giovedì 20 dicembre 2018

Il blog Storia e storie di donne e uomini augura buone feste e un sereno nuovo anno

Josef Lada
 
Verderio
 
Lago di Carezza (Dolomiti)
 
Český Krumlov (Repubblica Ceca)
 
Liberec (Repubblica Ceca)
 
 
 

lunedì 17 dicembre 2018

"La meglio gioventù"
Il progetto europeo di Antonio Megalizzi

 
Ho volutamente "rubato" il titolo a un'opera di Pier Paolo Pasolini, La meglio gioventù, per ricordare Antonio Megalizzi, il ragazzo italiano di 29 anni ucciso a Strasburgo da un terrorista.
Antonio era un convinto europeista, sentiva l'Europa, come la sentono moltissimi giovani e studenti del nostro continente, la sua casa naturale, una realtà, certamente da migliorare, ma che non ha alternative, pena la deriva egoista e populista. Basti conoscere le sue idee, trasmesse da una web radio europea, Europhonica, e leggere i suoi scritti, tra cui un libricino scritto tempo fa, dal titolo #postpolitico, un breve saggio sull'evoluzione della comunicazione politica in epoca di social network.
Diceva sull'Europa "Il sistema sarà anche malato, ma se invece di curarlo lo aggrediamo ancora di più, la guarigione si si fa sempre più lontana".
Certamente, di questo giovane intellettuale italiano, ci mancheranno la riflessione pacata, lo studio approfondito e la voglia di capire la complessità dei problemi in campo. Ma la barbarie di un terrorista non può aver ucciso anche le sue idee, che continueranno ad essere diffuse attraverso l'opera ed il lavoro dei suoi amici e di alcuni atenei italiani e europei che porteranno avanti il progetto di costruire una Europa più aperta, giusta e solidale.  
 

mercoledì 12 dicembre 2018



Le vecchie osterie della Brianza lecchese e comasca: un patrimonio irrimediabilmente scomparso

“A me piacciono gli anfratti bui delle osterie dormienti, dove la gente culmina nell’eccesso del canto, a me piacciono le cose bestemmiate e leggere, e i calici di vino profondi, dove la mente esulta, livello di magico pensiero.”
       Alda Merini
Ancora nei primi anni Ottanta, prima che l’edonismo imperante e la massiccia urbanizzazione contribuissero a smantellare importanti testimonianze della nostra storia, tra muri stretti e antichi, anguste piazzette e vicoli campestri poteva capitare di imbattersi in qualche vecchia osteria. Una delle ultime rimaste. Certo, il contesto storico e sociale, rispetto alla prima metà del Novecento, non era già più lo stesso. La scomparsa della civiltà contadina aveva travolto tutto, dai tradizionali e affezionati avventori ai sapori ed ai profumi che emanavano le vecchie osterie.
I sapori e gli odori sono sensazioni e percezioni che non si dimenticano mai, come non si possono scordare, per chi le ha vissute, le atmosfere piene di vita popolare e di calore umano, gli sguardi dei contadini nelle penombre dei locali, l’odore acre del “Toscano” e delle sigarette senza filtro, le discussioni urlate e “bestemmiose”, il gioco delle carte e della morra.
Il primo e grande protagonista delle osterie era il vino. Già, il vino. Come non parlarne, visto che è proprio intorno a Bacco che si è sviluppata tutta la cultura delle osterie. Sulla qualità, difficile pronunciarsi. Nelle osterie brianzole i “rossi” erano normalmente vini forti e sostanziosi, di provenienza piemontese e meridionale, soprattutto pugliese: il Barbera, lo Squinzano e il Manduria. La forza di questi vini scuri spesso veniva “stemperata” dall’aggiunta di acqua, che, se fatta in dosi eccessive, generava furibonde liti tra clienti e oste. Oltre al vino, gli avventori si concedevano anche bianchini, spesso spuzzati con vermouth rosso, grappini, grigioverdi, sambuca, marsala.
Scrive Ottorina Perna Bozzi, nel suo libro Vecchia Brianza In Cucina: “Prima dell’ultima fillossera che dal 1860 al 1870 distrusse tutti i vigneti, il vino era una delle più grandi ricchezze della Brianza. Famose erano le sue enormi botti, e famosi i grandissimi torchi, di cui il più grande pare fosse quello dei Crivelli ad Inverigo. Ce ne era infatti una tale abbondanza che nelle annate più ricche si vendeva il vino un tant al fiaa, ossia per quanto ce ne stava in una sola sorsata per quanto lunga essa fosse. E i contadini si sfogavano a berlo appena spremuto nei tini, prima di consegnarlo alle cantine del padrone.
 
