lunedì 20 ottobre 2014

Storie della Brianza di una volta: la pergola dei Proserpio

L’estate del 1947 fu torrida; in quei mesi si registrarono temperature tra le più alte del secolo.
Nel mese di luglio di quell’anno uno stuolo di ragazzini, incuranti del solleone, giocava a nascondino scorazzando tra la grande corte e gli orti esterni della cascina. Per non essere scoperti, si appiattivano dietro i pilastri dei portici o si accucciavano sotto i carri agricoli. Le galline, impaurite dalle urla e dalle corse dei ragazzini, fuggivano sbattendo le ali in ogni dove, mentre le oche starnazzavano stupidamente. Qualche vecchia usciva dalle porte protette dal caldo da ruvide tende a righe verticali, redarguendo qualche giovincello troppo esuberante. Le donne anziane alzavano le braccia e scuotevano la testa, scambiando pochi commenti con le vicine e sparendo quasi subito dietro le tende abbassate. I pargoli dormivano beatamente dentro le semibuie e fresche stanze e per nessuna ragione al mondo dovevano essere svegliati.  
L’aia della cascina Addolorata era molto grande, la più ampia di tutte. Su di essa si affacciava un lungo porticato, sotto il quale si aprivano sedici abitazioni, tutte rigorosamente esposte verso sud. Ai lati del corpo centrale avevano sede le stalle ed i fienili e alcuni portici aperti, sotto i quali i contadini depositavano i carri e gli attrezzi agricoli.
Sotto il grande porticato, gli uomini anziani, per combattere le ore più calde della giornata, se ne stavano appisolati sulle panche di legno, appena fuori dalle loro abitazioni. Sui tavolini di rovere massello erano posate alcune brocche di acqua fresca, “pescata” dal pozzo per dissetare i ragazzini che stavano giocando, mentre i vecchi, tra uno sbadiglio e una sventagliata del cappello a larghe falde sul viso per rinfrescarsi, si facevano versare dalle premurose massaie di casa un buon calice di vino rosso, il pincianel, un vinello decantato dal poeta milanese Carlo Porta nell’Ottocento e nel secolo scorso anche dagli scrittori Gianni Brera e Mario Soldati.       

 Una cascina lombarda con il tradizionale pergolato d'uva (cliccare sulle immagini per ingrandirle)

La pergola della famiglia Proserpio era la più grande e la più ricca di uva. Anselmo, il padre dell’attuale capofamiglia, venne ad abitare in cascina nell’ultima decade dell’Ottocento, a servizio del padrone, il conte Malinverni. Anselmo era un giovane di alta statura, biondo con gli occhi chiari, come certi montanari che provengono dalle valli alpine dell’estremo nord. Ma lui era nato in un piccolo paese del Triangolo Lariano, che si estende come una penisola incuneata tra i due rami del Lario: quello di Como e quello di Lecco.
Il conte aveva necessità di assumere un bravo bergamino per migliorare le tecniche di allevamento dei suoi bovini da latte. Il buon Anselmo si inserì così bene in cascina che, di lì a pochi anni, sposò l’unica figlia del conte, Maria Vittoria Malinverni, dalla quale ebbe un figlio maschio, Pietro Maria. Pochi giorni dopo il parto la mamma cominciò a deperire a vista d’occhio. A nulla valsero i consulti dei più rinomati medici cittadini, chiamati dal conte al capezzale della figlia: Maria Vittoria morì di una malattia allora sconosciuta. Era trascorso meno di un mese dal parto. Il dolore che afflisse il conte fu così forte che lo portò ad assumere la decisione di vendere la cascina Addolorata e tutti i terreni di sua proprietà. Si ritirò nella sua bella casa di Milano, ove, solo e depresso, morì pochi anni dopo, lasciando tutti i suoi soldi e le proprietà ad un noto orfanotrofio della città. Tranne un piccolo appezzamento di terra, circa quindici pertiche lombarde, che nel suo testamento lasciò al nipote Pietro Maria. La decisione del defunto di non lasciare tutti i suoi averi al nipote, il discendente a lui più prossimo, suscitò mormorii e pettegolezzi in cascina ed in paese, tanto da confermare le dicerie che circolarono in occasione del matrimonio di sua figlia col bergamino, secondo le quali il conte non benedisse mai quell’unione, anche se, per amore verso la figlia, mantenne un atteggiamento defilato.  


