giovedì 23 dicembre 2021

Il Blog Storia e storie di donne e uomini 

augura buon Natale e sereno anno nuovo


Verderio

giovedì 18 novembre 2021

 Ul Cagiada, personaggio tipico della Brianza di un tempo

 “La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda

 e come la si ricorda per raccontarla.”

Gabriel Garcia Marquez

Non esiste una regola generale, che io sappia, ma quando si raccontano delle storie, a volte è utile iniziare con un aneddoto, un ricordo personale. Ed io comincerò così a raccontare questa storia.
Quasi certamente era il 1962, un giorno lavorativo. Mia nonna Clelia mi portò con sé nella Cùrt di Giòn, una trentina di passi dalla corte dei Barbìs, dove abitava la mia famiglia. Oggi corrisponde al civico numero 3 di via Angolare, Comune di Verderio ex Superiore. Lei era nata lì, in quella porzione stretta e angusta del centro storico, e lì abitò fino al 30 gennaio 1926, quando si sposò con mio nonno Beniamino. In quel cortile viveva suo fratello Alessandro, Sonder, con la moglie ed una figlia non maritata. Nel 1962 frequentavo le scuole elementari e ricordo limpidamente che indossavo il grembiulino nero, ornato dal colletto bianco e dal fiocco dello stesso colore. Mia nonna, alla quale i miei genitori diedero il compito di accudirmi dopo l’uscita da scuola, aveva fretta. Era una donna spiccia e pratica, diretta, alle volte un po’ brusca nei modi, ma generosa e di buon cuore. “La mamma ed il papà sono al lavoro, vieni con me, dobbiamo andare a casa dello zio Alessandro” mi disse quasi trafelata. Evidentemente doveva dire qualcosa a suo fratello, pensai, e non voleva lasciarmi solo in casa.
Non saprei dire perché quel preciso fatto mi sia rimasto impresso nella mente per così lungo tempo. Piccoli particolari come ne avvengono milioni nella nostra vita, per nulla significativi, privi di qualsiasi rilevanza e motivo di interesse. Il cervello umano si comporta così ed a volte facciamo fatica a comprenderne i meccanismi. Alcuni fatti ci rimangono impressi tutta la vita, di altri il cervello se ne libera apparentemente in fretta, salvo poi estrarli da qualche “cassettino” al momento opportuno.
Oltrepassato il portone d’ingresso del cortile vedemmo il fratello di mia nonna seduto su una vecchia sedia di legno, di quelle con la seduta impagliata, con un braccio legato al collo. Alessandro si lamentava per la contusione alla spalla ed al braccio, procuratagli da una disattenzione che lo mandò a sbattere contro un carro agricolo in movimento.
Sonder, classe 1902, mi ispirava simpatia; era un tipo espansivo e chiacchierone, con il timbro di voce inconfondibile ed un’andatura leggermente dinoccolata. Sua moglie Giuseppina stava attendendo l’arrivo di mia nonna affinché l’aiutasse a sbendarlo ed a praticare un massaggio sulla parte dolorante, a base di sungia, in italiano strutto o sugna, una pasta bianca ricavata dalla fusione a vapore dei tessuti adiposi interni del maiale. In quegli anni nei quali il boom economico stava timidamente entrando anche nelle case delle classi sociali meno abbienti, la fame consigliava di non buttare via niente e la sungia, oltre che in cucina, veniva usata anche come unguento e medicamento. Ricordo che capitò anche a me, da ragazzino, “subire” un massaggio a base di sungia quando slogai una caviglia giocando a pallone nel campetto dell’oratorio. La sungia e alcuni giorni di riposo avrebbero fatto ritornare l’arto come nuovo.
Il capannello di persone che nel frattempo si era formato, intento a raccontarsi spassosi e imperdibili pettegolezzi di paese, spostò la mia attenzione su una grande marmitta colma di cagiada, ottenuta dal latte cagliato, adagiata sul davanzale della finestra di Antonia Cassago, che in paese era conosciuta col soprannome di Balùna. In dialetto brianzolo il termine balòn indica il pallone da calcio, oppure una persona che racconta dei fatti ingigantendoli oltremisura, che “le spara sempre grosse”: un casciaball, un balòn, appunto. Antonia aveva sposato Giovanni Riva, detto Gion, classe 1902, di cui ho avuto modo di parlare nel post Ambrogio Colnaghi, “Ul Campée” di Casa Gnecchi, pubblicato il 3 marzo 2012.
Ad una mia domanda sulla cagiada, mia nonna rispose dicendo che i contadini la mangiavano spesso, perché fresca e salutare, oppure la utilizzavano per fare il formaggio. Aggiunse, inoltre, che il termine veniva spesso usato come soprannome per individuare una persona, secondo alcune caratteristiche fisiche o caratteriali, oppure per prenderlo in giro. In ogni paese, anche in quello più piccolo, c’era qualcuno a cui veniva affibbiato tale soprannome. A Verderio Superiore il termine cagiada venne dato all’Alfredo, un uomo dai modi cortesi, distinto e sempre molto elegante, per via del fatto che fece per gran parte della sua vita il commesso in alcuni negozi di abbigliamento a Milano.  


Sopra, la corte dei Barbìs, sotto, il portico di accesso alla corte dei Giòn

 

Durante la mia infanzia mia nonna mi raccontò alcune storie, filastrocche popolari e brevi racconti, tramandati dalla tradizione orale contadina. Avendo perso la madre pochi giorni dopo il parto, mi confessò che le storie le aveva imparate dalla viva voce di sua nonna Virginia, da una amorevole zia che la crebbe e da altre donne che popolavano le stalle in inverno ed i portici dei cortili durante la bella stagione. La maggior parte dei suoi racconti li ho purtroppo dimenticati. La mia memoria ha trattenuto dei frammenti di alcune tra le fiabe più raccontate ai bambini in quegli anni e di una storia “fantastica” che narrava di alcuni ladroni che rubavano oggetti preziosi e monete d’oro nelle case dei ricchi e andavano poi a nascondersi in grotte e spelonche, distribuendo poi il bottino ai poveri. Erano una specie di Robin Hood brianzoli. Quella che, invece, ricordo meglio riguarda appunto le vicissitudini di un uomo che veniva soprannominato Cagiada. Penso si trattasse di una storia vera, una di quelle storie che narravano le gesta di uomini e donne realmente vissuti, sulle quali, però, venivano costruite e modellate variabili in funzione dei luoghi e delle convenienze del momento.
In ossequio alla citazione di Gabriel García Márquez, la racconto così come la ricordo, naturalmente utilizzando termini diversi ma mantenendo la struttura del racconto la più fedele possibile.  
In un paese vicino a Verderio viveva un contadino di nome Pietro, detto Cagiada perché era ghiotto di quel fresco alimento. Quando però veniva a lui offerto, molto spesso lo rifiutava, salvo poi pentirsene. Istu, accidenti, diceva alla moglie, stamattina sono andato a casa di un mio amico a svolgere un lavoro e sua moglie mi ha offerto una tazza di cagiada con la polenta, ma io ho rifiutato. 
Il Pietro era un brav’uomo, un gran lavoratore, ma era molto umile e timido. Di mestiere faceva il cavallante (sui cavallanti, post pubblicato nel giugno 2015), oltre a qualche altro lavoretto per tirare a campare. Possedeva un carro ed un cavallo che utilizzava per il trasporto di merci, oppure che metteva a disposizione, dietro compenso, a chi avesse avuto necessità di trasportare qualsiasi cosa. In quegli anni, i contadini, non essendoci molte disponibilità economiche, venivano spesso pagati con i prodotti della terra o con il lavoro: farina, uova, latte, uso dei carri o prestazioni di manodopera. Ma lui, essendo timido, non osava chiedere, preferiva che fossero gli altri ad offrire. Essendo un fervente credente in Dio, sperava nell’intervento della Provvidenza e nella benevolenza del prossimo. Per sua fortuna non aveva una famiglia numerosa da sfamare. Sua moglie gli aveva dato due figli: un maschio ed una femmina, la quale si era maritata presto, trasferendosi in un piccolo paese nei pressi di Como. Era stata fortunata, la ragazza. La famiglia di suo marito possedeva, da almeno un paio di generazioni, un piccolo laboratorio per la produzione di merletti e pizzi. Anche lei, però, si era data da fare ed aveva contribuito al benessere della famiglia: con la bicicletta, alla quale erano state applicate due grosse ceste di vimini, girava in lungo ed in largo i paesi della zona a vendere le merci che la famiglia di suo marito produceva. Pietro era orgoglioso di sua figlia, anche se non lo lasciava trasparire alla gente, tanta era la sua modestia.  
Del figlio maschio, invece, era insoddisfatto. Era un poco di buono, diceva agli amici più intimi. Lo classificava un lazzarone, uno che a vent’anni non aveva ancora combinato niente di buono. I suoi sfoghi avvenivano principalmente dentro le mura domestiche e nell’osteria gestita da uno dei suoi più cari amici.
Un giorno entrò nel cortile dell’osteria, appoggiò la vecchia bicicletta al muro e si diresse verso la porta d’ingresso. Entrato, si sedette vicino al camino acceso e l’oste gli portò la solita ciotola del vino. Pietro teneva gli occhi fissi sul fuoco e scuoteva la testa, in maniera quasi ossessiva, lamentando il fatto che se non fosse andato lì, sarebbe diventato matto, tanta era la sua insoddisfazione verso il figlio. L’oste cercò di consolarlo giustificando il fatto che i giovani erano così e che non dovesse farsi venire il sangue amaro.
Il Pietro raccontò al suo amico oste che quando andava al cimitero a far visita ai suoi morti, guardava le loro fotografie e gli pareva che anche loro fossero preoccupati di quei conflitti generazionali. Hanno lavorato tanto anche loro, diceva, hanno risparmiato tutta la vita ma non hanno mai messo il naso fuori dal paese. Il padre di Pietro lavorava sei giorni la settimana, andava in chiesa la domenica mattina e nei giorni di festa ed il pomeriggio andava in osteria, sempre seduto allo stesso posto, dov’era lui adesso.
Il Cagiada accostò la ciotola alle labbra, sorseggiando piano e asciugandosi poi col dorso della mano, mentre i baffi luccicavano di rosso. Si alzò lentamente, pagò il conto e si diresse verso l’uscita. Fu l’ultima volta che il suo amico oste lo vide nella sua osteria. Una settimana più tardi, Pietro, detto ul Cagiada, morì nel suo letto. Non aveva ancora compiuto sessant’anni. Di crepacuore, disse maliziosamente la gente del paese, per via di quel figlio scansafatiche.  
Morto il padre, il ragazzo andò a vivere dalla sorella, vicino a Como. Suo cognato lo ospitò, insieme alla madre, ma parlò chiaro. Disse che gli avrebbe dato un posto di lavoro ma che avrebbe dovuto piegare la schiena e rigare diritto, altrimenti gli indicò la porta.
Mise la testa a posto, il figlio del Cagiada. Si sposò con una ragazza svizzera, ebbe tre figli ed il primogenito lo chiamò Pietro, in ricordo di suo padre.

