martedì 20 aprile 2021

Il Ghisallo, dal santuario della Madonna, patrona dei ciclisti, al museo del ciclismo

Collocata sul Belvedere Romeo, punto panoramico verso le Alpi Centrali, le Prealpi e il Lago di Como, la piccola chiesa è nata da umili origini poco dopo l’anno mille. Era una cappella lungo la strada posta a protezione dei viandanti. Tra questi si parla anche di un certo conte Ghisallo, sorpreso e minacciato a morte dai briganti durante una partita di caccia. Egli pregò e trovò salvezza presso questa Madonna, che da lui poi prese il nome di “Madonna del Ghisallo”. Da quel tempo la sua fama crebbe. Nel secolo XIV fu costruita una cappella più ampia, che in seguito andò in rovina. Nel 1623 venne edificata la chiesa attuale, ma senza porticato. Quello fu aggiunto una cinquantina di anni più tardi, nel 1681, con i tre archi. Permane l’immagine della Madonna, datata al secolo XVI, che comunque è una copia di quella precedente, andata perduta. 
Il ciclismo arrivò sul Ghisallo appena la bicicletta fu inventata. Alla fine del diciannovesimo secolo quella salita apparve subito come palestra ideale per i nuovi atleti che volevano allenarsi. Anche la posizione geografica risultava strategica.
Alla fine della Seconda guerra mondiale fu Don Ermelindo Viganò che presentò la domanda a Papa Pio XII, al fine di eleggere la Madonna del Ghisallo a Patrona ufficiale dei ciclisti. La fiaccola perenne venne accesa nel 1948 e il documento papale (breve pontificio) arrivò l’anno successivo.
La devozione che nacque da parte di ciclisti e appassionati verso la loro Patrona scatenò una gara a portare omaggi e cimeli verso la chiesetta che, ben presto, si riempì di oggetti votivi di vario genere, fiaccole, gagliardetti, trofei e, naturalmente, biciclette. Altri oggetti, in quantità notevolmente superiore a quelli esposti, ed in continuo aumento grazie alla solidarietà dei nuovi campioni, sono conservati in altro luogo non aperto al pubblico per la carenza di spazio presente nel Santuario. Oggi la chiesa è una meta di pellegrinaggio di tanti fedeli e di numerosissimi appassionati di ciclismo che vengono a rendere omaggio da tutto il mondo.




Frigerio Rinaldo - La sua storia è raccontata nel link in calce

La facciata del santuario è ora preceduta dal portico, sul fronte del quale sono stati posti tre mosaici, dei quali, quello centrale, riproduce l’affresco conservato all’interno del santuario, mentre sul lato sinistro sono presenti la sacrestia e il campanile.
Il piazzale antistante ospita tre cippi con i busti di Alfredo Binda, Gino Bartali, Fausto Coppi e il Monumento al ciclista, opera in bronzo di Elio Ponti del 1973.
L’interno è composto da un’unica navata, divisa dal presbiterio rettangolare da una inferriata. Al centro è stata collocata una fiaccola benedetta dal Papa nel 1949, opera dello scultore Carmelo Cappello. Nel presbiterio sono conservate alcune testimonianze della chiesetta precedente: l’ancona marmorea e l’affresco che racchiude, raffigurante una Madonna del latte, databile alla metà del XVI secolo, realizzato da un artista anonimo, che venne staccato e riportato su tela nel 1950.  

 

Il Museo del ciclismo nasce da una associazione costituita, nel 1994, da ex atleti, dirigenti e appassionati di ciclismo. L’iniziativa del gruppo aveva preso le mosse dalla considerazione che il santuario seicentesco della Madonna del Ghisallo accoglie al suo interno cimeli di particolare valore per la storia del ciclismo, che per carenza di spazio avrebbero richiesto una sede adeguata.
Grazie all’impegno comune di enti e associazioni politiche, istituzionali, imprenditoriali e sportive, nell’ottobre 2006 viene inaugurato il museo del ciclismo, in un luogo speciale per il significato sportivo e ambientale. Non esiste un luogo più significativo di questo in Lombardia, dove si contano quasi 700 società ciclistiche, migliaia di tesserati e moltissime gare nel corso dell’anno.