 
 
Il cosiddetto progresso ha travolto tutto. Alcuni osti, svelti a fiutare l’aria, hanno trasformato le loro osterie in bar, con tanto di biliardo e juke-box, altri hanno aperto trattorie con cucina casalinga, ma la maggior parte delle vecchie osterie è stata frettolosamente smantellata. E i tavoli di noce o di rovere, le sedie impagliate, i banconi di legno sono finiti su un camino o nel commercio degli antiquari.
Ma, tornando indietro un passo, cosa era e come veniva vissuta questa cultura dell’osteria qui nelle terre pedemontane e collinari brianzole? Un territorio indubbiamente bello dal punto di vista ambientale e naturale, ricco di piccoli borghi, gelsi e cascine sparse, ma clivi, cigli, terrazzamenti, pendii lo rendevano faticoso e impervio da lavorare. In questo mondo rurale, legato alla terra e alla collina, con i suoi sistemi di lavoro, i suoi tempi, i suoi ritmi, le sue dinamiche familiari e sociali, il rapporto con il caldo e con il freddo, con la fatica e con la fame, con la religiosità e con le superstizioni, i contadini sudavano fatiche tremende, traendo redditi modestissimi, al limite della sopravvivenza.
Accadeva così che il colono avesse un solo modo per potersi “distrarre”, per tirà ul fiaa, e staccarsi dai lavori dei campi: l’osteria. Andare in osteria era come evadere dalla dura realtà, dalla conduzione rigorosa delle bestie in stalla, dai tempi delle semine e dei raccolti ed anche, ma non per ultimo, dalle “grinfie” della moglie berciante o della figlia zitella. Quando i lavori dei campi e la ferrea osservanza dei precetti della Chiesa cattolica lo consentivano, il colono si rifugiava volentieri in questo “luogo di perdizione”, soprattutto il sabato sera e la domenica pomeriggio. Con il sostegno del vino, della chiacchiera e delle imprecazioni forti, il contadino si dedicava al gioco delle carte e della morra e utilizzava quel tempo per parlare di politica o delle ultime battute di caccia.
Le persone sedute ai tavoli si scambiavano le ultime notizie; chi se n’era andato all’altro mondo, dov’è finito questo, dov’è andato quello. Si veniva a sapere di chi è nato e di chi è morto, di chi è partito e di chi è tornato, di chi si sposa e delle liti nelle famiglie.
In molti paesi brianzoli l’osteria era sorta nelle vicinanze della chiesa, la gésa. In alcuni casi erano una di fronte all’altra. Questa vicinanza facilitava il curato nello svolgimento delle visite pastorali e nella redenzione dei suoi fedeli, perché gli consentiva di tenere d’occhio “le anime più turbolente del suo gregge”.
In alcune osterie, normalmente la domenica pomeriggio, l’oste pagava un suonatore di fisarmonica o di organino che aveva il compito di accendere l’allegria e far cantare ai poveri contadini canzoni della loro gioventù. Verso l’imbrunire cominciavano a spuntare personaggi che attiravano l’attenzione del locale; erano quelli battezzati grass de rost o piontagron, i piantagrane di turno per intenderci, divenuti tali per aver alzato un po’ troppo il gomito.
