possedimenti anche a Verderio inferiore, Paderno e in altri paesi limitrofi. Logico pertanto dedurre che la decisione di costruire opere o realizzare infrastrutture fosse dovuta a particolari e inderogabili esigenze, quali l’intento di rendere più bello il paese e fornirlo dei necessari servizi.

E’ all’interno di queste considerazioni che probabilmente si deve ricercare il motivo per il quale la famiglia borghese del luogo commissionò e fece costruire la nuova strada che in seguito collegò Verderio superiore alla stazione ferroviaria di Paderno-Robbiate.
Venne redatto il progetto, individuate le risorse, ottenuti i necessari permessi.

Felice Colnaghi, al quale mi sono rivolto per avere dettagli in merito, e che ringrazio di cuore, mi ha informato che, per il trasporto della ghiaia e dei materiali provenienti dalla cava, i progettisti e l’impresa incaricata dei lavori si avvalsero della ferrovia leggera, detta Decauville.
Paul Decauville, francese, fu il pioniere delle ferrovie leggere. La sua invenzione fondamentale è stata la ferrovia a scartamento ridotto, costruita a tratti brevi già montati con le traversine. Queste porzioni di ferrovia potevano essere montate e smontate facilmente e velocemente, nonché trasportate con agilità grazie al loro modesto peso. I costi di costruzione erano bassi e la piccola ferrovia aveva una maggiore adattabilità alle caratteristiche orografiche del territorio. I treni erano formati da una piccola locomotiva che trainava alcuni vagoni a due assi con cassa a sezione a V basculante sui due lati per lo scarico del materiale. Nel caso in questione, i binari venivano man mano spostati in funzione dell’avanzamento dei lavori della nuova strada. Pare che non ci furono intoppi, né finanziari né costruttivi, tanto che la nuova strada fu pronta nel 1938, come previsto.



Foto degli anni '40: a sinistra si può notare la nuova strada.

Come si è accennato, siamo in piena era fascista. Come si poteva allora usufruire e beneficiare di una nuova opera senza che venisse prevista una fastosa e solenne inaugurazione?
Le Camice Nere, in accordo con le autorità civili e religiose, fecero le cose in grande. Nel mese di novembre del ‘38 si tenne la cerimonia di inaugurazione: dal municipio partì il corteo composto dalle autorità e dai gerarchi fascisti locali e provinciali, da numerosi residenti “invitati” a partecipare nonché dagli alunni delle scuole del paese, vestiti rigorosamente secondo la classificazione imposta dal regime. Il corteo si diresse verso il “cerchio dei platani” ove le autorità tennero alcuni discorsi di ricorrenza e il parroco officiò la benedizione dei presenti e del cippo a ricordo dell’evento.

A proposito del cippo commemorativo, vorrei introdurre un elemento storico importante, che forse pochi conoscono. E’ sempre Felice Colnaghi a raccontarlo. Sul cippo deposto nel 1938, in occasione dell’inaugurazione della strada, oltre all’incisione di una scritta a ricordo dell’avvenimento, fu applicato un emblema del fascismo, probabilmente un Fascio Littorio.
Dopo la fine della II guerra mondiale e la caduta del fascismo, le prime elezioni libere per la formazione dei Consigli comunali si tennero il 17 marzo 1946. Nel 1946, ad un anno dalla Liberazione e dalla fine della guerra, gli italiani vennero chiamati a votare liberamente per la prima volta secondo il principio del suffragio universale, in quanto il voto fu esteso anche alle donne.
A Verderio Superiore i risultati videro un successo dei partiti di sinistra, in particolare del Partito Comunista e del Partito Socialista, traducendo in consenso politico anni di rivendicazioni e lotte democratiche dei contadini e degli operai verderiesi. La prima Amministrazione comunale dell’era repubblicana, dopo il suo insediamento, decise di rimuovere dagli edifici comunali e dai luoghi pubblici i simboli che ricordavano il fascismo. Fu così che il sindaco, Paolo Rota, e la giunta comunale social-comunista decisero di “riconvertire”, diciamo così, la vecchia lastra di marmo riutilizzandola in ricordo della resa della colonna di soldati tedeschi in ritirata ad opera dei partigiani, avvenuta in quel luogo il 28 aprile 1945.



La nuova strada fu pertanto aperta, ma rimase sterrata fino ai primi anni Settanta, quando il comune di Paderno si incaricò di asfaltarla, mentre la dotazione dell’illuminazione pubblica avvenne verso la metà degli anni Ottanta. La strada fu dedicata a Leopoldo Gasparotto, partigiano e comandante militare delle Brigate “Giustizia e Libertà”.

Beniamino Colnaghi

domenica 4 marzo 2012

Pasolini a 90 anni dalla nascita.

Il 5 marzo 1922 nasceva a Bologna Pier Paolo Pasolini. Sono trascorsi 90 anni da quel giorno ed oltre 36 dalla tragica notte fra il 1 e il 2 novembre 1975 quando, sul litorale di Ostia, il poeta fu massacrato da alcune persone non ancora identificate. Le indagini sono state riaperte da un paio d’anni, ma ciò che appare ormai certo è che nel “caso Pasolini” siano in campo diverse ipotesi sulla dinamica dell’assassinio, sugli autori materiali e sugli eventuali mandanti.
Alcune circostanze della morte di Pasolini, quindi, non sono ad oggi ancora state chiarite. Contraddizioni nelle deposizioni rese dall'omicida, un "chiacchierato" intervento dei servizi segreti durante le indagini e alcuni passaggi a vuoto o poco coerenti riscontrati negli atti processuali, sono fattori che lasciano aperte le porte a più di un dubbio.




Pier Paolo Pasolini con Anna Magnani


Non è mia intenzione, tuttavia, ripercorrere e richiamare qui la bontà o meno degli aspetti investigativi e giudiziari seguiti alla morte di Pasolini. Con questo breve pensiero vorrei, prendendo spunto dall’anniversario della sua nascita, invitare i lettori a scoprire, per chi non l’avesse mai letta, l’opera pasoliniana oppure a potenziare il profilo di Pasolini per coloro che già conoscono il suo enorme lavoro artistico, complesso e articolato, che spazia dalla poesia alla narrativa, dal teatro al cinema, dal giornalismo alla critica letteraria, fino al suo straordinario ruolo di intellettuale scomodo e controcorrente, perfino per la stessa sinistra.

Chi, prima e più di lui, fu profetico e lungimirante al punto di scrivere, oltre quarant’anni fa, sulla “mutazione antropologica” cui andava incontro la società italiana oppure chiedendo un “processo” per la classe dirigente del Paese, che lui chiamava “il Palazzo”, ovvero denunciando la perdita della passione civile e intellettuale degli italiani, i quali “applaudono soltanto i luoghi comuni, mentre sarebbe il caso di coltivare l’atrocità del dubbio”.