Beniamino Colnaghi

martedì 15 giugno 2021

I 15 martiri di piazzale Loreto a Milano

La piazza principale del Comune di Cornate d’Adda, sulla quale si affaccia la chiesa parrocchiale, è dedicata ai “15 Martiri”. Molto probabilmente poche persone conoscono questa storia,  né tantomeno il motivo per il quale, l’Amministrazione di quel Comune, ha inteso, nell’anno 2008, dedicare la piazza a quei cittadini antifascisti. 
E allora cominciamo a raccontare il contesto e gli antefatti, partendo dall’attualità.

 

La targa ricordo di Cornate d'Adda

A Milano è stato presentato recentemente il progetto che si è aggiudicato la gara per il rinnovamento di piazzale Loreto, e il cui obiettivo è quello di trasformare il più caotico snodo di traffico della città in una grande agorà verde, anello di congiunzione tra corso Buenos Aires, viale Monza e via Padova, rendendolo allo stesso tempo nuovo simbolo di Milano. Alla città verranno restituiti 24.000 metri quadrati di spazio pubblico pedonale, di cui oltre 12.000 nella piazza, a fronte dei circa 2.500 mq utilizzabili oggi. Un piano ribassato costituirà la piazza anfiteatro, flessibile e adattabile a diversi usi temporanei pubblici, come concerti, manifestazioni, mercati, attività sportive e occasioni di aggregazione. Il traffico verrà posto ai margini del piazzale, per favorire gli spostamenti ciclabili e pedonali all’interno dell’area e la penetrazione tra i diversi assi stradali, la cui connettività sarà mantenuta. La circolazione verrà modulata secondo le nuove geometrie della piazza.
Il Comune di Milano ha chiesto alcuni pareri ai cosiddetti “portatori di interessi” milanesi, residenti, individui o organizzazioni che sono attivamente coinvolti nel progetto, tra i quali Sergio Fogagnolo, il figlio di Umberto, uno dei 15 martiri. Il motivo del parere richiesto verte sulla sistemazione di “quell’angolo maledetto” del piazzale, zona via Andrea Doria, ove è collocato il monumento che ricorda la strage dei Quindici martiri.
Chi erano dunque i 15 martiri e perché si ricordano proprio a piazzale Loreto?

La Milano dell’estate del ’44 vive da quasi un anno sotto il governo fantoccio fascista della RSI, Repubblica Sociale Italiana, e l’occupazione tedesca. In quei dieci mesi Milano non è rimasta a guardare. Nelle fabbriche gli operai sono arrivati a scioperare, le donne hanno liberato dai treni piombati alcuni rastrellati destinati ai campi di concentramento, è stato costituito il CLN, Comitato di Liberazione Nazionale. In città, i GAP, Gruppo di Azione Patriottica, sono attivissimi. Ma le modalità dell’attentato dell’8 agosto sono inconsuete.
I GAP non colpiscono nel mucchio, hanno obiettivi precisi, mirati: il gerarca, il collaborazionista, il delatore, il deposito di armi e munizioni... Quando vogliono colpire colonne tedesche, cercano di farlo salvaguardando il più possibile la vita dei civili. E, soprattutto, non possiedono i congegni a orologeria utilizzati da qualcuno per i due scoppi in viale Abruzzi. Le esplosioni avvengono la mattina dell’8 agosto, nel tratto di viale Abruzzi che conduce a piazzale Loreto. Hanno fatto saltare in aria un camion tedesco, provocando il lieve ferimento dell’autista e la morte di alcuni passanti. Tutti italiani. 
Malgrado la pattuglia della Wehrmacht non avesse riportato perdite, che avrebbero comportato l’applicazione del bando Kesselring, “10 italiani per un tedesco”, l’ordine della rappresaglia arriva. Perché Theodor Emil Saevecke, capitano delle SS, all’epoca dei fatti comandante della polizia di sicurezza nazista, potente gerarca del Terzo Reich, comandante dell’Aussenkommando di Milano, spietato governatore di San Vittore, va oltre quella legge già così feroce? Perché ordina la rappresaglia di civili inermi e la strage?
Con gli occhi di oggi, un attentato più somigliante alle stragi in Iraq che alle azioni praticate dai GAP. Oltre che per la vicinanza col luogo dell’attentato, la scelta di compiere la ritorsione e allestire la macabra esposizione in piazzale Loreto fu emblematica. 
Snodo fondamentale della rete dei trasporti milanesi, la grande piazza era percorsa dalle linee tranviarie che collegavano il centro della città alle periferie dei grandi insediamenti industriali. Al sabato, giorno di paga della quindicina, sotto le pensiline dei tram e tutto attorno ai binari si improvvisava un mercatino, dove gli operai usavano rifornirsi di generi di prima necessità. 
Un punto di passaggio e di ritrovo, dunque, che avrebbe assicurato, nell’intento dei nazifascisti, la massima visibilità ed efficacia all’agghiacciante schiaffo d’intimidazione ai lavoratori, agli antifascisti e ai cittadini di Milano. Con la strategia del “terrore” i tedeschi confidavano di annichilire una volta per tutte ogni forma di resistenza. Ma non fu mai così.

10 agosto 1944, ore 5,45. Un autocarro tedesco frena di botto e scarica giù 15 uomini in tuta da lavoro. Fa appena giorno a Milano e piazzale Loreto è quasi un deserto. Su un lato della grande spianata circondata dai palazzi, un pugno di militi della Brigata Nera “Aldo Resega” sorveglia le vie d’accesso. Altri uomini, italiani, fascisti della GNR e della Legione “Ettore Muti” attendono di compiere lo sporco lavoro che gli è stato affidato. I prigionieri stanno fermi, in fila, davanti alle armi. La voce del capitano Pasquale Cardella, che comanda il plotone della “Muti”, urla parole di morte. Poi, un ordine secco mette in moto i quindici uomini, velocemente. Con uno scatto improvviso, prima uno e poi un altro cercano di scappare. Un portone spalancato, un angolo da svoltare. Due raffiche e pochi metri di vita. Il resto della fila si sbanda, forma una curva, c’è una vecchia staccionata in legno. Fermi così! Fermi lì! Colpi, colpi, e anche quei corpi muoiono a terra.
Lì, tutti insieme, definiti dai fascisti “mucchio di immondizia… Trascinati nel mucchio anche gli altri due corpi. Grida di ebbrezza, risate rabbiose. Un cartello: QUESTI SONO I GAP SQUADRE ARMATE PARTIGIANE ASSASSINI. Lasciati lì, fino a sera. State di guardia. Nessuno li muova. Nessuno li tocchi. Niente fiori, nemmeno candele. Tutti li vedano, tutti devono imparare la lezione.

