martedì 15 novembre 2016


Sacerdoti della Brianza deportati nei lager nazisti
La storia di don Riccardo Corti

Negli anni della Resistenza al nazi-fascismo furono una cinquantina i sacerdoti italiani che vennero deportati nei lager nazisti. Erano stati accusati di aver avuto contatti o aver aiutato partigiani, ebrei, militari sbandati, renitenti alla leva, prigionieri alleati evasi, oppure di aver condannato in pubblico le violenze tedesche o impartito l’estrema unzione a partigiani in fin di vita. Essi furono destinati per lo più a Dachau, principalmente nei Blocchi 26 e 28, sulla base di accordi e mediazioni intercorsi con la Santa Sede. La loro opera nei campi fu di conforto ai prigionieri deportati. Alcuni di essi furono destinati ai lavori pesanti nelle fabbriche tedesche o nelle cave e gallerie di Mauthausen, Melk o Ebensee. Quattordici persero la vita.
(Vedasi, tra gli altri, il libro di Guillaume Zeller, La Baraque des prêtres, Dachau, 1938-1945.

Don Riccardo Corti nacque a Rancio di Lecco nel 1876 e fece il suo ingresso nella parrocchia di San Donnino, frazione del Comune di Colle Brianza, nel 1909. Giovane sacerdote poco più che trentenne, non si risparmiò per i suoi parrocchiani sia sul piano spirituale sia sociale, facendosi promotore in parrocchia della nascita dell’Azione Cattolica e di alcune Confraternite.
La vicenda della deportazione di questo anziano prete è dettagliatamente e con molta cura descritta dallo stesso don Riccardo che, appena tornato dalla prigionia, completò di sua mano nel Liber chronicon parrocchiale ciò che suo fratello, il missionario del Pime padre Ferruccio, aveva già cominciato a fare nel periodo in cui lo sostituì alla guida della comunità di Giovenzana. Lo scritto è stato recuperato e meritoriamente stampato e pubblicato nel 1978 e costituisce la fonte principale per esporre quanto accadde al sacerdote della Brianza lecchese.
A causa dell'armistizio dell'8 settembre 1943, i militari dei Paesi alleati e molti italiani fatti prigionieri fuggirono dai campi di prigionia. Nel Nord Italia molti di essi cercarono di dirigersi verso la Svizzera neutrale, altri si unirono alle formazioni partigiane, altri ancora vennero nascosti e ospiati dalla popolazione civile. Contravvenendo alle dure disposizioni emanate dalle nuove autorità fasciste e soprattutto dall'occupante tedesco, buona parte della popolazione che s'imbattè in questi fuggiaschi, offrì loro rifugio e protezione. Alcuni entrarono a far parte delle prime formazioni partigiane che andavano formandosi sulle montagne lecchesi.

Don Riccardo Corti
 
Don Riccardo Corti, più che altro per carità sacerdotale ed umana, accolse parecchi ex-prigionieri sistemandoli in parte in due piccole baite a Pessina e altri otto nella casa del sacrestano. Un altro gruppo si nascose nei boschi più a monte. Verso la metà del mese di settembre due forestieri avvicinarono don Riccardo chiedendogli di nascondere delle armi: richiesta che il religioso respinse. Allora lo supplicarono di condurli a visitare i fuggiaschi. Il parroco commise l’imprudenza di accompagnarli prima nella località di Pessina, dove si trovavano 18 rifugiati, quindi a Cagliano, dove erano presenti in quattro a servizio delle famiglie locali. In occasione della festa patronale che si celebrò il 9 ottobre 1943, lo accostarono di nuovo altri due sconosciuti, i quali formularono le stesse richieste. Due giorni dopo, l’11 ottobre, alle cinque del mattino fu tratto in arresto e condotto con la domestica nella piazzetta, posta al centro di Giovenzana, dove erano già presenti gli otto prigionieri stranieri alloggiati dal parroco. Nel frattempo i soldati tedeschi procedevano al rastrellamento, che portò alla cattura di 14 fuggiaschi, mentre due spagnoli volontari nell'esercito inglese, Josè Martinez e Andrea Sanchez, furono uccisi. Alla fine dell'operazione, ventisei prigionieri furono caricati su due camion delle SS, mentre su due auto distinte, fra due poliziotti italiani, sedettero don Riccardo Corti e il fratello padre Ferruccio, presente a Giovenzana per aiutare la parrocchia e che in questo frangente fu duramente percosso. Fra la paura e lo sgomento della popolazione locale, la colonna si mosse scendendo a Galbiate per passare poi da Lecco e da lì raggiungere Bergamo.
Nel presidio tedesco della città orobica don Corti subì il primo interrogatorio da parte dello stesso maresciallo che lo aveva arrestato. Le autorità nazi-fasciste lo condannarono per motivi politici per “avere contraddetto agli ordini del comando tedesco, alloggiando i fuggitivi dal campo di concentramento e dando loro da mangiare” e di “non avere compiuto il dovere di denunciare al comando tedesco i ribelli che si trovavano nella sua parrocchia”. Fu giudicato colpevole di un “aperto favoreggiamento delle forze nemiche”, secondo il console tedesco in Milano, e di “essersi associato come membro attivo a coloro che annientano in Russia la civiltà europea e con essa la Chiesa cristiana, e in America e Inghilterra, sulle tracce di coloro che hanno inchiodato il Redentore sulla croce, hanno aizzato i popoli alla guerra per l’annientamento di tutta la civiltà europea” come affermò il generale plenipotenziario delle forze armate tedesche in Italia. Per questi motivi venne condannato a 18 mesi di lavori forzati.


Conclusa l'inquisizione fu associato col fratello alle carceri di S. Agata di Bergamo. Il 14 ottobre i due prelati furono trascinati davanti ad un tribunale tedesco per un processo che si dimostrò solo una formalità di facciata. Il presidente non fece altro che leggere un fascicolo accusatorio in tedesco e, senza la presenza di alcun testimone e di alcun avvocato, provvide a condannare padre Ferruccio a due mesi di carcere che scontò a Bergamo stessa, e a comminare al sessantottenne parroco di Giovenzana ben un anno e mezzo di prigione. Ai primi di dicembre gli fece visita l'arcivescovo di Milano, cardinale Ildefonso Schuster. Con lui in cella furono in seguito aggregati altri tre sacerdoti bergamaschi, don Alessandro Ceresoli assistente a Ponte S. Pietro, don Alessandro Brumana, parroco di Valcava e don Antonio Seghezzi assistente diocesano dell'Azione Cattolica. Saranno tutti deportati in Germania e Seghezzi morirà a Dachau poco dopo la liberazione. La vigilia di Natale del 1943, dopo due mesi e mezzo trascorsi al S. Agata, don Riccardo, insieme agli altri preti reclusi, fu trasferito al forte S. Mattia di Verona, edificato dagli austriaci nel 1843.
I sacerdoti vennero rinchiusi in una grande cella, che già conteneva una quarantina di prigionieri.
Le condizioni di Don Riccardo peggiorarono considerevolmente e l’artrite gli causò forti dolori. Dichiarato inabile al lavoro, il 14 gennaio 1944 venne tuttavia incluso in una lista con diciotto prigionieri politici da deportare in Germania. Alle tre del mattino il gruppetto fu caricato su un autocarro e condotto alla stazione di Verona, dove una tradotta li trasferì nel carcere di Monaco di Baviera. Paradossalmente, l'anziano parroco trovò qui delle condizioni di prigionia, soprattutto in termini di pulizia, luce e calore, migliori che a Verona; continuavano invece i maltrattamenti dei guardiani e per la prima volta don Riccardo fu svestito dell'abito talare per indossare la divisa da galeotto, un'evenienza che a sessantotto anni doveva ulteriormente pesare sull'animo del deportato. Nel carcere di Monaco rimase quarantasette giorni, molti dei quali corrisposero con i terribili bombardamenti ai quali la capitale della Baviera venne sottoposta.
Insieme ad altri reclusi fu portato alla stazione di polizia di Monaco e trasferito Donauworth, città bavarese sul Danubio, a 45 chilometri da Augsburg. A piedi, ammanettati per due, con un freddo terribile e le strade piene di neve, la colonna dei detenuti fu fatta affluire alla caserma della polizia e poi trasportata al carcere per lavori forzati del piccolo paese di Kaisheim. Don Corti, con la divisa di galeotto, per spregio, venne adibito al mestiere di calzolaio. Montagne di scarpe arrivavano in vagoni merci da varie zone d'occupazione tedesca e i prigionieri effettuavano la cernita e il recupero del materiale ancora godibile.
Nel frattempo il cardinale Schuster ripresentò la domanda di grazia per il prelato lecchese. La domanda venne accolta, ma i tempi della liberazione furono sempre procrastinati. Nemmeno quando la decisione di liberare il prelato fu ufficializzata, questi riacquistò la libertà. L'autorità carceraria berlinese, giunta a Kaisheim per altri motivi, scoprì sei telegrammi e tutta la documentazione di concessione della grazia giacente nell'ufficio del direttore, che volontariamente l'aveva ignorata. Il funzionario e i suoi sottoposti pagarono l'insubordinazione ai superiori con la loro destituzione. Questo fatto ebbe luogo a fine dicembre del '44 ma neanche in quel momento don Corti fu scarcerato. Con una serie di giustificazioni fu trattenuto a Kaisheim fino ai primi giorni di febbraio del 1945, in pratica, malgrado la grazia, gli si fece scontare tutta la pena alla quale era stato condannato. I guai però non erano finiti, perché l'ormai sessantanovenne parroco quel giorno venne semplicemente messo alla porta; malfermo di salute, senza soldi, senza conoscere la lingua e senza aver mai avuto modo in sedici mesi di comunicare con l'Italia, si trovava in Germania, solo, nel pieno della guerra.
Riuscì ad arrivare a Monaco, ormai rasa al suolo, sotto un'intensa nevicata. Raggiunse, aiutato da una donna, il consolato italiano e fu ricevuto da Vittorio Mussolini in persona. Dopo un'inutile ramanzina sul fatto che ne aveva determinato l'arresto, gli venne pagato il viaggio di ritorno. L'anziano deportato, però, poco pratico, sbagliò treno e fu costretto a scendere in una minuscola stazione, ancora una volta senza denaro. Corse il rischio di morire assiderato e fu salvato da un operaio italiano che stava rientrando in Italia attraverso Innsbruck.
Don Riccardo Corti varcò la frontiera al Brennero e, dopo altre e numerose peripezie, riuscì ad arrivare a Milano. Fu ricevuto dal cardinale Schuster che lo autorizzò a riprendere possesso della parrocchia di Giovenzana. Molto belle e commoventi sono le ultime pagine della sua “memoria”, quando parla del suo ritorno a Giovenzana. Il 14 febbraio 1945 il sacerdote rientrò a casa, trionfalmente, fra la sua gente incredula ed entusiasta e gli sguardi malevoli dei militi fascisti. Ricorda il suo arrivo alla stazione di Olgiate, il suo viaggio a S. Maria e poi a Cologna e finalmente il suo ritorno su una mula a Giovenzana. “Ed eccomi così ritornato dopo un anno e mezzo di durissimo carcere a casa mia, tra il mio popolo nella mia chiesina. Ne sia ringraziato Dio”.