Più di quanto possa valere un articolo di ricorrenza, ritengo sia più utile e illuminante riproporre una delle sue tante testimonianze. Siamo a Milano nel 1974. Pasolini era presente ad un dibattito avente titolo “Ideologia e politica nell’Italia che cambia” al quale partecipavano anche il pittore Renato Guttuso e Giorgio Napolitano, l’attuale presidente della Repubblica.
A me pare che diversi concetti da lui espressi ed alcune denunce contenute nel suo discorso siano di estrema attualità (modelli culturali, corruzione, ruolo della televisione, sviluppo e progresso…) e siano diventati dei nodi mai sciolti nella nostra società, anzi, oserei dire che la loro degenerazione e la distorsione dei loro processi evolutivi ci hanno condotti alla grave crisi economica, sociale ed etica di oggi, alla “mutazione antropologica” degli italiani.



Alberto Moravia, Pasolini e Laura Betti


Che cosa dobbiamo oggi a Pasolini? Soprattutto riconoscenza per il suo lascito culturale e artistico e gratitudine perchè ci ha insegnato a non accettare compromessi di alcun tipo, a non discriminare alcuno, a non dare troppo peso al potere e al denaro, a stare alla larga dalla televisione, a provare vera gioia ammirando un dipinto o a leggere un buon libro, a non cambiare le idee (politiche, sociali, esistenziali) ad ogni stormir di fronde, ad apprezzare la lealtà, l’amicizia, la generosità che era un tratto tanto caratteristico della personalità pasoliniana, a non assumere un determinato comportamento perché “è di moda”, ad essere laici nel pensiero e nei comportamenti, a stigmatizzare le gerarchie ecclesiastiche quando ingeriscono ed eccedono nella vita delle persone. In una parola: a non conformarsi per ignoranza o per pigrizia mentale a ciò che viene definito comunemente “la normalità”.

Beniamino Colnaghi



Pier Paolo Pasolini - Milano, 7 settembre 1974

Premesse…
Dirò subito che la mia tesi è molto più pessimistica, più acremente dolorosamente critica di quella di Napolitano. Essa ha come tema conduttore il genocidio: ritengo cioè che la distruzione e sostituzione di valori nella società italiana di oggi porti, anche senza carneficine e fucilazioni di massa, alla soppressione di larghe zone della società stessa. Non è del resto un’affermazione totalmente eretica e eterodossa.
C’è già nel Manifesto di Marx un passo che descrive con chiarezza e precisione il genocidio ad opera della borghesia verso determinati strati delle classi dominate, soprattutto non operai, ma sottoproletari o certe popolazioni coloniali. Oggi l’Italia sta vivendo in maniera drammatica per la prima volta questo fenomeno: larghi strati che erano rimasti fuori della storia, la storia del dominio borghese e della rivoluzione borghese, hanno subìto questo genocidio, ossia questa assimilazione al modo e alla qualità di vita della borghesia. Come avviene questa sostituzione di valori? Io sostengo che oggi essa avviene clandestinamente, attraverso una sorta di persuasione occulta. Mentre ai tempi di Marx era ancora la violenza esplicita, la conquista coloniale, l’imposizione violenta, oggi i modi sono molto più sottili, abili e complessi, il processo è molto più tecnicamente maturo.

Mi spiegherò meglio tornando al mio solito modo di parlare, da letterato. In questi giorni sto scrivendo il passo di una mia opera in cui affronto il tema in modo appunto metaforico: immagino una specie di discesa agli inferi, dove il protagonista, per fare esperienza del genocidio, percorre la strada principale di una borgata, della periferia di una grande città meridionale e gli appare una serie di visioni. Ognuna di esse è una specie di bolgia, di girone infernale della Divina Commedia: all’imbocco c’è un determinato modello di vita messo lì di soppiatto dal potere, al quale soprattutto i giovani ed i ragazzi, che vivono nella strada, si adeguano rapidamente. Essi hanno perduto il loro antico modello di vita, quello che realizzano vivendo e di cui in qualche modo erano contenti e persino fieri, anche se implicava tutte le miserie e i lati negativi. E adesso cercano di imitare il modello nuovo messo lì dalla classe dominante di nascosto.

Quali sono questi modelli?

C’è il modello che presiede a un certo edonismo interclassista, il quale impone ai giovani che inconsciamente lo imitano di adeguarsi nel comportamento, nel vestire, nelle scarpe, nel modo di pettinarsi o di sorridere, nell’agire come ciò che vedono nella pubblicità…..
I risultati sono evidentemente penosi perché un giovane povero non è ancora in grado di realizzare questi modelli, e ciò crea in lui ansie e frustrazioni che lo portano alle soglie della nevrosi.

Oppure c’è il modello della falsa tolleranza, della permissività. Nelle grandi città e nelle campagne del centro-sud vige ancora un certo tipo di morale popolare, piuttosto libero, certo, ma con tabù che erano suoi e non della borghesia, non l’ipocrisia, ad esempio, ma semplicemente una sorta di codice a cui tutto il popolo si atteneva; a un certo punto il potere ha avuto bisogno di un tipo diverso di suddito, che fosse prima di tutto un consumatore, e non era un consumatore perfetto se non gli si concedeva una certa permissività nel campo sessuale….

O un terzo modello che io chiamo dell’afasia, della perdita di capacità linguistica. Tutta l’Italia aveva proprie tradizioni regionali, o cittadine, di una lingua viva, di un dialetto che era una lingua vivente, rinsanguata da continue invenzioni nella quale nascevano battute nuove, spiritosaggini e parole impreviste. C’era una meravigliosa vitalità linguistica. Il modello messo lì dalla classe dominante li ha ora bloccati linguisticamente, si è caduti in una specie di nevrosi afasica….

Perché è successa questa tragedia, questo genocidio dovuto all’acculturazione imposta subdolamente?
Ma perché la classe dominante ha scisso nettamente “progresso” e “sviluppo”. Ad essa interessa solo lo sviluppo, perché solo da lì trae i suoi profitti. Bisogna farla una buona volta una distinzione drastica tra i due termini “progresso” e “sviluppo”. Si può concepire uno sviluppo senza progresso, cosa mostruosa che è quella che viviamo in circa due terzi d’Italia: ma in fondo si può concepire anche un progresso senza sviluppo, come accadrebbe se in certe zone contadine si applicassero nuovi modi di vita culturale e civile anche senza o con un minimo di sviluppo materiale.