Foto dei cadaveri dei 15 antifascisti trucidati a piazzale Loreto

La strage e la successiva crudele esposizione impressiona talmente la popolazione che il capo della provincia, Piero Parini, scrive a Mussolini definendolo un “abietto assassino”. I cadaveri erano sorvegliati da militi fascisti, alcuni dei quali non paghi di aver scaricato il loro mitra su uomini indifesi e innocenti, si prendevano il privilegio di ridere istericamente davanti a quel mucchio di cadaveri ancora caldi. Le donne svenivano, i volti dei milanesi erano pietrificati. Pare che il cardinale di Milano, Alfredo Ildefonso Schuster, intervenne personalmente e fece pressioni tali per togliere quei cadaveri dal marciapiede.


Poi, otto mesi dopo quei tragici fatti, grazie alla forza ed alla tenacia di milioni di italiani, di uomini e donne di ogni estrazione sociale, che si batterono contro la dittatura fascista e l’occupazione straniera, la storia prese un’altra piega, nacque la Repubblica e venne scritta la nostra Carta costituzionale, arrivarono la libertà e la democrazia, che ancora oggi sono alla base della nostra civiltà.  

Beniamino Colnaghi 

giovedì 10 giugno 2021

 Enrico Berlinguer a 37 anni dalla morte

Moderno Innovatore Rivoluzionario


Enrico Berlinguer (Sassari, 25 maggio 1922 – Padova, 11 giugno 1984) 

sabato 22 maggio 2021

Saruggia, i buoi del paisan Franco Ronchetti

Saruggia (Como), antica frazione sulla collina di Albavilla, che degrada dolce fino alla sponda del lago di Alserio, un tempo era un borgo di contadini che abitavano vecchie case e piccole cascine. Poi sono arrivati gli “spensierati” anni 80, e tutto è cambiato, tutto è stato banalmente “ammodernato”, con criteri per nulla fedeli alla storia del luogo. Tutto tranne una cascina, che ha mantenuto i caratteri originali, principalmente perché è abitata da un paisan,  che di nome fa Franco Ronchetti, detto “Franco di bò”. Perché questo soprannome? Perché Franco possiede, e sicuramente ama, come nei versi del Carducci “t’amo pio bove; e mite un sentimento…”, due splendidi bovi, bianchi, possenti, che guardandoli non puoi fare a meno di dire: “Vi amo, pii bovi; e mite un sentimento di vigore e di pace al cor m’infondete”, storpiando un po’ i versi del grande Giosuè.


I buoi di Franco Ronchetti

Franco ha sempre allevato buoi. Quelli che ha oggi hanno una decina d’anni di vita e hanno sostituito altri buoi, ormai vecchi, finiti inevitabilmente al macello. Nella sua stalla, nel cuore di Saruggia, trascorrono infatti la loro pacifica esistenza i due suoi splendidi e possenti bovi, razza “grigio alpina”, che richiamano proprio quelli di Carducci. Certo, il Franco ogni tanto li fa anche lavorare nei campi, dato che possiede oltre trenta pertiche di terra che, nonostante abbia già superato da un pezzo gli 80 anni d’età, coltiva a granoturco, patate, erba medica. 
Lui dice che, lavoro o no, pretendono di ruminare oltre 40 chili ciascuno di fieno. Ma il problema non è questo, tanto è quello dei maniscalchi: infatti non se ne trovano quasi più capaci di ferrare le zampe dei bovini. E pare, sempre secondo Franco, che i maniscalchi per i cavalli, più numerosi in circolazione, non siano adeguatamente formati per lavorare sui buoi. 
Il Ronchetti, come si diceva poco sopra, è un contadino molto affezionato ai suoi animali, che ha portato dovunque: alle feste di paese, alle sfilate storiche, al Palio del Baradello, alla Battaglia di Carcano. Lo hanno chiamato anche gli hindù, gli indiani residenti in Lombardia, che ogni anno organizzano una loro festa religiosa, dove i buoi, animali sacri, sono protagonisti. 
Anni fa ha partecipato anche a film importanti. Ha addirittura avuto una parte, ovviamente con i suoi inseparabili animali, nella serie tv “I promessi sposi”, diretta da Salvatore Nocita e prodotta dalla Rai nel 1989. 
Pochi anni fa Franco Ronchetti ha ricevuto una medaglia d’oro dal gruppo flocloristico “I Paisan” di Albavilla, come  riconoscimento «per l’attività svolta in campo agricolo, attività che nonostante l’età avanzata continua ad esercitare con passione e determinazione».
Una medaglia d’oro che dovrà condividere con i suoi amatissimi buoi.

Beniamino Colnaghi

venerdì 14 maggio 2021

 ll Museo Etnografico dell’Alta Brianza 

Garlate (Lecco)


dal 16 maggio 2021  è aperta la mostra

 

Il cibo di tutti

Etnografie del pane

Tre documentari e un’esposizione


a cura di Rosalba Negri e Massimo Pirovano



Il museo si può visitare solo su prenotazione scrivendo a: meab@parcobarro.it

 

sabato e domenica, dalle 9 alle 12.30 e dalle 14 alle 18

 

Info: MEAB tel. 0341.240193 Parco Monte Barro tel. 0341.542266    http://meab.parcobarro.it/

Cerca il MEAB su Facebook


martedì 20 aprile 2021

Il Ghisallo, dal santuario della Madonna, patrona dei ciclisti, al museo del ciclismo

Collocata sul Belvedere Romeo, punto panoramico verso le Alpi Centrali, le Prealpi e il Lago di Como, la piccola chiesa è nata da umili origini poco dopo l’anno mille. Era una cappella lungo la strada posta a protezione dei viandanti. Tra questi si parla anche di un certo conte Ghisallo, sorpreso e minacciato a morte dai briganti durante una partita di caccia. Egli pregò e trovò salvezza presso questa Madonna, che da lui poi prese il nome di “Madonna del Ghisallo”. Da quel tempo la sua fama crebbe. Nel secolo XIV fu costruita una cappella più ampia, che in seguito andò in rovina. Nel 1623 venne edificata la chiesa attuale, ma senza porticato. Quello fu aggiunto una cinquantina di anni più tardi, nel 1681, con i tre archi. Permane l’immagine della Madonna, datata al secolo XVI, che comunque è una copia di quella precedente, andata perduta. 
Il ciclismo arrivò sul Ghisallo appena la bicicletta fu inventata. Alla fine del diciannovesimo secolo quella salita apparve subito come palestra ideale per i nuovi atleti che volevano allenarsi. Anche la posizione geografica risultava strategica.
Alla fine della Seconda guerra mondiale fu Don Ermelindo Viganò che presentò la domanda a Papa Pio XII, al fine di eleggere la Madonna del Ghisallo a Patrona ufficiale dei ciclisti. La fiaccola perenne venne accesa nel 1948 e il documento papale (breve pontificio) arrivò l’anno successivo.
La devozione che nacque da parte di ciclisti e appassionati verso la loro Patrona scatenò una gara a portare omaggi e cimeli verso la chiesetta che, ben presto, si riempì di oggetti votivi di vario genere, fiaccole, gagliardetti, trofei e, naturalmente, biciclette. Altri oggetti, in quantità notevolmente superiore a quelli esposti, ed in continuo aumento grazie alla solidarietà dei nuovi campioni, sono conservati in altro luogo non aperto al pubblico per la carenza di spazio presente nel Santuario. Oggi la chiesa è una meta di pellegrinaggio di tanti fedeli e di numerosissimi appassionati di ciclismo che vengono a rendere omaggio da tutto il mondo.




Frigerio Rinaldo - La sua storia è raccontata nel link in calce

La facciata del santuario è ora preceduta dal portico, sul fronte del quale sono stati posti tre mosaici, dei quali, quello centrale, riproduce l’affresco conservato all’interno del santuario, mentre sul lato sinistro sono presenti la sacrestia e il campanile.
Il piazzale antistante ospita tre cippi con i busti di Alfredo Binda, Gino Bartali, Fausto Coppi e il Monumento al ciclista, opera in bronzo di Elio Ponti del 1973.
L’interno è composto da un’unica navata, divisa dal presbiterio rettangolare da una inferriata. Al centro è stata collocata una fiaccola benedetta dal Papa nel 1949, opera dello scultore Carmelo Cappello. Nel presbiterio sono conservate alcune testimonianze della chiesetta precedente: l’ancona marmorea e l’affresco che racchiude, raffigurante una Madonna del latte, databile alla metà del XVI secolo, realizzato da un artista anonimo, che venne staccato e riportato su tela nel 1950.  

