sabato 20 dicembre 2014

giovedì 11 dicembre 2014

I tre giovani disertori di Paderno d’Adda, deportati nei campi di sterminio nazisti

Il 1943 fu un anno drammatico per la storia dell’Italia ed il corso della seconda guerra mondiale.
Nella notte fra il 24 e il 25 luglio il gran consiglio fascista destituisce Mussolini da ogni incarico e affida al re Vittorio Emanuele III il comando delle Forze armate. Lo stesso giorno Mussolini viene arrestato e mandato al confino prima a Ponza, poi alla Maddalena e infine a Campo Imperatore, sul Gran Sasso.
L'8 settembre il re e Badoglio annunciano l'armistizio con gli alleati anglo-americani e fuggono a Brindisi, consegnando l'Italia in mano ai tedeschi, che occupano militarmente il Paese.
Il 12 settembre i paracadutisti nazisti, aiutati da alcuni ufficiali fascisti dei carabinieri, riescono a liberare con un blitz Mussolini.
Il 15 settembre la radio comunica che "Benito Mussolini ha ripreso la suprema direzione del fascismo in Italia", mentre tre giorni dopo in un discorso radiofonico da Monaco, lo stesso Mussolini, annunciando la rinascita di uno stato fascista, indica il compito di riprendere le armi al fianco della Germania e del Giappone.
Il 23 settembre si costituisce ufficialmente il governo della Repubblica sociale italiana, Rsi, con sede nel comune di Salò (Brescia) e Mussolini, rientrato nel frattempo in Italia, si autoproclama capo dello Stato, del governo e duce del nuovo partito fascista repubblicano.
Il 28 ottobre viene promulgata la legge costitutiva delle Forze Armate della Rsi.

Il generale Rodolfo Graziani, ministro della Difesa e successivamente della Guerra, non perse tempo per indire i bandi di reclutamento che si succedettero fino alla metà del 1944.


 
Nel primo bando, su 180.000 iscritti alle liste di leva se ne presentarono circa 100.000.
Fu però l’ultimo credito spontaneo che le generazioni soggette alla chiamata militare diedero al fascismo, scoraggiate dalle penose condizioni in cui si trovavano le caserme, dal vitto scarso e dall’arroganza tedesca. Il loro impiego operativo, inoltre, era spesso rivolto contro altri italiani nei rastrellamenti e nelle azioni contro i gruppi partigiani. Cominciarono così le diserzioni e gli abbandoni dei reparti. I bandi successivi furono dei fallimenti: parecchi renitenti scelsero la montagna e la resistenza si fortificò con il loro arrivo. Molti giovani si rifugiarono nei loro stessi paesi, nelle loro stesse case, aspettando la fine della bufera.
Del contesto nazionale abbiamo detto.
Per quanto attiene, invece, la situazione nei comuni della Brianza comasca e lecchese, una raccolta di dati ordinata dal capo della provincia di Como accerta che, al 31 dicembre 1943, furono 1287 i giovani che rifiutarono la chiamata alla leva. Furono 43 a Cernusco Montevecchia, 76 a Merate, 45 a Paderno Robbiate, 19 ad Osnago, 18 a Verderio Inferiore mentre a Verderio Superiore furono 8.[1]
 
 
 
 
La reazione delle autorità politiche e militari si articolò in una serie di pene da applicarsi ai renitenti e in una sequenza di ritorsioni. I capi delle province fecero affiggere dei manifesti nei quali si formalizzavano le misure che lo stesso capo era autorizzato a prendere in caso di mancata presentazione ai distretti dei giovani di leva. Provvedimenti venivano adottati anche a carico dei familiari dei giovani: dall’arresto del padre al ritiro delle tessere annonarie a tutti i familiari, dal ritiro delle licenze d’esercizio a quello delle licenze di circolazione per autovetture, dalla sospensione immediata del pagamento delle pensioni a quella degli impieghi statali e parastatali dei familiari.    

Il capo dei comandi militari delle varie province e il capo delle province stesse inviarono a tutti i commissari prefettizi ed ai podestà dei comuni una circolare che li invitava ad uno spirito di massima collaborazione e, nello stesso tempo, li ammoniva ad adottare tutte le misure possibili affinché i renitenti alla leva ed i disertori si presentassero nelle loro caserme.
Il culmine della collera causata dal montare del fenomeno della renitenza, le autorità della Rsi lo raggiunsero con il decreto del duce del 18 aprile 1944 che, in concomitanza con la chiamata alle armi delle classi 1922, 1923 e primo quadrimestre del 1924, dichiarava di comminare a renitenti e disertori la pena di morte e più dure ritorsioni contro la famiglia di appartenenza.
A causa della paura furono in molti a presentarsi ma, trascorso l’effetto terroristico, il fenomeno della renitenza riprese, come pure riprese quello della diserzione dai reparti.
 
 
 
 
 
A seguito del disastroso risultato ottenuto, il duce sentì la necessità di emanare un’amnistia. Il 28 ottobre 1944 furono condonati i reati di diserzione e renitenza per chi si fosse presentato entro il 14 dicembre. Nei comuni della Brianza si sono ottenuti risultati comunque modesti. I giovani presentatisi in seguito all’armistizio del 28 ottobre furono 75 a Merate, 19 a Missaglia e 15 in totale a Verderio Superiore e Inferiore.[2]
 
 
 
In tutto questo periodo di tentata ricostruzione della forza militare dello stato fascista, le milizie e le brigate nere cercarono di risolvere il problema operando frequenti rastrellamenti. Normalmente avvenivano circondando improvvisamente un paese, o un quartiere, con forze ingenti e si fermavano tutti gli uomini che ad occhio fossero in età di servizio militare. Anche in alcuni comuni della Brianza si usò questo metodo. La terribile anomalia, inspiegabile e drammatica, fu che alcuni di questi giovani, fermati per non avere risposto a qualcuno dei bandi di reclutamento, furono deportati nei campi di sterminio nazisti.

Fu il caso di tre ragazzi della classe 1922 residenti a Paderno d’Adda, a quel tempo in provincia di Como.
La vicenda che portò alla deportazione di Pasquale Brivio, Guido Panzeri e Giuseppe Villa, tutti nati nel 1922 e residenti in via Manzoni a Paderno d’Adda, è legata alla loro diserzione dal presidio della Gnr (Guardia nazionale repubblicana) di Monza.


