sabato 23 marzo 2013

Václav Synek: la mia esperienza di lavoratore coatto in Germania

L’ingegner Václav Synek, detto Vašek, è un cittadino della Repubblica Ceca ed abita in una bella città termale il cui nome è Poděbrady. E' nato nel gennaio 1925 ed ha quindi 88 anni compiuti. Vive in una graziosa villetta con giardino e frutteto, scrive da molti anni articoli per l’informatore del comune e, quando ne sente la necessità, si concede ai piaceri di una tonificante e rigenerante sauna nordica. Qualche mese fa, grazie ai buoni uffici di mia suocera, chiesi al signor Vašek la disponibilità a raccontarmi la sua storia circa il periodo trascorso nei campi di lavoro in Germania, durante la seconda guerra mondiale. Detto, fatto. Questo è il suo resoconto. (b.c.)

Quello descritto qui di seguito è quanto mi è accaduto nell’epoca della guerra 1939 - 1945.
Vivevamo nel Protettorato di Boemia e Moravia. I tedeschi erano ben coscienti della nostra poca affidabilità a combattere per loro, non chiesero a noi cecoslovacchi la chiamata alle armi, ossia la partecipazione diretta alla guerra, bensì ci obbligarono a lavorare per loro.
Durante quella guerra la vita è stata molto dura: la durata del lavoro era di oltre 48 ore settimanali, si lavorava di sabato e domenica, spesso si facevano anche i turni. Il guadagno era praticamente uguale per tutti. Tutto si comprava con i biglietti (tipo le tessere italiane ndr): alimentari, abbigliamento, scarpe e addirittura la camera d’aria della bicicletta. Chi voleva vivere doveva lavorare, gli alimentari non bastavano, si andava al mercato nero, si pagavano tanti soldi per avere poca farina dal mugnaio, latte, uova e burro dal fattore; se la polizia ti scopriva, potevano essere puniti sia il compratore sia il venditore. Era prevista una multa oppure, nei casi peggiori, la prigione. C’era anche qualcuno che scambiava le merce e praticava il baratto. Le giovani generazioni tedesche stavano combattendo in guerra e allora i capi nazisti li sostituivano con i giovani delle nazioni occupate: cechi, polacchi, serbi, croati, ucraini, russi… più tardi arrivarono olandesi, francesi e belgi. I cechi talvolta venivano utilizzati nelle organizzazioni paramilitari del lavoro, come Speer, Todk e Technische Nothilfe (TN). Su quest’ultima vorrei dire qualche parola. TN era una organizzazione nella quale i membri, a differenza dell’impiego forzato nelle fabbriche tedesche, erano senza diritto di paga; avevano da mangiare, dormire e vestire e tre sigarette al giorno. Facevano parte della TN gli studenti del 3° anno delle scuole professionali industriali meccaniche, delle costruzioni, elettriche e tessili provenienti dal tutto il Protettorato, che avessero dai 18 ai 23 anni. Erano gradualmente mandati nei posti più a rischio dove si svolgeva il bombardamento più massiccio e intenso, come per esempio Ruhrgebiet, Hamburg, Hannover, Braunschweig e Berlin. In un campo di lavoro di quest’ultima città, quando era al culmine la cosiddetta battaglia aerea di Berlin, mi sono trovato direttamente lì, proprio in quel momento.

Berlino bombardata, 1945 (fonte Archivio Federale Tedesco) 

