lunedì 25 gennaio 2016

27 gennaio, “Giorno della Memoria”
Il lager femminile di Ravensbrück
 
La prima donna uccisa a Ravensbrück fu una zingara, detenuta in un bunker per malati di mente. Il lager tedesco è stato l’orrore nazista declinato al femminile, il campo di concentramento a maggioranza femminile, aperto nel maggio 1939 a nord di Berlino. Se Terezin(1) venne definito il lager dei bambini, Ravensbruck lo fu delle donne. Oltre alle prigioniere politiche e, in minima parte alle donne ebree, vi venivano rinchiuse e torturate donne definite “asociali”: senza fissa dimora, malate di mente, disabili, Testimoni di Geova, zingare, lesbiche, vagabonde, prostitute, mendicanti, ladre. Donne considerate di razza inferiore e reiette che andavano corrette, punite ed estirpate dalla società per evitare che contagiassero gli “ariani”.
Una storia dunque di genere, ma soprattutto di persone concrete.

 Donne in una baracca-dormitorio
 
Il 29 giugno 1939 giunsero al campo, provenienti dall'Austria, 440 deportate zingare insieme ai loro figli. L’internamento totale delle zingare raggiunse le 5.000 unità.
Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale e la successiva invasione nazista della Polonia, il 23 settembre 1939 cominciarono ad arrivare nel campo le prime prigioniere polacche e dagli altri territori occupati dell'est europeo.
Quando una nuova prigioniera arrivava a Ravensbrück era obbligata ad indossare il Winkel, un triangolo di stoffa colorato, che identificava il motivo di internamento; sul triangolo era applicata una lettera che identificava la nazionalità. Le deportate polacche, che divennero la maggior componente nazionale nel campo a partire dal 1942, indossavano normalmente un triangolo rosso (deportate politiche) con una lettera "P". Le donne ebree, prima del trasferimento verso Auschwitz, indossavano un triangolo giallo, alcune volte sovrapposto con un secondo triangolo per indicare altri motivi di internamento. Le criminali comuni indossavano il triangolo verde, i Testimoni di Geova il triangolo viola. Le zingare, le prostitute e le “asociali” venivano identificate da un triangolo nero. 

 Prigioniere polacche nel campo

A Ravensbrück vennero imprigionate anche donne ritenute importanti dai nazisti, tutte possibili merci di scambio. Furono internate la sorella del sindaco di New York Fiorello La Guardia, una nipote del generale De Gaulle, contesse dell’alta aristocrazia polacca, Milena Jesenská (intellettuale e scrittrice ceca nonché “amante” di Kafka), la suora Elise Rivet ed Olga Benario(2), ebrea-comunista e militante nella Resistenza a Berlino. L'esecuzione più massiccia, circa 200 vittime, venne realizzata contro un gruppo di giovani patriote polacche appartenenti all'Armia Krajowa. Vi fu prigioniera Margarete Buber Neumann, scrittrice tedesca, comunista, arrestata in Unione Sovietica, passò anni nei gulag staliniani perché accusata di trotzkismo e fu consegnata ai nazisti nel 1940, nel quadro dell'alleanza russo-tedesca. Sopravvisse al lager e lasciò testimonianza nei suoi commoventi libri Prigioniera di Hitler e Stalin, edito da il Mulino e Milena, uscito con Adelphi, dedicato alla sua amica Jesenská, morta nel campo di prigionia nel maggio del 1944.

Milena Jesenská

Nel lager si compirono anche esperimenti chirurgici su cavie umane. Le prigioniere vennero usate come cavie per esperimenti effettuati dai medici del campo. I primi “test” riguardarono nuovi farmaci destinati alla cura delle infezioni delle ferite dei soldati al fronte. Le internate vennero deliberatamente ferite e fratturate e infettate con batteri virulenti. Per meglio simulare le infezioni in alcune ferite furono introdotti pezzi di legno, vetro o stoffa, attendendo poi lo sviluppo della cancrena. Le ferite venivano successivamente curate con i nuovi farmaci per verificarne l'efficacia. Altri esperimenti si fissarono sullo studio del processo di rigenerazione di ossa, muscoli e nervi e la possibilità di trapiantare ossa da una persona all'altra. Alcune donne subirono amputazioni, fratture e ferite. Tutte le donne sottoposte a esperimenti rimasero gravemente debilitate a livello sia fisico sia psichico. Alcune di esse morirono, altre vennero uccise successivamente nel campo. Oltre 130 donne zingare vennero sterilizzate a Ravensbrück per saggiare l'efficacia dei nuovi metodi tedeschi, basati su raggi X, chirurgia e diversi farmaci. Questi esperimenti di sterilizzazione ebbero come ultimo scopo la sterilizzazione forzata di milioni di persone considerate "indesiderabili" per il "nuovo ordine mondiale nazista". Le donne, inoltre, erano costrette in continuazione a spogliarsi davanti agli uomini in divisa, che le umiliavano, deridevano, mortificavano oltre ogni limite.