Chi entra nel Museo percorre uno scivolo a tornanti che ricorda l’ultimo tratto della salita del Ghisallo e l’andamento di molti percorsi di montagna.
La parte del museo dedicata ai Cimeli raggruppa gli oggetti, dotati di un particolare valore simbolico e affettivo, che i campioni e gli appassionati hanno donato al museo.
La parte Grande Enciclopedia del Ciclismo offre al visitatore i profili dei più grandi campioni di sempre, con informazioni sulle loro imprese e sui mezzi con cui le hanno compiute.
24 + 24 è la parte del museo in cui i quarantotto ciclisti dai maggiori palmares vengono ricordati singolarmente e proposti agli occhi del pubblico all’interno di due ambienti circolari: da Girardengo a Guerra, da Coppi a Bartali, da Gimondi a Motta, da Merckx a Moser a Hinault.
La sezione Ciak e campioni – 100 film sul ciclismo propone una selezione di 100 film, documentari, cortometraggi in cui si narra il ciclismo sportivo sullo sfondo della storia del Paese.
Oltre a una biblioteca specializzata, il museo offre ai suoi visitatori manifestazioni e mostre temporanee che illustrano vari aspetti della storia, della pratica diffusa e dell’attività agonistica, legati alla bicicletta. Tra questi eventi si segnalano gli incontri con il pubblico di campioni e protagonisti, intitolati Storie di ciclismo. I protagonisti e i testimoni raccontano.  
Come è facile comprendere, il Museo non è dedicato ad un campione in particolare o solo al mezzo della bicicletta. Non a caso si definisce un museo del ciclismo, un fenomeno sociale complesso e non facile da spiegare a chi non pratica questo sport e a chi non frequenta l’ambiente delle due ruote. Si tratta in ogni caso di museo dedicato agli uomini e alle donne che hanno usato e usano la bicicletta nella vita quotidiana e nelle competizioni sportive; ma anche un museo che è impegnato a far conoscere coloro che attorno al mondo delle due ruote lavorano e vivono: gli atleti, i produttori del mezzo, gli organizzatori, i dirigenti di società, i giornalisti… senza dimenticare i turisti e gli appassionati. Dunque ci interessano i mezzi fisici e i materiali, ma anche le idee, le passioni, i progetti, i valori, i rapporti sociali, gli interessi economici, le istituzioni, le organizzazioni che coinvolgono le persone che hanno a che fare con la bicicletta.
Si è detto che il museo rappresenta un tempio moderno all’umanità che vi viene celebrata per le sue virtù e il suo valore: si tratti di artisti, di tecnici, di scienziati, di protagonisti della grande storia. Un luogo in cui si vogliono far conoscere e ricordare i meriti di coloro che ci hanno preceduto, lasciandoci in eredità un insegnamento, i risultati conquistati a prezzo di fatiche e sacrifici, ma anche le capacità di suscitare emozioni e talora una vera passione.
Al Museo del ciclismo del Ghisallo c’è tanto da vedere e ascoltare, al punto che ci si deve tornare come hanno la fortuna di poter fare coloro che vivono nelle province limitrofe ed in Lombardia, magari con i ragazzi più giovani a cui i genitori, gli insegnanti e i dirigenti sportici potranno far conoscere la bicicletta come strumento di libertà, di conoscenza e di formazione.
Come ebbe a dire Alfredo Martini, indimenticato commissario tecnico della Nazionale dei professionisti e protagonista di uno degli incontri tenutisi qualche anno fa presso il Museo: “… mia madre, quand’ero bambino, mi portava a letto dicendo “Segnati”… lo diceva sempre. Poi io non ho trovato più nessuno che mi ha insegnato a segnarmi… Ma, entrando qui, mi è venuta in mente mia madre, perché qui c’è davvero da segnarsi, perché questo è un tempio, che rappresenta le grosse fatiche di tanta gente! Ogni oggetto che vediamo si riferisce sempre alle biciclette, all’impegno di tanti giovani che hanno cercato di non deludere il pubblico… Ecco, entrando qui, ho provato questa impressione. E me lo chiedevo anche prima di arrivare: quando sarò nel museo, cosa dovrò guardare di più? Qui si vorrebbe guardar tutto, ma ci vuole tempo…”

Beniamino Colnaghi

Per informazioni sul Museo: Tel. 031.965885 – http://www.museodelghisallo.it/
Tutte le immagini che corredano il testo sono state scattate da chi scrive.