Lavoravamo presso varie ditte di costruzioni, facendo gli sgomberi dopo i bombardamenti aerei, riparavamo i tubi di gas, acqua e fognatura, costruivamo i binari per il trasporto delle macerie, spegnevamo gli incendi, nascondevamo gli effetti personali delle persone ferite durante gli attacchi per essere poi riconsegnati ai legittimi proprietari. Abbiamo riparato il pantografo a Charlottenburg, in via Heerstraße, e coperto le finestre rotte al Ministero degli Interni, vicino alla Porta di Brandeburgo. Abbiamo portato via le macerie del Polizeipräsidium ad Alexanderplatz, sulla strada Grunnauer e presso Gorlitzer Bahnhof. Sotterravamo i cadaveri dopo i bombardamenti. I membri del Schutzpolizei ci consideravano degli stranieri e secondo quella concezione ci trattavano. Altri abitanti tedeschi avevano con noi rapporti diversi: in alcuni casi amichevoli, in altri, se li aiutavamo ci sopportavano, altrimenti ci ignoravano.
La nostra divisione, II Kompanie in Reichenberger Straße 65 - 67, aveva come comandante Fuhrer Wiltawsky e altri erano Feldwebel Schwarz, Feldwebel Stark, Oberscharfuhrer, Schneider, e altri ancora. Dalla sede del Protettorato ci accompagnavano Scharfuhrer Batik e Scharfuhrer Skalicka, entrambi forse solo di origine ceca.
Per definire nel dettaglio l’attività e le sofferenze subite, cito un contributo sintetico di un mio collega, Vlastimil Vicích, classe 1923, membro del TN.
Queste note sono state scritte per il bollettino Berliner Geschichtswerkstatt.
“Sono uno che è sopravvissuto in Joachimsthaler Straße, nel distretto di polizia 131. Lì successe una tragedia. Non conoscemmo mai il numero preciso delle vittime del bombardamento in quel luogo, supponemmo che lì fossero morti 50 poliziotti, 6 civili, 19 compagni di lavoro e una mamma con il suo bambino.
La seconda parte dello stabile dove è crollato il soffitto era adibita a rifugio per la cittadinanza. Sono stati mandati nel rifugio anche i bambini della scuola materna. Quando si è sentito scricchiolare il palazzo e viste crollare alcune pareti, i bambini si sono messi ad urlare e piangere. Abbiamo udito anche degli spari. Abbiamo pensato che fossero state le maestre che avevano accompagnato i bambini. Gli spari potevano provenire anche dai poliziotti, i quali hanno perso l’autocontrollo, non hanno retto la tensione, a causa delle ferite subite alcuni si sono suicidati. La realtà è che dopo aver portato via tutte le macerie, non è stato trovato nessun corpicino dei bambini. Delle vittime della disgrazia e del successivo incendio sono rimaste solo alcune parti dei corpi carbonizzati, i quali potevano essere sepolti dopo due settimane. Dopo un mese alcuni miei amici hanno rivisto il luogo della disgrazia ed hanno trovato sotto degli stracci alcune rimanenze di corpi. Dalle rovine fuoriusciva ancora calore.
Giugno 1945, il Reichstag dopo il bombardamento alleato (fotografia nel pubblico dominio) 