Nelle vecchie osterie non si cucinava. Non si preparavano i piatti per i clienti, come in trattoria. Poteva capitare che l’oste accompagnasse le mescite di vino con qualche fetta di salame oppure con saporiti formaggini stagionati sott’olio. Si diceva che ciò serviva “per tenere su lo stomaco”, tra un bicchiere di vino e l’altro.
Numerose osterie, ma anche trattorie, erano registrate con il nome del proprietario, o con il suo soprannome, e solo verso il 1920 si è incominciato ad assegnare loro un nome ufficiale. La denominazione era normalmente scelta dai proprietari, ma alcune volte erano gli stessi clienti ad attribuire il nome, la maggior parte delle volte in dialetto. Molto tipici erano spesso i nomi che le distinguevano, e presi per lo più a prestito dal regno animale. Il regno dei volatili e pennuti era abbondantemente usato. Fra i santi, primeggiava San Giuseppe.
Moltissimi altri nominativi erano dati un po' a caso e un po' con un significato di colore locale. Molte avevano la bella insegna parlante, cioè all'esterno della bottega si profilava al di sopra di essa l'immagine dell'animale o comunque della persona od oggetto che dava il nome all'osteria.
Molto rare, invece, erano le trattorie o le osterie abbinate all'ufficio postale del paese o allo stallazzo. Nei piccoli paesi ad inizio secolo il locale tipico spesso fungeva anche da punto di raccolta e smistamento della posta. Numerose erano le persone analfabete che in cambio di un buon bicchier di vino dettavano o una lettera o il testo di una cartolina, da inviare immediatamente al fronte o alla propria amata. La scrittura avveniva sui tavolati d'osteria provocando una grafia incerta, lasciando spesso dei residui d'unto o macchie di vino. Lo stallazzo, invece, era annesso all'osteria in un locale adiacente per ritemprare e sfamare i cavalli delle carrozze, delle diligenze e dei cavallanti dopo un lungo viaggio. Se ne trovavano anche in Brianza, lungo le sponde del Lario e nel circondario di Varese e davano ristoro a chi da Milano partiva verso la Svizzera e la Germania attraversando i passi Spluga, Stelvio, San Bernardino e Sempione.
Compiuta una sommaria analisi sui riti e sulla cultura che permeavano le vecchie osterie ormai scomparse, priva di ogni pretesa di poter essere considerata esaustiva, mi inoltro in una sorta di piccolo catalogo, di un’elencazione di vecchie osterie di cui ho memoria, diretta o tramandata, ovvero delle quali ho avuto conoscenza per mezzo di libri e riviste. Tutte le osterie e trattorie che verranno citate, erano comprese nei territori delle province di Como e Lecco. 
Partirei dal Comune di Verderio ex Superiore, il mio paese natio. Sull’asse stradale che “taglia” letteralmente in due parti il territorio comunale, ancora negli anni Cinquanta del secolo scorso esistevano una decina di osterie. Quella più ad est, verso Cornate d’Adda, era denominata Betulén, piccola bettola; quella più ad ovest, a due passi dalla cascina La Salette, veniva detta La Baita. Marco Gariboldi, Marcu de l’Irolda, il proprietario, era un apprezzato cuoco ed i suoi migliori piatti, cucinati con passione e maestria erano il risotto alla milanese, il pollame e la selvaggina, i bolliti, il brasato con la polenta e la casoeula.   
 