La vicenda di deportazione di questo anziano prete è dettagliatamente e con molta cura descritta dallo stesso don Riccardo che, appena tornato dalla prigionia, completò di sua mano nel Liber chronicon parrocchiale ciò che suo fratello, il missionario del Pime padre Ferruccio, aveva già cominciato a fare nel periodo in cui lo sostituì alla guida della comunità di Giovenzana. Lo scritto è stato recuperato e meritoriamente stampato e pubblicato nel 1978 e costituisce la fonte principale per raccontare quanto accadde al sacerdote della Brianza lecchese.

Beniamino Colnaghi

Riferimenti bibliografici e sitografici
Pietro Arienti, Dalla Brianza ai Lager del Terzo Reich, Missaglia, Bellavite srl, 2011, pag. 153-156.
Consolata: http://www.consolata.org/new/index.php/mission/nostridicono/item/996-don-riccardo-corti-martire-della-carita
Resegone on line: http://www.resegoneonline.it/articoli/Veglia-dei-martiri-missionari-ricordando-don-Riccardo-Corti-20160314/

martedì 1 novembre 2016

Il caso Pier Paolo Pasolini (5 marzo 1922 – 2 novembre 1975)

di Gianni Borgna e Carlo Lucarelli, pubblicato su MicroMega 6/2005

Una ricostruzione minuziosa, attraverso fatti e testimonianze, di quel 2 novembre 1975 in cui fu ucciso Pasolini, e delle incongruenze delle ricostruzioni ufficiali e ufficiose che vorrebbero spiegare l’omicidio. Fino a questa clamorosa e documentata ipotesi, l’unica che fa andare al suo posto tutti i pezzi del terribile puzzle: un omicidio politico premeditato.

Prologo: l’arresto di Pelosi

È l’una e mezzo di notte del 2 novembre 1975 e sul lungomare Duilio di Ostia, un chilometro e mezzo prima di piazzale Cristoforo Colombo, c’è una gazzella dei carabinieri in servizio di pattuglia. All’improvviso, un’Alfa 2000 GT, una bella macchina, gli passa davanti a tutta velocità, contromano e in senso vietato. Non si ferma all’alt, e così i carabinieri fanno inversione di marcia e si lanciano all’inseguimento. Raggiungono l’Alfa all’altezza di uno stabilimento balneare, la stringono contro la carreggiata e la costringono a rallentare e a fermarsi.
Dalla gazzella scende un appuntato, che va a vedere chi c’è in quella macchina e perché sta correndo così, ma non fa in tempo a distinguere il conducente che all’improvviso l’Alfa riparte e cerca ancora di scappare. L’appuntato rimonta in macchina e di nuovo la gazzella si lancia all’inseguimento su quella strada del lungomare di Ostia.
Raggiungono di nuovo l’Alfa, la stringono contro il marciapiede e questa volta l’appuntato tira fuori il mitra e lo fa vedere, e l’Alfa si ferma. Sembra la scena di un film, uno di quei polizieschi all’italiana che si vedevano in quegli anni, negli anni Settanta, Roma violenta, o Il trucido e lo sbirro, ma non è un film, è cronaca, cronaca vera, e dall’auto non scende un attore o uno stunt-man, non scendono Thomas Milian o Maurizio Merli, ma un ragazzo spaventato che cerca ancora di scappare, a piedi, ma viene subito preso dai carabinieri, che gli girano un braccio dietro la schiena e gli mettono le manette.
Il ragazzo si chiama Pino Pelosi, detto Pino la Rana, ha 17 anni e ha qualche precedente per furto.
Perché scappava? Intanto è minorenne, e non potrebbe neppure guidarla, quell’auto. E poi dice di averla rubata, l’ha presa vicino al cinema Argo, nel quartiere Tiburtino, a Roma, vicino a dove abita. Ad Ostia c’è andato per accompagnare un amico, poi ha visto i carabinieri, ha avuto paura ed è scappato. Sanguina da una ferita, perché ha battuto la testa contro il volante mentre stava scappando.
E l’auto? L’auto di chi è? Lo dicono i documenti della macchina, la carta di circolazione. È di Pier Paolo Pasolini, uno scrittore, un poeta, un regista del cinema. Uno famoso. Pino Pelosi ha rubato la macchina di un personaggio noto. Alle cinque del mattino Pino Pelosi viene portato al carcere minorile di Casal del Marmo. Prima, però, insiste perché i carabinieri tornino alla macchina, a cercare qualcosa, un pacchetto di sigarette e un accendino e anche un anello d’oro con una pietra rossa e la scritta: «United States Army».
Ha anche il segno dell’anello attorno al dito, e lo fa vedere ai carabinieri, che lo aiutano a cercare.
Però non trovano niente. Poi, Pelosi viene portato in carcere e l’Alfa 2000 alla rimessa e lì i carabinieri si accorgono che dentro c’è anche un pullover verde, un vecchio maglione usato e piuttosto logoro. È sul sedile posteriore, assieme al giubbotto e al maglione di Pino Pelosi, e ad altri indumenti. C’è anche un plantare, uno solo, per scarpa destra.
L’Alfa 2000 nella rimessa, il ladro in galera. Alle tre di notte i carabinieri avvertono i genitori di Pelosi. Vostro figlio è dentro per furto d’auto. Lo potete andare a trovare domani mattina al carcere minorile di Casal del Marmo. Caso risolto, un furto sventato prima ancora che fosse compiuto.
E invece c’è qualcos’altro. In carcere, appena arrivato, Pino Pelosi parla con il suo compagno di cella. È inutile nasconderlo, perché tanto prima o poi lo scopriranno, così gli dice cos’ha fatto.
Ha ammazzato Pasolini.
 