Via Manzoni a Paderno d'Adda.
La sera del 9 maggio 1944 una squadra della Gnr si presentò in via Manzoni, dove abitavano i tre ragazzi. Non trovandoli, iniziarono a terrorizzare e minacciare le rispettive famiglie finché, dopo circa un’ora, i giovani saltarono fuori. Furono immediatamente portati alla caserma di Monza e il giorno dopo a Gallarate, dove subirono un processo sommario al termine del quale vennero condannati a diversi periodi di reclusione.
Durante la loro prigionia, i tre ragazzi padernesi rifiutarono sempre e decisamente di arruolarsi nell’esercito fascista, motivo per il quale, in accordo con le SS, i fascisti decisero la loro deportazione in Germania.[3]
Non si hanno molte informazioni sugli spostamenti dei tre ragazzi padernesi verso i luoghi detentivi del Reich. Ciò che è certo, invece, è che il primo approdo in Germania fu la fortezza di Torgau, trasformata in prigione militare, mentre successivamente furono spostati nel piccolo campo di rieducazione di Zoschen, sulla strada che da Merseburg porta a Lipsia. Con un treno merci, ogni giorno i deportati venivano condotti nelle grandi fabbriche di uno dei bacini dell’industria chimica tedesca, dove lavoravano con turni massacranti di dodici ore al giorno. Una piccola scodella di zuppa era tutto ciò che veniva loro concesso per ricaricarsi per il giorno dopo.
I tre ragazzi padernesi erano:

Pasquale Brivio. Morì il 5 aprile 1945 in luogo non noto ma si sa che il 29 marzo era presente a Buchenwald. La commissione che si occupò di effettuare sopralluoghi nei lager per ritrovare oggetti dei deportati fece recapitare al padre la carta d’identità di Pasquale recuperata a Dachau.
Guido Panzeri. Inviato a Torgau fu spostato a Zoschen e utilizzato a Spergau, nel sito produttivo di Leuna. Morì il 25 marzo 1945 a Zoschen. 
Giuseppe Villa. Cessò di vivere a causa di un grave deperimento il 5 aprile 1945 a Zoschen e venne inumato nel cimitero locale.[4]

In memoria di tutti quei brianzoli che sotto il regime nazi-fascista subirono violenze inconcepibili, persecuzioni, maltrattamenti disumani oppure furono uccisi qui in Brianza o deportati nei campi di sterminio nazisti.

Beniamino Colnaghi

Note e fonti bibliografiche
Pietro Arienti, Dalla Brianza ai Lager del Terzo Reich, Bellavite, 2011, p.223-224.


[1] Asco, Gabinetto Prefettura, Pratiche chiamata alle armi, “Elenchi dei giovani delle classi di leva non presentatisi data 31.12.1943”.
[2] Ar.com. Merate “Militari sbandati e renitenti”.
[3] Ans, esposto del 15.01.1946 alle autorità giudiziarie dei genitori dei tre deportati.
[4] Ans, fascicoli personali.

mercoledì 3 dicembre 2014

Nilde Iotti, la “signora della politica italiana”

Qui di seguito viene presentata una breve sintesi della biografia inedita di Nilde Iotti, scritta dal giornalista Giorgio Frasca Polara, in esclusiva per il sito della Fondazione Iotti. Polara è stato il portavoce di Nilde Iotti durante la sua presidenza della Camera.
 
Quando Nilde morì, Le Monde le dedicò una nota con questo titolo: “Se ne va la gran signora della politica italiana”. Il titolo, tra migliaia, più felice; una sintesi meritata, per la straordinaria capacità di questa donna di tenere insieme rigore e serenità, dignità ed esercizio critico della ragione, di impersonare una concezione alta della politica e la dignità stessa del Parlamento. Anche se, e Le Monde giustamente lo ricordava, alle spalle e in parallelo dell’intensa e lunga vita parlamentare (cinquantatre anni) c’erano il lavoro clandestino nella Resistenza, la milizia alla base e ai vertici del Pci-Pds-Ds, l’attività all’Udi e alla commissione femminile del Pci da lei a lungo presieduta, il rapporto con Togliatti contrastato da una parte del gruppo dirigente e di cui furono segni successivi le tante cancellature del suo nome al momento della tardiva prima elezione nel Comitato centrale, e la successiva, contrastata nomina in direzione. In realtà, e per paradossale che possa sembrare, la stella di Iotti poté cominciare a brillare di luce propria solo dopo la scomparsa di Togliatti, quando non c’era più motivo (in taluni tra i massimi esponenti del partito: il primo era stato Pietro Secchia) di diffidare di lei e delle inesistenti sue “fortune” dovute al legame con il segretario del partito comunista…
 
Eh, quante battaglie e quanti tormenti Nilde aveva vissuto, nell’arco della sua vita, sin dalla prima giovinezza, già a Reggio “nell’Emilia” (come si diceva e si scriveva una volta) dov’era nata il 10 aprile 1920. Figlia di un ferroviere socialista cacciato dal lavoro per le sue idee e scomparso quando lei aveva appena quattordici anni, condusse vita grama con la mamma inventandosi con lei mille piccoli lavori ma frequentando regolarmente le scuole – “meglio dai preti che nella scuola fascista”, aveva sempre raccomandato il padre – sino a laurearsi in lettere alla Cattolica di Milano, vivendo talora in un abbaino nella periferia della città, e dando lezioni private per guadagnarsi di che vivere. Ebbe tra i suoi docenti Amintore Fanfani: l’avrebbe ritrovato come collega non solo alla Costituente e poi via via per tante legislature ma persino come correttissimo collega: lui presidente del Senato, lei della Camera. Fu durante il corso universitario che perdette la fede, ma non si disse mai atea, piuttosto “non credente” e rispettosissima sempre del credo altrui. Breve periodo, poi, di insegnante in qualche paesino del reggiano. Sino a quando, dopo l’8 settembre, non maturò la decisione – lei che aveva cercato inutilmente, per anni, di ritrovare le tessere del Psi che il padre aveva celato sotto le traversine della ferrovia, fuori città – di iscriversi al Pci clandestino, e di tradurre l’impegno politico in scelta di vita facendosi prima staffetta porta-ordini e poi organizzando i Gruppi per la difesa della donna. Poi la presidenza dell’Udi di Reggio e la candidatura, nel ’46, alla Costituente. Qui una nuova, decisiva svolta: non tanto come deputata ma perché chiamata a far parte di quella Commissione dei 75 che è stata un po’ la vera madre della Costituzione. Era giovanissima e si ritrovò a tu per tu, in quella fucina, con Aldo Moro, con Pietro Nenni, con Togliatti.  Con il segretario del partito nacque quasi subito un grande amore, ma clandestino. Sino all’attentato del 14 luglio ’48: stavano uscendo insieme dalla Camera quando un fascista scaricò quattro colpi di rivoltella contro il segretario del Pci. Se non morì si dovette anche ad uno scatto di Nilde. E così fu noto a tutti il legame che solo la morte di Togliatti avrebbe drammaticamente spezzato. Nilde uscì indenne dall’attentato che visse tuttavia come un trauma anche nei giorni successivi: quando si tentò (e in un primo momento si riuscì) ad impedire che Iotti fosse ammessa al capezzale del suo compagno, già sposato con Rita Montagnana, valorosa militante antifranchista e antifascista, e anche lei deputata. Iotti sopportò a lungo con fermezza e (relativa) serenità le molte diffidenze e anche umiliazioni cui fu sottoposta per questo rapporto, sempre più intenso, sempre più felice: ciò che la ricompensava di molte ingiustizie e incomprensioni… 
 