Quello che occorre è prendere coscienza di questa dissociazione atroce e rendere partecipi le masse popolari perché essa scompaia, e sviluppo e progresso coincidano….
Lo sviluppo che questo nuovo potere vuole dà un colpo di spugna al fascismo tradizionale, che si fondava sul nazionalismo o sul clericalismo, su vecchi ideali, e instaura una forma di fascismo nuovo e ancora più pericolosa. E’ in corso nel nostro paese questa sostituzione di valori e di modelli, sulla quale hanno avuto grande peso i mezzi di comunicazione di massa e in primo luogo la televisione. Con questo non sostengo affatto che tali mezzi siano in sé negativi: sono anzi d’accordo che potrebbero costituire un grande strumento di progresso culturale, ma finora sono stati un mezzo di spaventoso regresso, di genocidio culturale…..
La distruzione di valori in corso non implica una immediata sostituzione di altri valori, col loro bene e il loro male, col necessario miglioramento del tenore di vita e insieme un reale progresso culturale.

C’è nel mezzo un momento di imponderabilità e qui e ora sta il grande pericolo. Pensate a cosa può significare in queste condizioni una recessione economica, e vi corre un brivido se vi si affaccia il parallelo con la Germania degli anni Trenta. Qualche analogia il nostro processo di industrializzazione degli ultimi dieci anni con quello tedesco di allora ce l’ha: fu in tali condizioni che il consumismo aprì la strada, con la recessione degli anni ’20, al nazismo….
Quando vedo intorno a me i giovani che stanno perdendo gli antichi valori popolari e assorbono i modelli imposti dal capitalismo, e rischiano una forma di disumanità, una forma di atroce afasia, una assenza di capacità critiche, una passività, ricordo che erano le forme tipiche delle SS e vedo stendersi sulle nostre città l’ombra orrenda della croce uncinata. Una visione apocalittica la mia.

Ma se accanto ad essa e all’angoscia che la produce, non vi fosse in me anche un elemento di ottimismo, il pensiero cioè che esiste la possibilità di lottare contro tutto questo, semplicemente non sarei qui.

sabato 3 marzo 2012

Ambrogio Colnaghi, “Ul Campée” di Casa Gnecchi.


Nel 1866, cinque anni dopo l’Unità d’Italia, Verderio Superiore, Verdée de sura, contava poco più di 900 abitanti, era incluso nel mandamento III di Brivio e faceva parte della provincia di Como. Sindaco era Giuseppe Gnecchi Ruscone, che guidò l’amministrazione comunale dal 1859 al 1889.

Verderio, come del resto la maggior parte dei comuni brianzoli, era composto da un piccolo nucleo di case, prevalentemente concentrate nel centro storico, e da alcune cascine, abitate da famiglie contadine, Paisòn, che vivevano di agricoltura e di piccoli allevamenti di animali domestici. Considerato che, in quel periodo storico, i contadini erano condannati all’ignoranza, alla superstizione ed alla fame, e che in Italia meno del 10% della popolazione concentrava nelle proprie mani circa il novanta per cento della ricchezza nazionale, la legge era, come scriveva Gaetano Salvemini, “la voce del padrone”. I contadini non avevano molto di che vivere, perché il loro sostentamento dipendeva, oltre che dalla forza delle braccia e dalle condizioni meteorologiche, dal fatto che il raccolto doveva essere diviso con la famiglia Gnecchi, i Gnecch, proprietaria pressoché di tutte le terre e degli immobili di Verderio. Fino ai primi anni Venti del Novecento, le assegnazioni dei beni ai coloni avvenivano con contratti di mezzadria, successivamente, a seguito del “Biennio rosso” (1919-1920) che generò numerosi scioperi e proteste di operai e contadini, che reclamavano l’aumento delle paghe e condizioni di vita più umane, si passò al cosiddetto pagamento misto dell’affitto, ossia al versamento ai padroni di una quota in denaro ed alla consegna di parte dei raccolti e degli animali. Pier Paolo Pasolini ha narrato instancabilmente quel mondo ormai perduto, ha raccontato nei suoi scritti l’Italia dei contadini, del dialetto e delle tradizioni secolari, ha espresso continuamente il rimpianto per la fine della civiltà contadina e arcaica conosciuta in Friuli, ed ha monitorato, fino al suo tragico omicidio, l'evoluzione delle borgate e dei piccoli centri rurali, dal dopoguerra agli anni del potere capitalistico. E’ stato lui a parlare per primo di omologazione culturale e di mutazione antropologica degli italiani alle prese con la modernizzazione senza valori ed il consumismo sfrenato.

Ambrogio Colnaghi, detto Bös, nasce a Verderio Superiore il 5 luglio 1866 inCùrt dei Barbìs” (baffi), cortile che si affaccia sulla via Angolare, oggi corrispondente al civico numero 2.
Si presume che, storicamente, i cognomi Colnago e Colnaghi abbiano avuto origine da soprannomi legati al toponimo Colnago di Cornate d’Adda. Dalle ricerche, tuttora in corso, che sto svolgendo per comporre il mio albero genealogico, risulta che una famiglia Colnago si insediò a Verderio Inferiore, presumibilmente intorno alla prima decade del 1700 alla Cascina Casa Nuova, ora Canova, adiacente la Bergamina. Sui registri anagrafici relativi a quegli anni, consultati presso la Parrocchia di Verderio Inferiore, risulta che la Cascina Casa Nuova era classificata frazione di Verderio Inferiore.

Un giovane componente di quella famiglia patriarcale, Luigi Colnago, dopo essersi sposato con Cecilia Gesuina Scaccabarozzi, nativa di Ornago, si trasferì a Verderio Superiore e mise su casa in Cùrt dei Barbìs. La coppia ebbe cinque figli maschi: il primogenito, Felice, mio bisnonno paterno, nacque nel 1864, mentre il secondo lo chiamarono Ambrogio, Bös appunto, il quale sposò Clementina Brivio, detta Mentina, che da nubile abitava a Contra di Missaglia, dalla quale ebbe quattro figli: Luigia, Carolina e Angelo che morirono in tenera età, e Angela, Angiulina, che, invece, si è spenta alla veneranda età di 95 anni. La foto qui sotto ritrae Ambrogio e Clementina già avanti con gli anni.