Pier Paolo Pasolini


I fatti: il luogo del delitto

Alla foce del Tevere, vicino ad Ostia, c’è una spianata in una zona che si chiama Idroscalo. È una zona popolare, un po’ degradata, piena di casette abusive che sono poco più di baracche.
Il corpo di quell’uomo si trova proprio lì, vicino ad una stradina in terra battuta che unisce Ostia a Fiumicino. In mezzo ad un campetto da calcio chiuso da una recinzione. Vicino a lui, e sotto di lui, ci sono pezzi di legno insanguinati, ciocche di capelli e un anello, un anello con una pietra rossa e la scritta: «United States Army». Poco lontano, vicino alla porta del campetto da calcio, c’è una camicia di lana, a righe, imbrattata di sangue, molto sangue, sul dorso e sulle maniche. E una tavoletta imbrattata di sangue e di capelli.
E un’altra, rotta in due pezzi, con sopra scritto «via dell’Idroscalo». Ci sono anche tracce di pneumatici che dalla porta del campetto arrivano fino all’uomo.
E poi c’è lui, l’uomo. È steso in avanti, con la tempia e la guancia sinistra appoggiate a terra, il braccio destro scostato dal corpo e quello sinistro sotto. Indossa una canottiera parzialmente sollevata sul dorso, con un solo, piccolo strappo, e calzoni abbottonati alla cintola, con la cintura slacciata e la cerniera abbassata.  La prima persona ad accorgersi di lui, alle sei e trenta del mattino, è la signora Maria Teresa Lollobrigida. È appena arrivata lì con il marito, perché sono «proprietari» di una di quelle baracche. Crede che quella macchia informe a pochi passi da lei sia dell’immondizia e sta per imprecare quando si accorge che si tratta invece di un cadavere.
Chiamano subito la polizia, che arriva in un quarto d’ora. Il commissario Vitali di Ostia si rende immediatamente conto che quell’uomo è stato massacrato come difficilmente si può immaginare. È coperto di sangue, ha ecchimosi e profonde escoriazioni sulla testa, sulle spalle, sul dorso e sull’addome, ha fratture alle falangi della mano sinistra e dieci costole spezzate. Ha profonde escoriazioni al volto e il naso schiacciato verso sinistra. È stato massacrato, con una ferocia impensabile.
Il commissario, stupito, crede di riconoscere in quel grumo di sangue Pier Paolo Pasolini. Un poeta, uno scrittore, un regista, che tutta l’Italia conosce. Vicino a lui scorge anche un anello in oro giallo sormontato da una pietra rossa. Lo prende e se lo mette in tasca. Alle sette e trenta arriva sul posto il dottor Fernando Masone, capo della squadra mobile di Roma. Alle otto e tre quarti, infine, il dottor Carlo Iovinella. In quel momento i carabinieri hanno per le mani un ladro di auto, mentre la polizia è alle prese con un cadavere, che non è ancora chiaro come sia arrivato fin lì. L’unica cosa certa è che si tratta proprio di Pasolini, perché alle dieci del mattino l’attore Ninetto Davoli, uno dei suoi amici più cari, ne effettua il riconoscimento.
Ma a quel punto le tessere del mosaico cominciano a combaciare. E di lì a poco Pino Pelosi decide di confessare.

    I fatti: le indagini e la confessione di Pelosi


Ore 22.30: piazza dei Cinquecento, a Roma, proprio davanti alla stazione Termini. «Mi trovavo con gli amici Salvatore, Claudio e Adolfo», è Pino Pelosi a raccontare il suo incontro con Pier Paolo Pasolini, quella notte. Adr, c’è scritto sul verbale, A domanda risponde.
Ore 22,30: Pelosi è lì fermo assieme ai suoi amici davanti al chiosco di un bar quando si avvicina un’Alfa 2000 grigio metallizzata. Scende un uomo che va a parlare con uno dei ragazzi, Adolfo. Gli dice: «Ci facciamo un giro?» e Adolfo ride, ma non ci sta. Allora l’uomo si avvicina a Pino e gli fa la stessa proposta. «Vuoi venire a fare un giro con me che ti faccio un regalo?».
Pino è giovane, ma è «scampanato», come dice lui stesso, non è uno che dorme, capisce la situazione e sa cosa vuole quell’uomo. Però accetta, e sale con lui.
La macchina si dirige in direzione di via Nazionale. L’uomo chiede a Pino se ha delle particolari preferenze su dove andare, e Pelosi gli risponde di avere fame. Al che l’uomo dichiara di conoscere una trattoria che di solito è ancora aperta a quell’ora. Pino propone all’uomo di ritornare al bar per prendere le chiavi di casa e della macchina. L’uomo è contrariato, dato che sono ormai distanti dalla stazione, ma alla fine acconsente e torna indietro. È passata almeno mezz’ora quando i due si riaffacciano dalle parti di piazza Esedra. Pino chiede le chiavi di casa e dell’auto a Claudio, dicendogli che, se avesse fatto tardi, lui avrebbe potuto prendere la macchina, dato che aveva altre chiavi, e che avrebbe potuto lasciarla sotto casa sua, dove lui, Pino, l’avrebbe poi potuta riprendere.
Finalmente i due si indirizzano verso la trattoria Biondo Tevere, dalle parti della basilica di San Paolo, dove l’uomo è conosciuto e sicuramente riapriranno la cucina per lui. E infatti, tutti lo conoscono e lo salutano, perché quell’uomo è Pier Paolo Pasolini, uno famoso, ma Pino non lo conosce, non l’aveva mai visto prima, per lui è soltanto Paolo.
Pino mangia, spaghetti aglio, olio e peperoncino e petto di pollo, Paolo no, beve una birra e gli fa tante domande, vuole sapere chi è, cosa fa, come vive, si interessa, con curiosità, quasi con passione. Restano nella trattoria fino alle 23,30, poi escono, Paolo fa benzina in un self-service e poi prende una strada alberata, verso Ostia, la via Ostiense. Dice a Pino che andranno in un luogo isolato, che faranno qualcosa e che lui gli darà 20 mila lire.
È Pino Pelosi che parla, A domanda risponde. Teniamoci a mente quello che dice, e teniamoci a mente i luoghi. Piazza dei Cinquecento, davanti alla stazione Termini. La trattoria Biondo Tevere, vicino alla basilica di San Paolo. Via Ostiense, fino all’Idroscalo di Ostia, il luogo appartato. Ore 24,00. L’Alfa 2000 si apparta nel campetto da calcio, vicino alla porta.
Inizia un rapporto sessuale che però si interrompe. È sempre Pino Pelosi che racconta. Pino esce dalla macchina, si avvicina alla recinzione e quell’uomo, Paolo, lo segue. Vuole da lui qualcosa che Pino non vuole fare, e quando Pino si ribella lui diventa violento. Prende un bastone e ha una faccia da matto che gli fa paura. La recinzione sta a 20 metri dalla macchina. Pino scappa e quel­l’uomo gli corre dietro. Altri 50 metri. Pino ha un paio di scarpe con i tacchi un po’ alti, come usavano allora, negli anni Settanta, scivola e cade sulla schiena.
L’uomo lo raggiunge e quando Pino cerca di divincolarsi lo colpisce alla testa col bastone, Pino scappa ancora e l’uomo lo colpisce di nuovo. Allora Pino vede per terra una tavoletta e la rompe sulla testa dell’uomo, poi lo colpisce con due calci al basso ventre, gli afferra i capelli e lo colpisce anche in faccia, con altri due calci, ma niente.
Pino dice che l’uomo barcolla ma non si arrende, ringhia «ti ammazzo», e colpisce Pino con il bastone. Allora Pino perde il controllo e lo colpisce con la tavoletta finché Paolo non cade a terra.
Poi? Sempre Pino, A Domanda Risponde. Scappa verso la macchina portando con sé i due pezzi della tavoletta e il bastone insanguinato, che getta vicino alla rete di recinzione. Poi sale in macchina e scappa con quella. Nell’andarsene sente l’auto sobbalzare, ma non sa perché, sarà un’asperità del terreno, una cunetta, una buca. Si ferma alla fine della strada ad una fontanella per sciacquarsi dal sangue e poi riparte. Ore 1,30, lungomare Duilio di Ostia. La gazzella dei carabinieri vede passare l’Alfa 2000, di corsa e contromano, e inizia l’inseguimento.
A Domanda Risponde, sempre le stesse cose, in cinque interrogatori diversi, senza contraddizioni. Tutto chiaro e tutto semplice. Tutto molto verosimile. Pier Paolo Pasolini è stato ucciso da un ragazzo che aveva adescato per avere un rapporto omosessuale a pagamento. Caso chiuso.