Nel più grande campo femminile della Germania nazista era naturale che si presentasse il problema del soprannumero dei neonati e dei bambini. I neonati e i bambini fanno parte a sé. I primi nascono qui da donne che arrivano incinte, gli altri giungono con le madri. C'è una sala operatoria che funge anche da sala parto. All'inizio vi vengono praticati aborti su "ariane", rimaste incinte da "razze inferiori"; successivamente per far abortire tutte le prigioniere inviate al lavoro. Serve anche per sterilizzare donne e bambine zingare ed ebree, per impedire la riproduzione di quel gruppo etnico.
I primi bambini raggiunsero il campo nel 1939, insieme alle loro madri zingare provenienti dal campo di Burgenland, in Austria. In seguito molte madri ebree olandesi, francesi, ungheresi giunsero insieme ai figli. Dal 1942 le donne che erano incinte al momento dell'internamento erano obbligate all'aborto appena la gravidanza veniva scoperta oppure venivano selezionate per l'immediata uccisione. Ciò per non disturbare la produzione. L'aborto era praticato fino all'ottavo mese e il feto bruciato in un forno. Dal 1943, le autorità SS del campo permisero alle donne incinte di portare a termine la gravidanza, ma i neonati venivano subito strangolati o annegati in un secchio d'acqua davanti alla madre.  
I nazisti furono attentissimi alla non proliferazione delle “razze sub-umane” e ai matrimoni o accoppiamenti misti con tali razze, per evitare il pericolo di "contaminare" l'unico germe sopravvissuto puro della razza ariana, quella germanica. Essa invece, secondo le vagheggianti visioni hitleriane, era destinata come "razza eletta" a ripopolare il mondo e riportarlo alla bellezza primordiale in un nuovo mondo ripulito con il genocidio dalle "razze inferiori", evitando così la "corruzione biologica" del genere umano che era invece avvenuta nei secoli passati fino a quel momento. I bambini di queste razze rappresentavano perciò, per i nazisti, il pericolo primario della continuazione futura della specie degli "indesiderabili". A centinaia di migliaia vennero immediatamente uccisi: soffocati dal gas insieme alle loro madri, uccisi con iniezioni di veleno, bruciati, massacrati a bastonate, fucilati, gettati vivi nelle fosse comuni o usati come tiro al bersaglio. Le donne incinte dovevano sparire dalla faccia della terra.
Lo sterminio dei bambini nei lager avveniva in tanti modi a seconda dei modi vigenti nei campi. A Ravensbrück esisteva una saletta adibita a "Kinderzimmer" in cui i piccoli venivano abbandonati a morire di fame e lasciati in pasto ai topi. La parola "kind" era sinonimo di raccapriccio nel campo.
Statistiche certamente incomplete riportano in 882 il numero totale di bambini deportati a Ravensbrück, non comprendenti tuttavia quelli nati nel campo, che pare fossero sui 500. Solo cinque sopravvissero alla prigionia grazie a catene umanitarie.

Prigioniere al lavoro (fonte Wikipedia.it da Archivio di Stato Tedesco)

All’apice del suo funzionamento, il campo era popolato da 45mila detenute. In totale si stimò che passarono circa 120mila donne, su un totale di 130mila internati. Un numero considerevole, anche se non paragonabile, certo, alle fabbriche della morte di Auschwitz-Birkenau o di Treblinka. Tra la fine del 1944 e l’inizio del 1945, i nazisti, consci del fatto che stavano perdendo la guerra, stabilirono l'eliminazione giornaliera di gruppi di prigionieri. Ciò faceva parte dei piani di evacuazione del lager in vista dell'arrivo dell'Armata Rossa. Si doveva liquidare la popolazione del campo in fretta sterminando, oltre alle detenute inabili al lavoro, anche quelle che non potevano camminare per lunghe marce, le intrasportabili, testimoni delle atrocità naziste o donne politiche scomode. Nel ’44 venne costruito un terzo forno crematorio e nel mese di gennaio ’45 il comandante del campo, per riuscire ad eliminare tutte le numerose deportate selezionate per lo sterminio, decise di usare il gas. Fece iniziare in tutta fretta la costruzione di una camera a gas in una baracca di legno vicino, per ovvie ragioni logistiche, al crematorio. La grande morìa di prigioniere però era soprattutto dovuta allo sfinimento fisico per lavoro, dissenteria, fame e alle epidemie che infuriavano nel campo.
Il 30 aprile 1945 il campo di Ravensbrück fu finalmente liberato dalle forze dell’Armata Rossa. I sovietici vi trovarono 3.000 prigioniere scampate all'evacuazione e circa 300 prigionieri uomini, per la maggior parte gravemente ammalati e completamente denutriti. Poche ore dopo le unità sovietiche in avanzata, salvarono anche le scampate alla marcia della morte.