Ritornando con la memoria al 23 novembre 1943, mi viene in mente un mare di fuoco sopra Berlino e le strade piene di rovine. Il cielo era coperto dal fumo rosso carminio. Le sirene annunciavano un altro bombardamento. Nel rifugio del distretto di polizia 131, come appena descritto, dopo il suono della sirena, corrono i poliziotti, i civili e i membri del secondo turno del TN, che hanno appena dato il cambio ai colleghi. Sono entrato immediatamente nel rifugio ed ho preso un corridoio stretto a sinistra. Sapevo che i posti a sedere erano occupati, e noi stranieri dovevamo rimanere in piedi nel corridoio. Fuori si è scatenato l’inferno, è stato terribile. Le bombe piovevano dal cielo e si sentiva un fischio assordante. Tutto il rifugio vibrava. Si sono spente le luci. Erano circa le ore 20 di sera. Ci siamo trovati nel centro del vulcano. Successivamente si è sentito un botto assordante e nel rifugio sono comparse le fiamme, sono crollati i pilastri e con un rumore assordante è crollato il soffitto. Dopo un silenzio tombale, abbiamo sentito l’esclamazione hilfe, aiuto. Quelli che erano seduti vicino alla parete erano sommersi dai detriti, stavano meglio quelli che erano posti negli angoli oppure in piedi. Alcuni pezzi del soffitto penzolavano ancora legati ai tondini di ferro. Ho raccolto le forze e sono uscito di corsa. Noi stranieri che eravamo in piedi abbiamo usati i coltelli a serramanico per aprire un varco verso l’uscita. Quelli che erano seduti ci hanno detto di aspettare, fiduciosi nell’aiuto di qualcuno dall’esterno. La mia forza interiore mi ha suggerito invece di continuare a lottare. Finalmente abbiamo aperto un varco di circa 70 centimetri verso una camera che permetteva la circolazione dell’aria nel palazzo. Essa era coperta da una grata in ferro che abbiamo segato con dei piccoli coltelli da cucina, in possesso di una vecchia signora che aveva portato con sé nel rifugio. E’ stato un lavoro immane. Purtroppo anche nella camera di ventilazione c’erano tante macerie e altre stavano cadendo dall’alto. Abbiamo quindi scoperto, con sconforto, che non poteva essere questa la via di salvataggio. Abbiamo sfondato la parete della camera di ventilazione per poi proseguire strisciando verso il cortile interno ed il giardino del palazzo. Dopo aver sfondato la parete, l’unico ostacolo era la terra, dato che eravamo ad un livello inferiore rispetto al piano strada. Abbiamo iniziato a scavare un tunnel: eravamo quattro cechi e due giovani tedeschi. Come strumenti abbiamo usato i resti delle sedie di ferro e gli elmetti d’acciaio. Le persone sommerse ci hanno scoraggiato, dicendo che il nostro il lavoro era inutile, perché le squadre di salvataggio sarebbero arrivate presto. Dopo aver scavato qualche ora, abbiamo udito il classico rumore delle fiamme. Poco dietro di noi abbiamo visto un forte chiarore e dopo aver girato lo sguardo abbiamo visto del magma bollente. Siamo scappati immediatamente nel tunnel appena scavato. Dentro il rifugio è colato del fosforo in fiamme. Nel cortile del distretto c’erano delle bombe al fosforo non esplose, lanciate da aerei inglesi, che sono state centrate da altre bombe nel frattempo cadute dal cielo. Chi ha potuto si è nascosto nel tunnel non ancora terminato. Gli altri, rimasti privi di protezione, sono stati avvolti dalle fiamme e stavano lanciando grandi urla di dolore. Abbiamo raccolto la sabbia e l’intonaco dal pavimento per proteggerci dal fuoco liquefatto. Dopo alcuni minuti, durati un’infinità, è stata liberata l’apertura verso il cortile. Per uscire ci hanno aiutato alcuni prigionieri russi, chiamati per il nostro salvataggio. Per primi sono usciti due tedeschi, dopo io e Jarda Nesvadba, Jenda Ciz, Zdeněk Miksan. Gli ultimi due avevano le gambe ustionate. Sono stato sedici ore sotto le macerie del tunnel. Dopo essere usciti ci hanno trasportati tutti in ospedale, dove i due ragazzi cechi ustionati sono stati ricoverati mentre io e gli altri siamo stati rilasciati per ritornare al nostro lavoro quotidiano.

Siamo ritornati a casa nostra nel mese di febbraio del 1944 e abbiamo immediatamente proseguito gli studi. L’1 agosto abbiamo terminato l’anno scolastico e dopo le vacanze estive abbiamo potuto continuare iscrivendoci al 4° anno della scuola professionale. Anche se questa drammatica avventura, durata sei mesi, è stata terribile, ad oggi mi sono rimasti dei ricordi limpidi e indelebili. Alla nostra sopravvivenza hanno contribuito anche i nostri caporali tedeschi, i quali hanno tollerato certe nostre mancanze nella condotta e nel comportamento e non ci hanno mai puniti, come invece prevedevano le regole che vigevano durante la guerra”.

Václav Synek

«Ai miei fratelli dei tempi della miseria: Belgi, Olandesi, Cechi, Croati, Polacchi, Italiani e Russi. Nella dura condizione di lavoratori forzati, noi eravamo già l’Europa della fratellanza, coloro che divisero il pane e la speranza».
Jean-Louis Queveillahc, deportato francese per lavoro coatto in Germania durante la seconda guerra mondiale.

martedì 12 marzo 2013

Pillole di storia lombarda: Ad U.F.A. 