I fatti: quello che non torna

Ma sono in tanti a dubitare della verità proposta dalla polizia, anche perché, appunto, troppo verosimile per essere vera, troppo «pasoliniana»: i familiari di Pasolini, Graziella Chiarcossi, sua cugina, che con Pasolini divide l’appartamento; gli amici Laura Betti e Sergio Citti; gli avvocati di parte civile Nino Marazzita e Guido Calvi; e persino gli avvocati di Pelosi, Tommaso e Vincenzo Spaltro, che affermano: «Noi concordiamo con le notizie date dall’Europeo che sul posto del delitto c’erano delle altre persone. La storia raccontata dalla Fallaci ci persuade in questo senso: noi siamo convinti che Giuseppe Pelosi non è l’assassino, per la semplice ragione che non ha la capacità fisica né psichica di commettere un omicidio». Pino la Rana, a questo punto, li estromette inopinatamente dall’incarico, dopo un insolito colloquio in carcere con i suoi genitori.
Insomma, ci sono un sacco di cose che non convincono. A partire dalle indagini compiute in fase istruttoria.
Sono in tanti a dubitare di quelle indagini. Già lo avevano fatto, appunto, i giornalisti, fin dal primo momento. Oriana Fallaci ed altri giornalisti del settimanale L’Europeo conducono anche una controinchiesta.
Salta fuori un testimone che dice che Pasolini era entrato in una baracca con Pino Pelosi e due motociclisti, che poi lo avevano inseguito fino al campetto, colpendolo con una catena.
Arriva un altro testimone, un omosessuale che frequenta il giro della prostituzione, e che dice che Pasolini è stato ucciso perché faceva troppe domande sul racket dei ragazzi di vita. Ne arriva un altro ancora, «il ragazzo che sa» lo chiama la Fallaci, che dice che Pasolini è caduto in un agguato organizzato per rapinarlo e che è stato ucciso per avere reagito. «Gli volevano solà er portafoglio» dice il testimone ai giornalisti, prima di scappare via.
Sono dichiarazioni strane. Non reggono molto neppure quelle. I testimoni individuati dalla polizia ritrattano, uno fa risalire le sue informazioni a fonti «parapsicologiche», di altri la Fallaci e i giornalisti non vogliono rivelare l’identità. Ma i punti in discussione riguardano soprattutto la conduzione delle indagini. Quando la polizia arriva sulla spiaggia dell’Idroscalo, alle sei e quarantacinque di quella domenica mattina, trova accanto al corpo di Pasolini una piccola folla di curiosi. Nessuno li allontana, e gli agenti lasciano perfino che alle nove un gruppo di ragazzi in maglietta e calzoncini giochi una partita sul campetto vicino. Non è una zona interessata dai rilievi, dice la polizia. No, dicono i giornalisti, il campetto era a pochi metri, tanto che a volte la palla arriva sul luogo del delitto e sono gli stessi agenti a rilanciarla ai ragazzi con un calcio. E dietro la porta del campetto, dicono i giornalisti, ci sono pezzi di legno macchiati del sangue di Pasolini e la sua camicia intrisa di sangue, che sta in un posto strano, a 70 metri da dove è stato ritrovato il corpo. Comunque sia, tutta quella gente che cammina sul luogo del delitto rende impossibile rilevare eventuali tracce di passi o di pneumatici. È una scena del delitto veramente confusa, quella, con molti reperti raccolti senza che ne venga segnata correttamente la posizione precisa.
E poi c’è la macchina. La macchina resta nella rimessa dei carabinieri per parecchi giorni e viene consegnata alla scientifica soltanto il giovedì. È rimasta lì per quattro giorni, aperta e sotto la pioggia, finché non viene messa sotto una tettoia e nel farlo l’autista che la sposta va anche a sbattere contro un palo. C’è qualcosa di interessante in quell’auto, ci sono un maglione e un plantare per scarpa che non appartengono a Pasolini, il maglione è di taglia diversa e la famiglia non lo riconosce, e di plantari Pasolini non ne ha mai portati. Non appartengono neanche a Pelosi e nella macchina ci sono finiti il giorno dell’omicidio, perché prima l’auto era stata lavata e ripulita accuratamente.
E c’è un’altra cosa. C’è una macchia di sangue sul tetto dell’Alfa 2000, come se qualcuno ci si fosse appoggiato con la mano sporca di sangue per aprire la portiera.
La portiera è quella di destra, quella del passeggero, non quella da cui si entra per guidare.
E poi c’è la perizia del medico legale di parte civile. Inizialmente la morte di Pasolini era stata attribuita a dissanguamento. La parte civile, la famiglia di Pasolini, affida la perizia al professor Faustino Durante, medico chirurgo, docente dell’Istituto di medicina legale dell’Università di Roma.
Pier Paolo Pasolini è morto perché la sua auto gli è passata sopra, fratturandogli dieci costole e lo sterno, lacerandogli il fegato e facendogli scoppiare il cuore. Nelle fotografie ci sono le tracce dei pneumatici che arrivano fino al suo corpo e gli passano sopra.
Prima, però, è stato massacrato. In quel campetto all’Idroscalo ci sono alcuni oggetti sporchi del sangue e dei capelli di Pasolini, due paletti e due tavolette di legno, e infatti quattro o cinque ferite sono state provocate da quelli. Ma le altre? Tutto quel massacro? I colpi alla testa? Per il professor Durante Pasolini è stato colpito con qualcosa di molto più resistente e pesante di qualche pezzo di legno fradicio e friabile. Il professor Durante fa notare un’altra cosa. Pasolini è coperto di sangue, «un grumo di sangue», l’hanno definito. Ma Pino Pelosi no. Ha soltanto una macchia di sangue su un polsino, un’altra sui calzoni e un’altra sotto una suola. Non si spiega. Va bene, si è lavato le mani alla fontanella in fondo alla strada, ma non basta. Non si spiega.
Come non si spiega che Pasolini non abbia reagito all’aggressione, perché Pelosi, a parte una piccola escoriazione sulla fronte che si è fatto sbattendo con la testa sul volante quando lo hanno fermato i carabinieri, non ha lividi o ferite. Eppure Pasolini è un uomo forte e dinamico, uno che pratica sport, che gioca a calcio, uno che avrebbe reagito, in una colluttazione. E Pino Pelosi non è un gigante, è un ragazzo di 17 anni, alto 1 metro e 71, e di 60 chili di peso.

I fatti: la perizia del professor Durante

Per il professor Durante e per gli avvocati di parte civile la dinamica dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini non è quella raccontata da Pino Pelosi. Pino la Rana non era solo.
Arrivano altre persone, che trascinano fuori Pasolini dall’auto e lo aggrediscono, lo picchiano, lo colpiscono con oggetti contundenti.
Pasolini cerca di difendersi coprendosi la testa, come dimostrano le maniche della camicia imbrattate di sangue, se la toglie anche, lui stesso, perché la camicia è intatta, e cerca di tamponarsi le ferite con quella. Ma l’aggressione continua, Pasolini cerca di scappare, lascia lì la camicia, ma viene raggiunto e ancora massacrato. Prende un calcio al basso ventre così forte che gli impedisce qualunque altra reazione. Qualcuno, uno degli aggressori che entra dalla parte del passeggero, oppure Pelosi che si appoggia alla macchina, non certo Pasolini, che è stato aggredito troppo lontano dall’auto, lascia quella macchia di sangue sulla carrozzeria.
Poi gli aggressori di Pasolini se ne vanno, Pelosi monta in macchina e facendo manovra passa sul corpo di Pasolini, forse senza volerlo, e gli fa scoppiare il cuore.

I fatti: il processo di primo grado

Il processo a Pino Pelosi, imputato di «omicidio nella persona di Pasolini Pier Paolo» si apre il 2 febbraio 1976 presso il Tribunale per i minorenni di Roma, perché Pino Pelosi non ha ancora diciot­t’anni. La famiglia di Pasolini, con gli avvocati Guido Calvi e Nino Marazzita, si costituisce parte civile, per poter seguire le indagini e il processo.
Pino Pelosi siede sul banco degli imputati come autore dell’omicidio, da solo e in quel modo, secondo quanto ha ammesso lui stesso e secondo quanto è emerso dalle indagini della polizia. La confessione e le indagini. Ma c’è qualcosa che non va. Il processo, un processo così semplice, l’omicidio di un omosessuale che voleva rimorchiare un ragazzino, si rivela molto più complesso. E pieno di colpi di scena. A presiedere il Tribunale per i minorenni di Roma c’è un magistrato che si chiama Alfredo Carlo Moro, ed è il fratello del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro. È un magistrato zelante, il presidente Moro, esamina tutti gli atti assieme ai magistrati che compongono la giuria, respinge la richiesta di considerare Pino Pelosi incapace di intendere e di volere avanzata dalla difesa sulla base della perizia del professor Aldo Semerari, un criminologo dal­la biografia molto particolare, che spesso incrocia fatti relativi alla strategia della tensione e che poi verrà ucciso dalla camorra. Il 26 aprile 1976 il presidente Moro pronuncia la sentenza. Pino Pelosi viene condannato a nove anni, sette mesi e dieci giorni e a 30 mila lire di multa per atti osceni, furto aggravato e omicidio volontario nella persona di Pasolini Pier Paolo.
Ma attenzione, non è tutto qui. «Ritiene il collegio», dice il presidente Moro, «che dagli atti emerga in modo imponente la prova che quella notte all’Idroscalo il Pelosi non era solo». Quel maglione e quel plantare ritrovati nella macchina che non appartengono né a Pasolini né a Pelosi. Impronte di scarpe rinvenute sul luogo del delitto, lontano dalla zona calpestata dai curiosi, che non appartengono né a Pelosi né a Pasolini. Il sangue sul tetto della macchina dalla parte del passeggero, la dinamica del delitto ricostruita dal professor Durante. A massacrare Pier Paolo Pasolini in quel modo, secondo il Tribunale, non c’era soltanto Pino la Rana. C’erano anche altre persone. Rimaste ignote.
 
I fatti: i processi di secondo e terzo grado

L’imputato e il procuratore generale si appellano alla sentenza. Il 4 dicembre 1976 la sezione per i minorenni della Corte d’Appello di Roma assolve Pino Pelosi dall’imputazione di atti osceni e furto, ma conferma la condanna per omicidio. Attenzione, però. Riesaminati tutti gli elementi che avevano convinto il presidente Moro, la nuova Corte ritiene «estremamente improbabile, per tutte le cose dette, che Pelosi possa avere avuto uno o più complici». A massacrare e uccidere Pier Paolo Pasolini, quella notte all’Idroscalo, c’era soltanto lui, Pino la Rana.
Il 26 aprile del 1979 la Corte di cassazione conferma la sentenza. Caso chiuso. Pier Paolo Pasolini è stato ammazzato da Pino Pelosi. Da lui e basta.
Una brutta storia, una storia di prostituzione e di violenza. Un delitto tra omosessuali. Una cosa da dimenticare in fretta.