Quanto pesasse la sua personalità si vide soprattutto alle solenni onoranze in occasione della sua morte (“morta senza i conforti della religione” fu lo stupido o stupito richiamo del Giornale di Berlusconi), avvenuta nella notte tra il 3 e il 4 dicembre 1999 in seguito ad un intreccio di mali che provocò un collasso cardiaco. Uscì dalla vita in punta di piedi, come c’era entrata: morì fuori Roma, in una clinica appartata al confine tra Lazio e Abruzzo. Già sapendo di non potere più esercitare una normale vita politica e sociale si era dimessa poche settimane prima da deputata: un gesto non rarissimo (nel partito c’era il precedente di Natta) e tuttavia insolito, che aveva destato grande impressione e commozione. Questi sentimenti crebbero a dismisura quando una folla immensa volle darle l’ultimo saluto prima durante l’esposizione della salma nel Salone della Lupa, e poi ai funerali di Stato, presente Oscar Luigi Scalfaro che prima di salire al Quirinale le era brevemente succeduto alla presidenza della Camera. Con lui, come già con Sandro Pertini che addirittura la voleva alla presidenza della Repubblica, c’era un rapporto strettissimo, nato alla Costituente e poi sempre coltivato con sentimenti di grande considerazione e affetto. Sulle mani di Nilde la sua compagna delle elementari Franca Ciampi intrecciò alcune roselline. Tutto finì di lì a poche ore, con la sepoltura nel famedio dove riposano le salme di quasi tutti i dirigenti del partito che fu, nell’area acattolica del cimitero romano del Verano. Giace, la sua salma, accanto a quella di Togliatti. Si riuniva così quella straordinaria coppia che aveva dato vita – aveva detto lei una volta – a “una strana famiglia in cui non c’era un vero marito, non c’era una vera moglie, e non c’era una vera figlia, ma che pure era una famiglia unita e felicissima”.   

Per leggere la biografia integrale aprire il collegamento http://www.fondazionenildeiotti.it/iniziative_1.php?eventi_id=45

venerdì 28 novembre 2014

Il massacro del Sand Creek
 
Denver, Colorado, 28 settembre 1864. Nella foto capi Cheyenne e Arapaho. Pentola Nera è il secondo da sinistra della prima fila (foto nel pubblico dominio da Wikipedia.org). 

 
Sono trascorsi 150 anni dal massacro del Sand Creek.
 
All'alba del 29 novembre 1864 una colonna di oltre 700 soldati americani, comandati dal colonnello John Chivington, giunse al campo Cheyenne e Arapaho sul fiume Sand Creek, oggi nello stato del Colorado. La maggior parte degli indiani maschi adulti era più a est, a caccia delle mandrie di bisonti e la maggioranza dei 600 nativi presenti nel campo erano anziani, donne e bambini.
A dispetto dei vari trattati di pace firmati dai capi tribù locali con il governo statunitense, Chivington ordinò di aprire il fuoco e massacrare quanti più indiani possibili, anche donne e bambini. Il capo Cheyenne, Mokatȟavataȟ, in italiano Pentola Nera, aveva fatto innalzare accanto alla sua tenda conica un alto palo di legno a cui aveva fissato una grande bandiera degli Stati Uniti d’America. Gli indiani erano cittadini americani. Non appena i soldati si avvicinarono al campo, il vecchio capo Cheyenne urlò alla sua gente di radunarsi sotto la bandiera. Ma questo non servì. L’attacco fu terribile, indiscriminato, un vero massacro. Il numero esatto delle vittime del Sand Creek non fu mai chiarito ma, da stime e testimonianze attendibili, si parlò di un numero tra i 150 e i 170 indiani uccisi.

I responsabili del massacro non furono mai perseguiti.

lunedì 17 novembre 2014


Milano, le vecchie bancarelle di libri usati

Nelle più rinomate vie e piazze della vecchia Milano, parliamo dei primi decenni del Novecento, erano dislocate diverse bancarelle che vendevano libri usati. Ce n’erano delle più disparate. Certe bancarelle erano specializzate in filoni ben precisi, altre proponevano tutto quello che riuscivano a trovare e spesso reclamizzavano offerte speciali e maggiori sconti se si acquistavano più libri.

Porta Venezia, ad esempio, aveva il più alto numero di bancarelle. A dire il vero non erano vere e proprie bancarelle, ma carretti con ruote, facilmente spostabili, attrezzati con cassette e piccoli scaffali per disporvi i libri.
Una di queste bancarelle apparteneva ad un signore sempre vestito di nero che aveva l’aria mefistofelica: occhialini d’oro, calvo, pizzetto ben stirato. Sul suo conto correvano strane voci. Si diceva che fosse un avvocato cancellato dall’albo per qualche oscura ragione. Ma era molto abile nel proporre e vendere i libri. Aveva la mania dei vecchi periodici e degli almanacchi ottocenteschi. Legato al carretto con una corda c’era un grosso pacco che conteneva le annate del giornale anticlericale L’asino. Poi aveva le raccolte dei grandi processi pubblicati da Sonzogno. Intorno alla bancarella, a sfogliare e a prendere appunti, s’incontravano talvolta giornalisti che s’occupavano di cronaca nera, magistrati e avvocati alle prime armi.
Scostata di qualche metro, c’era invece la bancarella di una signora che portava sempre una sciarpa verde. Era una fanatica della lirica, un irriducibile loggionista. Infatti si era specializzata in libretti d’opera. Se ne trovavano, ammucchiati ed alla rinfusa, in edizioni popolari a cinquanta centesimi mentre in una cassetta teneva le edizioni di pregio.
La bancarella più popolare, anche per via della simpatia che sprigionava il suo proprietario, era quella di un vecchio che fumava sempre una piccola pipa. Fumatore impenitente, non si toglieva la pipa di bocca neanche per parlare. Aveva la barba incolta e sudicia ma era un uomo dal buon carattere, paziente e conciliante sul prezzo. Aveva un po’ di tutto: dai romanzi francesi e portoghesi ai libri di devozione e trattati di grafologia.
I bancarellari di Porta Venezia non si concedevano mai vacanza, tranne che alla domenica. D’inverno sfidavano il freddo coperti con cappellacci, pastrani e cappotti incatramati.