Verderio Superiore in una foto del 1907. Sulla destra si notano quattro osterie

La Baita. Marco Gariboldi è il primo a sinistra

Poi c’era l’osteria di Carlo Motta, detto Carlon, per via della sua statura; il Circolo Acli, aperto nel 1956, di proprietà della parrocchia di Verderio Superiore; l’osteria del Fiuranell, che prese il nome da un antenato che si chiamava Fiorano; del Muleta, che vendeva anche le sigarette sfuse ed i sigari Toscani; del Prestinée dei Riva, perché aveva annesso il forno per la cottura del pane e il negozio di generi alimentari; l’Osteria Nuova, della famiglia Sala, detta Lona, con annessa drogheria; la Cooperativa San Giuseppe (vedere nelle note). 

  Osteria Carlon
 
Osteria Fiuranell

Osteria Prestinée

Anche Verderio ex Inferiore ebbe le sue belle osterie. Una delle più apprezzate dalla popolazione era la trattoria-osteria San Giuseppe, meglio conosciuta come Cantinón. Ne era proprietaria la famiglia Consonni, originaria di Lentate sul Seveso. Chiuse i battenti nel 1985.
Nel febbraio del 1947 venne fondata la Cooperativa Familiare, la quale, dopo una breve permanenza in via Tre Re, nel 1951 costruì la propria sede in via Roma, alla quale, nel corso degli anni, affiancò una struttura commerciale, ora affiliata alla Coop.

Osteria Cantinón

Circolo Cooperativa Familiare
 
Osteria Barelli
 
Trattoria Ricci
 
In pieno centro storico, su via Tre Re, erano attive due osterie: quella della famiglia Barelli, che divenne anche trattoria e ampliò le attività nel settore dell’autonoleggio da rimessa e della vendita di abbonamenti ferroviari e l’osteria-trattoria Tre Re, che ogni venerdì invernale preparava dell’ottima trippa e nei suoi locali trovarono posto le sedi degli alpini e dell’associazione ciclistica.
Affacciata sulla piccola piazza del paese, piazza Annoni, dalla quale necessariamente si transitava per recarsi in chiesa, si trovava l’osteria della famiglia Ricci, con tanto di rivendita tabacchi.     

Imbersago
 
Bosisio Parini
 
Cucciago
 
Ponte Lambro
 
Urago (Montorfano)
 
Delle tante osterie sparse nelle più recondite contrade di quel che era rimasto del mondo contadino, vorrei citare il Circolo Familiare Libertà di Imbersago, l’osteria Carlambroeus, Carlambrogio Brivio, di Montevecchia, Meco, tra le colline di Olgiate Molgora e Santa Maria Hoè. Salendo verso Lecco c’era l’osteria Buzzi di Bosisio Parini, a due passi dalla casa dove nacque il poeta, mentre, dalle parti di Erba Incino, le osterie Cavenaghi, Ness e Porcu Düü, il giovedì distribuivano la büseca, la trippa, a mezzo paese. Ad Alserio, vicino all’omonimo lago, sorgeva l’osteria-trattoria Falcone, dove cucinare la cacciagione era un’arte, come pure i fegatini di pollo serviti dalla padrona dell’osteria San Rocco di Lurago d’Erba. E gli ossibuchi con il risotto del Giusepen Rigamonti dell’Alpina di Erba? Unici! A Cucciago, in piazza Garibaldi, sorgeva l'osteria che serviva vini meridionali e piemontesi. A Ponte Lambro, ai piedi del Triangolo lariano, a metà strada tra Como e Lecco, c’era l’Osteria San Giuseppe. Nella piccola e incantevole Urago, appena sopra il laghetto di Montorfano, c'era il Crotto dei Francés. A Longone al Segrino, ancora nei primi anni Settanta era aperta l'Osteria del Cuor Contento, citata da Carlo Emilio Gadda, di cui oggi restano solo la volta d' ingresso e l'androne. Sulle colline verso Erba c’erano la Suspirada e l’Osteria del pan de mei.
Un mondo scomparso, soppiantato e sostituito da decadenti e impersonali bar e locali senza anima e privi di socialità.    
 
Beniamino Colnaghi

Bibliografia
Giulio Oggioni, Quand sérum bagaj, Barzago, Marna, 2004.
Giulio Oggioni, Verderio. La vita contadina, le corti e le cascine, Cornate d’Adda, A. Scotti Editore, 2013.
Ottorina Perna Bozzi, Vecchia Brianza in Cucina, Ibis Edizioni, 2013.

Note
Sull’argomento osterie/Brianza/vita contadina, nel blog sono presenti anche i seguenti post:
1)      La “Cooperativa di consumo San Giuseppe” di Verderio Superiore:
http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2014/02/la-cooperativa-di-consumo-san-giuseppe.html
2)      La domenica andando alla messa…
http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2013/06/la-domenica-andando-alla-messa.html
3)      Il paesaggio rurale della vecchia Brianza. Verderio tra luci ed ombre
http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2014/06/il-paesaggio-rurale-della-vecchia.html
4)   Il piacere di raccontarla dei brianzoli
https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2017/12/ulpiase-de-cuntala-su-dei-brianzoli-il.html
5)   Le trasformazioni sociali e culturali in Brianza
https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2016/01/le-trasformazionisociali-e-culturali.html
6)   I carrettieri e cavallanti in Brianza
https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2015/06/carrettieri-e-cavallanti-brianza.html