I fatti: Pelosi parla di nuovo

Sempre la stessa versione, senza mai un cambiamento, una contraddizione, niente. Per trent’anni.
Fino al maggio del 2005. Quando succede qualcosa.
Il programma si chiama Ombre sul giallo, e va in onda su Rai3. Alla conduttrice Franca Leusini e alla presenza dei due ex avvocati di parte civile Guido Calvi e Nino Marazzita, Pino Pelosi dice di non essere lui l’assassino di Pasolini. Ad ucciderlo sono stati tre uomini, tre uomini che lui non conosce, che parlavano con un accento del Sud, siciliano, o calabrese. Lui era andato all’Idroscalo con Pasolini per compiere un atto sessuale, poi era sceso dalla macchina per orinare contro la rete. A quel punto spuntano dal nulla tre persone, una aggredisce lui, lo picchia e lo minaccia. Le altre due afferrano Pasolini, lo tirano fuori dalla macchina e lo massacrano. «Fetuso», gli gridano, «frocio», «sporco comunista». Non sono stato io, dice Pelosi, non l’ha neanche toccato Pasolini. Sono state tre o più persone che l’hanno massacrato, all’improvviso, tre sconosciuti. Pasolini l’hanno ammazzato, lui l’hanno lasciato andare, è montato in macchina ed è partito, non vedeva niente, c’era tutta acqua, è passato sopra Pasolini senza accorgersene. Prima di lasciarlo andare, però, quelle persone lo hanno minacciato. Fatti gli affari tuoi, stai zitto e non parlare.
Ci sono alcuni punti oscuri nel suo racconto, alcune contraddizioni, che gli vengono fatte notare. Se non è stato lui ad aggredirlo, come c’è finito il suo anello vicino al corpo di Pasolini? Se quando è scappato in macchina non si era accorto di essere passato sopra il suo corpo, perché appena l’hanno arrestato ha detto «ho ammazzato Pasolini» al suo compagno di cella? E se davvero non conosceva le persone che l’hanno minacciato, e loro, come dice lui, non si sono più fatti vivi per rinnovare le minacce, perché si è fatto tutti quegli anni di carcere senza dire niente? Pino Pelosi non ricorda, l’anello deve essergli caduto quando è andato a vedere come stava Pasolini, per il resto non sa, era giovane, era sconvolto, aveva paura.
Che siano vere del tutto o anche soltanto in parte, le affermazioni di Pino Pelosi, dell’unico imputato del delitto, reo confesso e condannato per una pena interamente scontata, cambiano molte cose. Cambia Pasolini, intanto. Trasgressivo, scandaloso, eccessivo, qua­lunque cosa, ma non un violento, non un uomo che viene ucciso dalla reazione di un ragazzino di diciassette anni a cui stava usando violenza. E poi cambiano anche molte altre cose. Perché, finché era stato Pelosi ad uccidere Pasolini, Pino la Rana e basta, allora era un conto, ma se non è stato lui e le cose sono andate, anche solo in parte, in modo diverso, allora si aprono altri scenari e possono saltare fuori altri moventi. Per cercare di capirci qualcosa bisogna ricominciare tutto da capo. Tornare indietro e ripartire proprio da quegli anni, gli anni Settanta. Il novembre del 1975.

Le ipotesi: un delitto ‘semplicemente’ politico

Sono gli anni Settanta, è il 1975 e la politica, da qualcuno, a destra, a sinistra e nello Stato, è intesa come violenza, quella delle stragi, del terrorismo, o anche quella diffusa che insanguina le strade. Soltanto in quell’anno le vittime della violenza diffusa sono otto, come Sergio Ramelli, a cui alcuni militanti di estrema sinistra spaccano la testa con una chiave inglese, come Alberto Brasili, accoltellato da giovani di destra perché attraversa una zona nera vestito «da comunista», o come Gianni Zibecchi, investito da un camion dei carabinieri durante una manifestazione.
Sono delitti politici, ma sono delitti politici anche altri, che più che al campo della cronaca o del giallo sembrano appartenere direttamente a quello dell’orrore. Come il massacro del Circeo, nel settembre del 1975, quando un gruppo di tre ragazzi di buona famiglia, tre neofascisti del quartiere Parioli, a Roma, porta due ragazze nella villa di uno di questi, a San Felice Circeo, in provincia di Latina. Lì le seviziano tutta la notte e ancora il giorno dopo per ore e poi, credendole morte, le caricano nel baule di un’auto e tornano a Roma. Lì parcheggiano l’auto in una piazza e vanno a cercarsi una pizzeria per mangiare. Una delle due ragazze, però, non è morta. Comincia a picchiare sul portello del baule finché qualcuno non la sente e chiama i carabinieri. Che aprono il baule e la trovano lì, a guardarli con gli occhi spalancati, accanto al corpo dell’amica.
O come lo stupro di Franca Rame. Nel marzo del 1973, a Milano, l’attrice Franca Rame sta camminando per via Nirone quando viene affiancata da un furgoncino. Dentro ci sono cinque estremisti di destra, che la obbligano a salire, la chiudono dentro e la violentano, ripetutamente. Dalla testimonianza di uno degli esecutori e di un ufficiale dei carabinieri, l’azione sarebbe stata ispirata e celebrata addirittura da alti ufficiali della divisione Pastrengo, di Milano.
Sono crimini politici, per la militanza attiva di chi li compie e per l’espressione di un modo di concepire chi è diverso, che sia un avversario politico, una donna o un omosessuale, come un nemico da abbattere con la violenza, da cancellare dalla faccia della terra.
È in questo clima che avviene un delitto come quello di Pier Paolo Pasolini? È questo odio che ha ucciso Pasolini, frocio e comunista? 2 novembre 1975. Ore 22,30.
Pier Paolo Pasolini è nell’Alfa 2000, in piazza dei Cinquecento, davanti alla stazione.
Pino Pelosi viene avvicinato da Pasolini, torna al bar per riprendere le chiavi e intanto avverte gli amici. Ragazzi di borgata, così simili ai protagonisti dei suoi libri e dei suoi film, ma anche ragazzi violenti, con idee politiche confuse ma precise, in cui Pasolini non è un poeta, non è un omosessuale, ma è quel frocio comunista di Pasolini, un nemico, uno a cui si deve dare una lezione, uno che si può bastonare e magari anche uccidere. Così lo seguono, lo tirano fuori dalla macchina e lo massacrano.