Beniamino Colnaghi

Note


1 Il campo di concentramento di Terezin: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.cz/2012/03/terezin-il-lager-dei-bambini-in-ricordo.html

venerdì 22 gennaio 2016

Erba, 30 settembre e 1° ottobre 1944
I tragici bombardamenti aerei sulla città

Nel mese di agosto del 1944, gli Alleati vennero a conoscenza della presenza di alcuni serbatoi di carburante tedeschi nella periferia sud di Erba (Como). Nei giorni successivi, a più riprese, dei ricognitori americani sorvolarono la zona interessata ed effettivamente individuarono l'obiettivo, situato alla periferia meridionale del Pian d’Erba, proprio vicino alla ferrovia, in località Sassonia, dal nome di una delle numerose cascine del piano. Proprio lì i tedeschi e i repubblichini di Salò collocarono un deposito di carburante e di autocarri. Ad Erba avevano sede i comandi della Wermacht e delle SS e in quelle zone dell’Alta Brianza operavano reparti dell’esercito tedesco e diverse squadre di fascisti.

Sabato 30 settembre 1944 sembrava una giornata come tutte le altre, ad Erba. Il cielo era azzurro, l’aria tersa. Il clima era caldo, come se fosse ancora piena estate. I contadini erano occupati nei lavori dei campi o intenti a vendemmiare tra i filari delle viti. Da dietro le montagne del Triangolo Lariano, nel primissimo pomeriggio, si videro spuntare due squadriglie di aerei bombardieri. Per anni si pensò fossero inglesi. Invece, molti anni dopo, nei primi anni Novanta, si scoprì, grazie a un cittadino erbese negli Stati Uniti per ragioni lavoro, che ebbe l’opportunità di documentarsi presso il centro di ricerche storiche dell’aviazione, che erano bombardieri americani, partiti dalla base di Poretta, in Corsica. I velivoli decollati erano diciannove Martin B-26, divisi in due squadriglie. Su Erba arrivarono però, per sua fortuna, solo dodici bombardieri, perché sette rientrarono in anticipo alla base per problemi tecnici.

 Bombardiere B-26 (fonte Wikipedia, l'enciclopedia libera - foto nel pubblico dominio)

Erano dunque le 13,26 quando i bombardieri sganciarono sul Pian d’Erba, sulle case di Incino, della Rovere, del Pradelmatto, della Marella ben 360 bombe da 45 kg cadauna. Nessuna bomba, però, colpì l’obiettivo, ossia il deposito di carburante. A causa di un errore di puntamento, commesso dal capo squadriglia, tutti i velivoli sganciarono gli ordigni troppo presto. Infatti i puntatori dei bombardieri sbagliarono campanile, liberando le bombe, anziché sulla verticale della torre di Incino, sulla verticale del campanile di Santa Maria Nascente, che si trova un chilometro più a nord. Fu così che gli ordigni esplosivi piombarono sul rione di Incino, anziché sul deposito di carburante in località Sassonia, posto un chilometro più a sud. Un errore clamoroso. Oltre che feroci e disumani, a causa dello sganciamento di bombe a grappolo sulla popolazione, gli Alleati, in quell’occasione, furono pure degli incapaci.  
 
Mappa del percorso effettuato dai bombardieri

Le conseguenze furono disastrose. Le bombe rasero al suolo solo edifici civili, tra cui moltissime case rurali, colpirono una tratta di circa 200 metri della linea ferroviaria Erba-Merone e abbatterono alcuni tralicci di sostegno della linea elettrica della zona. Solo ad Incino rimasero sul terreno oltre settanta morti. I feriti furono più di 300. Nel lavatoio pubblico, poco vicino alla millenaria torre romanica, quattordici donne stavano facendo il bucato. Una bomba colpì in pieno il piccolo edificio. Morirono tutte.
In città scoppiò subito il panico. I feriti furono subito soccorsi con le poche barelle e le lettighe a mano. La maggior parte vennero ricoverati all’ospedale locale, mentre altri, con l’auto della Croce Rossa, furono trasportati al Valduce di Como. Il prevosto di Santa Maria Nascente, don Erminio Casati, accorse subito nelle zone interessate, trovandosi davanti uno spettacolo agghiacciante. Benedì i cadaveri e organizzò i soccorsi insieme al Podestà di Erba.
La mattina del giorno seguente, 1° ottobre, nei luoghi bombardati giunse il cardinale Ildefondo Schuster, arcivescovo di Milano, il quale incontrò la popolazione, ebbe parole di conforto per i fedeli e offrì un congruo aiuto finanziario alle famiglie colpite. Il cardinale fece appena in tempo a lasciare i luoghi dei bombardamenti che una nuova pioggia di bombe si abbatté sulla zona.  Più o meno alla stessa ora del giorno precedente, ecco rispuntare di nuovo 18 bombardieri che, in questo secondo tentativo, scaricarono altre 517 bombe, un numero superiore rispetto al giorno precedente, provocando altri morti e feriti tra i civili. Questa volta l’obiettivo venne centrato. Ma a quale prezzo?
Complessivamente il numero dei morti fu 86, alcuni dei quali si spensero anche alcuni mesi dopo, a causa delle gravi ferite riportate.