Milano, una bancarella di libri in Piazza Mercanti
Sui gradini del Palazzo della Ragione, in via dei Mercanti, pieno centro città, esponeva un tipo con  barba e capelli da Mosè e le orecchie turate da peli grigi che gli si arricciavano intorno ai lobi. Dal nome e dal fisico pareva fosse Ebreo. Il libraio acquistava dai critici, che li avevano ricevuti per recensirli, libri appena comparsi in libreria e li vendeva a metà prezzo. Dopo alcuni anni si trasferì in piazza Mentana ed il suo posto fu preso dai Finzi, padre e figlio, il quale, quest’ultimo, aprì più tardi un rifornito antiquariato di libri usati e stampe in Foro Bonaparte.
Un’altra zona della città che vedeva la presenza di bancarellari era Largo Cairoli. C’era un uomo di mezza età, strambo e poco simpatico e non era uno che praticava sconti, anzi, molto spesso, a seconda dell’acquirente, aumentava il prezzo con mille pretesti. A Largo Cairoli si trasferì, dal passaggio Santa Margherita, un altro bancarellaro, che a causa della sua barba aggressiva veniva chiamato familiarmente il “Barbetta”. Negli anni Trenta si è ritirato dalla piazza e l’attività è stata prelevata dal figlio, che ha aperto un negozio di antiquariato librario nella non lontana via Camperio.

Milano, la "moderna bancarella" di Piazza Cairoli 
Una modesta bancarella di libri era stata installata di fronte alla chiesa di San Carlo, ma non vendeva molto, il luogo non era adatto. Nel quartiere Brera, invece, bancarelle ve n’erano parecchie. In via Fiori Oscuri si era collocato un libraio assai stravagante. Non aveva una vera e propria bancarella, ma disponeva i libri e una scatola di legno che emanava un buon odore di tabacco su uno sdrucito zerbino di un atrio d’albergo. La scatola di legno doveva aver contenuto dei sigari cubani, ma il venditore vi aveva riposto dei santini d’occasione. Appoggiate al muro vi erano delle stampe in quadrante in passe-partout di cartone. Il libraio era un uomo di mezza età, ben conservato, in giacca di velluto che gli dava l’aria di un pittore bohémien. Non stava mai fermo e spesso andava in giro per restar via delle ore. Se qualcuno chiedeva di lui guardandosi intorno, v’era sempre il portiere dell’albergo o un negoziante che rispondeva in vernacolo: “L’è andaa a fà on poo d’acqua, ma el ven subit”. Le stampe provenivano perlopiù da Vienna ed erano databili intorno al Sette-Ottocento. I santini venivano dalla Spagna ed erano stampati su carta-tela e dipinti a mano. Sul retro recavano la leggenda del santo o della santa che riproducevano.
In piazza Cordusio, solo per alcuni mesi, un giovane magro e giallognolo, dalle orecchie a sventola, vestito con una giacchetta nera e striminzita esponeva i suoi libri sulla scalinata dell’allora palazzo della Borsa. Non era di Milano. Era toscano, di Lucca. Aveva fatto richiesta alle autorità ed aveva ottenuto quel posto. Era figlio di povera gente e grazie a una ricca signora che pagava la retta, l’avevano messo in seminario. Purtroppo si era ammalato e i superiori avevano consigliato i genitori di tenerlo a casa e curarlo. Da allora aveva fatto un po’ di tutto: il galoppino per un notaio, il commesso d’una bottega d’oggetti sacri, il lavapiatti in un’osteria. Poi aveva conosciuto una ragazza ed aveva combinato il guaio, ma aveva riparato prima ancora che il pargolo nascesse. Verso la fine degli anni Venti, era arrivato a Milano con la moglie ed il figlio grazie all’interessamento di un gerarca fascista. Le speranze erano molte, ma i libri pochini, per una città come Milano. Il posto era buono, di largo transito, ma egli, tra una tossita e l’altra, da spezzare il cuore, si lagnava sempre di non trovare i libri. Era tisico all’ultimo stadio ed il clima di Milano certo non gli giovava.  Poi, dopo qualche mese, prese il suo posto una donnetta in scialle nero: era la moglie in lutto. I milanesi, brava gente, l’avevano aiutata, ma non ha resistito a lungo da sola a Milano; è ritornata a Lucca dai suoi, riprendendo il suo lavoro di cardatrice di lana.

Milano, Piazza Cordusio in una foto degli anni Trenta
All’apertura della Fiera di Porta Genova, che poteva durare da una settimana a un mese, immancabilmente giungeva il bancarellaro di Massa Carrara. Era un pioniere della diffusione del libro che portava con la bricolla fin nelle più remote valli delle Alpi Orobiche e nella Pianura Padana. In Lombardia si leggeva di più che in altre regioni. La grande bancarella era aperta e illuminata fino a mezzanotte. Appeso al palo centrale era affisso un cartello a caratteri cubitali: “Chi non legge è un …oca”. Sulla bancarella c’erano i migliori romanzi dell’epoca e opere prime dei più grandi autori. Il venditore praticava sconti eccezionali, tanto più alti quanti più libri si compravano.
C’è stato un certo Arnaboldi, che qualcuno suppose figlio di un garibaldino milanese, che produceva disegni con inchiostro di china. Una cartella, da titolo Milano perduta, che conteneva quindici tavole firmate Arnaboldi, era in vendita presso un vecchio libraio che esponeva in piazza Cavour, sulla spalletta del Naviglio. Era un vecchio poco simpatico, che fumava sempre la pipa e guardava con indifferenza gli eventuali acquirenti. Oltremodo vendeva poco, perché era caro e non mollava sul prezzo. Ogni tanto aveva libri intonsi e fondi di magazzino, che smaltiva con lentezza. Per lo più erano libri di autori sconosciuti, fatti stampare a proprie spese, ma c’erano anche libri, pochi, di autori non del tutto ignoti.

