martedì 9 aprile 2024

Sviluppo, Progresso, Austerità in Pasolini e Berlinguer


I temi dell’austerità e della “decrescita felice”, opposti alle teorie economiche dello sviluppo quantitativo illimitato, dell’aumento della spesa, della depredazione dell’ambiente e dei territori, sono alcuni tra i termini che più ricorrono, a livello mondiale, nel dibattito politico da diversi anni a questa parte. L’austerità, innalzata a paradigma economico dalle destre liberiste e stigmatizzato dalle sinistre progressiste e dai movimenti ambientalisti, è un concetto che in ogni caso fa parlare di sé.
Oggi con austerità siamo soliti riferirci a un insieme di provvedimenti economici e politici che prevedono un forte taglio della spesa al fine di contenere il debito pubblico. Le famose misure lacrime e sangue, che, come è ormai evidente e riconosciuto da chi non ha fette di salame sugli occhi, non hanno fatto altro che deprimere ulteriormente economie già in crisi. Eppure non è sempre stato così. C’è stato un tempo in cui con austerità si intendeva qualcosa di diverso.
A portare avanti la bandiera dell’austerità in Italia sono stati, tra gli altri, nel corso degli anni Settanta, due dei personaggi più grandi e affascinanti del nostro Novecento, uomini di sinistra e, più precisamente, comunisti: Pier Paolo Pasolini ed Enrico Berlinguer. Ma come, si dirà, non abbiamo appena detto che l’austerità è il mantra delle destre liberiste? Allora perché due esponenti così di spicco, seppur in modo radicalmente diverso, del comunismo italiano si sono fatti portavoce dell’austerità? La risposta è in verità molto semplice: perché l’intellettuale friulano e il politico sardo con austerità intendevano tutt’altro da ciò che si intende oggi con il medesimo termine.
Vediamo subito di contestualizzare storicamente la riflessione delle due personalità in questione: siamo negli anni Settanta, al termine di anni di crescita fortissima, il boom economico, seguiti dopo che era terminato il Secondo conflitto mondiale. In questo lasso di tempo il rapporto capitale/reddito nei paesi europei è crollato, i consumi privati sono esplosi e ha visto la luce quel fenomeno del consumismo contro cui Pier Paolo Pasolini, sopra ogni altro, ha scritto pagine di denuncia fortissime.
Dai cambiamenti avvenuti in questi pochi decenni l’Italia ne esce radicalmente trasformata. Ma questa improvvisa impennata di benessere non è destinata a durare a lungo: basti citare la famosa crisi petrolifera dei primi anni Settanta.
Poi vennero gli anni ’80, il neoliberismo e il mercato privo di regolamentazione e con pochi interventi statali, teorie portate avanti dal presidente americano Reagan e dalla premier inglese  Thatcher,  che ebbero come risultati massicce privatizzazioni, lo smantellamento dello stato sociale, il taglio dei fondi per il sistema sanitario e pensionistico.

Pier Paolo Pasolini


Pasolini inizia a scrivere di consumismo appena entrati negli anni Settanta e proseguirà pressoché ininterrottamente fino alla sua tragica e violenta morte, avvenuta a Ostia il 2 novembre 1975, ad opera di esecutori materiali e mandanti rimasti fino ad oggi sconosciuti. Ricordiamo che siamo in un periodo storico nel quale, a partire dal 1969, con la strage di piazza Fontana a Milano, si susseguono una serie preordinata e ben congegnata di attentati terroristici e uccisioni eccellenti, che venne definito col termine di strategia della tensione.    
Possiamo, a grandi linee, riassumere così la complessa e fitta elaborazione teorica dell’autore: per Pasolini il fenomeno della diffusione del consumismo, determinato dal cambiamento nei modi di produzione conseguente al boom economico, ha causato una mutazione antropologica negli italiani, la quale è un fenomeno di omologazione culturale totale e di conseguenza di genocidio culturale. Ai fini di quanto viene però trattato qui, è necessario prendere in esame lo scritto inedito Sviluppo e progresso, pubblicato in Scritti corsari, edito da Garzanti nel 1975, che precedette di pochi mesi la scomparsa dell’Autore. Scrive Pasolini: «Ci sono due parole che ritornano frequentemente nei nostri discorsi: anzi, sono le parole chiave dei nostri discorsi. Queste parole sono “sviluppo” e “progresso” […]. Bisogna assolutamente chiarire il senso di queste parole e il loro rapporto».
Lo sviluppo, prosegue l’autore… «ha oggi una rete di riferimenti che riguardano un contesto indubbiamente di “destra”. Chi vuole infatti lo “sviluppo”? Cioè, chi lo vuole non in senso astratto e idealmente, ma in concreto e per ragioni di immediato interesse economico? È evidente: a volere lo “sviluppo” in tal senso è chi produce; sono cioè gli industriali. E, poiché lo “sviluppo” in Italia è questo sviluppo, sono per l’esattezza, nella fattispecie, gli industriali che producono beni superflui. La tecnologia… ha creato la possibilità di una industrializzazione praticamente illimitata, e i cui caratteri sono ormai in concreto transnazionali. I consumatori di beni superflui, sono da parte loro, irrazionalmente e inconsapevolmente d’accordo nel volere lo sviluppo, questo sviluppo».
Per Pasolini, dunque, lo sviluppo è essenzialmente lo sviluppo industriale, cioè la crescita quantitativa della produzione di beni. Secondo l’intellettuale friulano però anche le “masse” vogliono questo sviluppo, poiché esso «significa promozione sociale e liberazione, con conseguente abiura dei valori culturali che avevano loro fornito i modelli di “poveri”, di “lavoratori”, di “risparmiatori”, di “soldati”, di “credenti”». Proprio questa abiura dei valori culturali costituisce il nocciolo della mutazione antropologica, che Pasolini osserva essere avvenuta in Italia negli anni del boom.
Definito in questi termini lo sviluppo, cos’è allora il progresso? Per Pasolini esso è «una nozione ideale (sociale e politica): là dove lo “sviluppo” è un fattore pragmatico ed economico» e a volerlo sono «coloro che non hanno interessi immediati da soddisfare […]: lo vogliono gli operai, i contadini, gli intellettuali di sinistra. Lo vuole chi lavora e chi è dunque sfruttato». Il progresso è dunque un miglioramento delle condizioni di vita. Come può esistere un progresso senza sviluppo, può d’altro canto esistere uno sviluppo senza progresso e questo è quanto avvenuto nell’Italia del boom: all’esplosione dell’industrializzazione e all’aumento dei redditi non ha fatto da contraltare un salto in avanti sul piano culturale e sociale. Per concludere, secondo Pasolini «è questa dissociazione che richiede una “sincronia” tra “sviluppo” e “progresso”, visto che non è concepibile (a quanto pare) un vero progresso se non si creano le premesse economiche necessarie ad attuarlo».
Un pensiero di una modernità sconvolgente, alla faccia di chi vede in Pasolini un nostalgico reazionario.
È bene notare che in Pasolini non compare mai il termine austerità, ma possiamo comunque dire che, se avesse avuto questo termine nel suo lessico, lo avrebbe certamente utilizzato come antitesi politica ed economica al consumismo.