Verderio, curt del Legnamée (falegname) e del Murnée (mugnaio): la pergola ricca di uva americana di proprietà della famiglia Besana.

Sotto la pergola il vecchio Anselmo chiacchierava amabilmente con Gusten, Agostino Galbusera, l’uomo più vecchio della cascina, classe 1865, il quale raccontava quasi ogni giorno delle vicissitudini trascorse durante la Guerra di Abissinia, il conflitto al quale partecipò tra il dicembre del 1895 e l'ottobre del 1896. La guerra si concluse con una dura sconfitta per le forze armate del Regno d'Italia e con la perdita di diverse migliaia di soldati. Agostino ritornò a casa qualche mese dopo, nella primavera del 1897, e da allora non smise mai di raccontare ciò che vide in quel terribile periodo. I due vecchi avevano ormai troppi anni per lavorare nei campi e anche l’ortaglia era diventata troppo grande per le loro deboli braccia. Anselmo sapeva che la pergola lo avrebbe protetto ancora per poco tempo. Fumava il toscano, accarezzando, ti tanto in tanto con la mano destra, i capelli biondi del bambino.
“Nonno, perché non sei nel campo ad aiutare il papà?”
“Non posso, Vittorio, sono troppo vecchio per tagliare il grano”.
Il vecchio sventolò il suo cappello contro le mosche, attirate dal sudore che gli rigava le guance.
Il piccolo Vittorio, che ereditò il nome della nonna paterna, era il secondogenito di Pietro Maria, il figlio di Anselmo.
“Posso assaggiare l’uva, nonno?”
“E’ ancora un po’ indietro nella maturazione, mancano ancora dieci giorni a Sant’Anna”.


 Verderio, la pergola della cascina Isabella.  

Anna era la madre di Maria e la sua festa cade il 26 luglio. Molti riconoscono in Sant’Anna la propria patrona: i commercianti, le ricamatrici e le sarte, i naviganti e i minatori, le vedove. Ma la santa è invocata soprattutto dalle gestanti, alle quali in cambio di devozione garantisce il buon esito della gravidanza ed un parto agevole. Nelle camere dei contadini non mancava, oltre all’immagine della Sacra Famiglia appesa al muro, un’effigie di Sant’Anna: allora nel grande letto nascevano tutti i figli che la bontà di Dio voleva donare.:In alcune parti d’Italia la festa di Sant’Anna interrompeva i lavori di mietitura e trebbiatura. Narra la leggenda che un tempo, quando per separare i chicchi delle spighe dorate si usava il correggiato, oppure si facevano calpestare da una coppia di buoi, un contadino decise di rompere il tabù di lavorare nel giorno dedicato alla santa. I cerchi concentrici tracciati dai buoi che calpestavano le spighe divennero un vortice che sprofondò inghiottendo l’aia e tutto quel che conteneva. Infine la buca si riempì d’acqua. Il mito della nascita delle stagioni, dell’alternanza del periodo secco e di quello piovoso, è riprodotto dai contadini anche attraverso l’usanza di recarsi, durante la festa di Sant’Anna, in un luogo di balneazione. Che si trattasse di un corso d’acqua o di un laghetto, o ancora della riva del mare, lunghe teorie di carri agricoli trainati dai buoi trasportavano le famiglie. La pratica di gettarsi in acqua sembrava avere una valenza purificatrice, ma anche un auspicio di fecondità.
La festa di Sant’Anna, per il modo in cui veniva celebrata dai contadini, e per gli elementi che presenta la leggenda ad essa legata, con l’astensione dalle attività lavorative, il mito della voragine, la presenza dell’acqua, sembra ricollegarsi alle antiche celebrazioni di un culto agrario dedicato a Demetra la cui ricostruzione è più ipotetica che reale, ma di cui attraverso la pratiche tradizionali si riescono ad intravedere alcuni brevi tratti.