Beniamino Colnaghi

lunedì 20 ottobre 2014

Storie della Brianza di una volta: la pergola dei Proserpio

L’estate del 1947 fu torrida; in quei mesi si registrarono temperature tra le più alte del secolo.
Nel mese di luglio di quell’anno uno stuolo di ragazzini, incuranti del solleone, giocava a nascondino scorazzando tra la grande corte e gli orti esterni della cascina. Per non essere scoperti, si appiattivano dietro i pilastri dei portici o si accucciavano sotto i carri agricoli. Le galline, impaurite dalle urla e dalle corse dei ragazzini, fuggivano sbattendo le ali in ogni dove, mentre le oche starnazzavano stupidamente. Qualche vecchia usciva dalle porte protette dal caldo da ruvide tende a righe verticali, redarguendo qualche giovincello troppo esuberante. Le donne anziane alzavano le braccia e scuotevano la testa, scambiando pochi commenti con le vicine e sparendo quasi subito dietro le tende abbassate. I pargoli dormivano beatamente dentro le semibuie e fresche stanze e per nessuna ragione al mondo dovevano essere svegliati.  
L’aia della cascina Addolorata era molto grande, la più ampia di tutte. Su di essa si affacciava un lungo porticato, sotto il quale si aprivano sedici abitazioni, tutte rigorosamente esposte verso sud. Ai lati del corpo centrale avevano sede le stalle ed i fienili e alcuni portici aperti, sotto i quali i contadini depositavano i carri e gli attrezzi agricoli.
Sotto il grande porticato, gli uomini anziani, per combattere le ore più calde della giornata, se ne stavano appisolati sulle panche di legno, appena fuori dalle loro abitazioni. Sui tavolini di rovere massello erano posate alcune brocche di acqua fresca, “pescata” dal pozzo per dissetare i ragazzini che stavano giocando, mentre i vecchi, tra uno sbadiglio e una sventagliata del cappello a larghe falde sul viso per rinfrescarsi, si facevano versare dalle premurose massaie di casa un buon calice di vino rosso, il pincianel, un vinello decantato dal poeta milanese Carlo Porta nell’Ottocento e nel secolo scorso anche dagli scrittori Gianni Brera e Mario Soldati.       

 Una cascina lombarda con il tradizionale pergolato d'uva (cliccare sulle immagini per ingrandirle)

La pergola della famiglia Proserpio era la più grande e la più ricca di uva. Anselmo, il padre dell’attuale capofamiglia, venne ad abitare in cascina nell’ultima decade dell’Ottocento, a servizio del padrone, il conte Malinverni. Anselmo era un giovane di alta statura, biondo con gli occhi chiari, come certi montanari che provengono dalle valli alpine dell’estremo nord. Ma lui era nato in un piccolo paese del Triangolo Lariano, che si estende come una penisola incuneata tra i due rami del Lario: quello di Como e quello di Lecco.
Il conte aveva necessità di assumere un bravo bergamino per migliorare le tecniche di allevamento dei suoi bovini da latte. Il buon Anselmo si inserì così bene in cascina che, di lì a pochi anni, sposò l’unica figlia del conte, Maria Vittoria Malinverni, dalla quale ebbe un figlio maschio, Pietro Maria. Pochi giorni dopo il parto la mamma cominciò a deperire a vista d’occhio. A nulla valsero i consulti dei più rinomati medici cittadini, chiamati dal conte al capezzale della figlia: Maria Vittoria morì di una malattia allora sconosciuta. Era trascorso meno di un mese dal parto. Il dolore che afflisse il conte fu così forte che lo portò ad assumere la decisione di vendere la cascina Addolorata e tutti i terreni di sua proprietà. Si ritirò nella sua bella casa di Milano, ove, solo e depresso, morì pochi anni dopo, lasciando tutti i suoi soldi e le proprietà ad un noto orfanotrofio della città. Tranne un piccolo appezzamento di terra, circa quindici pertiche lombarde, che nel suo testamento lasciò al nipote Pietro Maria. La decisione del defunto di non lasciare tutti i suoi averi al nipote, il discendente a lui più prossimo, suscitò mormorii e pettegolezzi in cascina ed in paese, tanto da confermare le dicerie che circolarono in occasione del matrimonio di sua figlia col bergamino, secondo le quali il conte non benedisse mai quell’unione, anche se, per amore verso la figlia, mantenne un atteggiamento defilato.  


Verderio, curt del Legnamée (falegname) e del Murnée (mugnaio): la pergola ricca di uva americana di proprietà della famiglia Besana.

Sotto la pergola il vecchio Anselmo chiacchierava amabilmente con Gusten, Agostino Galbusera, l’uomo più vecchio della cascina, classe 1865, il quale raccontava quasi ogni giorno delle vicissitudini trascorse durante la Guerra di Abissinia, il conflitto al quale partecipò tra il dicembre del 1895 e l'ottobre del 1896. La guerra si concluse con una dura sconfitta per le forze armate del Regno d'Italia e con la perdita di diverse migliaia di soldati. Agostino ritornò a casa qualche mese dopo, nella primavera del 1897, e da allora non smise mai di raccontare ciò che vide in quel terribile periodo. I due vecchi avevano ormai troppi anni per lavorare nei campi e anche l’ortaglia era diventata troppo grande per le loro deboli braccia. Anselmo sapeva che la pergola lo avrebbe protetto ancora per poco tempo. Fumava il toscano, accarezzando, ti tanto in tanto con la mano destra, i capelli biondi del bambino.
“Nonno, perché non sei nel campo ad aiutare il papà?”
“Non posso, Vittorio, sono troppo vecchio per tagliare il grano”.
Il vecchio sventolò il suo cappello contro le mosche, attirate dal sudore che gli rigava le guance.
Il piccolo Vittorio, che ereditò il nome della nonna paterna, era il secondogenito di Pietro Maria, il figlio di Anselmo.
“Posso assaggiare l’uva, nonno?”
“E’ ancora un po’ indietro nella maturazione, mancano ancora dieci giorni a Sant’Anna”.


 Verderio, la pergola della cascina Isabella.  