Rinaldo Frigerio, post del 5 maggio 2017: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2017/05/il-29-giugno-1952-rinaldo-frigerio.html


sabato 3 aprile 2021

Prima guerra mondiale

I profughi veneti e friulani dopo Caporetto

 

Il 23 maggio 1915, il Regno d’Italia, sotto il governo del primo ministro Antonio Salandra, dichiara guerra all’Impero austro-ungarico, entrando così nella Prima guerra mondiale a fianco dell’Intesa, composta da Repubblica Francese, Impero Britannico e Impero Russo.
La dichiarazione di guerra italiana contro Austria e Ungheria costrinse gli abitanti delle aree in prossimità della linea del fronte, che si estendeva dall’alta Val Camonica, al Cadore, alla Carnia, sino alla valle dell’Isonzo, ad abbandonare le loro case. Centinaia di migliaia di persone si trovarono ad essere evacuate e trasferite in ogni parte del Paese. Un allontanamento affrettato e sofferto che si sarebbe  protratto per quattro interminabili anni, a cui sarebbe seguito il rimpatrio in luoghi che non erano più gli stessi, completamente distrutti dalla guerra, impoveriti nella terra e negli uomini. Proprio il tragico e diretto coinvolgimento della popolazione civile fece della Grande Guerra un conflitto totale, condizione che avrebbe raggiunto il suo apice nell’autunno del 1917 quando, in seguito alla disfatta di Caporetto, l’invasione da parte dei nostri nemici del Friuli e dell’alto Veneto spinse oltre il Piave centinaia di migliaia di civili. Un esodo del tutto imprevisto e dai risvolti drammatici, parallelo alla ritirata dell’esercito italiano. 



L’Isonzo è oggi il fiume condiviso fra Italia e Slovenia. La sua posizione l’ha portato ad essere teatro naturale dello scontro fra italiani e austro-tedeschi, con le famose battaglie che dal giugno 2015 al novembre del 2017 hanno infiammato il fronte. Parliamo appunto delle battaglie dell’Isonzo di cui l’ultima, la dodicesima, è quella di Caporetto. Dopo le sconfitte delle precedenti battaglie, nell’autunno del 1917 l’Austria-Ungheria cerca un colpo forte per ribaltare l’inerzia della guerra. La Russia, che si è sfilata intanto dal conflitto, scoprendo il proprio fronte di guerra più a est, ha consentito all’Impero di godere di un sostanzioso appoggio tedesco. Sul confine italiano vengono ammassati così uomini e mezzi, al comando del generale tedesco Otto Von Below. Il 22 ottobre il generale firma l’ordine di attacco e la mattina del 24 inizia l’offensiva contro l’Italia, in particolare contro la II Armata. Il fronte italiano si snocciola come un rosario lungo l’Isonzo, dalla conca di Plezzo fino al mare. Si distacca dal tracciato solo per seguire i fianchi del monte Tolmino. Il fronte è difeso da diverse armate, ma dove si scatena principalmente il fuoco austro-tedesco è sulla testa di ponte del Tolmino, dove si trova la II Armata. L’attacco prevede il lancio di gas e granate, ad accompagnare le incursioni delle truppe d’assalto nemiche. Sono queste truppe la variabile impazzita che spezza la difesa italiana, disposta sul campo con una formazione troppo offensiva. L’eccessivo, e classico, sbilanciamento in avanti della difesa italiana, unito al diffuso scoramento morale dei nostri soldati ed al malcontento degli ufficiali, giocherà a favore delle truppe d’assalto avversarie, che, in poco tempo spezzano la linea italiana. La II Armata si trova presa a tenaglia da nord e da sud, sfasciandosi. Come detto la maggior parte delle  truppe italiane erano ammassate in prima linea, così che una volta superata questa, agli invasori si apre la discesa in direzione di Cividale e di Udine.