Grazie ad un documento notarile lasciatomi da mio padre, che negli anni 1952-1954 comprò dalla famiglia Gnecchi Ruscone il terreno che coltivava in via dei Maggioli e gli immobili ubicati proprio in quella corte, ho recentemente scoperto che, per un certo periodo di tempo, il cortile venne denominato “Cùrt del Campari”. Presumo che tale nome fosse stato assegnato alla corte in virtù del fatto che Ambrogio ricoprisse l’incarico di “Campée”, camparo, di Casa Gnecchi.
Il camparo, un mestiere che oggi non esiste più, oltre ad essere una delle figure più caratteristiche del paese, era colui che occupava un ruolo importante nella gestione e manutenzione delle proprietà terriere della famiglia borghese del luogo. Non saprei dire con precisione in quale anno venne nominato camparo. Ritengo che ciò possa essere avvenuto entro la prima decade del Novecento. Possiedo il certificato di nascita di suo figlio Angelo, datato 1908, sul quale risulta che Ambrogio svolgesse già l’attività di Camparo.
Ambrogio, oltre ad avere il compito di controllare, regolare e mantenere in buono stato i fossi ed i canali irrigui che portavano acqua ai campi coltivati, dirigeva e coordinava, con esperienza e serietà, le attività dei contadini e dei salariati. Dopocena, quando la regiùra sparecchiava la tavola, annotava su un piccolo registro i lavori e le attività svolte durante la giornata dai lavoranti e appuntava le ore impiegate, che poi trasferiva al sciùr Giüli, Giulio Beretta, il fattore di Casa Gnecchi, che provvedeva a contabilizzarle e pagarle ai salariati.

Bös mi è stato descritto un bell’uomo, di alta statura, con un paio di folti baffi che, spesso, incutevano soggezione e sprigionavano autorità. Portava spesso un vestito di velluto marrone ed un cappello a larghe tese. Possedeva un carattere forte e fiero, intraprendente e rigoroso, che gli permetteva di svolgere le proprie mansioni nell’esclusivo interesse dei suoi padroni, i quali ponevano in lui piena e incondizionata fiducia. Nello stesso tempo era anche un uomo apprezzato dai contadini di Verderio, grazie alla sua competenza e alla dedizione che metteva nel proprio lavoro.
Nell’attuale struttura del centro ricreativo di via dei Contadini Verderesi, erano ubicati diversi locali contenenti materiali vari e un deposito di fieno. In uno di questi locali, Ambrogio aveva ricavato il proprio laboratorio, nel quale riparava gli attrezzi agricoli, affilava le falci atte al taglio dell’erba e dei cereali, assegnava il lavoro ai contadini quando essi venivano impiegati nelle proprietà Gnecchi. Sua nipote Fulvia mi ha recentemente confidato che Bös era molto abile nel costruire attrezzi agricoli in legno e che le sue specialità erano i rastrelli e i Bàger, il basto di legno da mettere sulle spalle per poter trasportare due secchi alla volta.
Oltre il lavoro di Campée, Bös svolgeva altri mestieri, altrettanto preziosi e utili “all’economia aziendale” della famiglia Gnecchi Ruscone.
Mio padre mi ha spesso raccontato, e Felice Colnaghi, suo nipote, mi ha recentemente confermato che durante i periodi dell’anno nei quali maturava la frutta, Ambrogio radunava i contadini nelle proprietà della famiglia Gnecchi coltivate a frutteto e dava loro disposizioni per la raccolta della frutta che, ma ciò è pleonastico ricordarlo, veniva poi caricata sui carri agricoli trainati dai cavalli e interamente portata nei depositi situati presso la villa padronale. Il frutteto probabilmente più grande di Verderio Superiore si trovava nell’area, detta Breda, tuttora cinta da un alto muro, che oggi fiancheggia via Gramsci. In quell’area erano presenti decine e decine di piante da frutto, di diverse qualità, in prevalenza meli, peri, ciliegi, viti, cachi, noci e noccioli.

Bös era anche presidente della sezione cacciatori di Verderio Superiore, carica che, si presume, mantenne fino alla sua morte. Da un documento Gnecchi intitolato “Denuncia delle armi”, datato 23 agosto 1919, si apprende che Ambrogio fosse in possesso di un fucile da caccia marca Vinchester a due canne parallele. Seppur Verderio fosse un piccolo paese, pare che la sezione verderiese avesse una quarantina di iscritti che si riunivano periodicamente presso una saletta del Prestinèe, l’attuale panificio Riva. Al centro delle due foto che seguono, Ambrogio è ritratto in piedi con in mano il gagliardetto tricolore della sezione. Alla sua destra, in posa con il fucile, è riconoscibile Giovanni Riva, soprannominato Gion, classe 1902, che abitava in Cùrt di Giòn (via Angolare 3), la stessa da dove proveniva mia nonna Clelia, conosciuta in paese con il soprannome di scighéra, nebbia.


Immagini della sezione cacciatori di Verderio. Ambrogio Colnaghi è al centro con il gagliardetto

Ma ciò che più di ogni altra cosa mi incuriosiva, e mi generava fantasie tipiche di quell’età e di quel periodo storico, consisteva nei racconti di mio padre sul roccolo, Ròcul, (o bressana) la cui gestione gli Gnecchi avevano affidato ad Ambrogio, il quale deteneva il possesso delle chiavi del casello ed il compito di tenere l’area in ordine e ben curata.
Il roccolo era formato dal casello che ancora oggi è visibile nelle vicinanze dell’azienda agricola Boschi, e da un piccolo boschetto di carpini a forma geometrica, attrezzato per la cattura degli uccelli. C’era anche un pozzo dal quale si attingeva acqua fresca per abbeverare gli animali.


Il casello

Il casello era strutturato su due piani: al piano terra vi era un locale nel quale si appendevano le gabbie con gli uccelli da richiamo: merli, fringuelli, usignoli, quaglie, allodole etc., mentre il primo piano era adibito a deposito. Il boschetto di carpini era costituito da due fila di piante disposte a ferro di cavallo ben curate dalla potatura effettuata dai contadini, lungo le quali venivano tese le reti. L’addetto, dopo aver disposto nel boschetto le gabbiette prelevate dal casello contenenti i richiami, si appostava dietro un paravento in legno, nel quale erano stati ricavati piccoli spioncini, e, al momento opportuno, emetteva versi che imitavano i segnali di allarme degli uccelli nei confronti dei rapaci e, contemporaneamente, manovrava lo spauracchio (un filo al quale erano appesi barattoli e campanacci) che spaventavano i volatili causandone la fuga verso le reti, nelle quali rimanevano impigliati e subito catturati.
In buona sostanza, l’uccellagione, ossia la pratica della cattura degli uccelli con reti, col vischio e con altre insidie, era molto diffusa nelle pianure e nelle Prealpi del Nord Italia fino agli anni Sessanta del secolo scorso. Il motivo prevalente era dovuto al fatto che la gente era povera ed affamata e, attraverso la caccia e l’uccellagione, colmava le carenze alimentari dovute alle difficili condizioni di vita. Oggi, a ragione, queste tecniche sono state abbandonate fino alla completa chiusura dei Roccoli, avvenuta in seguito al recepimento delle direttive europee in materia di caccia.