 

Il Museo del ciclismo nasce da una associazione costituita, nel 1994, da ex atleti, dirigenti e appassionati di ciclismo. L’iniziativa del gruppo aveva preso le mosse dalla considerazione che il santuario seicentesco della Madonna del Ghisallo accoglie al suo interno cimeli di particolare valore per la storia del ciclismo, che per carenza di spazio avrebbero richiesto una sede adeguata.
Grazie all’impegno comune di enti e associazioni politiche, istituzionali, imprenditoriali e sportive, nell’ottobre 2006 viene inaugurato il museo del ciclismo, in un luogo speciale per il significato sportivo e ambientale. Non esiste un luogo più significativo di questo in Lombardia, dove si contano quasi 700 società ciclistiche, migliaia di tesserati e moltissime gare nel corso dell’anno.


Chi entra nel Museo percorre uno scivolo a tornanti che ricorda l’ultimo tratto della salita del Ghisallo e l’andamento di molti percorsi di montagna.
La parte del museo dedicata ai Cimeli raggruppa gli oggetti, dotati di un particolare valore simbolico e affettivo, che i campioni e gli appassionati hanno donato al museo.
La parte Grande Enciclopedia del Ciclismo offre al visitatore i profili dei più grandi campioni di sempre, con informazioni sulle loro imprese e sui mezzi con cui le hanno compiute.
24 + 24 è la parte del museo in cui i quarantotto ciclisti dai maggiori palmares vengono ricordati singolarmente e proposti agli occhi del pubblico all’interno di due ambienti circolari: da Girardengo a Guerra, da Coppi a Bartali, da Gimondi a Motta, da Merckx a Moser a Hinault.
La sezione Ciak e campioni – 100 film sul ciclismo propone una selezione di 100 film, documentari, cortometraggi in cui si narra il ciclismo sportivo sullo sfondo della storia del Paese.
Oltre a una biblioteca specializzata, il museo offre ai suoi visitatori manifestazioni e mostre temporanee che illustrano vari aspetti della storia, della pratica diffusa e dell’attività agonistica, legati alla bicicletta. Tra questi eventi si segnalano gli incontri con il pubblico di campioni e protagonisti, intitolati Storie di ciclismo. I protagonisti e i testimoni raccontano.  
Come è facile comprendere, il Museo non è dedicato ad un campione in particolare o solo al mezzo della bicicletta. Non a caso si definisce un museo del ciclismo, un fenomeno sociale complesso e non facile da spiegare a chi non pratica questo sport e a chi non frequenta l’ambiente delle due ruote. Si tratta in ogni caso di museo dedicato agli uomini e alle donne che hanno usato e usano la bicicletta nella vita quotidiana e nelle competizioni sportive; ma anche un museo che è impegnato a far conoscere coloro che attorno al mondo delle due ruote lavorano e vivono: gli atleti, i produttori del mezzo, gli organizzatori, i dirigenti di società, i giornalisti… senza dimenticare i turisti e gli appassionati. Dunque ci interessano i mezzi fisici e i materiali, ma anche le idee, le passioni, i progetti, i valori, i rapporti sociali, gli interessi economici, le istituzioni, le organizzazioni che coinvolgono le persone che hanno a che fare con la bicicletta.
Si è detto che il museo rappresenta un tempio moderno all’umanità che vi viene celebrata per le sue virtù e il suo valore: si tratti di artisti, di tecnici, di scienziati, di protagonisti della grande storia. Un luogo in cui si vogliono far conoscere e ricordare i meriti di coloro che ci hanno preceduto, lasciandoci in eredità un insegnamento, i risultati conquistati a prezzo di fatiche e sacrifici, ma anche le capacità di suscitare emozioni e talora una vera passione.
Al Museo del ciclismo del Ghisallo c’è tanto da vedere e ascoltare, al punto che ci si deve tornare come hanno la fortuna di poter fare coloro che vivono nelle province limitrofe ed in Lombardia, magari con i ragazzi più giovani a cui i genitori, gli insegnanti e i dirigenti sportici potranno far conoscere la bicicletta come strumento di libertà, di conoscenza e di formazione.
Come ebbe a dire Alfredo Martini, indimenticato commissario tecnico della Nazionale dei professionisti e protagonista di uno degli incontri tenutisi qualche anno fa presso il Museo: “… mia madre, quand’ero bambino, mi portava a letto dicendo “Segnati”… lo diceva sempre. Poi io non ho trovato più nessuno che mi ha insegnato a segnarmi… Ma, entrando qui, mi è venuta in mente mia madre, perché qui c’è davvero da segnarsi, perché questo è un tempio, che rappresenta le grosse fatiche di tanta gente! Ogni oggetto che vediamo si riferisce sempre alle biciclette, all’impegno di tanti giovani che hanno cercato di non deludere il pubblico… Ecco, entrando qui, ho provato questa impressione. E me lo chiedevo anche prima di arrivare: quando sarò nel museo, cosa dovrò guardare di più? Qui si vorrebbe guardar tutto, ma ci vuole tempo…”

Beniamino Colnaghi

Per informazioni sul Museo: Tel. 031.965885 – http://www.museodelghisallo.it/
Tutte le immagini che corredano il testo sono state scattate da chi scrive.

Rinaldo Frigerio, post del 5 maggio 2017: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2017/05/il-29-giugno-1952-rinaldo-frigerio.html


sabato 3 aprile 2021

Prima guerra mondiale

I profughi veneti e friulani dopo Caporetto

 

Il 23 maggio 1915, il Regno d’Italia, sotto il governo del primo ministro Antonio Salandra, dichiara guerra all’Impero austro-ungarico, entrando così nella Prima guerra mondiale a fianco dell’Intesa, composta da Repubblica Francese, Impero Britannico e Impero Russo.
La dichiarazione di guerra italiana contro Austria e Ungheria costrinse gli abitanti delle aree in prossimità della linea del fronte, che si estendeva dall’alta Val Camonica, al Cadore, alla Carnia, sino alla valle dell’Isonzo, ad abbandonare le loro case. Centinaia di migliaia di persone si trovarono ad essere evacuate e trasferite in ogni parte del Paese. Un allontanamento affrettato e sofferto che si sarebbe  protratto per quattro interminabili anni, a cui sarebbe seguito il rimpatrio in luoghi che non erano più gli stessi, completamente distrutti dalla guerra, impoveriti nella terra e negli uomini. Proprio il tragico e diretto coinvolgimento della popolazione civile fece della Grande Guerra un conflitto totale, condizione che avrebbe raggiunto il suo apice nell’autunno del 1917 quando, in seguito alla disfatta di Caporetto, l’invasione da parte dei nostri nemici del Friuli e dell’alto Veneto spinse oltre il Piave centinaia di migliaia di civili. Un esodo del tutto imprevisto e dai risvolti drammatici, parallelo alla ritirata dell’esercito italiano. 



L’Isonzo è oggi il fiume condiviso fra Italia e Slovenia. La sua posizione l’ha portato ad essere teatro naturale dello scontro fra italiani e austro-tedeschi, con le famose battaglie che dal giugno 2015 al novembre del 2017 hanno infiammato il fronte. Parliamo appunto delle battaglie dell’Isonzo di cui l’ultima, la dodicesima, è quella di Caporetto. Dopo le sconfitte delle precedenti battaglie, nell’autunno del 1917 l’Austria-Ungheria cerca un colpo forte per ribaltare l’inerzia della guerra. La Russia, che si è sfilata intanto dal conflitto, scoprendo il proprio fronte di guerra più a est, ha consentito all’Impero di godere di un sostanzioso appoggio tedesco. Sul confine italiano vengono ammassati così uomini e mezzi, al comando del generale tedesco Otto Von Below. Il 22 ottobre il generale firma l’ordine di attacco e la mattina del 24 inizia l’offensiva contro l’Italia, in particolare contro la II Armata. Il fronte italiano si snocciola come un rosario lungo l’Isonzo, dalla conca di Plezzo fino al mare. Si distacca dal tracciato solo per seguire i fianchi del monte Tolmino. Il fronte è difeso da diverse armate, ma dove si scatena principalmente il fuoco austro-tedesco è sulla testa di ponte del Tolmino, dove si trova la II Armata. L’attacco prevede il lancio di gas e granate, ad accompagnare le incursioni delle truppe d’assalto nemiche. Sono queste truppe la variabile impazzita che spezza la difesa italiana, disposta sul campo con una formazione troppo offensiva. L’eccessivo, e classico, sbilanciamento in avanti della difesa italiana, unito al diffuso scoramento morale dei nostri soldati ed al malcontento degli ufficiali, giocherà a favore delle truppe d’assalto avversarie, che, in poco tempo spezzano la linea italiana. La II Armata si trova presa a tenaglia da nord e da sud, sfasciandosi. Come detto la maggior parte delle  truppe italiane erano ammassate in prima linea, così che una volta superata questa, agli invasori si apre la discesa in direzione di Cividale e di Udine.