    Le ipotesi: un delitto ‘complessamente’ politico


Forse è andata così. O forse no. Perché anche in una ricostruzione come questa ci sono dei buchi, dei punti oscuri, che fanno pensare a qualcos’altro. C’è chi pensa che l’omicidio di Pier Paolo Pasolini non fosse così improvvisato, così estemporaneo. C’è chi pensa che quel massacro all’Idroscalo fosse qualcosa di più. Fosse un agguato. E che il movente fosse politico in senso stretto.
Per seguire questa pista occorre riandare a sabato 20 gennaio 2001, quando il quotidiano La Stampa pubblica un articolo a nove colonne dal titolo «Mattei, un delitto italiano». Il fatto è strano per più di un motivo. Mattei è morto da quarant’anni. La sua morte è stata considerata accidentale. Eppure il quotidiano torinese quel giorno è l’unico giornale italiano a soffermarsi sull’argomento con tanta dovizia di particolari e a rilanciare la tesi dell’attentato.
In verità, La Stampa sta informando i suoi lettori sul fatto che la procura di Pavia, competente per territorio, lavora da tempo alla riapertura del caso. C’è un giudice che, dal 20 settembre 1994, continua ad indagare in assoluta solitudine per ricostruire la vicenda e ribaltare verità fino a quel momento consolidate. Il suo nome è Vincenzo Calia.
Ma il fatto davvero significativo è che il giornale dedica due intere pagine all’argomento, mostrando di prendere in seria considerazione i risultati della sua inchiesta. La morte di Mattei non fu un incidente. Mattei fu ucciso. E non – come si era ipotizzato all’epoca – dal cartello delle grandi compagnie petrolifere, le famose Sette sorelle, o dall’Oas francese, o da altre organizzazioni internazionali. Mattei fu ucciso in un complotto tutto italiano, maturato all’interno dell’Eni e della Democrazia cristiana, il suo partito di appartenenza. Che cosa c’entra Pier Paolo Pasolini con Enrico Mattei? C’entra. Per un motivo. Perché è uno scrittore.
«Io so», aveva scritto Pasolini, «perché sono un intellettuale, uno scrittore», perché mettere insieme i fatti, ristabilire una logica, mettere in scena la ragione e il buon senso, «fa parte del mio mestiere, dell’istinto del mio mestiere». Queste cose Pasolini le scrive in un articolo che si intitola «Il romanzo delle stragi» e che mette assieme molte buone intuizioni sulle chiavi di lettura dei fatti della strategia della tensione. Questo romanzo, il romanzo delle stragi, ma non solo, il romanzo di parte della storia oscura d’Italia, Pasolini lo stava scrivendo. Si chiama Petrolio, ed uscirà molti anni dopo la sua morte, nel 1992 (perciò all’epoca dei fatti non si poté nemmeno prenderlo in considerazione); 500 pagine, ma dovevano essere 2 mila, incompleto, soltanto abbozzato, pieno di notazioni a margine, di aggiunte, e di tutti quei segni che fanno gli scrittori per ricordarsi qualcosa da scrivere meglio o da sviluppare.
Di cosa parla Petrolio? Dell’Eni. Non soltanto di quello, parla di tante cose, ma parla dell’Eni, della morte di Mattei, del suo successore Eugenio Cefis, della strategia della tensione, della politica italiana fino alla metà degli anni Settanta. Cambia i nomi, Enrico Mattei diventa Ernesto Bonocore ed Eugenio Cefis diventa Aldo Troya, ma i personaggi sono volutamente riconoscibili. Uno dei paragrafi, «Lampi sull’Eni», è certamente tra i più scottanti. Pasolini stesso dice di averlo scritto e ad esso rimanda il lettore. Ma tra le carte dello scrittore non è mai stato trovato.
Nella prima delle due pagine della Stampa sull’inchiesta del giudice Calia, sempre a nove colonne ma di taglio basso, Filippo Ceccarelli parla di Pasolini. Lo fa per ricordare queste cose, naturalmente. Ma, soprattutto, per citare un episodio davvero interessante. Ne è protagonista il celebre politologo Giorgio Galli, il quale, richiesto di una consulenza storica sugli equilibri e gli squilibri fra le correnti democristiane nel 1962 (anno della morte di Mattei), si vide sottoporre dal giudice Calia una specie di schemino, disegnato a mano, con tante diramazioni e alcuni nomi, tra cui quello di Eugenio Cefis. Ebbene, quello specchietto era desunto proprio dal libro di Pasolini. In Petrolio, Aldo Troya, cioè Cefis, viene descritto come un uomo «dal sorriso colpevole», «capace di tutto», alla guida di un «impero privato». Non solo. Quell’«impero» viene descritto fin nei più minimi particolari, per almeno una decina di pagine. Proprio Galli, del resto, nel suo recente libro su Mattei, ricorda che i collaboratori del presidente hanno sempre sostenuto che «Cefis creava società ad hoc (in proprio) per affidare loro commesse dell’Eni». Ebbene, nel romanzo di Pasolini quelle società sono descritte con dovizia di particolari.
Ma c’è di più. Alla pagina 117 di Petrolio si legge: «In questo preciso momento storico […] Troya (!) sta per essere fatto presidente dell’Eni: e ciò implica la soppressione del suo predecessore (caso Mattei, cronologicamente spostato in avanti). Egli con la cricca politica ha bisogno di anticomunismo (’68): bombe attribuite ai fascisti». Si capisce perché il giudice Calia fosse così interessato. «Con venticinque anni di anticipo», commenta Ceccarelli, «lo scrittore Pasolini era giunto alle conclusioni della sua lunga inchiesta».
E si comprende anche il presumibile stupore di Giorgio Galli. Tanto più forte, se si pensa che Pasolini, in uno degli appunti finali di Petrolio, ha persino previsto in una «visione», che è anche una profezia, la strage alla stazione di Bologna che avverrà molti anni dopo, ed è stato anche il primo a collegare, praticamente in tempo reale, l’attentato a Mattei a piazza Fontana e alle altre stragi. Tesi, questa, che proprio un politologo come Giorgio Galli ha cercato nel tempo di dimostrare e che è stata autorevolmente avallata da Amintore Fanfani in un discorso al Congresso dei partigiani cattolici tenutosi a Salsomaggiore nel 1986: «Chissà, forse l’abbattimento dell’aereo di Mattei, più di vent’anni fa, è stato il primo gesto terroristico nel nostro paese, il primo atto della piaga che ci perseguita». Dove, come commenta il giudice Calia, «Fanfani, dando per certo che l’aereo di Mattei era stato abbattuto, aggiungeva che, “forse”, dietro quell’abbattimento c’erano gli stessi ambienti che, in seguito, utilizzarono il terrorismo come strumento politico».
A questo punto la domanda è d’obbligo: ma come ha fatto Pasolini a capire tutte queste cose? Che fosse un intellettuale geniale è fuori discussione. Che fosse riuscito con la sua intelligenza a collegare le tessere più diverse del puzzle, anche. Ma per essere così documentato, per citare nomi, fatti, dati, delle informazioni deve pur averle avute. La risposta si trova al Gabinetto Viesseux di Firenze. È lì che sono conservate, oltre al manoscritto originale del romanzo, tutte le carte preparatorie di Petrolio e i materiali che Pasolini andava consultando. Tra questi c’è un libro, Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente, scritto da un tal Giorgio Steimetz, anche se è stato accertato che si tratta di uno pseudonimo. Scrive Steimetz: «Ridurre al silenzio, e con argomenti persuasivi, è uno dei tratti di ingegno più rimarchevoli del presidente dell’Eni». Gli fa eco Pasolini: «Egli doveva, per la stessa natura del suo potere, restare in ombra. E infatti ci restava. Ogni possibile “fonte” d’informazione su di lui, era misteriosamente quanto sistematicamente fatta sparire». Le pagine sulle attività imprenditoriali di Cefis, sulle società a lui in qualche modo collegate, Pasolini le deve dunque al libro di Steimetz, di cui Petrolio per questa parte è né più né meno la parafrasi. Diverso il discorso per quel che riguarda il ritratto psicologico e umano di Cefis. L’introspezione pasoliniana è, a tale riguardo, finissima. Pasolini ne coglie le ambiguità e le riassume sotto la categoria del «misto»: il «misto della sua personalità, che si manifesta sin dai tempi della sua giovinezza», come dimostra anche la sua esperienza di partigiano in una «formazione mista degasperiana e repubblicana», che lottava sui monti della Brianza.