In merito al Roccolo ho due brevi aneddoti, raccontatimi recentemente da Fulvia e Felice Colnaghi.
Presso l’azienda Boschi erano in corso dei lavori sotto l’attenta direzione di un membro della famiglia Gnecchi. Verso mezzogiorno arrivò il calesse a prelevare il padrone per ricondurlo alla villa per il pranzo. Ma il padrone confidò a Bös che non aveva appetito e che avrebbe rinunciato volentieri al prelibato pasto. Ambrogio, invece, aveva fame e rispose: “oh sciùr padron”, io sto aspettando l’arrivo della mia nipotina che mi porterà “ul stüen”, recipiente di metallo col manico, colmo di minestra di patate e verdure o di “pulenta e pult”; considerata la fame che ho, per me qualsiasi cibo va bene.
L’altro aneddoto si riferisce ad un periodo in cui avvenivano dei furti di cereali e di altri prodotti della terra nei campi adiacenti il Roccolo. Bös, per cercare di arginare il fenomeno e individuare i responsabili, decise di fermarsi fino a tarda sera o addirittura di dormire nel casello. Una sera, mentre stava percorrendo a piedi la stradina campestre (oggi corrispondente alla via Cantù) che portava verso il Roccolo, fu affrontato da due “fantasmi” coperti da lenzuola bianche, due figuri un po’ stupidotti, menga tònt scrocch, che avevano l’obiettivo di spaventarlo e di farlo desistere dal suo intento. La cosa si ripeté per altre due o tre volte, finché Ambrogio si spazientì, e, munito di una roncola, affrontò e rincorse gli sprovveduti fantasmi che, da allora, non si fecero più vedere.

C’è una bella foto d’altri tempi, qui sotto riprodotta, mostratami da Fulvia Colnaghi, comparsa anche sul libro di Giulio Oggioni “Quand serum bagaj”, che ritrae “Ul Campée Bös” in bella posa con alcuni suoi parenti: Ernesta Aldeghi, zia Nesta, originaria della Cascina Salette, moglie di suo nipote Luigi, che tiene in braccio Felice Colnaghi, e parecchi nipotini, fra cui la stessa Fulvia, Vittoriano e mio padre Giovanni. La foto, che dovrebbe risalire all’estate del 1930, è stata scattata sul terreno che la sua famiglia aveva in affitto al Saruchèn, l’area alla destra dell’attuale via S.Rocco.



Verderio Superiore - anno 1930
In piedi da sinistra: Giovanni Colnaghi, Ambrogio Colnaghi, Fulvia Colnaghi, Ernesta Aldeghi con in braccio Felice Colnaghi. Seduti: terzo da sinistra è Vittoriano Colnaghi

Ambrogio è deceduto il 4 aprile 1942 all’età di 75 anni ed è stato sepolto nel cimitero del paese.
Oggi i suoi resti riposano nell’ossario comune posto sotto la cappella centrale del vecchio cimitero.
 
In memoria di mio padre.

Ringrazio sentitamente Fulvia, Tina e Felice Colnaghi per avermi permesso di realizzare queste brevi note storiche, che avevo in serbo di fare da tempo, attraverso la presa visione di alcune fotografie di Ambrogio e la divulgazione di preziose ed utili informazioni sulla sua vita.

Sono grato ai parroci di Verderio Superiore e Verderio Inferiore per avermi concesso l’autorizzazione a consultare gli archivi parrocchiali.

Beniamino Colnaghi

Storia dei nostri cognomi

Breve sintesi tratta dal sito dell'Associazione Storica Lombarda


Introduzione
Il nostro cognome è un patrimonio storico che ci contraddistingue, eppure generalmente non sospettiamo neppure che possa avere un significato. I nostri cognomi vedono la loro origine attorno alla metà del XII secolo, in un periodo in cui evidentemente il semplice nome di battesimo non consentiva più l'identificazione delle persone che portavano lo stesso nome: ciò era presumibilmente dovuto al forte sviluppo demografico legato ad un momento di sviluppo economico. Non dimentichiamo che siamo nel periodo della nascita dei Comuni. In Lombardia l'origine del cognome è varia: può derivare da un nome di paese o città (Viganò, Brivio, Colnago) o dal nome di battesimo di un antenato (Andreoni, Stefanoni, Arnaboldi), oppure da una devozione particolare verso un santo (Mauri per san Mauro), o, ancora, da un mestiere esercitato da un avo (Medici, Ferrari, Tagliabue) o da sue particolarità fisiche (Grandi, Neri, Bianchi, Rossi, Grassi) ed infine, connessi a nomi di animali (Ratti, Gatti, Volpi). Ma, a mio parere, la parte più interessante di questi studi è quella relativa alla località di provenienza dei cognomi, cioè il "da dove siamo partiti".
E' ovvio che chi ha cognomi tipo Parma, Cantù, Vergani discende da un avo originario appunto di Parma, Cantù o Villa Vergano. Per i Mauri potremmo dire che gli studi effettuati li riconducono al lago di Pusiano come i Viscardi partono da Calusco. Le approfondite ricerche hanno condotto ad un risultato ben preciso: l'esistenza di un flusso migratorio diretto specialmente a Milano, effettuato in modo massiccio dalle valli prealpine, dalla Brianza e dalle valli della bergamasca. Un esempio classico di questo flusso è quello dei Brembilla che provengono, per l'appunto, dalla località bergamasca Brembilla. I loro avi sono sicuramente quegli abitanti di questo paese cacciati nel 1443 dai Veneziani perché fedeli ai Visconti e che vennero favorevolmente accolti nel ducato milanese appunto per la loro fede viscontea.
Nei registri anagrafici i cognomi hanno generalmente la forma plurale perché si designa così la famiglia: fanno eccezione quelli di derivazione femminile come Marta, Sala, Beretta, ecc. Inoltre nei cognomi sono rintracciabili parecchie impronte dialettali: Valtellina è divenuto Oltolina, Savini Saini, Taleggio, Tavecchio. Inoltre il fenomeno del "rotacismo" - che trasforma la l intervocalica in r - ha modificato ad esempio Oltolina in Ortolina, Belluschi in Beruschi e via di questo passo.
Nel percorso storico dei cognomi v'è ancora da annotare che un ruolo rilevante al loro formarsi lo ebbero le tradizioni della cancelleria, dapprima quella notarile e successivamente anche quella ecclesiastica, anche se è proprio quest'ultima ad avere sancito migliaia di cognomi. Infatti, a prescindere dalla mole di atti notarili fortunatamente a noi pervenuti d'epoca due/tre/quattrocentesca, è con il Concilio di Trento che, a partire dal 1564, viene fatto obbligo ai parroci di tenere un registro dei battesimi con nome e cognome per evitare, in particolare, matrimoni tra consanguinei. I parroci, come già fatto dai notai, dovendo indicare con esattezza la persona fecero spesso diventare cognome il nome del padre, oppure utilizzarono particolarità fisiche come si è già detto prima o un qualsivoglia altro aspetto che per la comunità indicava, sotto il profilo orale, quella particolare persona o famiglia.
E' di tutta evidenza che da questo discorso rimangono fuori le famiglie "storiche" la cui presenza aveva segnato la storia del territorio e per le quali esisteva già un sistema codificato di identificazione. Due esempi significativi per tutti: I Pusterla e i Confalonieri. Per il primo: famiglia di Milano, le cui gesta riempiono le cronache del Medioevo milanese, annovera sette tra Consoli del Comune e Consoli di Giustizia, due Arcivescovi (Anselmo 1116-1136) e Guglielmo (1361-1370) e compare nella Matricola Nobilium Familiarum del 1377, elenco di famiglie i cui membri potevano entrare a far parte dei canonici ordinari del Duomo. Un Francesco Pusterla che tramò contro Luchino Visconti fu giustiziato nella piazza del Broletto nel 1341. Un altro Pusterla, Giovanni, castellano di Monza, fu accusato da Giovanni Maria Visconti d'aver partecipato all'uccisione di Maria Visconti: venne fatto azzannare da mastini e successivamente decapitato e squartato. Nello stemma di famiglia si vede un'aquila stilizzata che può rappresentare appunto una porta d'accesso. Confalonieri: anche qui famiglia antichissima. In origine il confanonerius era il portatore del gonfalone arcivescovile, cioè il signifer della Chiesa milanese. A Milano, successivamente, accompagnavano il nuovo arcivescovo dalla sua entrata in città sino alla dimora. In compenso ricevevano il cavallo su cui era arrivato il nuovo presule ed il baldacchino di cui loro stessi avevano retto le aste. Lo stemma di famiglia è un gonfalone spiegato. La famiglia compare nel famoso elenco del 1377 - vedi i Pusterla - e compare ancora con Federico - 1785/1846 - grande uomo liberale e rivoluzionario, condannato dapprima a morte poi all'ergastolo dagli Austriaci nel 1823.