La ritirata dell'esercito italiano dopo Caporetto

La prima conseguenza di Caporetto è il senso di sconfitta che assurgerà poi a simbolo. A differenza di altre sconfitte, non troppo diverse nell’entità ma che sono state assorbite nel grande gioco della guerra, Caporetto diventa un trauma con cui fare i conti. A differenza di altri eserciti che in quella stessa guerra avevano subito sconfitte più cocenti, concedendo all’avversario molti più chilometri di suolo patrio, quello italiano viene messo sotto accusa.
Le ripercussioni sono anche di carattere politico: cambiano il governo e i vertici militari. Il comandante supremo del Regio Esercito italiano, Luigi Cadorna, viene sostituito dal generale Armando Diaz. Cadorna paga anche per gli errori di alcuni suoi generali ed anche per il famoso bollettino del 28 ottobre, uscito dopo Caporetto, in cui accusa di vigliaccheria alcuni reparti.
Eppure fra le conseguenze di Caporetto si può annoverare, non troppo forzatamente, la vittoria della guerra. Non solo per la svolta psicologica che fa nascere la voglia di riscatto, la mistica del Piave e poi di Vittorio Veneto. Ma anche proprio da un punto di vista pratico. L’avanzata austro-tedesca si spinge infatti in profondità nel territorio italiano, ma paradossalmente troppo. Questo avanzamento non previsto ha comportato problemi logistici per le truppe straniere. Questo mentre gli italiani vedono arrivare i treni a poche decine di chilometri dal nuovo fronte, che rispetto al precedente è molto più corto e quindi più facilmente difendibile. Le truppe d’invasione si trovano quindi come propaggini che, invece di radicarsi, diventano rami secchi per la mancanza di approvvigionamenti. Rami secchi che vengono risaliti dall’esercito italiano e favoriscono l’attacco a tutta la pianta avversaria.
Capace di scrivere l’epitaffio del nostro esercito, o di produrre la prova del riscatto, in questo Caporetto getta le basi per la vittoria della guerra. Per usare la retorica dannunziana, la morte di Caporetto precede la resurrezione dell’esercito italiano, che troverà il proprio simbolo nella battaglia di Vittorio Veneto.
Sono due i luoghi simbolo della Grande Guerra italiana, così come sono due i fiumi legati a questi eventi. Se l’Isonzo vedrà passare lo straniero dopo Caporetto, il Piave sarà lo scoglio dove l’ondata austro-tedesca si schianterà. La battaglia di arresto avviene a poche settimane da Caporetto: trentacinque divisioni italiane respingono cinquantacinque divisioni avversarie lanciate sulle ali dell’entusiasmo.
Con la seconda battaglia del Piave nel giugno 1918 viene spenta l’ultima grande offensiva austro-tedesca e si apre la strada per la vittoria finale, annunciata dallo stesso D’Annunzio con il volo su Vienna. L’impero sta collassando, mentre l’esercito italiano ha fatto diventare l’onta di Caporetto un vessillo di riscatto da piantare in campo avversario.
Quattro mesi più tardi si gioca la battaglia decisiva. Il monte Grappa e il Piave diventano i punti di scontro che porteranno l’esercito italiano a sfondare le linee nemiche e inseguire l’esercito avversario fino alla firma dell’armistizio. 


Riprendendo ora il racconto circa l’esodo biblico che coinvolse, loro malgrado, intere comunità di friulani, giuliani, trentini e veneti, che scapparono dall’invasore austro-tedesco, occorre ricordare che furono soprattutto donne, vecchi e bambini ad abbandonare repentinamente la propria terra, la propria casa, gli affetti, in quella che fu la più grande tragedia collettiva della Grande Guerra. In pochissimi giorni si moltiplicò il numero dei profughi, dilaniati dal dilemma se fuggire di fronte al nemico o subirne l’occupazione. Come le evacuazioni di inizio conflitto avevano dimostrato (vedasi, a tale proposito, i due post a margine, sui deportati della Valle di Ledro) anche nel ’17 la maggior parte delle famiglie era costituita da una ragguardevole componente femminile, alla quale, in assenza dei mariti, toccò il compito di scegliere se abbandonare le proprie case, le bestie, i campi. Per le donne l’ultimo anno di guerra fu un periodo terribile a causa delle divisioni familiari, con gli uomini al fronte, o comunque lontani per lavoro, e una parte dei propri cari nel Friuli e nel Veneto occupati.
La fuga dei profughi italiani in quell’autunno è difficile sia per le condizioni delle strade di allora, sia per l’ostilità che incontrano: alcuni, cercando di evitare i ponti e le vie principali, muoiono annegati nei fiumi in piena. Si accampano dove possono, finché il governo del Regno d’Italia non decide di farsene carico, promuovendo un piano di ricollocamento in varie regioni. Non senza difficoltà, sia perché questi profughi sono il simbolo della sconfitta, sia soprattutto per la diffidenza delle popolazioni che dovrebbero ospitarli, tanto che alcuni arrivi vengono organizzati di notte per evitare proteste. E’ fondamentale, scriveva il ministro Orlando ai prefetti del Paese, rendersi conto “… delle necessità del momento che costringono il Ministero ad inviare in tutte le Province migliaia di profughi di guerra… che senza indugio devono essere alloggiate, nutrite, vestite e in ogni altra guisa materialmente e moralmente soccorse”
Nei primi giorni di novembre del 1917 decine e decine di treni, o per meglio dire carri bestiame, furono riempiti di profughi sotto una pioggia torrenziale. Molti treni s’avviarono verso destinazioni ignote, almeno per gli stessi profughi, comunque verso il Centro e Sud Italia. Il primo approdo fu l’estremo lembo meridionale dell’Italia: la Sicilia. Gli altri furono sparsi tra Campania, Calabria e Puglia. Nei piccoli paesi meridionali donne, vecchi e bambini veneti e friulani vennero accolti negli edifici scolastici e in strutture comunali o religiose. Ovunque vennero organizzate manifestazioni di accoglienza, politicamente trasversali perché promosse con pari passione da liberali e repubblicani, socialisti e cattolici, da comitati parrocchiali e sindacali. A Bologna trovarono alloggio 8mila profughi, a Firenze 20mila si sistemarono presso privati e 9mila trovarono alloggio in alberghi e pensioni. A Napoli vennero smistati 70mila profughi.  
Milano, per la sua posizione geografica, fu naturalmente snodo di passaggio dei profughi verso altre regioni, ma anche centro di raccolta e accoglienza di una gran numero di persone. Si calcola che in città furono accolti almeno 30.000 profughi, oltre a quelli in transito che vennero rifocillati e confortati. L'organizzazione della assistenza si appoggiò alla ben collaudata struttura del Comitato centrale di assistenza per la guerra che funzionava già dai primi giorni del conflitto. Una Commissione di Assistenza ai profughi fu creata appositamente dal Comitato per coordinare tutte le operazioni, con sede nell'ex Teatro San Martino, in piazza Beccaria. Umanitaria e Bonomelli misero a disposizione le loro strutture di piazza Miani (Casa Emigranti e Ospizio) e altre allestite temporaneamente per fornire un ricovero provvisorio, pasti, indumenti, cure mediche a chi giungeva a Milano, in attesa di proseguire il viaggio verso un'altra città. Lungo la strada vennero assistiti dal Comitato tra profughi udinesi e friulani, che provvedeva anche a consegnare le tessere per le distribuzioni nei punti di ristoro
Tra ottobre e novembre l'Umanitaria assistette circa 50.000 profughi, la Bonomelli altri 15.000. Tra gli accolti numerosi furono i bambini smarritisi dalle proprie famiglie; ricoverati temporaneamente negli istituti cittadini, in seguito furono ricongiunti con i genitori o con i parenti. A novembre solo l'Umanitaria ne raccolse 95 affidandoli all'Asilo Mariuccia, all'Istituto Derelitti, all'Unione Femminile, ecc. Nei primi giorni dell'esodo, l'eccezionale afflusso di persone a Milano, divenuto centro di smistamento dei profughi che soggiornarono più a lungo del previsto per la saturazione degli altri luoghi di accoglienza, fece sì che le strutture dell'Umanitaria e della Bonomelli, preparate per ricevere 2.000 persone di passaggio, ne alloggiassero oltre 6.000.
Il Comune aprì un rifugio per 400 profughi, prevalentemente inabili al lavoro, nella Villa Reale di Monza e la Croce Rossa Americana approntò un ospizio in via Giusti. Generose offerte di privati misero a disposizione anche altri locali in abitazioni civili. Gli uffici comunali stimarono circa 12.000 sfollati dimoranti stabilmente a Milano.
Nei mesi successivi si provvide al collocamento al lavoro di chi si era stabilito in città, come personale di servizio, operai, negli uffici pubblici o come rimpiazzi di coloro che si trovavano al fronte. Vennero elargiti sussidi, anche da parte del Comitato tra profughi udinesi e friulani, da quello Veneto, e dalla Commissione per l'Emigrazione Trentina già presenti a Milano, per il pagamento degli affitti e l'acquisto di masserizie. Questi aiuti si aggiungevano al sussidio erogato dallo Stato. Secondo il censimento fatto dal Ministero delle Terre Liberate, nel novembre 1918 a Milano i nuclei famigliari dei profughi residenti in città erano 17.058, i profughi irredenti 8.944, per un totale di 47.614 persone.
La resa degli imperi centrali e la fine della guerra non risolsero immediatamente le cose. Il rientro dei civili era impedito dalla distruzione di molti luoghi d’origine dei profughi e dalla necessità di bonificare le aree e iniziare a ricostruire. Tra la tarda primavera e l’estate del 1919 il rimpatrio delle famiglie venete e friulane ebbe un’accelerazione, per protrarsi anche nei mesi successivi.
Ma molte famiglie di profughi decisero di rimanere nelle città e nei luoghi che le avevano benevolmente ospitate durante quei terribili mesi.   