Anna era la madre di Maria e la sua festa cade il 26 luglio. Molti riconoscono in Sant’Anna la propria patrona: i commercianti, le ricamatrici e le sarte, i naviganti e i minatori, le vedove. Ma la santa è invocata soprattutto dalle gestanti, alle quali in cambio di devozione garantisce il buon esito della gravidanza ed un parto agevole. Nelle camere dei contadini non mancava, oltre all’immagine della Sacra Famiglia appesa al muro, un’effigie di Sant’Anna: allora nel grande letto nascevano tutti i figli che la bontà di Dio voleva donare.:In alcune parti d’Italia la festa di Sant’Anna interrompeva i lavori di mietitura e trebbiatura. Narra la leggenda che un tempo, quando per separare i chicchi delle spighe dorate si usava il correggiato, oppure si facevano calpestare da una coppia di buoi, un contadino decise di rompere il tabù di lavorare nel giorno dedicato alla santa. I cerchi concentrici tracciati dai buoi che calpestavano le spighe divennero un vortice che sprofondò inghiottendo l’aia e tutto quel che conteneva. Infine la buca si riempì d’acqua. Il mito della nascita delle stagioni, dell’alternanza del periodo secco e di quello piovoso, è riprodotto dai contadini anche attraverso l’usanza di recarsi, durante la festa di Sant’Anna, in un luogo di balneazione. Che si trattasse di un corso d’acqua o di un laghetto, o ancora della riva del mare, lunghe teorie di carri agricoli trainati dai buoi trasportavano le famiglie. La pratica di gettarsi in acqua sembrava avere una valenza purificatrice, ma anche un auspicio di fecondità.
La festa di Sant’Anna, per il modo in cui veniva celebrata dai contadini, e per gli elementi che presenta la leggenda ad essa legata, con l’astensione dalle attività lavorative, il mito della voragine, la presenza dell’acqua, sembra ricollegarsi alle antiche celebrazioni di un culto agrario dedicato a Demetra la cui ricostruzione è più ipotetica che reale, ma di cui attraverso la pratiche tradizionali si riescono ad intravedere alcuni brevi tratti.

 Il vecchio Anselmo, per accontentare il nipotino, si alzò lentamente dalla panca di legno, accostò uno sgabello al muro e salì tanto quanto bastò per prendere un piccolo grappolo, uno dei più maturi.
“Vai in casa e chiedi alla mamma di lavarlo perché c’è su un po’ di verderame”.
Di ritorno, il piccolo iniziò a mangiare alcuni acini, ma il suo viso cominciò ben presto ad esprimere un certo disgusto. Anselmo sorrise. “Te l’avevo detto che non era ancora matura”.
Il bambino era una buona compagnia in queste giornate di luglio. Altri vecchi erano seduti sotto altre pergole. Lui li conosceva tutti. Erano in cascina perché l’osteria più vicina stava in paese ed era troppo rischioso, alla loro età, andare a giocare a carte con quel solleone. Le loro gambe non avrebbero retto la fatica ed il cuore avrebbe sofferto eccessivamente. No, la cosa più saggia era starsene sotto la pergola a riposare e chiacchierare con gli altri vecchi della cascina.

 Verderio, la "ridimensionata" pergola della cascina San Carlo, casina del Cürat. 

“Non vuoi assaggiare l’uva, nonno?”
“No, caro Vittorio, mai prima di Sant’Anna. E’ sempre stata una tradizione e io ho imparato, fin dalla tua età, che le tradizioni bisogna rispettarle”.
“Nonno, raccontami del signor conte. E’ vero che non voleva bene alla nonna?”
“Eh, tu sei piccolo, certe cose non le puoi capire. Quando andrai a scuola e sarai più grande, capirai che nel mondo ci sono i ricchi e i poveri, ci sono sempre stati, e non sempre vanno d’accordo. Il tuo bisnonno era una brava persona, ha dato da mangiare a tante famiglie qui in paese, ma aveva le sue idee. Secondo lui, e quelli della sua stirpe, una persona ricca non doveva sposarsi con uno che apparteneva ad una famiglia di contadini. C’erano di mezzo le proprietà e il buon nome del casato”.
“Allora io, quando sarò grande, non potrò sposare Rosangela, la figlia del macellaio?”
 “Certo che potrai sposarla. Tu diventerai un bel giovane, studierai, perché l’intelligenza non ti manca, e prenderai un pezzo di carta. Vedrai, i tempi cambieranno anche per noi povera gente e un giorno tu vivrai meglio di tuo nonno e di tuo padre”.

Il vecchio cominciò a guardare oltre il muro di cinta della cascina, verso le colline dell’alto Lario, dove si intravedevano le cime dei pioppi e dei grandi platani. In fondo, il campanile del paese rintoccava le quattro del pomeriggio. Poco prima del campanile c’era il campo che il conte lasciò in eredità a suo figlio, quello che mai aveva tradito un raccolto. Quando lavorava in quel campo sentiva la presenza discreta di sua moglie Maria Vittoria. Malgrado fossero trascorsi tanti anni dalla sua morte, la ricordava sempre con emozione. Una lacrima gli scivolò sul viso, fino ad inumidirgli i baffi ormai bianchi.
“Che cosa pensi, nonno?”
 “La terra, rispose Anselmo, ti dà molta soddisfazione, ma ti cava il sangue. Se ti va bene, dai da mangiare a tutta la famiglia, ma se un anno il tempo fa il matto, non ti restano neanche i soldi per pagare l’affitto al padrone”.
Il bambino sentì la mano di suo nonno stringergli forte la testa. Non si voltò verso di lui. Sapeva che stava lottando per non piangere. Lo faceva sempre più spesso, ultimamente. Nessuno però se n’era accorto, fuorché il piccolo Vittorio.

Beniamino Colnaghi

I personaggi ed i luoghi del racconto sono puramente immaginari.

lunedì 6 ottobre 2014

Leggende dal ghetto di Praga: il Vicolo Belele

Quinto post sulle leggende che riguardano personaggi e fatti avvenuti, molti e molti anni fa, nel vecchio ghetto ebraico di Praga.

Durante il periodo in cui a Praga governò Rodolfo II (1583 – 1610 circa), scoppiò una terribile epidemia fra gli ebrei della città, la quale fece vittime soltanto fra i bambini.
L’Angelo della Morte infieriva impietoso nelle case di Israele. Centinaia di cadaveri venivano portati ogni giorno al Bethchajim, l’antico cimitero ebraico di Praga e, molto spesso, rimanevano lì molte ore prima di poter essere sepolti. A causa di ciò ed anche per colpa delle esalazioni venefiche emanate dai cadaveri, la peste si diffuse ancor più rapidamente. 