Enrico Berlinguer


Questo concetto è invece utilizzato esplicitamente da Enrico Berlinguer nel discorso che ha tenuto al Teatro Eliseo di Roma, in chiusura del convegno degli intellettuali promosso dal Pci il 15 gennaio 1977 e poi inserito nella raccolta di scritti La passione non è finita (Einaudi, 2013) con il titolo Austerità. Occasione per trasformare l’Italia.
Non sappiamo che rapporti intercorressero fra Pasolini e Berlinguer; ciò che è certo è che entrambi erano marxisti, comunisti, grandi uomini di cultura. Berlinguer, senza farsi preannunciare, si recò alla Casa della Cultura in Campo dé Fiori, a Roma, in un freddo pomeriggio di novembre del 1975, poco prima che venissero celebrati i funerali laici di Pasolini. Gli rese omaggio, passando davanti alla bara dell’intellettuale assassinato. Alberto Moravia diede palese sfogo  al  suo dolore per l’ignominia dell’assassinio del suo amico Pier Paolo: “Con lui abbiamo perso un testimone costante delle contraddizioni del nostro tempo… La sua diversità, che consisteva nel coraggio di dire sempre la verità, aveva fatto di lui un elemento prezioso della nostra cultura… Abbiamo perso prima di tutto un poeta. E  poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo”.
Nell’Introduzione a La passione non è finita, è lo storico Miguel Gotor a tracciare un ponte tra i due:
«Non da meno, sempre sul piano dell’influenza culturale, svolsero un ruolo le riflessioni di Pier Paolo Pasolini, proprio in quegli ultimi tempi riavvicinatosi al Pci: la critica della persuasione occulta svolta in primo luogo dalla TV, l’edonismo interclassista che imponeva ai giovani di omologarsi provocando nevrosi e frustrazioni in chi non vi riusciva, l’idea che il potere “avesse bisogno di un tipo diverso di suddito che fosse prima di tutto un consumatore”, la distinzione tra “progresso” e “sviluppo” […]  si tratta di una serie di tematiche che ricorrono tutte anche in Berlinguer».
Gotor, oltre allo scrittore friulano, individua altre due figure a costituire i fondamenti culturali della nozione di austerità utilizzata da Berlinguer, cioè Franco Rodano e Antonio Tatò, entrambi di estrazione cattolica. A fianco delle suggestioni culturali, Gotor vi identifica anche ragioni più prettamente politiche. Scrive lo storico: «Se ne accorsero in pochi, ma già il Comitato centrale dell’ottobre 1976 aveva posto all’ordine del giorno la parola austerità sin dal titolo della relazione di Berlinguer», una relazione preparata nel corso di lunghe sedute notturne insieme a Luciano Barca. Sempre come ricostruisce Gotor, la nozione di austerità elaborata da Berlinguer… «si proponeva di offrire una risposta alternativa e concorrenziale alla proposta di austerità che negli stessi anni era stata elaborata dalle classi dirigenti italiane più conservatrici in termini di sacrifici per i soli operai […]. Adottando la visione gramsciana della crisi come cambiamento, egli voleva dimostrare che un’altra austerità era possibile, a patto che diventasse un’occasione per trasformare i rapporti di forza tra capitale e lavoro, e per ridurre le differenze sociali».
Con la proposta dell’austerità, formulata, come si diceva, durante il convegno al Teatro Eliseo del 1977, Berlinguer afferma la volontà di coinvolgere le forze della cultura nella elaborazione di un progetto di rinnovamento della società italiana, alo scopo di dare “un senso” alla politica dell’austerità, che costituisce da una parte una scelta necessaria, ma che può anche essere una condizione di salvezza per i popoli dei paesi avanzati e una occasione per cambiare l’Italia. Essa infatti per i comunisti italiani non è uno strumento congiunturale per il ripristino dei vecchi meccanismi economici, ma il mezzo per iniziare a costruire un diverso sistema economico, non più basato sul consumismo e sull’individualismo esasperati, ma sulla giustizia sociale e sulla solidarietà.
Sempre secondo Gotor, la proposta berlingueriana e quella pasoliniana sono di fatto identiche: coniugare lo sviluppo e il progresso, nelle accezioni di questi termini di cui sopra. Alla contestualizzazione dell’austerità secondo Berlinguer, è necessario far seguire una riflessione sul significato di questa nozione che è insieme un preciso programma di azione politica:
«Questa esigenza di coniugare sviluppo e progresso nasce dalla consapevolezza che occorre dare un senso e uno scopo a quella politica di austerità che è una scelta obbligata e duratura, e che, al tempo stesso, è una condizione di salvezza per i popoli dell’occidente, io ritengo, in linea generale, ma, in modo particolare, per il popolo italiano. L’austerità non è oggi un mero strumento di politica economica cui si debba ricorrere per superare una difficoltà temporanea, congiunturale, per poter consentire la ripresa e il ripristino dei vecchi meccanismi economici e sociali. […] Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato. L’austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia; cioè il contrario di tutto ciò che abbiamo conosciuto e pagato finora, e che ci hanno portato alla crisi gravissima i cui guasti si accumulano da anni e che oggi si manifesta in Italia in tutta la sua drammatica portata».
Queste parole, drammaticamente contemporanee, sono il manifesto dell’austerità così come intesa da Enrico Berlinguer. I punti di contatto con la riflessione svolta qualche anno prima da Pasolini sono numerosissimi, a partire dalla critica al consumismo e al capitalismo come produzione di beni superflui (lo “sviluppo” pasoliniano), per arrivare all’austerità come chiave per una trasformazione della società. Quel generico anti-consumismo di Pasolini, con Berlinguer trova un termine suo proprio: austerità.
Sarebbe allora davvero molto difficile sostenere che Berlinguer non abbia mai letto Pasolini: le tematiche in comune sono troppe per essere meramente casuali. Sembrerebbe anzi che il segretario del Pci abbia preso a spunto alcune intuizioni del poeta, arricchendole con gli spunti provenienti da eminenti figure del mondo cattolico e marxista e con l’incontestabile valore personale. Il risultato è un’elaborazione potentissima: un termine generalmente negativo, quale ancora oggi è, viene completamente risvoltato fino a diventare la chiave per immaginare uno sviluppo, già da ora diverso, ponendo in primo piano la questione ecologica e ambientale, che deve necessariamente essere la battaglia politica del XXI secolo, se l’umanità vorrà avere ancora un futuro sulla terra.
Allora le parole di Pasolini e Berlinguer su questa strana specie di austerità, formulate ormai cinquant’anni fa, devono tracciare il cammino delle nuove generazioni che desiderano costruire tenacemente una società diversa e che non vogliono arrendersi all’esistente.