Esaminiamo ora alcuni cognomi lombardi e brianzoli, alcuni dei quali molto diffusi a Verderio:
Acquati: Cognome diffuso in tutt'Italia, anche se Acqua è tipicamente diffuso al nord. L'origine è legata a due possibili radici, che si identificano in toponimi (contenenti il vocabolo acqua, acque), o nel mestiere del distributore o venditore d'acqua (acquaiolo, acquarolo)

Annoni: La famiglia milanese de Annono (da Annone, sull'omonimo lago alle porte di Lecco) è registrata nella Matricola Nobilium Familiarum del 1377 (o 1277, la datazione è incerta), elenco delle famiglie nobili di Milano i cui membri avevano diritto all'elezione passiva come canonici ordinari del Duomo.
La parentela de Annono compare tra le famiglie guelfe di Brianza a cui Galeazzo Visconti, con un suo editto del 1385, perdonò il favore che essi avevano testimoniato ai Savoia.
Dal Dizionario Feudale delle Provincie Lombarde componenti l'antico stato di Milano all'epoca della cessazione del sistema feudale (1796) dovuto al Casanova, si ricava: 1625: diploma di re Filippo IV per la concessione del feudo di Gussola (Cremona) a Giacomo Antonio Annoni; 1659: il feudo di Merone è concesso a Paolo Annoni; 1676: il feudo di Cerro al Lambro è concesso a Carlo Annoni con il titolo di conte.
Per concludere, secondo i più accreditati studiosi, il toponimo di Annone è da ricondurre al nome personale germanico Ano, Anone.

Bartesaghi: è tipico della zona del comasco, di Inverigo, Erba, Como, Pusiano ed Albavilla e soprattutto del lecchese, di Annone Di Brianza, Lecco e Mandello Del Lario, e di Giussano nel milanese, Bartezaghi è tipico di Bareggio nel milanese, Bartezzaghi è sempre tipico del milanese, di Vittuone in particolare, sono entrambi molto rari, dovrebbero derivare da un nome di località originata dal vocabolo celtico barto = foresta, bosco forse ad intendere appunto una zona boscosa il suffisso -aghi è chiaramente il plurale del celtico -ago (campo) ad intendere la zona coltivata in prossimità di un bosco.

Colnago e Colnaghi: Cognome lombardo, particolarmente dell'area compresa tra le provincie di Pavia, Milano, Lecco e Bergamo, dovrebbe essere stato originato da soprannomi legati al toponimo Colnago (MI). Negli "Statuti delle acque e delle strade del contado di Milano fatti nel 1346" Colnago risulta incluso nella pieve di Pontirolo e viene elencato tra le località cui spetta la manutenzione della "strata da Vimarcate" come "el locho da Colnago" (Compartizione delle fagie 1346).
Nei registri dell'estimo del ducato di Milano del 1558 e nei successivi aggiornamenti del XVII secolo Colnago risulta ancora compreso nella medesima pieve (Estimo di Carlo V, Ducato di Milano, cart. 38).

Colombo: nell'impero romano Columbus e Columba erano nomi di schiavi. Nei primi secoli della cristianità era molto diffuso perché veniva attribuito ad essa il significato di purezza. A Milano appaiono nel 1266. Presenti nel lecchese e in Valsassina dal Cinquecento. Nel 1690 Bernardo Colombo fu creato marchese di Segrate. Nel 1845 Buffini scriveva, nei "Ragionamenti storici economici e statistici e morali intorno all'Ospizio dei Trovatelli di Milano" che il cognome era dato agli abbandonati bimbi dell'Ospedale Maggiore perché l'insegna di quel logo è una colomba che vola sopra una portantina. In ogni caso il cognome è assai diffuso nelle nostre zone ed è pur vero che in parecchi archivi ottocenteschi ho trovato questo cognome attributo a bambini "esposti", cioè abbandonati."

Frigerio: lombardo delle provincie di Varese, Como, Lecco, Bergamo, Brescia e Milano. Una possibile origine è dal cognome austriaco Fritscher (si pronuncia fricer o friger), un'altra possibilità è la derivazione dal nome goto Frigeridus, meno probabile, vista l'attuale concentrazione e diffusione una derivazione dal tardo latino frigerius (colui che fa fresco).
II cognome Frigeri e Frigerio, al modo stesso di Frigieri, Fruggeri e Forghieri riflette il personale medievale Frigerius, Frogerius di derivazione franca (dal germ. *frithu - "pace, amicizia" e da *gaira - "lancia") forse "amico della lancia". Fonte: F. Violi. Cognomi a Modena e nel Modenese, 1996.; il nome Frogerius potrebbe essere derivato dal personale germanico Fridger. Förstemann 532.