L'arrivo dell'Angelo della Morte (Praga, museo del ghetto)
Lo strazio e la disperazione avvolsero la comunità ebraica e dal momento che l’epidemia si era manifestata esclusivamente nel quartiere ebraico, venne interpretata come una punizione scagliatasi sull’intera comunità. La maggior parte degli ebrei pensò che la causa potesse essere dovuta a qualche crimine commesso da elementi della comunità. Vennero intonate preghiere speciali, furono organizzate giornate di digiuno per espiare il peccato e implorare il Cielo di allontanare l’epidemia. Purtroppo, l’epidemia continuò a mietere vittime. I becchini continuavano a lavorare e seppellire senza sosta. Un ulteriore tentativo consistette nel radunare tutti i rabbini e le persone erudite di Praga per consultarsi sui rimedi da porre affinché si potesse fermare la furia dell’Angelo della Morte.

I rabbini indagarono dapprima su quale fosse la causa dell’epidemia, su quale fosse il crimine per il quale era stata inflitta alla comunità una posizione così severa. Nessuno, purtroppo, riuscì a trovare la vera ragione. Nella notte seguente, Rabbi Löw, che aveva preso parte alla riunione dei rabbini, cominciò a pensare profondamente alle cause ed alla possibile via d’uscita. Dopo alcune ore, stanco e sconsolato, andò a letto. Sognò che il profeta Elia veniva da lui e lo conduceva al Bethchajim, dove i cadaveri dei bambini uscivano dalle loro tombe. Quando il rabbino si svegliò, sudato e tremante, meditò a lungo sul sogno. Gli sembrò, da subito, un messaggio di Dio per aiutarlo a scoprire la vera causa della peste. Fece chiamare uno dei suoi allievi più preparati, al quale disse: “Senti, il Signore nostro Dio ci ha coperti di miseria e infelicità perché abbiamo peccato gravemente. Per scoprire di quale crimine ci siamo macchiati, ti chiedo di andare a mezzanotte nel cimitero e, quando vedrai i bambini uscire dalle loro tombe vestiti con le vesti bianche, strappa ad uno di loro il Tachrichim, la veste funebre, e portamelo.

La tomba di Rabbi Löw nel vecchio cimitero ebraico di Praga (1609)
Il ragazzo fece come gli era stato ordinato. Verso mezzanotte si recò al cimitero e attese con ansia, mista di paura, che i bambini uscissero dalle tombe. Quando l’orologio del municipio ebraico batté la mezzanotte, da sotto le pietre tombali cominciarono a venir fuori molti bambini piccoli vestiti di bianco, ondeggiando sopra le tombe e dando vita ad una bizzarra danza di spiriti. Un tremendo brivido si impossessò dell’allievo del rabbino il quale, con la poca forza rimastale, strappò ad un bambino la veste funebre e si affrettò a guadagnare il cancello d’uscita.


Arrivò a casa di Rabbi Löw senza fiato, raccontò ciò che vide e diede al rabbino la veste funebre strappata al bambino. 
Nel frattempo, al primo rintocco dopo mezzanotte, nel cimitero tutti i bambini cominciavano a scivolare nelle loro tombe. Tranne uno, il quale, accortosi che gli mancava la veste, si diresse a casa del rabbino. Si fermò davanti alla finestra illuminata e, implorando, tese le braccia nell’atto di riavere il suo vestitino, senza il quale non avrebbe potuto rientrare nella sua tomba. “Rabbi, restituiscimi il mio Tachrichim!” “Se vuoi riavere il tuo Tachrichim devi dirmi qual è la causa di questa epidemia.” Il bambino, dopo aver smesso di piangere e implorare, svelò il motivo per il quale la peste colpì così duramente la comunità ebraica praghese: in un vicolo non lontano dalla casa del Rabbi vivevano due coppie di sposi che conducevano una vita immorale, per questo l’epidemia era stata scagliata sulla comunità e non si sarebbe arrestata fino a quando le due coppie non fossero state punite. “E ora che io ti ho svelato la causa della peste, restituiscimi il mio Tachrichim.” Rabbi Löw mandò a chiamare le due coppie e inflisse loro una severa punizione perché avevano portato tanta morte, infelicità e miseria alla comunità ebraica. L’epidemia ebbe così fine.

Il vicolo nel quale abitavano le due coppie di peccatori ricevette dal popolo il nome di Vicolo Belele, composto dai nomi delle due donne vissute nella lussuria: Bella e Ella.
                                                                        
Beniamino Colnaghi

venerdì 19 settembre 2014

Lago di Pusiano

Il lago di Pusiano visto dal santuario di Nostra Signora di Lourdes di Monguzzo (Co)


sabato 13 settembre 2014

Verderio, la raccolta delle uova per finanziare la Chiesa

La raccolta di offerte per le più svariate necessità parrocchiali, dalle nuove opere da realizzare alle manutenzioni ordinarie e straordinarie, dall'abbellimento del patrimonio parrocchiale al mantenimento dei parroci ha assunto modi diversi in funzione delle epoche. Nelle società contadine, alle quali apparteneva Verderio fin dopo la seconda guerra mondiale, la raccolta di fondi era, in stragrande maggioranza, basata sulle offerte e sui prodotti dell'agricoltura e del piccolo allevamento di animali domestici. Terminata la stagione della mietitura e trebbiatura del frumento e della raccolta del mais, ad esempio, i coloni offrivano alcuni chilogrammi dei preziosi cereali, che variavano di anno in anno a seconda della generosità del raccolto. 
Per comprendere meglio come fosse strutturato il sistema di raccolta fondi, di seguito riporto le decisioni adottate a Montevecchia, Muntavégia in dialetto brianzolo, un comune collinare che dista una decina di chilometri da Verderio.
Per finanziare la nuova chiesa parrocchiale di Montevecchia, dedicata a San Giovanni Battista, la cui costruzione venne sollecitata dal cardinale Andrea Ferrari durante la visita pastorale del 1906, si previde un piano finanziario volto alla raccolta dei fondi necessari alla sua edificazione. Dopo quasi vent'anni di progetti e discussioni, nel 1925 si iniziò finalmente la costruzione della nuova chiesa, secondo il progetto Cabiati, da parte delle ditte Cogliati e Sironi. Per affrontare la spesa, già dal 1920 era stata aperta una sottoscrizione. Nel giugno del 1921 il parroco di Montevecchia, chiedendo alla Curia il nulla osta per la costruzione, poteva garantire il problema economico in questi termini: "I cespiti che provvederebbero i mezzi per affrontare la gravosa soluzione della nuova costruzione, sarebbero: sottoscrizione popolare, che ha già raggiunto le 80.000 lire circa; offerte domenicali delle uova (lo scorso anno diede più di 7.000 lire); offerta della giornata delle operaie; ricavi dei lavori festivi di pizzo e ricami (con permesso gentilmente concesso da codesta ven. Curia); ricavo trebbiatura frumento (L. 2.000 all'anno); offerte in grano, bozzoli, uva, prestazione gratuita di mano d'opera e di trasporto materiali...". 