Beniamino Colnaghi

Note e bibliografia

Alcune parti di questo post sono tratte dall’articolo di Michele Castelnuovo, “La (vera) austerità: Pasolini e Berlinguer” su FRAMMENTI RIVISTA, Il mondo con gli occhi della cultura.

Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Garzanti Editore s.p.a, 1975

Barth David Schwartz, Pasolini Requiem, La nave di Teseo, Milano, 2020

Enrico Berlinguer, Un’altra idea del mondo, Antologia 1969-1984, a cura di Paolo Ciofi e Guido Liguori, Editori Riuniti university press, Roma, 2014 

sabato 23 marzo 2024

 24 marzo 1944 - Roma, Fosse Ardeatine

I nazisti massacrarono 335 italiani; fu la più grande strage avvenuta in una grande città dell'Europa occidentale durante la Seconda guerra mondiale 

Una targa commemorativa posta sul muro vicino all'ingresso delle Fosse


Renato Guttuso, "Fosse Ardeatine", olio su tela, 1950, Roma, Museo dei cimeli

giovedì 22 febbraio 2024

Il primo festival di Re Nudo si tenne a Lecco nel 1971


Il nome Re Nudo deriva dalla favola di Hans Christian Andersen, in cui si racconta di un re che compare svestito davanti al suo popolo a causa di un sarto burlone. Nessuno ha il coraggio di parlare, finché un bambino quando lo vede passare ingenuamente esclama: «ma il re è nudo!».
Negli intenti della redazione, composta da giovani poco più che ventenni, la rivista ha la stessa funzione di quel bambino. Denunciare gli episodi più assurdi e macroscopici di cui però nessuno per paura o per conformismo, ha il coraggio di parlare. Il budget a disposizione è di 100 mila lire.

Re Nudo è la rivista più longeva dell’underground italiano e rappresenta una delle più note e significative espressioni della controcultura e della controinformazione, dagli anni successivi alla contestazione sessantottina fino all’esplosione del Settantasette. Nasce a Milano su iniziativa di Andrea Valcarenghi, Guido Vivi e Michele Straniero; Valcarenghi, ex membro del gruppo Onda verde, sarà direttore e principale responsabile della linea editoriale della rivista per tutta la sua durata. Il n. 0 del novembre del 1970 viene pubblicato come supplemento al numero 19 di Lotta Continua e presenta in copertina il disegno di un ragazzo hippie sovrapposto, come detto, al testo della favola Gli abiti nuovi dell’imperatore di Andersen, conosciuta come la favola del “Re nudo”. Il direttore responsabile ai sensi di legge è Marco Pannella, che tuttavia non ricopre incarichi effettivi all’interno della redazione; dal n. 6 del 1971 Re Nudo ha un proprio direttore responsabile, Marina Valcarenghi, sorella di Andrea. 