 

A proposito di profughi, migranti, pregiudizi... Quando i profughi eravamo noi italiani.  Estratto dal sito Cisl Veneto: https://www.cislveneto.it/Editoriali/Franca-Porto/Profughi-i-primi-furono-i-veneti-nella-Grande-Guerra 
“Oziosi, sospetti ladri e donne equivoche. Danno fastidio ai bagnanti. Non manca qualche ubriaco… molesto e prepotente” e poi “vivono in vere tane: una stanza, senza finestre, dove c’è la latrina, il fornello e le brande” tanto che è necessaria una vigilanza sanitaria costante per evitare il propagarsi di malattie attribuibili alle scarse condizioni igieniche anche perché qualcuno denunciava che è “un anno che indossiamo l’abito che ci restò nella fuga”. Sono brani di testimonianze e documenti tratti dal libro di Daniele Ceschin “Gli esuli di Caporetto” (Laterza). 
I profughi di cui racconta lo storico veneto sono le centinaia di migliaia di friulani, trentini, giuliani, dalmati ma soprattutto veneti (mezzo milione) che dovettero abbandonare le proprie case e cose dopo la rotta di Caporetto e trovare rifugio oltre il Piave, fino alla Sicilia. Spesso malvisti da chi li ospitava perché mangiavano il loro pane, comunque intrusi e guastafeste e perfino essere cannibali (più precisamente: di mangiare i bambini). Le donne venete erano considerate scostumate, gli uomini inclini all’ozio. Se invece trovavano lavoro erano accusati di portarlo via ai locali. Peggio che peggio il fatto che percepissero un sussidio dallo Stato: un privilegio negato ai locali. Naturalmente, oltre ai pregiudizi, trovarono anche abbondante solidarietà, vicinanza umana, simpatia di poverissimi tra poveri. Non mancò quella che oggi chiameremo “l’integrazione”: fidanzamenti, matrimoni “misti” e via dicendo. 
Varrebbe proprio la pena leggere queste pagine di storia veneta ed italiana di cento anni fa e di confrontarne il racconto con le vicende dei profughi che da alcuni anni arrivano fuggendo alle nuove guerre, alle nuove Caporetto. Ci sono perfino le medesime controversie, reciproche accuse, polemiche, rimpalli, fughe dalle responsabilità tra Stato centrale e amministrazioni locali.

Beniamino Colnaghi

Deportati Valle di Ledro: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2017/11/la-valle-di-ledro-e-la-boemia-storie-di.html

Integrazione: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2018/10/i-profughi-della-valle-di-ledro.html

Daniele Ceschin, Gli esuli di Caporetto: I profughi in Italia durante la Grande Guerra, Edizione  Laterza. 

venerdì 12 marzo 2021

Il lecchese Antonio Ghislanzoni, intellettuale scapigliato e librettista di Verdi

       

Chi è Antonio Ghislanzoni (Barco di Maggianico, Lecco, 25 novembre 1824 – Caprino Bergamasco, 16 luglio 1893)?

Intanto fu compagno di Antonio Stoppani alla scuola elementare poi, per volontà del padre direttore dell’ospedale cittadino, entrò in seminario dal quale venne espulso a causa del suo carattere insofferente e di rifiuto verso l’autorità e l’educazione religiosa. Si iscrisse a medicina ma restò affascinato dal mondo della musica, tanto da non concludere gli studi per dedicarsi al canto, firmando un contratto come primo baritono assoluto per il teatro Carcano di Milano. La sua versatilità si manifestò anche grazie a innumerevoli collaborazioni con quotidiani e periodici, che pubblicavano spesso suoi romanzi e racconti. Unitamente alla prosa si dilettò anche con la poesia.

Musica e scrittura si intrecciano facendolo emergere come uno delle figure di rilievo nel campo dei librettisti d’opera, tratto per il quale è maggiormente conosciuto.

Portò il nome di Lecco nel mondo grazie all’opera più celeberrima di Giuseppe Verdi, per il quale scrisse il libretto dell’Aida. Per lo stesso compositore realizzò anche la nuova stesura della Forza del destino e tradusse la versione italiana del Don Carlos.

Fu autore di oltre 60 libretti, fra i quali, oltre all'AidaI Lituani e Il parlatore eterno per Amilcare Ponchielli, Salvator Rosa e Fosca per Antonio Carlos Gomes, Papà Martin e Francesca da Rimini  per Antonio Cagnoni, I promessi sposi per Errico Petrella. Scrisse inoltre i versi della cantata A Gaetano Donizetti, di Ponchielli.

Pubblicò il volume Reminiscenze artistiche, che contiene notizie sul pianista Adolfo Fumagalli e un episodio intitolato La Casa di Verdi a Sant'Agata, nonché il romanzo apocalittico Abrakadabra - storia dell'avvenire (1864-65). Questo e altri racconti di fantascienza umoristica ne fanno uno dei primi autori italiani di tale genere.  

 


Antonio Ghislanzoni fu vicino alle idee politiche di Mazzini, la sua collaborazione con giornali repubblicani lo costrinse a rifugiarsi in Svizzera. Fu ugualmente arrestato dai francesi e deportato in Corsica. Dopo la Seconda guerra di Indipendenza (1859) a Milano si lega al gruppo degli Scapigliati(1), ma appartiene alla generazione “di frontiera”, ossia “di periferia” di quel movimento.

Da Milano il movimento della Scapigliatura si sposta “in periferia” e si estende fino al Lecchese e Ghislanzoni ne rappresenta l’essenza, nel senso che la sua vita e la sua opera è come se del movimento correggessero gli eccessi, tramite il sano respiro della provincia lecchese, moderata, pettegola, modesta.

Nella sua personalità esuberante si assommano sia le componenti ribellistiche ed eversive sia i fascinosi e suggestivi influssi del territorio di Lecco da lui descritto con dovizia di particolari nelle sue numerosissime opere.

Ghislanzoni, quindi, può essere considerato uno degli intellettuali più vivaci, interessanti e ricchi produttivamente della cultura lombarda, non solo scapigliata, che va da Bonvesin de la Riva e giunge fino a noi tramite il Verri, il Beccaria, il Parini, il Manzoni, il Testori, il Gadda, il Pontiggia... Fu uno spirito singolarmente autocritico fino al sarcasmo di se stesso, come emerge da una sua nota autobiografica, riportata in Pagine di vita lecchese 1963-1964, pubblicazione della città di Lecco in occasione delle celebrazioni nel settantesimo della sua scomparsa.

Nel 1857 contribuì a fondare il giornale umoristico L'Uomo di Pietra. Diresse L'Italia musicale; fu redattore della Gazzetta musicale di Milano; diresse e collaborò a La rivista minima e più tardi, ritiratosi a Lecco, pubblicò il Giornale-Capriccio.

Tante furono le collaborazioni alle numerose testate che ospitano suoi romanzi a puntate, racconti, recensioni, interventi di varia natura. Ma non manca l'attività creativa vera e propria: narrativa e poesia. Per la poesia ricordiamo Libro proibito, un grande successo, tanto che nel 1890 giungerà alla settima edizione. «I versi del Libro proibito», scrive Gilberto Finzi, «riprendono un'atmosfera polemica d'epoca che non tocca, forse nemmeno sfiora, la poesia, ma che bene riconducono a momenti collaterali tipici della Scapigliatura».

Morì all'età di 69 anni e ricevette sepoltura nel Cimitero monumentale di Lecco. 