Mapelli: dalla località bergamasca di Mapello. L'Olivieri presuppone che il nome abbia una discendenza dalla voce milanese mappa che indicava il cavolfiore e che trovava analogia nel cantonticinese mapp cioè pannocchia di granoturco, assimilabili alla posizione geografica del luogo. La schiatta è rappresentata nell'elenco dei Mille Homines Pergami del 1156. Segnalo un Guillelmus de Mapello, rettore di Lombardia nel 1178. Compaiono nel monzese nel 1350 negli statuti dei mercanti con Petrus de Mapello. In epoche più recenti, l'avvocato Achille Mapelli (1841-1894) fu uno dei Mille di Garibaldi e deputato al Parlamento.


Motta: in toponomastica francese, con il significato di altura e poi di poggio con castello. Il termine appare solo nel basso latino ma sicuramente vanta radici più antiche. Questi toponimi sono abbastanza diffusi e indicano per l'appunto famiglie i cui antenati provenivano da alture.
Oggioni e Oggionni: da Oggiono, sul lago omonimo, nome che deriva poi da Augionis, cioè luogo ricco d'acqua. La forma corretta dovrebbe essere la seconda, che è anche la meno diffusa. In dialetto si dice Ugionn e ciò ci permette di collocare il toponimo con altri che terminano nello stesso modo e cioè Consonno, Caronno, Biandronno. Nomi questi in cui si vede un composto del nome gallico "dunno", variante di "duno" col significato di monte e poi castello, che si trova in parecchi nomi lombardi, piemontesi, cantonticinesi e francesi come Comeduno (BG), Verduno (CN), Solduno (C.Ticino). Negli Atti del Comune di Milano compaiono Jacobus de Ogiono, Resonadus de Uglono, Ubertus de Uglono, Lanciavetula Ogionus. I de Uglono sono presenti a Monza almeno dal Trecento e li si trova nei primi elenchi dei mercanti: nel 1350 troviamo Dominichus de Uglono; nel 1476 compaiono Bertholameus et filius de Uglono, Franciscus de Uglono, Johannes, Contrinus et fratres de Uglono. Nella rubrica censuaria di Monza del 1537 compaiono sei famiglie Oggioni tra cui Madonna Angela da Ogion, dove il titolo madonna indica che la famiglia era nobile.

Pirovano: appartiene ad una nobile famiglia di capitanei che conta due arcivescovi milanesi: Oberti I (1146-1166) ed Oberto IV (1206-1211). Nell'elenco del 1377 delle famiglie nobili milanesi i cui membri avevano diritto all'elezione passiva come canonici ordinari del Duomo, la famiglia appare in due rami: i Pirovano ed i Pirovano da Tabiano. Nel monzese appaiono attorno al Cinquecento anche con la forma Piroino (in dialetto diciamo Piroeuven). Dal Casanova, nel suo dizionario feudale, ricaviamo: nel 1501 il senato approva la concessione fatta da Luigi XII, re di Francia, per l'erezione in contea del vicariato di Desio, di cui fu investito il fisico Gabriele Pirovano ed i suoi discendenti; nel 1558 vengono concessi a Gian Franco Pirovano, per sé e discendenti, alcuni redditi in varie terre dello stato e della giurisdizione di Meleto; 1635, diploma di Filippo IV per la concessione del feudo di Cassino Scanasio (Mi) a Giovanni Pirovano. Il feudo cessò alla morte del marchese abate Filippo Pirovano, avvenuta nel 1673.

Riva: è un cognome che deriva da un nome di luogo attestante la presenza di un lago o di un fiume e, pertanto, è molto diffuso. Per i nostri territori abbiamo la possibilità d'individuarne tre ceppi distinti: un gruppo a Legnano, un gruppo a Galbiate (de ripa de Galbiate) ed anche un gruppo a Mantova ove era situato un loro palazzo. Tra i de Ripa o, successivamente, Riva, si rammenta in particolar modo Bonvesin (buonvicino) della Ripa nato presumibilmente a Milano tra il 1240 ed il 1250 e vissuto praticamente sempre in città salvo un periodo trascorso a Legnano. Era un frate dell'ordine degli Umiliati, autore di opere sia in latino che in volgare ma, soprattutto un attento testimone della vita del suo tempo. La bibliografia su di lui è abbondantissima in quanto i suoi scritti sono stati oggetto di ampi ed autorevoli studi. La sua opera forse più nota è il "De magnalibus Mediolani" che ci consente di avere a disposizione un'ampia fotografia di Milano nel periodo. Come si diceva il cognome è tanto diffuso che è praticamente impossibile scegliere da quale zona od atto pubblico partire: è ben presente nelle nostre terre sin dalla metà del XII secolo. Negli Atti del Comune di Milano appare "qui dicitur de Riva, Ripa, Rippa con i nomi personali di Albertus, Bonacorso, Durans, Girardus, Guido, Johannes, Rogerio, Ventura e Vitalis. In una pergamena del monastero di san Vittore in Meda, del 10 dicembre 1252, con la quale la badessa Maria de Besuzio cede il mercato del borgo e la curaria del mercato stesso, appare un Rivanus de Ripa/Rippa filius Guilielmus. Nel Quattrocento troviamo a Galbiate dei mercanti di lana sottile oltre a coltivatori di campi sparsi un po' in tutta la Brianza.

Sala: dall'editto di re Rotari del 643 (codice delle leggi longobarde) sappiamo che con sala venivano indicati,: casa signorile, casa colonica e stalla. Parecchi sono i toponimi che sono rimasti con la designazione sala: Sala al Barro, Sala Comacina, Sala di Calolziocorte, Sala di Vassena ecc. Ciò non permette di identificare un preciso ceppo di provenienza delle famiglie con questo cognome che, peraltro, vista la diffusione del toponimo, è ben radicato nelle nostre terre.

Salomoni: molto raro, Salamone è specifico della Sicilia, Salamoni rarissimo è forse un errore di trascrizione di Salomoni che ha un nucleo nel bolognese ed uno nel bresciano e veronese, Salomone è diffuso in tutto il sud, ma in particolar modo in Campania, questi cognomi derivano tutti dal nome ebraico Shelam (pacifico).