 Il vecchio Anselmo, per accontentare il nipotino, si alzò lentamente dalla panca di legno, accostò uno sgabello al muro e salì tanto quanto bastò per prendere un piccolo grappolo, uno dei più maturi.
“Vai in casa e chiedi alla mamma di lavarlo perché c’è su un po’ di verderame”.
Di ritorno, il piccolo iniziò a mangiare alcuni acini, ma il suo viso cominciò ben presto ad esprimere un certo disgusto. Anselmo sorrise. “Te l’avevo detto che non era ancora matura”.
Il bambino era una buona compagnia in queste giornate di luglio. Altri vecchi erano seduti sotto altre pergole. Lui li conosceva tutti. Erano in cascina perché l’osteria più vicina stava in paese ed era troppo rischioso, alla loro età, andare a giocare a carte con quel solleone. Le loro gambe non avrebbero retto la fatica ed il cuore avrebbe sofferto eccessivamente. No, la cosa più saggia era starsene sotto la pergola a riposare e chiacchierare con gli altri vecchi della cascina.

 Verderio, la "ridimensionata" pergola della cascina San Carlo, casina del Cürat. 

“Non vuoi assaggiare l’uva, nonno?”
“No, caro Vittorio, mai prima di Sant’Anna. E’ sempre stata una tradizione e io ho imparato, fin dalla tua età, che le tradizioni bisogna rispettarle”.
“Nonno, raccontami del signor conte. E’ vero che non voleva bene alla nonna?”
“Eh, tu sei piccolo, certe cose non le puoi capire. Quando andrai a scuola e sarai più grande, capirai che nel mondo ci sono i ricchi e i poveri, ci sono sempre stati, e non sempre vanno d’accordo. Il tuo bisnonno era una brava persona, ha dato da mangiare a tante famiglie qui in paese, ma aveva le sue idee. Secondo lui, e quelli della sua stirpe, una persona ricca non doveva sposarsi con uno che apparteneva ad una famiglia di contadini. C’erano di mezzo le proprietà e il buon nome del casato”.
“Allora io, quando sarò grande, non potrò sposare Rosangela, la figlia del macellaio?”
 “Certo che potrai sposarla. Tu diventerai un bel giovane, studierai, perché l’intelligenza non ti manca, e prenderai un pezzo di carta. Vedrai, i tempi cambieranno anche per noi povera gente e un giorno tu vivrai meglio di tuo nonno e di tuo padre”.

Il vecchio cominciò a guardare oltre il muro di cinta della cascina, verso le colline dell’alto Lario, dove si intravedevano le cime dei pioppi e dei grandi platani. In fondo, il campanile del paese rintoccava le quattro del pomeriggio. Poco prima del campanile c’era il campo che il conte lasciò in eredità a suo figlio, quello che mai aveva tradito un raccolto. Quando lavorava in quel campo sentiva la presenza discreta di sua moglie Maria Vittoria. Malgrado fossero trascorsi tanti anni dalla sua morte, la ricordava sempre con emozione. Una lacrima gli scivolò sul viso, fino ad inumidirgli i baffi ormai bianchi.
“Che cosa pensi, nonno?”
 “La terra, rispose Anselmo, ti dà molta soddisfazione, ma ti cava il sangue. Se ti va bene, dai da mangiare a tutta la famiglia, ma se un anno il tempo fa il matto, non ti restano neanche i soldi per pagare l’affitto al padrone”.
Il bambino sentì la mano di suo nonno stringergli forte la testa. Non si voltò verso di lui. Sapeva che stava lottando per non piangere. Lo faceva sempre più spesso, ultimamente. Nessuno però se n’era accorto, fuorché il piccolo Vittorio.

Beniamino Colnaghi

I personaggi ed i luoghi del racconto sono puramente immaginari.

lunedì 6 ottobre 2014

Leggende dal ghetto di Praga: il Vicolo Belele

Quinto post sulle leggende che riguardano personaggi e fatti avvenuti, molti e molti anni fa, nel vecchio ghetto ebraico di Praga.

Durante il periodo in cui a Praga governò Rodolfo II (1583 – 1610 circa), scoppiò una terribile epidemia fra gli ebrei della città, la quale fece vittime soltanto fra i bambini.
L’Angelo della Morte infieriva impietoso nelle case di Israele. Centinaia di cadaveri venivano portati ogni giorno al Bethchajim, l’antico cimitero ebraico di Praga e, molto spesso, rimanevano lì molte ore prima di poter essere sepolti. A causa di ciò ed anche per colpa delle esalazioni venefiche emanate dai cadaveri, la peste si diffuse ancor più rapidamente. 