Manifesto affisso per la raccolta fondi a favore della popolazione colpita (fonte sito del Comune di Erba)
 
 La chiesa di Sant'Eufemia (fonte sito Comunità pastorale di Erba)
 
 
Lunedì 2 ottobre si celebrò il funerale solenne nella chiesa prepositurale di Erba, al quale partecipò, con grande commozione e dolore, una grande folla sgomenta.
L’elenco delle persone morte è inciso su due lapidi poste dentro una cappella della chiesa di Sant’Eufemia.
 
Beniamino Colnaghi

Bibliografia e sitografia
Emilio Magni, Erba 1944. I giorni dei bombardamenti aerei, Cantù, Canturium, pag. 15-20.
Comune di Erba: http://www.comune.erba.co.it/html/storia/art_10_1944.htm
Chiesa di S. Eufemia: http://www.santaeufemia.it/comunita/home/chiesa-di-s-eufemia

martedì 12 gennaio 2016

Le trasformazioni sociali e culturali avvenute in Brianza negli ultimi due secoli

In Italia, per molti secoli la legge santificò lo sfruttamento da parte di una casta di privilegiati di una folla sterminata di “sudditi” che mai avevano potuto sperimentare le basi seppur minime della cittadinanza e della democrazia, che erano stati educati a considerare legge di natura, o legge divina, la divisione del mondo tra potenti e impotenti. Per un popolo composto in massima misura da contadini, che nel 1861 (Unità d’Italia) raggiungeva circa l’80% di analfabeti, l’unica alternativa possibile appariva quella tra il padrone cattivo e quello buono, immaginato di volta in volta nelle vesti ora del principe illuminato, ora del papa re, ora dell’uomo della provvidenza, ora del duce. La legge restava comunque la voce del vincitore di turno in un’ininterrotta lotta per il potere che si giocava sempre sopra la testa e spesso sulla pelle del popolo, mandato al massacro come carne da cannone in battaglia e strumentalizzato dalle varie fazioni di potenti. Considerato che in quel periodo storico i contadini erano condannati all’ignoranza, alla superstizione ed alla fame, e che in Italia meno del 10% della popolazione concentrava nelle proprie mani circa il 90% della ricchezza nazionale, la legge era, come scriveva Gaetano Salvemini, “la voce del padrone”.

I territori che formavano la Brianza(1) nell’Ottocento, e fin oltre la prima guerra mondiale, erano tra i più poveri della Lombardia. Terre non sempre fertili, pellagra endemica e sfruttamento dei grandi proprietari terrieri erano i tre cardini attorno ai quali si snodava la quotidianità dei contadini e delle loro numerose famiglie. Dal punto di vista della proprietà e del potere di disporre la lavorazione dei terreni troviamo due attori principali: la Chiesa e le famiglie dell’aristocrazia lombarda che, residenti a Milano gran parte dell’anno, delegavano la gestione ed il controllo dei possedimenti a uomini di fiducia. I contadini, abitanti delle numerose cascine di proprietà dell’aristocratico, regolavano i loro rapporti con i proprietari terrieri con i contratti di mezzadria, trasformatisi poi nei cosiddetti “rapporti parziari”(2).

Brianza, carta topografica dello Stato di Milano (1777)