La rivista Re Nudo n. 17 e, sotto, l'antologia dal 1970 al 2000



Il primo numero è stampato in offset, in un formato inconsueto e poco pratico, la tiratura di 10 mila copie, la foliazione di 16 pagine e il prezzo di copertina è fissato a 200 lire. 
Legato nell’immaginario collettivo a grandi eventi come quello di Woodstock negli Stati Uniti o dell’isola di Wight in Gran Bretagna, il fenomeno dei pop festival si sviluppa in Italia a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta e trova nei festival organizzati dalla rivista Re Nudo, otto in totale svoltisi durante gli anni Settanta, una delle manifestazioni più significative e durature. Il raduno musicale nasce dalla necessità delle realtà di controcultura e dei movimenti giovanili di creare eventi aggregativi che si facciano espressione di un senso di identità collettivo e della massima libertà creativa, prefigurando, in un luogo e in un tempo circoscritti, l’avvento di una società segnata da un profondo cambiamento nei costumi. Alle origini di questi festival risiede dunque una diversa idea di collettività, basata sulla solidarietà e sulla trasgressione dalle norme borghesi; questi elementi vengono tuttavia assorbiti rapidamente dal sistema economico che trasforma il pop festival in una proficua occasione di guadagno, annullando le istanze sociali e politiche, più o meno esplicite, in esso contenute. Consapevole del processo di mercificazione che minaccia a livello internazionale lo “spirito” dei raduni, la redazione di Re Nudo assume inizialmente come priorità nell’organizzazione dei festival quella di mantenere l’autonomia rispetto al mercato, gestendo e producendo in proprio l’evento. 

La prima edizione è in programma nel weekend tra il 25 al 26 settembre, la sede scelta è Ballabio, piccolo comune appena sopra Lecco, direzione Valsassina. L’idea di metter su una festa di musica libera a Lecco nasce da alcuni giovani del posto, durante una festa tra amici, che si svolge nel giardino di una villa privata. Subito parte il passaparola, qualche telefonata, conoscenze, contatti con Andrea e Marina Valcarenghi a Milano. Un po’ sognando, un po’ divertendosi, con molta approssimazione, questi giovani danno vita alla “Woodstock italiana”, il primo raduno rock, primo dei grandi riti del movimento giovanile degli anni Sessanta/Settanta.



Lì a Ballabio c’era il prato di Montalbano, regolarmente concesso dal proprietario, una sorta di oasi, una conca in mezzo al bosco a forma di anfiteatro ricoperta di erba, dalle alture del quale si vede il lago, luogo che si può raggiungere a piedi dal centro abitato di Lecco in una mezz’oretta, tra boschi e prati. Si allestisce un palco fatto da tubi innocenti e tavole di legno, senza nessuna separazione tra i musicisti e il pubblico e un bar/punto ristoro, dove tutto costa 100 lire, prezzo politico: panini, birra, vino, salamelle, caffè, gelati. La “Lecco bene”, nei giorni precedenti l’evento, assisteva, un pochino allarmata, a inedite file di giovani con in spalla uno zaino, che si incamminavano su verso i boschi. Malgrado la logistica, la scomodità per raggiungere l’area e le previsioni meteo non proprio incoraggianti arrivano circa 12mila persone, che si accampano con tende e sacchi a pelo, tanti senza neppure quello. Nonostante i disagi per un’organizzazione non preparata ad accogliere questi numeri, Re Nudo ha la prova che anche l’Italia è matura per i raduni pop e già si decide che l’appuntamento andrà riproposto l’anno seguente.  
Sul palco si alternarono band e musicisti rigorosamente non commerciali, tra i quali Alberto Camerini e Claudio Rocchi. Un successo straordinario.
Nel festival di Ballabio, come anche in quelli che si erano succeduti, sono passati tanti volti del Re Nudo di allora, diventati poi musicisti e compositori perché, nel suo piccolo, “Montalbano” ha raccolto talenti che hanno attivato altri talenti, lasciando un solco profondo nello sviluppo della formazione culturale di chi lo visse.
Nessuno si è mai spiegato perché quell’esplosione giovanile accadde proprio a Lecco, che, città piccola e industriale, allora era una noia rispetta a Milano e ad altre città più vivaci. Qualcuno ha parlato di ragazzi, gli organizzatori, che non si spaventarono di scuotere e svegliare una cittadina provinciale. Sostennero che quell’arcipelago giovanile che si unì su quel pratone era già il nuovo orizzonte del cambiamento sociale in atto dopo il Sessantotto. Forse fu solo un momento, che però divenne magicamente l’occasione di musica, fratellanza, emozione e giostra collettiva in cui riconoscersi, col piacere di stare insieme senza dividersi e accapigliarsi.
Qualcosa che oggi pare semplicemente perduto.

Beniamino Colnaghi

Sitografia

Re Nudo: https://renudo.org/ 

Lecco cannel: https://www.leccochannel.it/2021/01/26/re-nudo-lecco-quando/ 

Le culture del dissenso: https://www.culturedeldissenso.com/pop-festival-re-nudo/

 

 

  

giovedì 25 gennaio 2024

27 gennaio: “Giorno della Memoria”

Tre civili inermi uccisi a Cucciago il 18 luglio 1944 dai repubblichini fascisti

L’articolo 1 della legge 20 luglio 2000 n. 211 definisce così le finalità del Giorno della Memoria:

«La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati».

A quasi 80 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, continua a persistere la sensazione che alcuni momenti della nostra storia siano destinati a non passare mai, a riaffiorare periodicamente come carne viva, come ferite mai rimarginate. Il peso che il ventennio fascista, in particolare il tragico biennio di guerra civile, esercita ancora sul nostro presente, continua ad alimentare polemiche e vergogna. Odio, persino. Qui in Italia risulta ancora difficile elaborare una memoria collettiva  di quegli avvenimenti, che mantengono intatta la capacità di esacerbare gli animi, segno che il nostro Paese non è riuscito a fare i conti con il proprio recente passato, come ha fatto, meglio di noi, la Germania con il nazismo.