Si può persino azzardare un’ipotesi: Pasolini conosceva Cefis. Erano infatti coetanei. Pasolini era nato il 5 marzo del 1922, Cefis il 21 luglio del 1921. Ma quel che più conta è che il futuro presidente dell’Eni e della Montedison era nato a Cividale del Friuli, a pochi chilometri da quella Casarsa della Delizia dove era nata la madre del poeta e dove lui stesso aveva a lungo vissuto. Pasolini si sofferma, in Petrolio, su questo dato e parla di «Cividale, Civitas: la città del Friuli; la Firenze del Friuli», con acribia filologica. Ma come era pervenuto a Pasolini il libro di Steimetz? La domanda è tutt’altro che irrilevante, dal momento che, edito nell’aprile del 1972 dall’Ami (Agenzia Milano informazioni, finanziata tra gli altri dall’Ente minerario siciliano di Graziano Verzotto), il volume era immediatamente sparito dalla circolazione, al punto che oggi è irrintracciabile anche nelle più importanti biblioteche e non compare mai in nessuna bibliografia.
Su questo punto, per certi versi decisivo, non ci sono ancora delle certezze. Sappiamo solo che fu lo psicoanalista Elvio Fachinelli a inviarglielo in fotocopia, come attesta una lettera del 20 settembre 1974. Fachinelli dirigeva una rivista, L’erba voglio, che, curiosamente, si era occupata molto di Cefis, di cui aveva pubblicato articoli ed interventi. E ciò aveva attirato l’attenzione di Pasolini, che a sua volta era come ossessionato da Cefis. Il famoso «articolo delle lucciole», quello in cui il poeta diceva che non avrebbe dato nemmeno una lucciola per la Montedison, è di lui che parlava. E al Viesseux, oltre alle fotocopie del libro di Steimetz, ampiamente chiosate e sottolineate, è possibile rinvenire altri materiali relativi a Cefis, come un suo discorso all’Accademia militare di Modena, pronunciato il 23 febbraio 1972, e i ciclostilati di altre conferenze, persino l’originale di una conferenza intitolata «Un caso interessante: la Montedison», tenuta l’11 marzo 1973 presso la Scuola di cultura cattolica di Vicenza, con annotazioni a margine dello stesso Cefis mai da lui pronunciate.
Per non dire che, nel paragrafo dal titolo «Storia del petrolio e retroscena» (corrispondente agli appunti 20-30 di Petrolio, oggi a pp. 117-118 del libro), Pasolini arriva a ripromettersi di inserire tutti i discorsi di Cefis, «i quali servono a dividere in due parti il romanzo in modo perfettamente simmetrico e esplicito». Per sbrogliare questa intricata matassa, ci viene in soccorso, ancora una volta, la conclusione dell’inchiesta del giudice Calia, che fornisce, sia pure indirettamente, una possibile chiave di lettura anche di questi fatti. Negli atti conclusivi della sua inchiesta (20 febbraio 2003), Calia dedica ampio spazio alla vicenda della sparizione del giornalista dell’Ora Mauro De Mauro. De Mauro fu rapito a Palermo la sera del 16 settembre 1970 davanti alla sua abitazione. Se il suo corpo non fu mai ritrovato e di lui, da quel momento, non si seppe più nulla, ben presto però fu chiaro che il suo rapimento era da collegarsi al «caso Mattei».
De Mauro, infatti, aveva ricevuto dal regista Francesco Rosi la richiesta di collaborare alla sceneggiatura del suo film su Enrico Mattei attraverso la ricostruzione degli ultimi due giorni di vita del presidente dell’Eni, che si svolsero proprio in Sicilia da dove poi ripartì per il suo ultimo, tragico volo. Il giornalista si era molto appassionato al tema, anche perché otto anni prima proprio lui era stato inviato dell’Ora a seguirli «in presa diretta». E aveva cominciato a sentire un’infinità di testimoni. Fu proprio raccogliendo queste testimonianze che si trovò improvvisamente di fronte a una versione radicalmente diversa dei fatti, a un’altra «verità».
A fornirgliela fu Graziano Verzotto, un senatore democristiano, che in quel momento era presidente dell’Ente minerario siciliano. Al giudice Calia, Verzotto dichiara: «Eugenio Cefis e Vito Guarrasi [un celebre avvocato civilista, consulente dell’Eni e di molte altre società nazionali operanti in Sicilia, quasi sconosciuto alla stampa e all’opinione pubblica, ma al centro di vicende economiche e politiche di rilevanza nazionale] – e il loro entourage – si erano sicuramente avvantaggiati della morte di Mattei: entrambi, infatti, erano stati poco prima della sua morte allontanati dagli incarichi che ricoprivano prima». E ancora: «Ritengo che il sequestro del giornalista sia intimamente connesso al progetto per la costruzione di un metanodotto tra l’Africa e la Sicilia». Era nata, infatti, un’accesa disputa tra l’Ems e l’Eni sulla fattibilità e sulla convenienza del controverso metanodotto. «Io avevo ritenuto», dichiara sempre a Calia Verzotto, «che era mio dovere, quale aderente a una corrente Dc (Gullotti) che si opponeva alla corrente “fanfaniana” (cui faceva riferimento Eugenio Cefis), nonché quale presidente dell’Ems (come tale direttamente interessato alla realizzazione del metanodotto), dare un fattivo contributo per contrastare chi si opponeva al più volte citato progetto di realizzazione del metanodotto. […] Tra gli oppositori al progetto […] si stagliava, naturalmente, il presidente dell’Eni».
La ragione per la quale Verzotto decise di dire queste stesse cose, e molte altre, al giornalista dell’Ora fu, appunto, questa. Egli era perfettamente consapevole che il film di Rosi «poteva essere uno strumento per sostenere e alimentare la campagna che l’ente da me presieduto intendeva portare avanti contro la presidenza del­l’Eni e contro coloro che si opponevano alla realizzazione del metanodotto». E quando De Mauro verrà sequestrato, Verzotto non ci metterà molto a capire che quella è anche un’intimidazione nei suoi confronti, e cercherà di adeguarsi. «Ebbi l’impressione che De Mauro fosse stato sequestrato anche per spaventarmi e per convincermi ad abbandonare il progetto del metanodotto». E dunque: dietro a De Mauro, che lavora per il film di Rosi, c’è Verzotto, con le sue informazioni; dietro a Pasolini, che lavora a Petrolio, c’è ancora una volta Verzotto! È a questo contesto che si riferisce Dario Bellezza nel suo libro Il poeta assassinato? «Pasolini», scrive, «mi disse un giorno, poco prima di morire, che aveva ricevuto dei documenti compromettenti su un notabile Dc». Per poi concludere: «Per me, ne sono più che convinto, c’è stato un mandante ben preciso che va ricercato fra coloro per i quali Pasolini chiese il processo. Un potente democristiano». Basta questo per uccidere un uomo come Pier Paolo Pasolini? Forse sì, se è bastato per far tacere per sempre una voce, certo meno temibile, come quella di Mauro De Mauro.
E si può aggiungere un’altra riflessione. In Italia raramente gli intellettuali vengono uccisi per quello che sanno. Il muro di gomma, allora come adesso, è così resistente che le informazioni rimbalzano e la «sola puerile voce» non è mai così pericolosa. Diverso è se si diventa, anche inconsapevolmente, armi nelle mani di qualcuno più potente e organizzato, soldati inconsapevoli in una delle tante battaglie oscure che si combattono per il potere. È successo questo a Pasolini? Le informazioni che qualcuno gli stava passando lo stavano rendendo troppo pericoloso per qualcun altro?
 