Scotti: all'origine vi è un aggettivo etnico usato come soprannome e cioè Scotus = scozzese così come Franciscus significava dapprima franco e poi francese. E' un cognome, vista l'origine, abbastanza diffuso ovunque. Negli Atti del Comune di Milano troviamo: Scoto, de Scoto e Scotus con Alderius, Giacomo, Gironus, Guilielmus, Guinizo, Lanfrancus, Montinus, Mutus, Petrus, Rogerius, Saccus e Ubertus. Compare anche uno Scoto de Marchione, scriba pot. Alexandrie ed uno Scotus Artinixius de burgo Vicomercato. Nel 1237 viene indicato nell'elenco di affittuari della chiesa monzese. Troviamo anche degli Scotti nobili: 1237, ser Rugerius del Scotis; 1291, dominus Ribaldus de Scotis; 1301, Sangius de Scotis è tra gli estensori degli statuti della comunità dei mercanti di Monza; Facino e Giacomo Scotti risultano registrati tra i mercanti nel 1476. A Meda, in una pergamena del 1252 con la quale il monastero di san Vittore rinuncia all'honor, districtus e alla jurisdicio sul borgo stesso, compare quale abitante di Meda e consiliarius (consigliere) Guarinus de Scoto. Successivamente ancora a Monza appaiono negli elenchi dei mercanti con: 1385, dominus Aserbinus de Scoto, consiliarius et consultor (dell'amministrazione comunale); 1448, dominus Bernardus de Scotis che possiede una casa dove ora vi è il Municipio della cittadina. Sappiamo anche che nel 1458 moriva spectabilis vir dominus Ballinus del Scotis huius terre Modoetiae che era stato podestà di Novara e Lodi. Abbiamo anche un Ottaviano Scotto che emigrò a Venezia dove diede un forte impulso all'arte della stampa ed ivi morì nel 1498. Il Casanova ci informa che nel 1671 re Carlo II assegnò il feudo di Colturano ad una famiglia Scotti che vi poggiò il titolo di conte.

Sirtori: dalla località brianzola di Sirtori. Questo cognome è accostabile al termine "serta" cioè prato e luogo recintato, diffuso nelle provincie di Bergamo, Sondrio, Varese e nel Canton Ticino. Sono presenti nei nostri territori almeno dal XII secolo e nel monzese sono attestati dal Trecento già nei primi elenchi dei mercanti: 1326, Galvagnolus de Syrtori; 1350 Galvagniolus de Serturi; 1411-27, Lancelotus de Syrtori; 1470-76, Johannes de Syrtori, 1518, Francius de Sirtori; 1518 dominus Joannes Andrea de Sirtori. Anche nella rubrica censuaria monzese del 1537 si trovano, quali addetti all'arte della lana: Baltisar de Sirtolo, mercante da lana; dominus Guielmus de Sirtol, cernidor da lana; Sanctino da Sirtol, lissador, maestro; Jacomo da Sirtol, garzoto cioè garzatore. Dal Casanova, nel suo Dizionario Feudale, ricaviamo: 1650, assegnazione del feudo di Torrevilla con Lissolo a Francesco Sirtori; il possesso cessò nel 1773 quando Guido Innocente Sirtori decedeva senza prole.

Spada: è un antichissimo cognome milanese riconducibile ad un capostipite che doveva essere un armaiolo specializzato nella fabbricazione di spade. Oppure un qualcuno talmente abile con la spada che con essa venne identificato. Abbiamo un Albertus Spata de Mediolano nel 1196 che fu testimonio nel Duomo di Monza della nomina ad arcivescovo di Ariprando da Rho da parte di Oberto da Terzago, vescovo di Milano. Compare anche nell'elenco dei prigionieri fatti da Federico II alla battaglia di Cortenova (1237) con Lampunninus Spata in jocta.

Stucchi: un'ipotesi vuole che il cognome derivi dal nome Eustachio (dal greco Eustàchios cioè colui che dà buoni frutti). Sicuramente è presente da secoli nei nostri territori. Lo troviamo negli atti del Comune di Milano con Martinus Stucchus e negli elenchi dei mercanti di lana sottile, sempre di Milano, del 1393 con Bonulus Stuchus. Negli elenchi di mercanti di Monza del 1518 compare Paulus Stuchus e, ancora, nel 1559, nei registri battesimi del Duomo di Monza con Michel Stuco.

Valtolina: è una deformazione dialettale di Valtellina, così come lo sono anche Voltolina, Oltolina, Ortolina e Vantellini.

Verderio: dalla località di Verderio che, a sua volta, deve il proprio nome alla presenza in loco di un viridiarium (o viridarium), cioè di un verziere, un giardino od un parco. Il toponimo si ritrova già in pergamene del X secolo: anno 934, Verederio; 996, Verederio, 997, Verederio, 998, Verderio, 998, Verederio. Anche in Francia compaiono toponimi assolutamente assimilabili: Le Verdier, Le Verger che, a loro volta, si ritrovano in cognomi tipici quali Verger e Duverger. Nel monzese compaiono solo nel 1500 con Nicola da Verderio e Clara de Verdè nel 1537.
Viganò: dalla località di Viganò in Brianza. Il toponimo, anche qui, è assai antico: si tratta infatti, in origine, di un genitivo plurale latino: vicanorum (cioè dei vicani, gli abitanti del vicus), in sintesi la comunità rurale mediaevale già presente in epoca romana e preromana. Dunque una terra vicanorum cioè una terra posseduta da tutti gli abitanti del vicus. Nel tempo il toponimo assume la forma (che si ritrova nelle antiche pergamene) di Vicanore, Viganore e, infine, Viganò. Assimilabile a Viganò sono altri due toponimi che si trovano in Renate e nella pieve d'Agliate e che, nel tempo con la tendenza spianatrice del dialetto, si sono ridotti a Vianò. Il cognome si trova negli Atti del Comune di Milano nel 1266 con de Viganore. Sono assenti nelle carte monzesi sino al Cinquecento, il che significa che sono colà approdati successivamente.

Villa: è anche questo un toponimo antichissimo ed è inteso col significato di villaggio. E' un cognome assai diffuso e ciò è dovuto all'esistenza di parecchi toponimi identici giunti sino a noi: basti pensare a Villa Raverio, Villa Romanò, Villa D'Adda. A ciò si aggiunga che questo toponimo è rintracciabile in tutt'Italia e che, con il fenomeno dell'immigrazione, possiamo avere il cognome Villa che arriva, ad esempio, dal napoletano. Troviamo a Monza, già nel Duecento, un podestà Taddeo de Villa ed anche un suo milite Rodolfo de Villa, indicati nella rubrica censuaria che riguarda la confezione del pane. Nel liber consignationis prebendarum del 1237 i Villa appaiono stanziati a Sesto, Missaglia, Maggiolino, Masnaga, Bulciago. Compaiono anche negli Statuti dei Mercanti dal 1326 al 1350 con otto rappresentanti. Il Casanova ci dice che nel 1751 il feudo di Grezzago veniva concesso a Giovanni Villa.

Viscardi: da un nome personale germanico latinizzato successivamente nelle forme di Guiscardus e Viscardus, col significato di "capitano ardito". I Viscardi nostrani paiono provenire da Calusco, nella bergamasca: nella metà del Quattrocento un Joannes de Viscardis aveva beni nella vicinia di santo Stefano a Bergamo.
Beniamino Colnaghi