Sono amico di Pietro Marchisio da oltre vent’anni. Abbiamo lavorato nello stesso ufficio per alcuni anni, durante i quali abbiamo scoperto affinità culturali e interessi comuni. Uno di questi attiene la passione per la storia e per le antiche tradizioni italiane, ma non solo. Con questo post inizia la collaborazione di Pietro Marchisio con il blog “Storia e storie di donne e uomini”.
(b.c.)

Vi siete mai chiesti da dove deriva il famoso detto lombardo “mangiare Ad UFA“, volendo significare l’ottenimento di qualcosa senza nulla pagare?
Raccontiamo la storia e le origini del detto. 
 
Nel lontano 1387 venne presa la decisione di utilizzare il marmo di Candoglia per la costruzione del Duomo di Milano, per il cui scopo il 16 ottobre venne contemporaneamente istituita la Veneranda Fabbrica del Duomo, l’ente che si occupa ancor oggi della gestione e amministrazione dei lavori riguardanti la costruzione e la conservazione del Duomo.
 
Candoglia, cava madre del Duomo di Milano (foto tratta dal sito www.lagomaggiore.it)
 
Il 24 ottobre 1387 il signore di Milano, Gian Galeazzo Visconti, cedette in uso alla Veneranda Fabbrica le cave di Candoglia, site nel comune di Mergozzo, in provincia di Verbano Cusio Ossola, in Val d’Ossola, per lo sfruttamento del pregiato marmo. Il marmo di Candoglia ha un colore bianco-rosa, da chiaro a intenso, con venature sul grigio. Tuttora la Fabbrica del Duomo gestisce l’estrazione e la lavorazione del marmo per la realizzazione degli elementi scultorei di sostituzione e per i continui restauri della grandiosa cattedrale milanese.
 
Il Duomo di Milano in una bellissima foto di Giacomo Brogi del 1870 circa
 
La scelta, oltre che per la qualità del materiale, fu dettata dalla comodità di far scendere fino a Milano, per via fluviale, i pesanti blocchi di marmo con il minimo danneggiamento e la minor fatica: dal fiume Toce al lago Maggiore, dal Ticino fino al Naviglio Grande.

I blocchi di marmo estratti dalle cave venivano fatti scivolare nel fiume Toce con un sistema di grandi slitte chiamate lizze, costituite da tronchi e assi trattenuti da grosse corde di canapa, caricati su grossi barconi e poi immessi nelle calme acque del lago Maggiore, in quello specchio d’acqua denominato Golfo Borromeo. A Sesto Calende i barconi si immettevano nel fiume Ticino e, dopo aver superato imperiose rapide, giunti in località Tornavento, infilavano il Ticinello (Naviglio Grande) che scivolava verso Milano passando per Turbigo, Abbiategrasso, e Gaggiano arrivando fino al laghetto di Sant’Eustorgio, corrispondente all’attuale darsena di Porta Ticinese, per poi raggiungere il laghetto di Santo Stefano utilizzando i canali e i fossi della cerchia interna, precedentemente costruiti a difesa della città di Milano.


Milano, la darsena con i bastioni spagnoli nel 1880 (da wikipedia.org)
 
Imbocco del laghetto di Santo Stefano nel 1855 (da wikipedia.org)

Fu allora che Gian Galeazzo Visconti accordò speciali privilegi fiscali necessari al finanziamento della costruzione del Duomo ed in particolare decise l’esenzione totale dei dazi per trasporto dei marmi ed altri materiali necessari (legnami, sabbia, calce, ecc.) sui quali veniva apposta la sigla A.U.F.A., Ad Usum Fabricae Ambrosianae, che garantiva, in corrispondenza dell’incile del Naviglio Grande a Tornavento, l’esenzione totale del pagamento del dazio ed altri balzelli.

Da allora quella sigla è entrata nel gergo popolare lombardo ed ancora oggi, il detto Ad U.F.A., o sue varianti, è utilizzato per descrivere qualcuno che va a scrocco, mangia a sbafo, senza pagare.

Pietro Marchisio

Note
Le fotografie pubblicate sono nel pubblico dominio poiché il copyright è scaduto.
 

venerdì 1 marzo 2013

Muntavégia


Il santuario di Montevecchia ed il Resegone