La famiglia mezzadrile era patriarcale e organizzata attorno all’uomo più anziano detto reggitore o, dialettalmente, regiù. Poteva essere composta da più coppie e anche da membri affini, essendo la sua estensione direttamente collegata all’ampiezza del terreno per il quale si poteva essere chiamati a lavorare con un contratto di mezzadria firmato tra il capo-famiglia e il padrone, o fattore (suo delegato). I contadini offrivano la forza lavoro e una parte dei mezzi di produzione, il padrone rendeva disponibile il proprio appezzamento di terra. In cambio, la famiglia mezzadrile riceveva i prodotti sufficienti per la sussistenza, mentre tutto il rimanente, il plus-valore, era dato al proprietario terriero che lo immetteva nei mercati e lo trasformava in moneta.
La mezzadria in Brianza fu dunque un sistema strutturato, fondato su un potere molto ingiusto in cui gli obblighi economici e sociali e al senso di lealtà della famiglia contadina si contrapponeva l’impegno di protezione e di aiuto nelle situazioni di emergenza da parte del proprietario. L’autorità di stampo paternalistico che emanava dal suo ruolo sociale, coadiuvata dal prestigio e della propria reputazione, costituivano le basi su cui si fondava il rapporto tra proprietario e famiglie mezzadrili. Le successive modificazioni dei contratti di mezzadria verso i contratti colonici parziari e la frammentazione delle proprietà terriere non hanno comunque cambiato la questione di fondo: l’estrema povertà e subalternità dei contadini lombardi pur essendo l’attiva forza lavoro al centro di un mercato ricco completamente regolato dai proprietari terrieri. Le famiglie contadine, infatti, seppur in possesso di forza lavoro e mezzi di produzione, non riuscivano mai a farsi attori centrali del loro lavoro, essendo i patti agrari stipulati sempre a favore del proprietario terriero. L’impossibilità di uscire dalla loro condizione subalterna aveva due possibili soluzioni: l’emigrazione, poco praticata nella zona, oppure l’esercizio di un secondo lavoro che garantisse una ulteriore fonte di reddito. Numerose famiglie affiancarono all’agricoltura un’attività nel settore della manifattura della seta. All’incirca dalla fine di aprile ai primi di giugno i contadini dovevano anche seguire l’allevamento del baco da seta, molto sviluppato nella zona brianzola e in quella comasca. Questa in realtà si dimostrò in parte una soluzione, perché incapparono nuovamente in rapporti di produzione subalterni e di pesante sfruttamento.

Intere famiglie coloniche intente a lavorare il baco da seta

Come già accennato in precedenza, l’affiancare attività lavorativa nella manifattura a quella agricola era una soluzione praticata da molte famiglie di mezzadri per limitare l’impatto della povertà. La disoccupazione stagionale del mezzadro è la chiave di volta per lo sviluppo industriale, perché prestando la propria opera a tempo parziale presso le manifatture contribuiva ad alzare il proprio livello di reddito e poi anche a dare la spinta iniziale per la nascita di un sistema industriale che lentamente soppianterà l’agricoltura così come era conosciuta. Nacque quindi la cosiddetta famiglia contadino-artigiana, anche se il passaggio non fu facile. Non fu facile né immediato perché in Brianza i patti mezzadrili sancivano il divieto per tutti i componenti della famiglia di svolgere un altro lavoro, pensa la disdetta del contratto. Anche i contratti di affitto dei coloni, prima della seconda guerra mondiale, impedivano quasi ogni forma di libertà. Nessun membro della famiglia dei coloni poteva scegliere di fare un lavoro diverso dal contadino, pena il licenziamento di tutta la famiglia.
Oltre alle spese di affitto per il fondo, il colono doveva prestare la sua opera alle dipendenze del proprietario terriero in alcune giornate dell’anno, come riportato nel “Libretto Colonico” che ogni famiglia contadina possedeva (art. 1662 e 1663 del Codice Civile del Regno d’Italia, anno 1886).
Alcuni storici hanno sostenuto che questi seppur lenti mutamenti hanno portato alla progressiva riduzione delle forme di patriarcato, così come conosciute storicamente. Il fatto che donne e giovani avessero accesso ad un lavoro, in filande e opifici, e quindi producessero reddito, ha di fatto sgretolato le basi del potere sia carismatico sia economico del patriarca, dando vita alla cosiddetta “famiglia moderna” basata su relazioni umane e rapporti di potere completamente diversi da quelli precedentemente vigenti. Certo, questo cambiamento, seppur corretto dal punto di vista storico, va contestualizzato temporalmente soprattutto in riferimento alla variabile demografica e a quella del mutamento dei rapporti di produzione. In particolare, si sosterrà che la modificazione del patriarcato non ha portato ad un assetto familiare più egualitario, bensì ad una divisione del lavoro basato sul genere. In realtà, stando ad alcune ricerche di studiosi non sembra che l’evoluzione da famiglia patriarcale allargata a quella nucleare fondata sul potere del marito sia stata precoce e veloce. Nelle ricerche di archivio, e nelle interviste agli anziani, emerge il dato che ancora negli anni Venti e Trenta del Novecento il regiù era un individuo temuto e rispettato che vedeva in gran parte riconosciuto il capitale di autorità che veniva concesso ai suoi pari di status nel secolo precedente. La famiglia allargata, nonostante portasse al proprio interno delle contraddizioni e delle tensioni dovute al mutamento economico in atto, rimaneva sempre una soluzione sociale adatta per diffondere aiuto in caso di bisogno e unire le forze qualora fosse stato necessario.
Vale la pena a questo punto citare integralmente quanto dice il n. 1922 della rivista Antropologia, riguardo alla famiglia durante le prime fasi della proto-industrializzazione: “In cascina c’erano tre o quattro generazioni. Quando un nipote si sposava, lì in casa gli trovavano un posto, magari nelle camere insieme alla mamma e al papà. […] C’era magari chi lavorava alla Sorrenti [antica fabbrica della zona], invece, e faceva la squadra, chi lavorava fino alle 2 del pomeriggio, poi dopo venivano a casa e andavano in campagna a lavorare la terra. E c’erano quelli che andavano a Milano, ed erano a casa il sabato o la domenica, e anche loro dovevano andare ad aiutare il regiù. […] Era il capofamiglia che li teneva sotto tutti. Il regiù allora era il duce della casa. Guai a mancargli di rispetto. Quello che diceva lui era vangelo” (p. 74).
Ne segue che un giovane operaio contadino, almeno fino agli anni Trenta, aveva poca libertà di movimento proprio, mentre i due vincoli fondamentali della sua esperienza erano la necessità di essere solidale con la famiglia e di rispettare il capofamiglia.