La ritirata dell'esercito italiano dopo Caporetto

La prima conseguenza di Caporetto è il senso di sconfitta che assurgerà poi a simbolo. A differenza di altre sconfitte, non troppo diverse nell’entità ma che sono state assorbite nel grande gioco della guerra, Caporetto diventa un trauma con cui fare i conti. A differenza di altri eserciti che in quella stessa guerra avevano subito sconfitte più cocenti, concedendo all’avversario molti più chilometri di suolo patrio, quello italiano viene messo sotto accusa.
Le ripercussioni sono anche di carattere politico: cambiano il governo e i vertici militari. Il comandante supremo del Regio Esercito italiano, Luigi Cadorna, viene sostituito dal generale Armando Diaz. Cadorna paga anche per gli errori di alcuni suoi generali ed anche per il famoso bollettino del 28 ottobre, uscito dopo Caporetto, in cui accusa di vigliaccheria alcuni reparti.
Eppure fra le conseguenze di Caporetto si può annoverare, non troppo forzatamente, la vittoria della guerra. Non solo per la svolta psicologica che fa nascere la voglia di riscatto, la mistica del Piave e poi di Vittorio Veneto. Ma anche proprio da un punto di vista pratico. L’avanzata austro-tedesca si spinge infatti in profondità nel territorio italiano, ma paradossalmente troppo. Questo avanzamento non previsto ha comportato problemi logistici per le truppe straniere. Questo mentre gli italiani vedono arrivare i treni a poche decine di chilometri dal nuovo fronte, che rispetto al precedente è molto più corto e quindi più facilmente difendibile. Le truppe d’invasione si trovano quindi come propaggini che, invece di radicarsi, diventano rami secchi per la mancanza di approvvigionamenti. Rami secchi che vengono risaliti dall’esercito italiano e favoriscono l’attacco a tutta la pianta avversaria.
Capace di scrivere l’epitaffio del nostro esercito, o di produrre la prova del riscatto, in questo Caporetto getta le basi per la vittoria della guerra. Per usare la retorica dannunziana, la morte di Caporetto precede la resurrezione dell’esercito italiano, che troverà il proprio simbolo nella battaglia di Vittorio Veneto.
Sono due i luoghi simbolo della Grande Guerra italiana, così come sono due i fiumi legati a questi eventi. Se l’Isonzo vedrà passare lo straniero dopo Caporetto, il Piave sarà lo scoglio dove l’ondata austro-tedesca si schianterà. La battaglia di arresto avviene a poche settimane da Caporetto: trentacinque divisioni italiane respingono cinquantacinque divisioni avversarie lanciate sulle ali dell’entusiasmo.
Con la seconda battaglia del Piave nel giugno 1918 viene spenta l’ultima grande offensiva austro-tedesca e si apre la strada per la vittoria finale, annunciata dallo stesso D’Annunzio con il volo su Vienna. L’impero sta collassando, mentre l’esercito italiano ha fatto diventare l’onta di Caporetto un vessillo di riscatto da piantare in campo avversario.
Quattro mesi più tardi si gioca la battaglia decisiva. Il monte Grappa e il Piave diventano i punti di scontro che porteranno l’esercito italiano a sfondare le linee nemiche e inseguire l’esercito avversario fino alla firma dell’armistizio. 