 

(1)   Scapigliatura (dal sito dell’enciclopedia Treccani)

Va sotto questo nome un movimento letterario al quale diede vita in Milano, tra il 1860 e il 1870, un gruppo di scrittori e di artisti, diversi per temperamento, ma concordi nell'avversione al gusto dominante e alla tradizione, unanimi nella volontà di difendere l'autonomia dell'arte, di richiamarla a un più intimo contatto con la vita, a una più essenziale sincerità d'ispirazione, a una più spontanea immediatezza d'espressione. Sotto un certo aspetto la scapigliatura può essere considerata anche come un fenomeno politico e morale. Fu un tentativo d'agitare le acque della vita italiana stagnanti in un facile e ozioso quietismo, una reazione contro lo spirito borghese, pratico, utilitario, contro la povertà e la grettezza spirituale in cui si spegnevano gli eroici bagliori del Risorgimento. Al decadere degl'ideali artistici, all'orgogliosa retorica appresasi alla coscienza nazionale nel primo decennio che seguì alla formazione del regno d'Italia, il Carducci oppose la virile disciplina del suo rinnovato classicismo; gli scapigliati cercarono di evaderne attraverso una più decisa e integrale esperienza romantica. Alla radice della loro ribellione è l'oscura intuizione di una lacuna congenita all'origine del romanticismo italiano, di una deviazione implicita nel suo svolgimento. Per circostanze strettamente aderenti alla vita italiana nella prima metà del secolo scorso, gli scrittori romantici italiani, sottraendosi alla suggestione di molteplici e complesse esperienze europee, avevano risolto il fermento delle dottrine novatrici nel concetto di un'arte nazionale, popolare, espressione di comuni esigenze, di comuni passioni, di comuni ideali. Più che ascoltare sé stessi avevano mirato a riconoscersi negli altri, avevano chiesto al sentimento concorde e al generale consenso la consacrazione della loro originalità costruttiva. Così il romanticismo italiano s'era configurato con una sua fisionomia ben distinta nel quadro più vasto del romanticismo europeo; ma col venir meno delle ragioni che ne avevano assicurato la vitalità, quel suo particolare carattere era degenerato in un convenzionalismo fiacco, impersonale, incolore. Gli scapigliati si atteggiarono a novatori: erano in realtà spiriti malati di stanchezza e di decadentismo, figli di un'epoca di dissoluzione, prigionieri d'un passato che pesava sulla loro illusione di riconquistare una perduta giovinezza. Proclamarono i diritti dell'Io onnipotente, si sforzarono di costringere il mondo nella sfera della loro inquieta individualità perseguirono il miraggio ingannatore e fuggevole dell'originalità a ogni costo: ma da una parte ripresero e rielaborarono con più o meno inconscio eclettismo spunti e motivi che già avevano avuto il loro svolgimento attraverso un cinquantennio di vita intellettuale europea, dall'altra lasciarono in eredità all'avvenire poco più che un quadro di presagi e una cronistoria di tentativi falliti. Per alcuni aspetti esteriori e per certe singolarità in che amarono atteggiarsi, gli scapigliati ricordano la bohème letteraria francese ch'ebbe in Murger un cronista indulgente e suggestivo, ma l'ostentazione è soltanto alla superficie della loro ribellione, che nasce da esigenze profonde e sincere e per molti si risolve in un vero e proprio distacco dalla vita e dalla realtà, in un dramma psicologico conclusosi nel suicidio o nella disfatta morale.

Si suole considerare come padre degli scapigliati il milanese Giuseppe Rovani, che ebbe ingegno vigoroso e versatile, incline per natura al paradosso, e certe idee sull'affinità delle arti di facile voga presso un gruppo di scrittori e di artisti a lui legati da affinità spirituali e da libere e spregiudicate consuetudini di vita: orientando da una parte la forma letteraria e poetica verso il plastico, il pittorico e il musicale, e additando dall'altra un più vasto campo di esperienze alle arti sorelle. Continuatore, nelle opere di genere narrativo, della tradizione manzoniana del romanzo storico, ma dominato da esigenze più larghe d'autonomia fantastica, invece di calarsi nel mondo della sua finzione il Rovani lo domina dal di fuori, si contrappone a esso, lo soverchia con la sua individualità prepotente. Su questa strada, mirando alla totale liberazione dell'Io e a un lirismo essenziale, procedono gli scapigliati, seguendo ciascuno la propria indole e il proprio temperamento. Uno spirito inquieto fu Igino Ugo Tarchetti morto di tisi a 28 anni, autore di racconti e di liriche che contengono un tessuto acerbo e poco più che accennato di aspirazioni fugaci e mutevoli, d'impressioni continuamente ripiegate verso la confessione sentimentale e l'introspezione. Più ricca, più varia e promettente l'opera di Emilio Praga, che sarebbe stato il vero poeta della scapigliatura se una dolorosa involuzione non gli avesse isterilito l'ispirazione e distrutto la vita. Al gruppo degli scapigliati appartengono pure Arrigo Boito, musicista e poeta dall'ingegno audace, frenato da un'incontentabile disciplina; Giovanni Camerana che pose fine col suicidio a un'esistenza tormentata e pensosa; Carlo Pisani Dossi, scrittore immaginoso, stilista pittoresco, ragionatore e sottile, ma sopraffatto da un irreducibile egotismo, da un virtuosismo artificioso e sterile, da una perplessità inviluppata e amara; e ancora Salvatore Farina. Cletto Arrighi, Antonio Ghislanzoni, per non parlare dei minori e di quanti ebbero col movimento più incerti e indiretti rapporti. Fra questi Gian Pietro Lucini, nel quale si compie il processo di dissoluzione formale già implicito nell'estetica degli scapigliati.

Senza innestarsi profondamente nella storia della cultura e della vita morale italiane, la scapigliatura riflette una transizione caratteristica allo svolgimento del tema romantico nella vita moderna. Più che di un vero e proprio movimento letterario si tratta di una somma di esperienze individuali che offrono materia di studio non tanto per l'intrinseco valore di ciò che produssero nel campo dell'arte, quanto per la verità d'alcune intuizioni e per la vitalità di alcuni spunti destinati a ulteriori sviluppi e a più decisi approfondimenti.

 

Beniamino Colnaghi     

 

venerdì 12 febbraio 2021

Il firunatt, il venditore di castagne al forno nelle sagre e nei mercati brianzoli

Cominciamo intanto col precisare il significato del termine firunatt. Il firon era una collana fatta con le castagne cotte al forno, normalmente non quelle di prima scelta, infilate con uno spago sottile. Una specie di grande collana oppure, come possibile configurazione, piuttosto simile alla colonna vertebrale, con le vertebre sovrapposte, che in dialetto brianzolo si dice firon, schiena. 
Negli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale, quando il popolo italiano cominciò faticosamente a riprendersi la propria libertà e la vita della gente, seppur con mille difficoltà e ristrettezze, iniziava ad intravvedere timidi miglioramenti la società era ancora di stampo contadino e patriarcale, la mezzadria regolava i rapporti economici tra i coloni e le grandi famiglie borghesi e aristocratiche proprietarie di immensi patrimoni in Brianza, la scolarizzazione di massa stava iniziando ad alfabetizzare i figli delle classi sociali più umili e  svantaggiate.
In questo contesto ripresero ad affacciarsi nelle sagre paesane, nelle fiere e nei mercati del territorio alcune figure che cercavano, oltre che di portarsi a casa qualche soldo per mantenere la famiglia, di riproporre antichi mestieri legati alla tradizione del posto: l’arrotino, lo spazzacamino, ul cadregatt (l’impagliatore di sedie), il sensale per la vendita di animali… Tra questi personaggi tipici di quel tempo c’era anche il firunatt, colui che vendeva le castagne al forno infilate con lo spago.
In merito a quest’ultima figura vorrei raccontare la storia di un tale che chiamavano Busen, letta sulle pagine strappate da un libro appartenuto a qualcuno della mia famiglia, che, presumo, raccontasse diverse storie delle genti di Brianza di un tempo.
Busen, in realtà, si chiamava Pio, ed era nato in un piccolo borgo brianzolo nei primi anni del Novecento. Nacque il 7 di dicembre, festa di sant’Ambrogio, ed in omaggio al Santo, molto venerato a Milano ed in Lombardia, la gente del suo paese lo soprannominò Busen, da Ambrös, Bös, Busen, piccolo Ambrogio. Piccolo era rimasto piccolo, di statura, ma aveva una caratteristica talmente evidente che veniva riconosciuto da tutti: le orecchie a sventola. Rossastre, larghissime e pendenti. La gente che frequentava le sagre ed i mercati lo aveva soprannominato uregiatt, orecchiuto, appunto.
Tuttavia, secondo una vecchia superstizione popolare, le orecchie a sventola, se riferite ad un uomo, indicavano un individuo quasi sempre soddisfatto della propria esistenza, anche se nella realtà era un povero diavolo, e, inoltre, additato dalle donne come sessualmente dotato ed inappagabile. In questo senso un bel uregiatt era un po’ il sogno proibito delle ragazze più esuberanti, che mal si adattavano ai rigidi costumi del tempo.
Nei giorni festivi, dalla Madona del Rusari (7 di ottobre) a San Giusepp (19 di marzo), sostava sul sagrato delle chiese brianzole con il suo banchetto stracolmo di firon di castagne cotte, in attesa che uscissero i fedeli dalle messe. Era anche usanza durante le fiere di fine inverno che si tentasse la fortuna con la balutera, un gioco condotto normalmente da un venditore che teneva in mano un sacchetto di panno grigioverde contenente palline numerate. Il tipo richiamava l’attenzione dei passanti infreddoliti e incuriositi gridando alcuni frasi per invitarli a giocare: Forza, o gent! Cinqu ghei tre ball! Dai, giuvinott, tira a la balutera! Per vincere un firon de castegn de metech al coll a la murusa, si doveva estrarre dal sacchetto tre palline numerate la cui somma non doveva superare 90 punti.
Certificato che non era dunque quello che si suol dire un bell omm, tuttavia al Busen non gli mancava niente di quanto allora era ritenuto essenziale per essere considerato un uomo da maritare, da mettere su famiglia. Soprattutto aveva una gran voglia di lavorare, era leale ed onesto con il prossimo, era molto religioso e devoto alla Madonna del Bosco, il santuario dedicato alla Vergine a Imbersago, dove non aveva mai perso una fiera. A quei tempi le ragazze da marito erano più interessate alle qualità morali ed ai principi dell’onestà dell’uomo che alla cosiddetta prestanza fisica.