Dalla metà del 1942 alla Liberazione dell’aprile 1945 in alcune località della Brianza vi fu un susseguirsi di fatti drammatici, attentati, eccidi che coinvolsero anche cittadini innocenti e inermi. “Nella primavera del 1944, nel Canturino, si organizzano e agiscono sul territorio diversi Gap/Sap, tra i quali il Gap di Cascina Amata, comandato da Luigi Mauri, quello di Cascina Cavanna, guidato da Adelino Borghi, la Sap diretta da Nello Frigerio che agisce all’interno e all’esterno delle fabbriche” (https://www.straginazifasciste.it/wp-content/uploads/schede/CUCCIAGO%2018.07.1944.pdf.)
Uno dei  fatti di sangue che riguardò i civili fu l’assassinio di Maria Borghi, del marito Giuseppe Meroni e di Giovanni Battocchio, soprannominato Carnera per la sua prestanza fisica, avvenuto nel centro di Cucciago, provincia di Como, per mano di tre repubblichini fascisti, appartenenti alla famigerata banda Paone
Gli autori del massacro erano sulle tracce di alcuni fiancheggiatori di partigiani accusati di aiutare ebrei e renitenti alla leva a espatriare. Se il processo svoltosi nel novembre 1945 condannò inoppugnabilmente i colpevoli, il ruolo delle tre vittime non fu sufficientemente chiarito, lasciando scoperto l’alone del dubbio.
La stampa locale, ovviamente in mano al regime, riferì l’eccidio di quel tragico 18 luglio come un’eroica azione condotta da tre agenti della questura di Como contro un gruppo di banditi armati che “per lucro o per basso calcolo si pongono fuori di ogni legge”. Carnera sarebbe stato ucciso nel tentativo di fuggire, “ma raggiunto dal fuoco preciso dei giovani agenti, poco dopo stramazzava sulla strada, ucciso da cinque proiettili nella schiena.” Nel tentativo di sottrarsi all’arresto i coniugi Meroni avrebbero assalito uno degli agenti. “Questi - riferì il quotidiano comasco – in procinto di essere sopraffatto fece uso dell’arma colpendo mortalmente i due coniugi”.  
“In realtà i fatti pare si svolsero diversamente e presentano notevoli discrepanze rispetto alla cronaca riportata dalla stampa allineata alle direttive del regime. I capi di imputazione del processo svoltosi a Como presso la Corte di assise speciale fra il 21 novembre e il 5 dicembre 1945, ricostruiscono i diversi momenti di quella tragica giornata, insieme al profilo dei tre assassini e del loro comandante, che nel corso di quei mesi si macchiarono di un inaccettabile numero di crimini.” (1)
Ecco i loro nomi: Giuseppe Paone era dirigente dell’ufficio politico della questura e comandava il reparto speciale della polizia di Como. Gli astigiani Eugenio Pugno e Pietro Accornero insieme a Gianfranco Bartoletti, all’epoca dei fatti appena diciottenne, furono gli esecutori materiali del triplice assassinio. La “banda Paone”, una delle tante formazioni di polizia speciale che agiva alle dipendenze del capo della provincia, prendeva il nome dal suo comandante, Giuseppe Paone. Si distinse in operazioni di infiltrazione, rastrellamento ed in esecuzioni particolarmente efferate di partigiani. Aveva sede in via Malta, 124, luogo di detenzione e tortura. I crimini compiuti da Paone e dai suoi agenti furono riconosciuti nel dopoguerra dalla Sezione speciale della Corte d’assise di Como.
“Secondo la ricostruzione emersa nel corso del dibattimento - continua Casartelli - alle prime luci dell’alba del 18 luglio 1944 giunsero da Como (a Cucciago ndr) una quindicina di agenti in abiti borghesi, appartenenti alla squadra “speciale” del tenente Paone. Com’era ormai abituale, si trattava di un’azione finalizzata all’individuazione di fiancheggiatori di partigiani. In prossimità del paese il Paone suddivise i suoi uomini, i quali, fingendosi militari sbandati intenzionati ad unirsi a qualche gruppo di partigiani, si dispersero nelle diverse direzioni. Una giovane donna si lasciò suggestionare da Accornero e Pugno e, convinta di aiutare due giovani sbandati, si offerse di accompagnarli all’osteria del Dopolavoro, in centro al paese, dove avrebbero potuto avere informazioni più precise.”

Maria Borghi e Giuseppe Meroni in una foto giovanile


I militi fascisti avevano informazioni che a Cucciago abitava il gappista Bruno Battocchio, “Secondo”, fratello di Giovanni. I gestori dell’osteria erano Giuseppe Meroni e la moglie Maria Borghi. Entrati nell’osteria parlarono con il Meroni, il quale “…li rassicurò asserendo che avrebbe potuto aiutarli a varcare il confine oppure a entrare in clandestinità, ma in questo caso avrebbe dovuto metterli in contatto con una persona in grado di provvedere a tutto”.  I due fascisti, dopo essersi allontanati con una scusa, ritornarono accompagnati dal Bartoletti e trovarono il Meroni in compagnia di Giovanni Battocchio “Carnera”, da poco entrato nelle fila della Resistenza. A quel punto ebbe inizio la strage. Uno dei tre repubblichini estrasse due pistole e sbarrò l’uscita del locale. Il Battocchio, a mani alzate, cercò di andare verso l’uscita ma venne colpito da alcuni colpi di pistola, mentre gli altri due militi fascisti, l’Accornero e il Pugno, spararono contro il Meroni. La moglie di quest’ultimo, cercando di fargli da scudo con il proprio corpo, venne colpita anch’essa da un colpo di pistola. L’eccidio era consumato, tre cadaveri erano al suolo.
L’intera scena si svolse in brevi istanti. L’eccitazione della sparatoria aumentò l’ostilità dei militi che minacciarono di incendiare il paese, covo, così affermarono, di partigiani e fiancheggiatori e di esporre i tre poveri corpi nel centro di Como, come monito per la popolazione di tutta la provincia. Fortunatamente, poco dopo la strage, intervenne Carlo Porta, un giovane del posto nominato da poco tempo commissario prefettizio, il quale impose la propria autorità politica ai militi fascisti e placò l’eccitazione e la rabbia dei presenti.
Rinviati a giudizio alcuni mesi dopo la Liberazione, nel corso del dibattimento gli imputati accamparono scuse e pretesti per giustificare le loro terribili gesta ma vennero categoricamente smentiti da tutte le testimonianze dei testimoni. “Hanno ucciso solo per uccidere – affermò la testimone Teresa Morelli – senza alcuna necessità, neppure di difesa.”
Con sentenza del 21 gennaio 1946, Giuseppe Paone e altri 7 agenti del suo reparto speciale di polizia vennero condannati dalla Sezione sociale della Corte di Assise di Como. Paone e i tre responsabili dell’uccisione di Giovanni Battoccchio, Giuseppe Meroni e Maria Borghi, vale a dire Bartoletti, Accornero e Pugno furono condannati alla pena capitale. Con sentenza del 10 marzo 1948, la Corte di assise di Milano commutò la pena di morte in ergastolo.