mercoledì 5 dicembre 2018

Pillole di saggezza e buon senso 4

"In questo momento è una fortuna essere ciechi… non vedere certe facce che seminano odio, che seminano vento... Le parole della senatrice Segre sono parole sofferte e tutte da sottoscrivere. Stiamo perdendo la misura, il peso, il valore della parola: le parole sono pietre, possono trasformarsi in pallottole. Bisogna pesare ogni parola che si dice e far cessare questo vento dell’odio, che è veramente atroce. Ma perché l'altro è diverso da me? L'altro non è altro che me stesso allo specchio".
Andrea Camilleri, intervista a "Che tempo che fa" su Rai 1 del 28 ottobre 2018
 

"La morte non è nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compresi"
Pier Paolo Pasolini
 

"Io non appartengo più, viaggio come un clandestino, su una nave senza rotta, già segnata dal destino. Io non appartengo più ai borghesi, agli inciuciai, alle banche, ai cazzinculo e mi scuso, ma c'ho pure il dubbio che sia persino Dio un refuso. Sono sveglio dentro un sonno di totale indifferenza che persino tra le gambe mi si è persa la pazienza. Io non appartengo al tempo del delirio digitale, del pensiero orizzontale, di democrazia totale. Appartengo a un altro tempo scritto sopra le mie dita, con i segni di chitarra che mi rigano la vita. Io l'ho vista la bellezza e ce l'ho stampata in cuore, imbranata giovinezza a ogni nuovo antico amore... Io non appartengo a un tempo che non mi ha insegnato niente, tranne che poi essere un uomo e non diventare gente..."
Roberto Vecchioni, testo della canzone "Io non appartengo più"

venerdì 30 novembre 2018

2 dicembre 1968: sono trascorsi 50 anni dall'eccidio di Avola


"Che cosa è successo? C'è stato un gran dispiacere perché non
 erano morte delle bestie, ma erano stati uccisi dei compagni.»
(Testimonianza resa da un anziano operaio agricolo
il 3 dicembre 1968 all’inviato del periodico “Lotte agrarie”)
 
Il 5 giugno 1968 Sandro Pertini viene eletto Presidente della Camera. La sua elezione si inserisce nel clima di stallo della politica di centro-sinistra, che porta all'inizio della V legislatura, in attesa di un nuovo accordo tra democristiani e socialisti, alla nascita del II Governo Leone, monocolore DC. E’ l’Italia del ‘68, scossa dalle manifestazioni degli studenti, alla vigilia di un’imponente stagione di lotte operaie. Ma è anche l’Italia dove la destra cerca e innesca provocazioni proprio per bloccare un sempre più esteso e incontrollabile movimento di masse giovanili e operaie.
E, nell’appendice di questa Italia, i trentaduemila braccianti della provincia di Siracusa sono impegnati da molte settimane in una durissima vertenza con un’agraria tra le più ricche, le più potenti ma anche le più intransigenti del Mezzogiorno. Non è una vertenza qualsiasi. Intanto per la duplice posta, di evidente valenza: la parificazione delle zone salariali dell’agrumeto e dell’ortofrutta, una sottospecie delle “gabbie”, e la fine del mercato delle braccia che ha i suoi sfacciati, liberi centri di contrattazione nelle piazze di tutta la provincia. E poi perché si sa che una vittoria (o una sconfitta) nelle campagne di Siracusa non solo sarebbe decisiva per la lotta di quei braccianti, ma farebbe da traino (o da freno) alle analoghe vertenze aperte nelle altre zone dell’Isola: dall’altrettanto ricca piana catanese alle più povere province dell’interno, dove vegetano altri agrari. Per la vertenza di Siracusa si è ormai alle strette. Dopo tre settimane di sciopero, i risparmi degli operai agricoli sono agli sgoccioli. Aranci e limoni marciscono sugli alberi.