Riprendendo ora il racconto circa l’esodo biblico che coinvolse, loro malgrado, intere comunità di friulani, giuliani, trentini e veneti, che scapparono dall’invasore austro-tedesco, occorre ricordare che furono soprattutto donne, vecchi e bambini ad abbandonare repentinamente la propria terra, la propria casa, gli affetti, in quella che fu la più grande tragedia collettiva della Grande Guerra. In pochissimi giorni si moltiplicò il numero dei profughi, dilaniati dal dilemma se fuggire di fronte al nemico o subirne l’occupazione. Come le evacuazioni di inizio conflitto avevano dimostrato (vedasi, a tale proposito, i due post a margine, sui deportati della Valle di Ledro) anche nel ’17 la maggior parte delle famiglie era costituita da una ragguardevole componente femminile, alla quale, in assenza dei mariti, toccò il compito di scegliere se abbandonare le proprie case, le bestie, i campi. Per le donne l’ultimo anno di guerra fu un periodo terribile a causa delle divisioni familiari, con gli uomini al fronte, o comunque lontani per lavoro, e una parte dei propri cari nel Friuli e nel Veneto occupati.
La fuga dei profughi italiani in quell’autunno è difficile sia per le condizioni delle strade di allora, sia per l’ostilità che incontrano: alcuni, cercando di evitare i ponti e le vie principali, muoiono annegati nei fiumi in piena. Si accampano dove possono, finché il governo del Regno d’Italia non decide di farsene carico, promuovendo un piano di ricollocamento in varie regioni. Non senza difficoltà, sia perché questi profughi sono il simbolo della sconfitta, sia soprattutto per la diffidenza delle popolazioni che dovrebbero ospitarli, tanto che alcuni arrivi vengono organizzati di notte per evitare proteste. E’ fondamentale, scriveva il ministro Orlando ai prefetti del Paese, rendersi conto “… delle necessità del momento che costringono il Ministero ad inviare in tutte le Province migliaia di profughi di guerra… che senza indugio devono essere alloggiate, nutrite, vestite e in ogni altra guisa materialmente e moralmente soccorse”
Nei primi giorni di novembre del 1917 decine e decine di treni, o per meglio dire carri bestiame, furono riempiti di profughi sotto una pioggia torrenziale. Molti treni s’avviarono verso destinazioni ignote, almeno per gli stessi profughi, comunque verso il Centro e Sud Italia. Il primo approdo fu l’estremo lembo meridionale dell’Italia: la Sicilia. Gli altri furono sparsi tra Campania, Calabria e Puglia. Nei piccoli paesi meridionali donne, vecchi e bambini veneti e friulani vennero accolti negli edifici scolastici e in strutture comunali o religiose. Ovunque vennero organizzate manifestazioni di accoglienza, politicamente trasversali perché promosse con pari passione da liberali e repubblicani, socialisti e cattolici, da comitati parrocchiali e sindacali. A Bologna trovarono alloggio 8mila profughi, a Firenze 20mila si sistemarono presso privati e 9mila trovarono alloggio in alberghi e pensioni. A Napoli vennero smistati 70mila profughi.  
Milano, per la sua posizione geografica, fu naturalmente snodo di passaggio dei profughi verso altre regioni, ma anche centro di raccolta e accoglienza di una gran numero di persone. Si calcola che in città furono accolti almeno 30.000 profughi, oltre a quelli in transito che vennero rifocillati e confortati. L'organizzazione della assistenza si appoggiò alla ben collaudata struttura del Comitato centrale di assistenza per la guerra che funzionava già dai primi giorni del conflitto. Una Commissione di Assistenza ai profughi fu creata appositamente dal Comitato per coordinare tutte le operazioni, con sede nell'ex Teatro San Martino, in piazza Beccaria. Umanitaria e Bonomelli misero a disposizione le loro strutture di piazza Miani (Casa Emigranti e Ospizio) e altre allestite temporaneamente per fornire un ricovero provvisorio, pasti, indumenti, cure mediche a chi giungeva a Milano, in attesa di proseguire il viaggio verso un'altra città. Lungo la strada vennero assistiti dal Comitato tra profughi udinesi e friulani, che provvedeva anche a consegnare le tessere per le distribuzioni nei punti di ristoro
Tra ottobre e novembre l'Umanitaria assistette circa 50.000 profughi, la Bonomelli altri 15.000. Tra gli accolti numerosi furono i bambini smarritisi dalle proprie famiglie; ricoverati temporaneamente negli istituti cittadini, in seguito furono ricongiunti con i genitori o con i parenti. A novembre solo l'Umanitaria ne raccolse 95 affidandoli all'Asilo Mariuccia, all'Istituto Derelitti, all'Unione Femminile, ecc. Nei primi giorni dell'esodo, l'eccezionale afflusso di persone a Milano, divenuto centro di smistamento dei profughi che soggiornarono più a lungo del previsto per la saturazione degli altri luoghi di accoglienza, fece sì che le strutture dell'Umanitaria e della Bonomelli, preparate per ricevere 2.000 persone di passaggio, ne alloggiassero oltre 6.000.
Il Comune aprì un rifugio per 400 profughi, prevalentemente inabili al lavoro, nella Villa Reale di Monza e la Croce Rossa Americana approntò un ospizio in via Giusti. Generose offerte di privati misero a disposizione anche altri locali in abitazioni civili. Gli uffici comunali stimarono circa 12.000 sfollati dimoranti stabilmente a Milano.
Nei mesi successivi si provvide al collocamento al lavoro di chi si era stabilito in città, come personale di servizio, operai, negli uffici pubblici o come rimpiazzi di coloro che si trovavano al fronte. Vennero elargiti sussidi, anche da parte del Comitato tra profughi udinesi e friulani, da quello Veneto, e dalla Commissione per l'Emigrazione Trentina già presenti a Milano, per il pagamento degli affitti e l'acquisto di masserizie. Questi aiuti si aggiungevano al sussidio erogato dallo Stato. Secondo il censimento fatto dal Ministero delle Terre Liberate, nel novembre 1918 a Milano i nuclei famigliari dei profughi residenti in città erano 17.058, i profughi irredenti 8.944, per un totale di 47.614 persone.
La resa degli imperi centrali e la fine della guerra non risolsero immediatamente le cose. Il rientro dei civili era impedito dalla distruzione di molti luoghi d’origine dei profughi e dalla necessità di bonificare le aree e iniziare a ricostruire. Tra la tarda primavera e l’estate del 1919 il rimpatrio delle famiglie venete e friulane ebbe un’accelerazione, per protrarsi anche nei mesi successivi.
Ma molte famiglie di profughi decisero di rimanere nelle città e nei luoghi che le avevano benevolmente ospitate durante quei terribili mesi.   