In Piazza Martiri della Libertà a Cucciago è stata posta una lapide con la seguente scritta: “A Giuseppe Meroni Maria Borghi e Giovanni Battocchio martiri dell’eterna libertà, qui trucidati dai fascisti il 18 luglio del 1944, il ricordo di tutti gli uomini che in Italia e nel mondo cercano la giustizia, la libertà, la pace. Cucciago, 25 aprile 2009”.

Beniamino Colnaghi  

Note

(1)   Tiziano Casartelli, 18 luglio 1944 – 75 anni fa la strage di tre inermi civili a Cucciago, Canturium, 2019 

Stragi nazifasciste, episodio di Cucciago del 18 luglio 1944:

https://www.straginazifasciste.it/wp-content/uploads/schede/CUCCIAGO%2018.07.1944.pdf

  

mercoledì 17 gennaio 2024

La musica di Vittorio Gnecchi – La “Missa” rappresentata a Verderio Superiore

di Giulio Oggioni

Venerdì 27 ottobre 2006: questa data rimarrà nella storia non solo di Verderio Superiore, ma anche in quella della grande musica operistica.
E’ stato il giorno della prima rappresentazione nazionale della Missa Salisburgensis, un’opera religiosa scritta da Vittorio Gnecchi Ruscone.
Per questa occasione, l’Associazione Musicale Vittorio Gnecchi di Milano, nata qualche anno fa proprio per rivalutare la musica del grande maestro, amatissimo all’estero e dimenticato in Patria, ha scelto la chiesa parrocchiale di Verderio Superiore per la sua esecuzione.
La chiesa, dedicata ai santi Giuseppe e Floriano, fu voluta dalla Famiglia Gnecchi e venne consacrata dal cardinale Ferrari di Milano nel 1902. In essa, Vittorio ed i familiari si recavano ad ascoltare la Santa Messa domenicale in un apposito palchetto accanto all’altare maggiore, abbellito dalla splendida Pala d’altare di Giovanni Canavesio, del 1499.
Ad interpretare l’opera religiosa è stato chiamato il Coro della Cappella Musicale del Duomo di Milano, diretto dal maestro Claudio Riva. Ad assistere alla “prima”, sono giunte a Verderio oltre cinquecento persone: molti appassionati, discendenti del casato, semplici curiosi per lo straordinario avvenimento, ma soprattutto cittadini di Verderio e dintorni che avevano sentito raccontare dai loro genitori dei grandi successi musicali che il maestro riscuoteva agli inizi del Novecento, ma che, prima di questo giorno, non avevano mai potuto ascoltare neppure una nota delle sue opere.


Vittorio Gnecchi Ruscone



Il Coro della Cappella Musicale del Duomo di Milano e, sotto, parte del pubblico presente



Chi leggerà questo resoconto, sicuramente avrà già sentito parlare di Vittorio Gnecchi, ma forse non conosce la sua travagliata storia musicale. Per questo, molto brevemente, cercheremo di ricordare i fatti principali della sua vita e le sue opere.
Vittorio, figlio del grande numismatico Francesco Gnecchi, nacque a Milano il 17 luglio 1876, in via Filodrammatici, fiancheggiante proprio il Teatro alla Scala.
Giovanissimo, grazie alla disponibilità economica della famiglia e attratto dalla musica operistica dell’epoca, venne affidato ad alcuni insegnanti illustri, quali Michele Saladino (maestro anche di Mascagni e De Sabata) e Gaetano Coronaro, condiscepolo di Tullio Serafin. Vittorio aveva nel sangue la musica e ben presto si impose anche nelle composizioni operistiche.
Appena maggiorenne, si trasferì con la famiglia nella sfarzosa villa di Verderio Superiore, posta al centro del paese e acquistata nel 1885 dagli eredi del conte Luigi Confalonieri.
Giovanetto, esattamente il 26 ottobre 1896 (che coincidenza con la data recente di Verderio) nel teatrino appositamente allestito nella villa, fu eseguita la sua prima opera Virtù d’amore che ebbe subito un vastissimo successo di critica. Fu solo l’inizio  delle sue creazioni musicali e già nel 1902, con il famoso librettista Luigi Illica, che scrisse il testo, compose la musica di Cassandra, che sottopose all’attenzione di un amico di famiglia: Arturo Toscanini. Tanto fu l’entusiasmo del maestro che ottenne di dirigere la “prima” dell’opera il 5 dicembre 1905 al Teatro Comunale di Bologna.
Il successo fu travolgente, ma non mancarono anche le critiche verso il giovane rampollo della facoltosa famiglia milanese, accusata talvolta anche di imporre il giovane maestro. Le parole della critica furono: “un dilettante troppo ricco  per una musica troppo tedesca”.
Ma il destino della sua Cassandra serbava altre sorprese. A Dresda, il 25 gennaio 1909 ebbe luogo la prima rappresentazione di Elettra di Richard Strauss, il grande e riverito compositore austriaco, ma anche molto temuto per le sue bizzarre richieste e pretese, imposte soprattutto per la sua fama in tutta Europa. Gli attenti critici notarono immediatamente le sorprendenti analogie musicali che legavano le due opere e subito accusarono Vittorio Gnecchi di plagio.
Nonostante queste critiche, il 29 marzo 1911, la Cassandra venne rappresentata a Vienna, città di Strauss, con grande successo dell’autore, chiamato una trentina di volte sulla scena. E dopo Vienna l’opera ebbe altri successi in tutto il mondo, ma per “non dispiacere” il grande Strauss, tutti i teatri d’Italia chiusero le porte al talento italiano.
La verità venne a galla solo dopo diversi anni. Vittorio, frequentatore dei teatri europei, aveva incontrato il compositore austriaco prima della rappresentazione di Cassandra del 1905 e gli aveva donato una copia della partitura, chiedendo un suo giudizio, che non arrivò mai.
Arrivò però l’Elettra con le sue analogie musicali. Dunque chi aveva copiato non era stato certo Vittorio Gnecchi! Avvilito, ma ancora combattivo, tanto da inviare più lettere di difesa ai responsabili del governo per illustrare i torti subiti (una lettera anche al giovane responsabile culturale, Giulio Andreotti) il maestro si ritirò a Salisburgo dove trovò la sua isola felice, alla quale dimostrò tutta la sua gratitudine.