Alle porte di Avola, il pomeriggio di venerdì 29 novembre 1968 un centinaio di braccianti sta seduto in terra, blocca la strada. Il sindaco socialista di Avola Giuseppe Denaro, il deputato comunista Nino Piscitello, il pretore Cassata, il segretario della Federbraccianti siracusana convincono gli scioperanti a sospendere il blocco. Andranno loro, anzi torneranno loro, per l’ennesima volta, dal prefetto perché si decida a convocare nuove, immediate trattative. Seppur poco convinti, i braccianti vanno a casa.
Ma il prefetto, ottenuto lo sgombero, rinvia la convocazione delle parti all’indomani. E l’indomani i grandi proprietari terrieri non si presentano. Il prefetto ne giustificherà l’assenza prendendo per buono, e facendo proprio, un pretesto impudente: «Che volete farci? Questi blocchi stradali a intermittenza impediscono ai proprietari - chi viene da una parte e chi dall’altra - di riunirsi e di preparare le controproposte». E allora nuovo rinvio dell’incontro, prima a martedì poi, dal momento che la tensione cresce di ora in ora, l’anticipo alla sera di domenica, quando però in rappresentanza dei padroni si presenta solo un funzionario privo di qualsiasi potere di trattare e men che mai di firmare un eventuale, comunque improbabile accordo. Piscitello tempesta di telefonate la presidenza della Regione a Palermo, e soprattutto i ministri del Lavoro e degli Interni a Roma dove figuriamoci se, a crisi aperta, c’è qualcuno che ha tempo da perdere dietro alla vertenza dei braccianti di una lontana provincia.