 

A proposito di profughi, migranti, pregiudizi... Quando i profughi eravamo noi italiani.  Estratto dal sito Cisl Veneto: https://www.cislveneto.it/Editoriali/Franca-Porto/Profughi-i-primi-furono-i-veneti-nella-Grande-Guerra 
“Oziosi, sospetti ladri e donne equivoche. Danno fastidio ai bagnanti. Non manca qualche ubriaco… molesto e prepotente” e poi “vivono in vere tane: una stanza, senza finestre, dove c’è la latrina, il fornello e le brande” tanto che è necessaria una vigilanza sanitaria costante per evitare il propagarsi di malattie attribuibili alle scarse condizioni igieniche anche perché qualcuno denunciava che è “un anno che indossiamo l’abito che ci restò nella fuga”. Sono brani di testimonianze e documenti tratti dal libro di Daniele Ceschin “Gli esuli di Caporetto” (Laterza). 
I profughi di cui racconta lo storico veneto sono le centinaia di migliaia di friulani, trentini, giuliani, dalmati ma soprattutto veneti (mezzo milione) che dovettero abbandonare le proprie case e cose dopo la rotta di Caporetto e trovare rifugio oltre il Piave, fino alla Sicilia. Spesso malvisti da chi li ospitava perché mangiavano il loro pane, comunque intrusi e guastafeste e perfino essere cannibali (più precisamente: di mangiare i bambini). Le donne venete erano considerate scostumate, gli uomini inclini all’ozio. Se invece trovavano lavoro erano accusati di portarlo via ai locali. Peggio che peggio il fatto che percepissero un sussidio dallo Stato: un privilegio negato ai locali. Naturalmente, oltre ai pregiudizi, trovarono anche abbondante solidarietà, vicinanza umana, simpatia di poverissimi tra poveri. Non mancò quella che oggi chiameremo “l’integrazione”: fidanzamenti, matrimoni “misti” e via dicendo. 
Varrebbe proprio la pena leggere queste pagine di storia veneta ed italiana di cento anni fa e di confrontarne il racconto con le vicende dei profughi che da alcuni anni arrivano fuggendo alle nuove guerre, alle nuove Caporetto. Ci sono perfino le medesime controversie, reciproche accuse, polemiche, rimpalli, fughe dalle responsabilità tra Stato centrale e amministrazioni locali.

Beniamino Colnaghi

Deportati Valle di Ledro: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2017/11/la-valle-di-ledro-e-la-boemia-storie-di.html

Integrazione: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2018/10/i-profughi-della-valle-di-ledro.html

Daniele Ceschin, Gli esuli di Caporetto: I profughi in Italia durante la Grande Guerra, Edizione  Laterza.