Ostia, monumento eretto sul luogo ove venne ucciso e ritrovato il corpo di Pasolini
 

Le ipotesi: un agguato premeditato

Sergio Citti era uno dei migliori amici di Pier Paolo Pasolini, aiuto regista in alcuni dei suoi film e fratello di Franco, il protagonista di Accattone. Pochi giorni dopo la morte di Pasolini va all’Idroscalo, raccoglie testimonianze e gira un filmato riprendendo tutti i particolari del luogo del delitto. Un filmato che non si può vedere, almeno per il momento, perché è stato assunto agli atti dalla magistratura. Adesso, non allora. Come allora non fu mai interrogato Sergio Citti, che avrebbe avuto qualcosa da dire. Avrebbe parlato di un furto, quello di alcune «pizze» del film Salò o le 120 giornate di Sodoma.
In gergo si chiamano «pizze», e sono quei grandi contenitori di metallo in cui stanno arrotolate le pellicole dei film. Un giorno ladri rimasti ignoti entrano negli stabilimenti della Technicolor, una delle ditte di sviluppo più importanti di allora, e rubano le pizze di alcuni film. Tra queste ce ne sono alcune che appartengono a Salò, il film su cui Pasolini sta lavorando, e che uscirà dopo la sua morte. È un danno grosso, che Pasolini rimedia montando i «doppi», cioè le alternative alle scene che vengono girate con inquadrature diverse e tutto sembra finire lì.
Invece no. C’è un uomo che si chiama Sergio Placidi. Conosce Citti e gli comunica di sapere come è avvenuto il furto. A rubare le «pizze» è stato un gruppo di ragazzi che frequentano un bar nella zona di via Lanciani, dove vanno a ballare e a giocare a biliardo. Attenzione, perché c’è un particolare importante su quel bar. Sarà un caso, sarà una coincidenza, ma quello è il bar frequentato proprio dal protagonista di questa storia. Pino Pelosi, detto Pino la Rana, e dai suoi amici: i quali, tra l’altro, in tutte le loro deposizioni, sono concordi nell’affermare che quel ritrovo è di proprietà di un loro comune amico di nome Sergio.
I responsabili del furto sono disposti a restituire le pizze di Salò, però vogliono soldi. Ne vogliono tanti, vogliono due miliardi. La cifra viene comunicata al produttore del film, Alberto Grimaldi, che naturalmente non ci sta, offre al massimo 50, 100 milioni, che pure in quegli anni sono molti, moltissimi. Ma i ragazzi incredibilmente non ci stanno e la cosa finisce lì.
Invece no, non ancora. Pochi giorni prima di quel 2 novembre, il giorno del massacro, i sedicenti autori del furto si fanno ancora vivi. È Sergio Citti che ce lo racconta, l’ha saputo da Pasolini. Chiamano il regista e gli dicono che si scusano, che non sapevano che ci fosse proprio il suo film tra le pellicole rubate e che glielo vogliono restituire. Vedi, dice Pasolini a Citti, che tra i ragazzi delle borgate conto qualcosa, che mi vogliono bene, che mi rispettano? Ed è felice di questo, Pier Paolo Pasolini. Ma all’appuntamento non ci può andare subito. Sta per partire per Stoccolma, deve presentare la traduzione in svedese di una sua raccolta di poesie, Le ceneri di Gramsci.
A Roma ci torna la sera del 31 ottobre. Il giorno dopo, il primo novembre, i ragazzi lo richiamano.
Quello stesso giorno Sergio Citti parla con Pasolini. Devono vedersi la sera tardi, perché stanno lavorando ad una sceneggiatura, ma Pasolini dice che non può. Prima deve andare a cena con Ninetto Davoli, al ristorante Il Pommidoro, poi deve vedere della gente. Deve vedere dei ragazzi. Quelli che vogliono restituirgli le pizze di Salò.
La testimonianza di Citti è a dir poco clamorosa. Come clamoroso è il fatto che in questi trent’anni nessun magistrato abbia sentito il dovere di interrogarlo. Adesso sappiamo perché Pasolini quella sera andò a Piazza dei Cinquecento. Non per «rimorchiare» dei ragazzi, ma per recuperare le «pizze» del suo ultimo film. E solo così i conti cominciano a tornare.
Abbiamo già visto, infatti, tutte le incongruenze della versione ufficiale. Ma solo limitatamente alla scena del delitto. Di incongruenze, però, è pieno anche il racconto su tutto ciò che precede il crimine.
Non risulta che Pelosi e i suoi amici fossero dei «marchettari». Loro stessi raccontano che quel sabato erano andati a ballare con delle ragazze nel solito locale di via Lanciani e solo sul tardi avevano deciso di andare dalle parti della stazione per passare il tempo e per divertirsi a guardare i «froci». A guardarli, a provocarli magari, ma non ad andare con loro. La differenza è sostanziale. Perché non si è mai indagato a fondo su questo punto?
Non è vero che il gruppo di amici non conoscesse Pasolini. Su questo particolare tutte le loro testimonianze concordano. Tanto lo conoscevano che lo riconobbero subito, lo salutarono e fecero il gesto di stringergli la mano. Non è vero – come testimoniò «a caldo» Pelosi – che fu Pasolini a proporre ai ragazzi di salire sulla sua macchina. È vero invece il contrario. Furono loro a chiederglielo, insistentemente, ma il regista non si fidò, mise la sicura alla macchina, e sollevò il vetro quel tanto che basta per rispondere al saluto, evitando spiacevoli sorprese. Può essere questo l’atteggiamento di uno che è lì per «rimorchiare»? Ma non basta. Uno di loro gli chiese di poter lavorare in un suo film e la sua risposta, sia pure in tono scherzoso, fu: «Tanto con la faccia da ladro che ti ritrovi». Un altro gli chiese di poter fare con lui un giro in macchina, al che Pasolini replicò che «non poteva farlo perché aveva un appuntamento». Dunque Pasolini aveva un appuntamento, e tutto questo è contenuto nei verbali delle deposizioni ufficiali!
Da segnalare che, mentre succedono queste cose, Pino Pelosi è momentaneamente scomparso. I suoi amici sono unanimi nel testimoniare che lo rivedranno solo mezz’ora, tre quarti d’ora più tardi, quando Pino la Rana andrà a riprendere le chiavi.
Ma quando esattamente si è incontrato con Pasolini? E soprattutto, dove sono stati tutto quel tempo? La risposta a questa domanda è fondamentale. Ancora. Che bisogno aveva Pelosi di riprendere le chiavi, se lui stesso dice che Pasolini si era impegnato a riaccompagnarlo a casa? E poi, possibile che della «sua» 850 (in realtà rubata, lui non aveva nemmeno la patente) ci fossero così tante chiavi? Comunque sia, verso le 23,30 sono in vista del Biondo Tevere. Qui le testimonianze concordano. Sì, ma perché andare al ristorante se i due devono consumare un breve atto sessuale? E soprattutto, perché andare in direzione della Basilica di San Paolo, e poi di Ostia, se i due devono fare ritorno sulla Tiburtina? E tanto più che, successivamente, Pasolini deve anche tornare a casa sua, all’Eur? Non sarebbe molto più logico andare in un prato della Tiburtina, evitando di fare, tra andata e ritorno, non meno di centoventi chilometri invece della metà?
Finita la cena, poco dopo la mezzanotte, i due imboccano la via Ostiense. Pelosi è molto preciso su questo punto. Sì, ma chi conosce Roma sa benissimo che, provenendo da viale Marconi o da San Paolo, per andare ad Ostia si prende la via del Mare. Se si sceglie l’Ostiense in genere è perché si deve raggiungere qualche altra località: Acilia, Vitinia, Dragona.
E si potrebbe continuare a lungo. Viceversa, se si parte dal presupposto che Pasolini fu vittima di un agguato, tutti gli elementi del puzzle tornano come per incanto al loro posto.
Il furto delle «pizze» è un tranello: a rubarle potrebbero persino essere stati degli altri. Pasolini, comunque, va alla stazione all’ora convenuta sperando di riappropriarsene. L’esca (inconsapevole?) è Pelosi, che, forse, va lì con gli amici, ignari, per rendere credibile il suo racconto. E infatti loro salutano Pasolini, mentre Pino la Rana si fa perdere di vista. Poi sale sulla macchina del poeta, che si fida di lui, mentre un attimo prima aveva reagito con malcelata diffidenza alle avance degli altri ragazzi. Ma Pino gli dice che le pizze non le ha, e forse telefona (o finge di telefonare) per sapere dove devono andare a ritirarle. Gli dicono di andare dopo mezzanotte ad Acilia (o a Dragona, o a Vitinia). Ma è troppo presto e perciò Pasolini porta il ragazzo, che ancora non ha cenato, al Biondo Tevere, che è nella direzione giusta. Finita la cena, i due imboccano la via Ostiense (attenzione, la via Ostiense, non la via del Mare, che è quella che si prende naturalmente per andare a Ostia). A quell’ora non ci vuol niente a raggiungere una delle frazioni limitrofe, Acilia o Vitinia o Dragona. È lì che Pasolini viene raggiunto dai suoi assassini, sequestrato e portato fino all’Idroscalo, che se non è il posto più adatto per fare l’amore è sicuramente un buon posto per ammazzare qualcuno? Ci sono anche alcune testimonianze, in questo senso. Gente che vive all’Idroscalo e che parla di almeno due macchine arrivate al campetto quella sera. Gente che dice che sul corpo di Pasolini, del tutto volontariamente, non passò Pelosi con la macchina del poeta, ma uno dei killer con la sua. Le hanno raccolte in molti e, tra questi, Sergio Citti, che però, allora, non fu interrogato. Come non fu interrogato Bravi, il gestore del ristorante Il Pommidoro, dove Pasolini cenò assieme a Ninetto Davoli. Come non furono interrogati tanti altri. La nostra è un’ipotesi. Se ne possono fare anche altre. Quel che è certo è che solo così si può spiegare logicamente e razionalmente quel che accadde quella maledetta notte all’Idroscalo. Solo così si può cominciare a dare un volto, se non un nome, agli «ignoti» di cui parlò la sentenza di primo grado. Se si trattò di un delitto politico in senso lato, di un delitto «semplicemente politico», questi ignoti potrebbero anche essere delle persone che magari volevano soltanto rapinare Pasolini, o «punirlo» per la sua omosessualità e anche, forse, per la sua fede politica. Ma Pasolini, che era forte e coraggioso, si difese e allora il pestaggio degenerò in un massacro. È possibile, ma non del tutto convincente. Non è convincente, in particolare, tutta quella ferocia spinta fino alle estreme conseguenze nei confronti di un uomo che a quei ragazzi poteva persino essere molto utile. Se, invece, si trattò di un delitto politico in senso stretto, di un delitto «complessamente politico», allora è più probabile che i killer fossero dei veri professionisti, che rispondevano a un preciso mandato. Potevano far parte, tanto per fare un esempio, di quei gruppi che stavano dando vita a quella che di lì a poco tutti conosceranno come la banda della Magliana, che imperversò per Roma spargendo continuamente sangue e terrore, e agendo spesso in combutta con la mafia, con l’eversione nera, con i servizi deviati.
Si può persino avanzare un’ipotesi particolarmente inquietante. Che Pasolini conoscesse i suoi killer; o che, quantomeno, conoscesse la loro provenienza.
C’è in questo senso una testimonianza interessante, resa di recente a Fulvio Abbate, per il libro C’era una volta Pasolini, da Silvio Parrello. Parrello, detto «Pecetto», è uno dei protagonisti di Ragazzi di vita; uno dei ragazzi che lo scrittore conobbe negli anni Cinquanta a Donna Olimpia che gli ispirarono la trama del suo primo romanzo. Alla domanda di Abbate, su chi potrebbero essere stati gli assassini di Pasolini, Parrello risponde: «Malavita romana, e uno che aveva un plantare numero 41, piede destro». E continua dicendo che, se si fossero fatte delle indagini sul plantare, sarebbero arrivati subito al proprietario, in quanto nell’ambito della malavita romana erano soltanto in tre a portare il plantare, e non certo tutti e tre piede destro e 41».
Ma è quello che aggiunge dopo ad essere ancor più interessante. Sentiamo. «Da tempo nel quartiere di Donna Olimpia gira voce che un personaggio, certo Antonio Pinna, assiduo frequentatore di Pasolini negli ultimi tempi per motivi che non sono chiari, il 14 febbraio 1976, a processo iniziato, scompare nel nulla, la sua auto fu rinvenuta parcheggiata all’aeroporto di Fiumicino, sempre nel quartiere si dice che fu eliminato perché sapeva la verità sulla morte di Pasolini».
Chi era, questo Antonio Pinna? Davvero è scomparso nel nulla da trent’anni? Qualcuno ha indagato su questo? È un fatto che molti elementi della banda della Magliana provenivano da Donna Olimpia; che molti di loro avessero case a Ostia e ad Acilia; che tutti frequentassero i bar di San Paolo (il famoso bar di via Chiabrera) e di Ponte Marconi (il bar Barone, in particolare).
C’erano, tra loro, anche alcuni degli «innocenti» e «poetici» ragazzi della Donna Olimpia e della Magliana degli anni Cinquanta, gli stessi che Pasolini aveva conosciuto e aveva raccontato nei suoi romanzi?
La cosa è possibile. E renderebbe ancor più atroce tutta questa storia. Come spiegherebbe la famosa «abiura» del ’75 («I giovani e i ragazzi del sottoproletariato romano […] se ora sono immondizia umana, vuol dire che anche allora potenzialmente lo erano»), già contenuta proprio in Petrolio: «Se quei giovani e ragazzi erano diventati così, voleva dire che essi avevano la possibilità di diventarlo: la loro degradazione dunque degradava anche il loro passato (che dunque era tutto un inganno). […] Quei giovani e ragazzi avrebbero pagato la loro degradazione col sangue: in un’ecatombe che avrebbe resa (ferocemente ridicola) la loro presuntuosa illusione di benessere».

(23 luglio 2008)


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