Così lunedì 2 dicembre è inevitabile che nel siracusano sia proclamato lo sciopero generale, in appoggio ai braccianti. Tutto chiuso in città, tutto fermo in provincia.
Già all’alba, al solito bivio di Avola, c’è di nuovo raduno di braccianti, ben più grosso stavolta: sono almeno in cinquemila. Molti stanno seduti in strada, altri mangiano pane e formaggio nelle campagne intorno o sui muri a secco che dividono agrumeti e mandorleti. Racconterà il sindaco Denaro: «Il prefetto D’Urso mi aveva telefonato alle otto del mattino. Un vero e proprio avvertimento: il blocco di Avola deve sparire, i braccianti devono andarsene, costi quel che costi». E’ minaccia aperta, frutto non solo dell’arroganza di un funzionario ma certo anche di pressioni degli agrari su quello stesso governo sordo da settimane ai richiami sempre più allarmati di sindacati e partiti di sinistra. I braccianti non se ne vanno? E allora che siano fatti sloggiare, «costi quel che costi» come ha intimato il prefetto.
Detto e fatto: alla due del pomeriggio sei furgoni e alcune camionette della Celere scaricano al bivio di Avola novanta agenti, un’avanguardia di quel famigerato battaglione speciale di stanza a Catania che costituisce la forza d’urto sempre all’erta per le imprese peggiori (come quella del luglio ‘60, proprio nella città dell’Etna, dopo i morti di Reggio Emilia, Palermo, Licata).
Gli agenti sono già con gli elmetti, pronti a inserire i lacrimogeni sulle canne dei moschetti, decisi a forzare il blocco con la violenza. Un commando di poliziotti pone di traverso sullo stradone una betoniera. Il blocco, quello vero, ormai l’ha fatto la Celere. Ed è il via alla provocazione.
Da dietro la betoniera partono a grappoli le bombe lacrimogene: dieci, venti, cinquanta.
I braccianti, colti di sorpresa, fuggono per le campagne a ripararsi dai fumi e tentano di difendersi  come possono, scagliando le pietre sulla strada per impedire almeno i forsennati caroselli che le camionette hanno cominciato a fare per creare panico. Tempo mezz’ora, da dietro un curvone alle spalle dei braccianti sbuca un altro centinaio di poliziotti, tutti armati sino ai denti come quelli che già fronteggiano gli scioperanti.
I braccianti sono presi letteralmente tra due fuochi. I mitra Beretta, i moschetti e le pistole di almeno due calibri diversi cominciano a sparare. Colpi a raffica, centinaia di proiettili: l’indomani Nino Piscitello scaricherà alla Camera due chili e mezzo di bossoli. Sono colpi precisi, diretti con cura ad alzo zero. Paolo Caldarella alza una mano in segno di tregua: un colpo gliela trapasserà. Poi cade Giorgio Garofalo: una fucilata gli ha forato in otto punti le anse intestinali (si salverà grazie a tre operazioni). Un’altra fucilata spezza un femore ad Antonino Gianò. E Sebastiano Agostino è colpito al petto poco lontano.
E’ un crescendo di violenza selvaggia, talmente insensata che a notte, all’ospedale di Siracusa, un agente colpito alla testa da una pietra continuerà per ore a gridare nel delirio: «Comandante! Comandante! E’ un’infamia... E’ il tiro al bersaglio... Lasci stare la pistola! Così li stiamo ammazzando!».
E infatti due braccianti moriranno tra atroci sofferenze.
Così viene ucciso Angelo Sigona, 25 anni da Cassibile: inseguito, braccato tra gli alberi, fucilato davanti ad un muretto. Raccolto in un lago di sangue da due compagni, non basteranno a salvarlo due interventi, prima all’ospedale di Noto e poi a quello di Siracusa. Così è ammazzato anche Giuseppe Scibilia, 47 anni da Avola, pure lui inseguito a trecento metri dal luogo degli scontri e centrato al petto.
Fulminea, la notizia della tragedia scuote l’Italia intera.
Immediata la proclamazione per l’indomani di uno sciopero generale dei braccianti in tutto il Paese e di tutti i lavoratori in Sicilia. Non c’è bisogno di direttive: già nella stessa serata dell’eccidio ci sono state le prime manifestazioni di protesta.
Ma l’eccidio non resterà senza conseguenze. L’indignazione è così grande, le preoccupazioni talmente diffuse, la pressione delle confederazioni sindacali tanto forte, l’allarme nel padronato così evidente che da Roma parte l’ordine della Confagricoltura di tornare a trattare. Così, proprio mentre ancora è in corso lo sciopero generale e si preparano i funerali di Scibilia e Sigona, a Siracusa si riprendono le trattative sempre rifiutate o rinviate dagli agrari. Si tratta ad oltranza, con l’intervento dei segretari confederali di Cgil, Cisl e Uil. Quindici ore ci vogliono per piegare le resistenze padronali, e alla fine l’accordo segnerà l’abolizione delle differenze salariali tra le due zone, l’aumento delle paghe, la rinuncia al mercato delle braccia. Ma c’è anche e soprattutto un punto fermo: Avola diverrà la scintilla di una stagione politica che, comunque la si riguardi a tanti anni di distanza, porrà fine all’intervento della polizia nei conflitti sindacali. Un intervento che dal ‘47 ad allora aveva provocato quasi cento morti. Un elenco chiuso, appunto, dai nomi di Giuseppe Scibilia e di Angelo Sigona.

Beniamino Colnaghi

Fonti
Rai Storia, i fatti di Avola.
Vari siti web, in particolare un articolo di Giorgio Frasca Polara del 2 dicembre 2004 apparso sul sito di Brianza Popolare
http://www.brianzapopolare.it/sezioni/societa/20041202_avola_braccianti_1968.htm

Foto dell’epoca tratte dal sito della Cgil di Siracusa

lunedì 26 novembre 2018

Bernardo Bertolucci ci ha lasciati ma i suoi film resteranno pietre miliari del cinema mondiale

(Parma, 16 marzo 1941 - Roma, 26 novembre 2018)
 