L'arrivo dell'Angelo della Morte (Praga, museo del ghetto)
Lo strazio e la disperazione avvolsero la comunità ebraica e dal momento che l’epidemia si era manifestata esclusivamente nel quartiere ebraico, venne interpretata come una punizione scagliatasi sull’intera comunità. La maggior parte degli ebrei pensò che la causa potesse essere dovuta a qualche crimine commesso da elementi della comunità. Vennero intonate preghiere speciali, furono organizzate giornate di digiuno per espiare il peccato e implorare il Cielo di allontanare l’epidemia. Purtroppo, l’epidemia continuò a mietere vittime. I becchini continuavano a lavorare e seppellire senza sosta. Un ulteriore tentativo consistette nel radunare tutti i rabbini e le persone erudite di Praga per consultarsi sui rimedi da porre affinché si potesse fermare la furia dell’Angelo della Morte.

I rabbini indagarono dapprima su quale fosse la causa dell’epidemia, su quale fosse il crimine per il quale era stata inflitta alla comunità una posizione così severa. Nessuno, purtroppo, riuscì a trovare la vera ragione. Nella notte seguente, Rabbi Löw, che aveva preso parte alla riunione dei rabbini, cominciò a pensare profondamente alle cause ed alla possibile via d’uscita. Dopo alcune ore, stanco e sconsolato, andò a letto. Sognò che il profeta Elia veniva da lui e lo conduceva al Bethchajim, dove i cadaveri dei bambini uscivano dalle loro tombe. Quando il rabbino si svegliò, sudato e tremante, meditò a lungo sul sogno. Gli sembrò, da subito, un messaggio di Dio per aiutarlo a scoprire la vera causa della peste. Fece chiamare uno dei suoi allievi più preparati, al quale disse: “Senti, il Signore nostro Dio ci ha coperti di miseria e infelicità perché abbiamo peccato gravemente. Per scoprire di quale crimine ci siamo macchiati, ti chiedo di andare a mezzanotte nel cimitero e, quando vedrai i bambini uscire dalle loro tombe vestiti con le vesti bianche, strappa ad uno di loro il Tachrichim, la veste funebre, e portamelo.

La tomba di Rabbi Löw nel vecchio cimitero ebraico di Praga (1609)
Il ragazzo fece come gli era stato ordinato. Verso mezzanotte si recò al cimitero e attese con ansia, mista di paura, che i bambini uscissero dalle tombe. Quando l’orologio del municipio ebraico batté la mezzanotte, da sotto le pietre tombali cominciarono a venir fuori molti bambini piccoli vestiti di bianco, ondeggiando sopra le tombe e dando vita ad una bizzarra danza di spiriti. Un tremendo brivido si impossessò dell’allievo del rabbino il quale, con la poca forza rimastale, strappò ad un bambino la veste funebre e si affrettò a guadagnare il cancello d’uscita.


Arrivò a casa di Rabbi Löw senza fiato, raccontò ciò che vide e diede al rabbino la veste funebre strappata al bambino. 
Nel frattempo, al primo rintocco dopo mezzanotte, nel cimitero tutti i bambini cominciavano a scivolare nelle loro tombe. Tranne uno, il quale, accortosi che gli mancava la veste, si diresse a casa del rabbino. Si fermò davanti alla finestra illuminata e, implorando, tese le braccia nell’atto di riavere il suo vestitino, senza il quale non avrebbe potuto rientrare nella sua tomba. “Rabbi, restituiscimi il mio Tachrichim!” “Se vuoi riavere il tuo Tachrichim devi dirmi qual è la causa di questa epidemia.” Il bambino, dopo aver smesso di piangere e implorare, svelò il motivo per il quale la peste colpì così duramente la comunità ebraica praghese: in un vicolo non lontano dalla casa del Rabbi vivevano due coppie di sposi che conducevano una vita immorale, per questo l’epidemia era stata scagliata sulla comunità e non si sarebbe arrestata fino a quando le due coppie non fossero state punite. “E ora che io ti ho svelato la causa della peste, restituiscimi il mio Tachrichim.” Rabbi Löw mandò a chiamare le due coppie e inflisse loro una severa punizione perché avevano portato tanta morte, infelicità e miseria alla comunità ebraica. L’epidemia ebbe così fine.

Il vicolo nel quale abitavano le due coppie di peccatori ricevette dal popolo il nome di Vicolo Belele, composto dai nomi delle due donne vissute nella lussuria: Bella e Ella.
                                                                        
Beniamino Colnaghi