Brianza, spannocchiatura del granoturco

Furono diversi i motivi storici e sociali che portarono agricoltura e industria a contaminarsi, come le fluttuazioni dei prezzi, l’indebitamento crescente dei contadini nei confronti dei proprietari terrieri, l’aumento continuo degli affitti e l’incertezza climatica che minacciava i raccolti. Poi ci furono anche i fattori favorenti questo incontro, come la stagionalità dell’agricoltura, che permetteva la liberazione di forza lavoro da collocare negli opifici in particolari periodi dell’anno. Altra variabile, quella di genere e età, che vedeva donne e bambini, meno produttivi in agricoltura, rivelarsi forza lavoro eccellente in fabbrica. Ciò portò quindi ad una massiccia divisione del lavoro, collocando il lavoro in fabbrica come inferiore e sminuente, adatto appunto a donne e bambini, portando gli uomini a ritenerlo come ultima possibilità per loro stessi.
Nonostante la frammentarietà delle informazioni sui mestieri di ciascun familiare del gruppo domestico, i dati raccolti dalla rivista Antropologia consentono comunque di affermare che praticamente quasi ogni famiglia era coinvolta in molteplici attività lavorative, in campo agricolo, artigianale e industriale, per ridurre la vulnerabilità economica.
Gli imprenditori e i proprietari terrieri traevano enorme vantaggio da questa ibridizzazione, perché questa alleanza permetteva di avere forza lavoro senza entrare in competizione e garantendo comunque un livello minimo di sussistenza. In pratica, i contadini-operai erano sfruttati due volte: i contratti agricoli erano completamente vantaggiosi per il proprietario terriero, la produzione in fabbrica era delegata a donne e bambini sottopagati, remissivi e facilmente licenziabili senza provocare grandi tensioni sociali, avendo questi sempre potuto contare sui magri proventi agricoli della famiglia.
Il sistema ibrido mostrò ben presto i propri limiti, soprattutto in termini di efficienza. Dopo l’unificazione d’Italia e il conseguente allargamento dei mercati, la domanda di manufatti crebbe enormemente, come crebbero le tipologie di articoli prodotti e la qualità richiesta dalla clientela. Occorreva riorganizzare la produzione in fabbrica, meccanizzarla e standardizzarla: turni stagionali composti di donne e bambini non potevano più essere la base produttiva. Le assenze sul lavoro per motivi agricoli, prima consentite attraverso uno speciale permesso, divennero vietate e punite con ammende. I tempi di produzione dovevano essere ridotti, il lavoro a domicilio entrò in crisi a causa della bassa standardizzazione e molti operai furono costretti a pagare di tasca propria delle multe per la bassa qualità dei prodotti che avevano realizzato. Le condizioni di lavoro in ambienti malsani, i ritmi sempre più accelerati e la paura delle sanzioni su errori e rallentamenti produttivi spinsero gli operai e le operaie alle prime sommosse e ai primi scioperi, che tra il 1898 e il 1900 fecero perdere un totale di 20 giornate lavorative. Le proteste dei lavoratori fecero organizzare gli imprenditori, che nel 1901 si riunirono nella Federazione fra gli industriali Monzesi, la prima del genere in Italia.
L’esito dell’ibridazione non produsse i risultati sperati per le famiglie contadine e operaie.
Per i contadini della Brianza, la prospettiva di trascorrere una vita intera in fabbrica era chiaramente una scelta di ripiego necessaria per far fronte all’indigenza. Tuttavia, il denaro guadagnato da donne e bambini non sempre portò grandi benefici e la combinazione di lavoro agricolo e industriale divenne massacrante per i membri delle famiglie brianzole. L’ibridazione tra lavoro agricolo e di fabbrica portò a ripensare il concetto di “famiglia contadina”. La transizione tra “famiglia contadina” e “famiglia proletaria” non fu veloce né netta, ma trovò molteplici articolazioni in funzione sia del tipo di lavoro svolto e del numero e del genere dei suoi componenti, sia delle fasi di superamento dei rapporti di mezzadria, che videro i contadini affrancarsi gradualmente dai proprietari e diventare sempre più dipendenti da relazioni di mercato, da prezzi e da salari, pur rimanendo nel mondo “agricolo”.
 