Venditori di firon di castagne negli anni Cinquanta

Subito dopo la fine della guerra Busen, ormai quarantenne, aveva messo gli occhi addosso ad una donna del suo paese, non propriamente bella, ma tutta  casa e lavoro. Si chiamava Maria Teresa. Aveva un viso tondo, un nasino che terminava a punta e due grandi occhi color castano. Era rimasta vedova e senza figli dopo una decina d’anni di matrimonio, a causa di una bruta malatia del marito, che lo portò via a 35 anni. Ritornò a vivere in cascina a casa dei genitori, svolgendo il lavoro di sarta in casa, come molte ragazze del tempo, ed occupandosi della gestione domestica e degli animali della stalla, che permettevano alla sua famiglia di vivere dignitosamente.      

Pio e Maria Teresa si sposarono il 26 maggio del 1948, festa di san Filippo Neri, un mese dopo le prime elezioni politiche libere, svoltesi dopo la sconfitta del fascismo e la fine della guerra. Durante il tragitto dalla Cascina Immacolata alla chiesa parrocchiale, un paio di chilometri su stradine campestri polverose e malandate, il piccolo corteo della sposa venne sorpreso da un improvviso quanto violento acquazzone. Arrivarono in chiesa bagnati fradici. Il vestito bianco della sposa a storcel ghe vegneva foera una segia d’aqua. Il prete officiante, vedendo il viso triste e contrariato della Maria Teresa, che continuava a gocciolare da ogni parte, le disse ridendo: “Stà alegra tusa! Spusa bagnada, spusa furtunada!”
Ma purtroppo, il tempo non le aveva portato fortuna. La gioia per il matrimonio durò fino alla nascita del primo figlio, un anno dopo, quando la donna morì per gravi complicazioni durante il parto. Il bambino, gravemente asfittico, seguì la madre due giorni dopo.
Il Busen, distrutto da dolore, vendette una vacca ed un maiale che aveva in stalla per ricavare la cifra necessaria per erigere al cimitero del paese un monumento funebre degno della giovane moglie e del figlio. Un bel gruppo in pietra viva raffigurante una giovane donna con il capo reclinato su una colonnina spezzata in marmo bianco. Ai lati del monumento aveva piantato due piccoli cipressi.
Con l’avvento dell’autunno e dell’inverno riprese l’attività di firunatt nelle sagre e nei mercati della zona. Girava, quasi come un automa, di fiera in fiera, da un sagrato all’altro, instancabile. Aveva bisogno di stare in mezzo alla gente, di distrarsi, per cercare di lenire il suo grande dolore per la perdita della sua amata Maria Teresa e del piccolo figlio. Il pover uomo, dopo il lavoro, faceva vita ritirata, come un eremita. Non andava più in osteria a chiacchierare con i vecchi amici ed a bersi un calicino di rosso pugliese.  
In cuor suo e nella sua mente aveva deciso di mettere da parte più soldi che poteva per fare, prima di morire, una cospicua donazione al santuario della Madonna del Bosco di Imbersago, in memoria della sua sposa ed a favore delle persone più sfortunate e bisognose. A quel santuario era andato insieme alla Maria Teresa ed ai rispettivi genitori il giorno che ritirarono il consenso alle nozze, sul careten del Peder dei Galbusera, un amico di famiglia. Il ricordo di quel giorno felice non lo abbandonava mai.
Purtroppo la Provvidenza sulla sua sorte aveva deciso diversamente. I guai per Busen non ebbero mai fine, come Giobbe. Anzi, peggio di Giobbe. Almeno il santo della Bibbia aveva ricevuto tanto da Dio, che poi gli aveva tolto, ma il nostro, oltre a non ricevere niente, si era visto togliere anche la sua amatissima moglie e il figlioletto.
Trascorse diversi anni di esistenza grama e di incomprensioni con i suoi pochi parenti, i quali erano più interessati al suo “bottino” che stava mettendo da parte, giorno dopo giorno, per la Madonna del Bosco, piuttosto che alle sue condizioni di salute. Che peggiorarono drasticamente verso la metà degli anni Sessanta. Un pomeriggio nebbioso di novembre lo trovarono esanime che era ormai quasi buio lungo una stradina campestre, riverso nel fossato. La sua bicicletta, poco distante. Probabilmente ebbe un infarto o un malore improvviso, che non gli diede scampo. I contadini che lo rinvennero chiamarono immediatamente il parroco, don Paolo, che si adoperò per portarlo nella chiesina adiacente all’oratorio del paese, dove venne allestita la camera ardente. Due giorni dopo venne officiato il funerale nella chiesa parrocchiale, la stessa dove Busen e sua moglie si sposarono, e la salma venne poi accompagnata da un lungo corteo verso il cimitero e sepolta accanto alla sua amata Maria Teresa ed al figlio.     
La domenica successiva, durante la messa cantata, quella più frequentata dai fedeli, don Paolo annunciò dal pulpito che ul Busen, circa tre anni prima di morire, gli fece avere, durante la confessione, una busta ben sigillata, nella quale era contenuta una lettera con le sue volontà testamentarie, che, secondo le sue stesse disposizioni, avrebbe dovuto essere letta in chiesa davanti a tutti i fedeli del paese. E così don Paolo, scrupolosamente, fece. Di fronte a diversi bisbigli e mormorii, il prete prese la busta, la aprì e cominciò a leggerne il contenuto. Poche righe, ma le volontà del “de cuius  non potevano essere più chiare: lasciò il piccolo castagneto, la sua casa e la stalla con gli animali all’unico amico che gli era rimasto, un certo Tugnen, un firunatt che abitava in una cascina nelle valli di Muntavegia, Montevecchia, e che metteva il banchetto con i firon di castagne accanto al suo nei mercati e nelle fiere di paese. Un poveraccio, ma animato da sani principi religiosi e cristiani, che doveva mantenere sulle proprie spalle la moglie, cinque figli e il vecchio padre invalido. Don Paolo proseguì la lettura del breve testamento annunciando che tutti i soldi che il Busen aveva messo da parte nei suoi lunghi anni di lavoro erano destinati al santuario della Madonna del Bosco. Indicò, in una chiesa ammutolita, nella quale non si sentiva volare una mosca, che i sudati risparmi erano nascosti in una nicchia ricavata nella parete, chiusa da un mattone, dietro il quadro della Sacra Famiglia, a capo del suo letto.    
La messa domenicale terminò poco dopo, ma contrariamente al solito, la maggior parte dei fedeli sostò a lungo sul sagrato, quasi non volesse tornare a casa per il pranzo. Si formarono diversi capannelli di persone che discutevano di quanto accaduto poco prima in chiesa. Ci pensò il vecchio parroco a richiamare gli astanti a ritornare presso le loro abitazioni, invitandoli a meditare e riflettere sulle scelte sagge, di buon cristiano, operate dal Busen, un uomo umile e sfortunato nella vita, che però diede buon esempio a tutti, per le sue azioni a favore della Chiesa e dei più bisognosi.

Beniamino Colnaghi