Vittorio Gnecchi a Salisburgo

Compose altre opere, come Rosiera, Judith e altri pezzi per orchestra, Cantata Biblica, Invocazione Italica, Atlanta e anche opere religiose, come O Sacrum Convivium, Salve Regina. Piccola Madre e un’ Ave Maria a tre voci.
Nel 1932 gli venne commissionata dal direttore Joseph Messner una Messa solenne che si tenne poi il 23 luglio 1933 nel Duomo di Salisburgo.
La seconda rappresentazione di questa straordinaria opera religiosa venne data il 13 febbraio 1954 nel Duomo di Innsbruck, a commemorazione della scomparsa del grande maestro, avvenuta a Milano il precedente 5 febbraio.
In Italia, nonostante diversi tentativi della famiglia per ottenere il giusto riconoscimento, il suo nome venne dimenticato. Grazie a fortunose scoperte di alcuni suoi spartiti in Francia, la Cassandra  è stata riproposta solo nella forma musicale e con la magistrale interpretazione di Denia Mazzola Gavazzeni, il 13 luglio 2000 al Teatro dell’ Opera di Montpellier, in Francia.
E dopo ben 53 anni, con la Missa Salisburgensis la grande musica del maestro verderiese ha fatto ritorno in Patria, a Verderio Superiore, tra la sua gente che fortemente lo ha amato, stimato e sostenuto. Mai così tanta gente si è vista nella nostra splendida chiesa come la sera della rappresentazione. Questo avrà fatto certamente felice il maestro e con lui sicuramente anche la nipote Vittoria Greppi Carlotti (nata dal matrimonio della figlia Isabella Gnecchi con l’ammiraglio Franco Greppi di Casatenovo) che si adoperò con tutte le sue forze e fino all’ ultimo respiro per la riabilitazione del nonno. Tanto fece che convinse la grande schiera dei parenti a fondare l’Associazione che porta il nome del maestro.
Il destino e la Provvidenza, seppur dopo mezzo secolo, ha riabilitato Vittorio Gnecchi e la rappresentazione della Missa Salisburgensis ha gettato le basi per altre. La prima a Berlino, con Cassandra, programmata il 7 novembre 2007 e repliche nei giorni successivi. 
Ora la speranza è quella che il grande sogno di tutti non svanisca di nuovo, come in passato.
Il 27 ottobre 2006 segna l’alba di un nuovo giorno con il ritorno ai meritati successi della musica di un grande maestro italiano: Vittorio Gnecchi Ruscone,

Nota

Le fotografie mi sono state gentilmente concesse da Giulio Oggioni 

venerdì 22 dicembre 2023

28 dicembre 1943: l’eccidio dei sette fratelli Cervi ad opera dei fascisti


In Italia ci sono luoghi apparentemente marginali e laterali che, se gli si dedica una visita con il giusto approccio curioso e interessato, sanno raccontare molto, consentendo esperienze uniche e stimolanti, non solo nel campo storico, ma anche in quello culturale, agroalimentare, dell’innovazione.
Uno di questi luoghi è a Gattatico, un piccolo paese in provincia di Reggio Emilia. Custodisce un passato d’inestimabile importanza e ne fa un motivo imprescindibile per guardare avanti.
Tutto si svolge attorno all’Istituto Alcide Cervi, che sorge in quella che fu la cascina della famiglia Cervi e che prende il nome del padre di sette fratelli, contadini e partigiani, vittime della repressione e della barbarie fascista.
La storia di questa famiglia appassiona ed emoziona principalmente per due motivi: da una parte perché è una storia di contadini e fa parte della storia della vita e delle tradizioni del nostro Paese, dall’altra perché costituisce una testimonianza d’impegno civile.
La famiglia Cervi attraversa il Novecento passando dalla condizione di mezzadri a quella di affittuari, coltivando la terra e cercando nella terra quel riscatto dalla miseria che contraddistingueva l’Italia della prima metà del secolo scorso. 
In casa Cervi circolavano parecchi libri e le discussioni politiche erano all’ordine del giorno. In questo contesto fu quasi naturale la nascita di quello spirito antifascista che costituì un carattere fondante del nucleo che segnò per sempre il destino dei sette figli maschi. Sempre qui avvenne l’incontro dei fratelli Cervi con Dante Castellucci, un partigiano poi fucilato dai suoi stessi compagni, poco prima dei fatti che portarono alla caduta del fascismo, e ciò sarà determinante per i Cervi perché entreranno a far parte attiva nella Resistenza.
Ma la rivoluzione di casa Cervi non è solo politica, è anche sindacale: il loro senso di giustizia sociale li ha portati a scelte importanti. La famiglia è unita e progressista, spinta all’innovazione, a guardare avanti, tutti elementi che saranno fondamentali anche per lo sviluppo della loro azienda agricola. Poter migliorare il lavoro agricolo è per i Cervi la condizione indispensabile per uscire dalla povertà e dallo sfruttamento della mezzadria. Con queste convinzioni, nel 1934 la famiglia si stabilisce nel podere Campirossi, in località Gattatico, dando inizio all’attività di affittuari. Il lavoro è duro e tutti insieme si impegnano a trasformare il loro podere, non particolarmente fertile, in un’attività produttiva evoluta attraverso gli studi innovativi sulle pratiche agricole. Il simbolo di modernità dell’azienda è il trattore Balilla, acquistato dai Cervi nel 1939. Nonostante la scarsa alfabetizzazione, ai Cervi piaceva leggere, documentarsi, imparare non solo per migliorare le tecniche del loro lavoro, ma anche per il proprio accrescimento culturale.
 