Brianza, fiera del bestiame nei primi anni Sessanta

Dopo alcuni anni di crisi, alla fine degli anni Trenta si registrò una notevole crescita della attività manifatturiere, stimolate sia dallo sviluppo di grandi fabbriche sia dalla politica industriale del fascismo in ambito militare. Fu in questo periodo che si strutturarono le reti di imprese, di subfornitura, e si concretizzò una prospettiva imperniata attorno al lavoro autonomo artigianale. Emersero le prime personalità imprenditoriali capaci, a partire da posizioni di operaio e da corsi di studio serali, di costruire imprese produttive e innovative, organizzando capitali e risorse umane in imprese metalmeccaniche, in un ambiente che fino a pochi decenni prima era stato quasi completamente agricolo. Divenne quindi di primaria importanza “imparare un mestiere”, categoria complessa fatti di apprendimenti impliciti ed espliciti, concreto saper fare, esperienza sviluppata al contatto con artigiani durante l’apprendistato e capacità di arrangiarsi a creare ciò di cui si aveva bisogno qualora non lo si trovasse già realizzato.
Il passaggio ad imprenditori segna una svolta, perché l’imprenditore non ha come confini quelli aziendali, ma lavora interagendo con una moltitudine di attori: ecco allora che l’abilità tecnica, il saper fare bene, la voglia di fare costituiscono un capitale per costruirsi una reputazione, capitale simbolico per persuadere soci sull’opportunità di iniziare una nuova impresa, per convincere i clienti a dare la loro fiducia con le prime commesse, per creare insomma quell’ecosistema dell’impresa che ha la fiducia professionale e interpersonale alla propria base.
Il passaggio da lavoratore salariato ad imprenditore è quindi un processo complesso che si snoda tra passato e futuro, tra conoscenze acquisite e necessità di fare spazio a nuove competenze e atteggiamenti per realizzare quella sintesi vincente che porta ad iniziare una attività artigianale autonoma che funzioni. Tra gli anni ’50 e ’60, quelli del miracolo italiano, vedono il distretto della Brianza animato da una generazione di ex dipendenti di aziende spesso malconce e disorganizzate dare una svolta alle loro carriere diventando una generazione di imprenditori capaci di imparare un mestiere tra mille difficoltà e di fare i necessari sacrifici propri di chi voleva avviare una attività ex novo. Questa nuova categoria di persone metteva grande enfasi sulla capacità di aver “rubato” le abilità del mestiere all’artigiano che li aveva assunti, la “voglia di lavorare”, la destrezza manuale acquisita, il senso di concretezza e di saper arrangiarsi, di essere produttivi senza dover aspettare niente e nessuno. La “capacità pratica” è il fulcro della loro epopea professionale.
Questi nuovi imprenditori, per usare termini marxiani, posseggono capitale fisso (mezzi di produzione), capitale variabile (manodopera) e plusvalore (controllo su processo di valorizzazione e accumulazione), pur continuando ad essere, rispetto ad altri imprenditori industriali, anti-intellettuali. L’imprenditore operaio/artigiano è, a vari livelli, coinvolto personalmente nel processo di lavoro (e così anche i membri della propria famiglia, coinvolti nelle attività dell’impresa attraverso una combinazione di lavoro salariato e non retribuito) e continua a riprodurre in reparto quel senso della praticità sviluppato negli anni di lavoro operaio. Questo potrebbe spiegare l’atteggiamento “anti-intellettualista” che ancora domina il proprio senso degli affari e che acuisce l’avversione culturale verso i capitalisti industriali…