Chiesa di Montevecchia





A costruzione avanzata si escogitò, come detto, il piano finanziario decennale dettagliato: i proprietari di fondi dovevano versare L. 1,50 ogni anno per ogni pertica; i coloni L. 1 all'anno per ogni pertica; gli esercenti L. 2.000 all'anno. Per raccolta uova, latte e diversi L. 10. 000 all'anno circa. Alcuni benefattori si erano impegnati con una libera sottoscrizione. In sostanza il piano decennale prevedeva (tra contributo proprietari, coloni, esercenti, raccolta latte e uova, offerte benefattori, fondo cassa) la cifra di lire 449.810.
L’impegno e gli sforzi dei residenti di Montevecchia permisero di veder coronato il loro sogno: la nuova chiesa parrocchiale venne completata nel 1930 e consacrata dal cardinale Alfredo Ildefonso Schuster nel 1933(1).

A parte il finanziamento delle opere di natura straordinaria, come la costruzione di chiese, oratori, edifici sacri, il sistema più praticato e capillare che le gerarchie ecclesiastiche usavano per reperire fondi, al fine di finanziare le attività ordinarie delle curie e delle parrocchie, erano i proventi incassati dagli  affitti di terreni e immobili, dalle offerte dei fedeli e da una sorta di “decima” composta di  generi alimentari, derivanti dalla coltivazione della terra, nonché di animali domestici, che le classi subalterne offrivano alla Chiesa. La “decima” era un vero e proprio tributo, già menzionato nella Bibbia, che nelle società contadine ha prolungato i propri effetti fin oltre la metà del XX secolo.


La pratica che più di ogni altra ha contribuito a raccogliere fondi per le parrocchie italiane è stata la raccolta delle uova di gallina, in dialetto öf de gaina.
La raccolta era in fase con il periodo di maggior abbondanza delle uova, ossia durante i mesi primaverili ed estivi. Essendo un prodotto delicato e fragile da trattare, i responsabili delle parrocchie dividevano il territorio comunale in zone e per ogni zona incaricavano alcuni giovani di recarsi presso ogni famiglia. Normalmente se ne occupavano le bambine e le ragazzine dai sei ai dodici anni.

Brianza, raccolta delle uova verso la metà degli anni Venti

Anche a Verderio Superiore le uova venivano raccolte “porta a porta”. Al fine di poter avere informazioni attendibili ho ritenuto indispensabile raccogliere dati pertinenti e oggettivi attraverso il metodo dell’inchiesta, con interviste ad alcune donne di Verderio. Le interviste dirette sono una delle tecniche più diffuse, non solo per raccogliere dati ed informazioni, ma anche per conoscere opinioni e motivazioni e sono il metodo di raccolta dati che preferisco, perché, oltre al piacere del dialogare con gli altri, si prefigge lo scopo di alimentare lo scambio di opinioni e di idee tra i due attori dell’interazione.

Il periodo storico analizzato abbraccia un ventennio ed è compreso tra la metà degli anni Quaranta, in sostanza subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, e la metà degli anni Sessanta. La raccolta avveniva normalmente il giovedì, giorno di chiusura della scuola elementare e si svolgeva secondo un programma messo a punto dalle suore dell’Immacolata dell’asilo Giuseppina Gnecchi (vedasi il post del 4 settembre 2012)(2), che assegnavano alle ragazzine raccoglitrici i percorsi e le zone del paese da seguire. Le incaricate si spostavano in coppia raggiungendo tutte le abitazioni dei residenti del paese, i quali, per libera volontà e secondo le loro disponibilità, deponevano le uova nelle ceste di vimini che le bambine portavano con cura sottobraccio. 

Verderio, asilo Giuseppina Gnecchi

La signora Agnese, allora bambina, che abitava con la sua numerosa famiglia alla fattoria ai Boschi, mi ha confidato che in paese si aprirono due scenari: da un lato le famiglie verderiesi che, per i più disparati motivi, non offrivano le uova alla Chiesa, dall’altro, invece, quei nuclei che aprirono una vera e propria gara a chi offrisse più uova. La mamma di Agnese era una donna generosa e offriva ogni settimana parecchie uova alla Chiesa locale. Nel depositare le uova nel paniere di vimini diceva, con la proverbiale saggezza contadina, che “la carità onesta esce dalla porta e rientra dalla finestra”. La signora Letizia, che avrà avuto sì e no dieci/undici anni, ricorda, in particolare, che partecipava alla raccolta delle uova durante la Quaresima. La signora Bruna è stata una delle ultime ragazzine a svolgere quel compito affidatole dalle suore. Mi ha raccontato che nei primi anni Sessanta, ogni giovedì, insieme ad un’altra giovane incaricata andava a piedi fino alla cascina La Salette, depositava le uova offerte in un cestino di vimini che poi consegnava alle reverende dell’Immacolata.
Il ruolo delle suore consisteva nell’organizzare e gestire le ragazzine che svolgevano le attività e annotare su un registro il numero delle uova raccolte. Le religiose consegnavano la merce in canonica ad un incaricato del parroco, che provvedeva ad avvisare il commerciante con il quale si era sottoscritto il migliore contratto di vendita. A cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta le uova venivano vendute al pollivendolo di Merate, ul pulireù Natale Cereda, che aveva un piccolo negozio vicino al bar La Pianta di piazza Italia.     

La bicicletta di un pollivendolo esposta in un museo contadino

Terminato il periodo stagionale di raccolta “porta a porta” delle uova, sul bollettino parrocchiale il parroco di Verderio Superiore si dava cura di informare con diligenza i parrocchiani dei proventi ricavati dalla vendita.
A partire dai primissimi anni Sessanta, il boom economico e i profondi cambiamenti intervenuti nella struttura sociale della società contadina hanno mutato antiche e consolidate tradizioni secolari.  
Dalle informazioni assunte durante le interviste, pare che la raccolta delle uova per finanziare le attività parrocchiali abbia cessato di essere svolta verso la fine degli anni Sessanta.

Beniamino Colnaghi


martedì 9 settembre 2014

Lev Tolstoj

Lev Nikolaevič Tolstoj (Jàsnaja Poljana, 9 settembre 1828 – Astàpovo, novembre 1910)

Chi fosse interessato ad approfondire la biografia del grande romanziere russo, può farlo consultando i due articoli postati il 14 ottobre 2012 e il 19 novembre 2013.