La famiglia Cervi. Al centro, seduti, papà Alcide e mamma Genoeffa (1)

Con la dichiarazione di Mussolini che certificava l’entrata in guerra dell’Italia il 10 giugno 1940, la situazione nel nostro Paese peggiorò ulteriormente. Nella notte tra il 24 e il 25 luglio 1943Benito Mussolini venne esautorato dal Gran Consiglio del Fascismo e subito dopo deposto dal re Vittorio Emanuele III. Furono giorni aggrovigliati, inquieti, densi di agguati, tradimenti e vendette.
La notizia esplose nel paese come un fulmine a ciel sereno. Poco più di un mese dopo, l'armistizio di Cassibile fu diramato l'8 settembre del 1943, e prevedeva la resa incondizionata italiana alle forze alleate con il disimpegno italiano dall'alleanza dell'Asse e l'inizio di fatto della cobelligeranza tra Italia e Alleati in caso di reazione della Germania nazista. L'annuncio dell'armistizio ebbe per conseguenza l'occupazione dei territori italiani da parte tedesca e l'inizio della Resistenza e della guerra di liberazione italiana contro il nazifascismo. 
Così, mentre avveniva il totale sbandamento delle forze armate, le armate tedesche della Wehrmacht e delle SS presenti in tutta la penisola poterono far scattare l'Operazione Achse, occupando tutti i centri nevralgici del territorio nell'Italia settentrionale e centrale, fino a Roma, sbaragliando quasi ovunque l'esercito italiano: la maggior parte delle truppe fu fatta prigioniera e venne mandata nei campi di internamento in Germania, mentre il resto andava allo sbando e tentava di rientrare al proprio domicilio. Di questi ultimi, una buona parte, quella più politicizzata, si diede alla macchia, andando a costituire i primi nuclei del movimento partigiano che partecipò attivamente alla resistenza italiana.
Dentro questo clima complicato, il 25 novembre 1943 casa Cervi viene circondata e al primo mattino, dopo uno scontro a fuoco, i sette fratelli vengono arrestati. Anche il padre Alcide, che non voleva abbandonarli, seguirà la stessa sorte. Gelindo, Antenore, Ferdinando, Aldo, Agostino, Ovidio ed Ettore Cervi rimasero in carcere a Reggio Emilia sino al 28 dicembre, quando vengono trasferiti al Poligono di tiro, appena fuori Reggio, e lì fucilati come rappresaglia per l’uccisione del segretario comunale di Bagnolo in Piano. Anche don Pasqualino Borghi, parroco di Tapignola, morirà fucilato al Poligono, in quanto fervente antifascista e facente parte del movimento partigiano con il nome di Albertario. La sua canonica fu un rifugio sicuro per tanti perseguitati e ricercati dalla milizia fascista, ebrei, militari sbandati. 
La tomba dei Cervi al cimitero di Campegine (RE)

Alcide Cervi

Alla fine la casa della famiglia venne bruciata dai fascisti, con le donne ed i bambini abbandonati in strada. Papà Cervi era ancora in cella e non fu nemmeno informato quando i suoi figli vennero condannati a morte e fucilati. “Dopo un raccolto ne viene un altro, bisogna andare avanti”. Queste le parole del vecchio “Cide” quando, tornato a casa dal carcere, seppe dalla moglie Genoeffa la tragica fine dei suoi ragazzi. Da quel giorno infatti, furono le donne dei Cervi a lavorare la terra con Alcide e con gli 11 nipoti.
Nell’immediato dopoguerra, il Presidente della Repubblica appuntò sul petto del vecchio padre sette Medaglie d’argento, simbolo del sacrificio dei suoi figli. Papà Cervi viaggiò in mezzo mondo, rappresentando la Resistenza italiana, partecipando alle grandi manifestazioni politiche, partigiane ed antifasciste. Morì a 94 anni il 27 marzo 1970, salutato ai suoi funerali da oltre 200.000 persone.
L’Istituto Alcide Cervi gestisce la casa museo dei Cervi, oggi uno straordinario museo della storia dell’agricoltura, dell’antifascismo e della Resistenza, e la Biblioteca Archivio Emilio Sereni, che ospita la biblioteca privata di questo importante scrittore, politico e storico italiano. Entrambe le strutture sono visitabili.

Beniamino Colnaghi

Note

1)      Fonte Wikipedia https://commons.wikimedia.org/wiki/File:La_famiglia_Cervi.jpg?uselang=it