Comizio della Democrazia Cristiana in un comune della Brianza

Nei distretti della Brianza, fino a qualche anno fa, quasi tutti gli imprenditori iniziarono la loro carriera lavorativa come operai, e ne mantennero in gran parte gli atteggiamenti, la mentalità, i valori di riferimento e le esperienze vissute al tempo del loro apprendistato. Le carte vincenti in mano a questi imprenditori sono state sicuramente la proprietà fondiaria, un capitale culturale di studi tecnici e esperienza concreta “sul campo”, un capitale finanziario iniziale necessario per avviare l’attività e un sistema sociale, parentale ed economico che ha aiutato la transizione da operai a imprenditori. In Brianza, terra di forti tradizioni cattoliche, in quegli anni hanno contato anche altri fattori simbolici su chi, ad esempio, assumere in fabbrica o quale imprenditore privilegiare al credito: il buon nome e la solidità della famiglia e la solidarietà di matrice cristiana.
Le variabili familiari sono importanti e centrali: il sostegno della famiglia è fondamentale per compiere il periodo di apprendistato quando si è giovani, è un fattore di mediazione per l’inserimento lavorativo da operai grazie alla rete parentale e amicale, è cruciale nel garantire collaborazione produttiva quando si costituisce una impresa familiare, è il futuro dell’attività che si rispecchia nei figli, è la compagine societaria che annovera soci tra fratelli, cognati e generi. In realtà lo sguardo antropologico sull’impresa familiare in Brianza mostra non solo che il familismo imprenditoriale ha creato le condizioni per una capitalismo industriale altamente competitivo, ma appare anche essere un prodotto storico longevo. Le piccole imprese potevano anche non sembrare belle, ma dovevano necessariamente rimanere piccole e familistiche nella loro struttura per poter continuare ad essere competitive. Dicevano, in un’intervista, due artigiani brianzoli: “Gliel’ho sempre detto anche prima di sposarla, io voglio la mia libertà. Non la libertà di andare al bar o di andare a donne. No, è la libertà di lavorare tutte le ore che voglio e che la mia attività mi richiede. Se ci sono dei giorni che sono qui a lavorare fino a mezzanotte, lei non mi deve rompere i c…”.
Oppure: “L’artigiano ha due famiglie: la propria e l’impresa”.
La necessità di dover spesso contare solo sulle forze familiari al fine di limitare il rischio di esporsi assumendo personale o acquistando macchinari porta gli artigiani e imprenditori brianzoli a dover impiegare la forza lavoro disponibile, spesso poco idonea e disorganizzata. Le attività amministrative erano spesso eseguite da figure femminili della famiglia, dalla moglie alla figlia diplomata in ragioneria, che cercano di costruire una gestione aziendale non improvvisata compiendo in ufficio quel lavoro che l’imprenditore spesso giudica improduttivo, marginale, perché non direttamente legato alla produttività dei macchinari. La mentalità “cantinara” spesso sopravvive fino alla costituzione di una spa, e uno degli effetti è sottovalutare la componente “concettuale” della conduzione di impresa. Gli “intellettuali”, dicevano, non producono nulla.
All’interno della famiglia si genera la continuità aziendale, nel senso che idealmente il figlio maschio dovrebbe continuare con la componente tecnica dell’azienda mentre la figlia femmina con quello amministrativo/gestionale. Ecco che il passaggio generazionale prevede uno sdoppiamento dell’imprenditore unico nella duplicità della sua discendenza, con una maggior efficienza generata dalle specializzazioni dei propri figli ognuno per il proprio ambito. Il non avverarsi di questi piani ideali provocava spesso profonde tensioni all’interno delle imprese familiari.
E poi c’è anche quel modo di intendere la proprietà, il controllo del lavoro, che si esprime nella frase, frequentissima “qui comando io, a casa mia moglie”, perno del controllo patriarcale dell’imprenditore presso la sua “famiglia aziendale”. La retorica del “siamo tutti una famiglia” riferito ai famigliari occupati ma anche ai dipendenti non parenti era molto diffusa. Nonostante l’imprenditore riferisca di “non stare addosso ai dipendenti”, di fidarsi ciecamente di loro, questi riportano un controllo continuo in tutte le attività. L’occhio del padrone è sempre vigile.
In un’area geografica che, come è stato accennato, presenta un alto tasso di religiosità e di radicata appartenenza ai valori e principi cattolici, l’imprenditore poteva decidere di elargire premi o quantità di denaro a seconda se il lavoratore era sposato e padre di famiglia oppure un giovane che viveva ancora nella sua famiglia di origine. Questo avveniva soprattutto nelle piccole imprese e nei confronti dei collaboratori più fidati e di grande esperienza. Nei momenti di transizione della vita, come il matrimonio, che conduce allo status di capofamiglia, l’imprenditore poteva corrispondere una maggiorazione che non aveva un corrispettivo nell’aumento delle capacità produttive in azienda ma solamente in quello delle responsabilità nei confronti della propria famiglia.

Beniamino Colnaghi

Note

[1] http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2014/06/il-paesaggio-rurale-della-vecchia.html
 
Riferimenti bibliografici e sitografici
Cinzia Calzoni, Contadini e artigiani a Triuggio, i Quaderni della Brianza, n. 38/39 gennaio/aprile 1985, pp. 65-100.
Massimo Paci, La struttura sociale italiana, Bologna, Il Mulino, 1982.
Le trasformazioni del territorio in Brianza: http://www.ildialogo.org/economia/brianzaterritorio09062003.htm