 
Bertolucci e Pasolini a Roma nel 1961

sabato 10 novembre 2018

11 novembre, san Martino
Il pagamento degli affitti e gli sfratti dei contadini

Nato in Pannonia (un’antica regione dell’attuale Ungheria) intorno al 316 d.C., Martino seguì le orme paterne intraprendendo la carriera militare, arruolandosi giovanissimo nell’esercito romano delle Gallie. Nei pressi di Amiens compì il suo gesto più clamoroso, destinato a fissarsi nei secoli: incrociato un povero mendicante, Martino, già attratto dal cristianesimo, tagliò il suo mantello e ne donò la metà al povero. La notte stessa sognò Gesù che veniva a restituirglielo. E poiché al risveglio lo ritrovò integro, il miracolo rafforzò la fede del giovane, che si fece battezzare ed iniziò a percorrere la Gallia per evangelizzarne le popolazioni. Gli abitanti di Tours lo elessero vescovo, edificati dal fatto che egli prediligesse i servi ed i contadini, dei cui bisogni spirituali il clero poco si curava. Morì nel 397 diventando subito uno dei pochi e primi non martiri venerati come santi. 


"El San Martìn di poveritt", Milano, 1920
 

Fino a pochi decenni fa, nel giorno di san Martino, l'11 novembre,  e comunque prima del 1950, anno in cui venne varata la vera e propria riforma agraria, scadevano i contratti di locazione delle  terre e delle abitazioni dei coloni. Ciò avveniva principalmente nelle regioni del nord e della Pianura Padana, con punte nel Mezzogiorno. I contadini erano obbligati a pagare gli affitti, ma, per svariati motivi (economici, politici, morali...) ciò non li garantiva in pieno contro il rischio di essere cacciati dai poderi e dalle cascine dei grandi proprietari terrieri. In quella data, quindi, si verificava un grande spostamento di famiglie, in quei tempi anche molto numerose, che collocate le proprie povere cose su un carro trainato dai buoi o dai cavalli si apprestavano ad andare a servire altri proprietari, accontentandosi, molto spesso, come compenso per il lavoro, di cibo per sfamare la famiglia. Subito dopo gli spostamenti di san Martino il lavoro dei campi rallentava, anche se proseguivano le attività con gli animali nelle stalle e altri lavori che permettevano ai contadini di mantenere la famiglia. Perché la vita dei lavoratori della terra era in sintonia con la natura, che ogni anno compie il suo ciclo.  

San Martino è radicato anche nella tradizione brianzola, non solo per la torchiatura dell’uva e neanche in qualità di protettore dei legionari, dei mercanti e dei cavalieri, ma soprattutto, come abbiamo visto poco sopra, per il pagamento dell’affitto al padrone. Chi non fosse stato in grado di pagarlo, veniva immediatamente cacciato dai poderi e dalle abitazioni. Ciò provocava ulteriore miseria nelle famiglie dei coloni e dei contadini, disperazione per la perdita del lavoro e della casa e tensioni crescenti tra i lavoratori della terra ed i proprietari terrieri. Questi ultimi, anche a causa del crescente consenso delle idee socialiste nel mondo agricolo, iniziarono ad assoldare squadre di fascisti che reprimessero le proteste e ristabilissero l’ordine.
 
 
 
 
Emblematica di ciò che avvenne in quegli anni è una scena del film Novecento, di Bernardo Bertolucci, una delle più drammatiche e significative di quel clima, che si rifà al giorno di san Martino, giorno in cui scadevano i contratti d’affitto. Il lavoro nei campi era finito, il raccolto era stato completato, silos e cantine erano a posto, fino alla primavera non c’era più bisogno di lavoranti. Il padrone dunque decideva chi poteva restare e chi doveva andarsene; e per molte famiglie iniziava la miseria. Dovevano caricare tutto quello che avevano su un carro e andarsene da un’altra parte. Non era problema del padrone. Una barbarie disumana, ma ciò è durato per secoli.
Nel film la scena è ancora più drammatica: un contadino sfrattato, Oreste, si ribella allo sfratto e fronteggia una squadra di militari a cavallo chiamati dai padroni. Si mette a urlare e ad imprecare, e, sostenuto da Olmo (Gérard Depardieu) e Anita (Stefania Sandrelli), vengono chiamati a raccolta gli altri contadini che stanno traslocando, percorrendo gli argini del fiume Po, i quali, scesi dai carri, si muniscono di bastoni e forconi per combattere contro i soldati. Ma, inaspettate, davanti a loro, le donne contadine, guidate da una fiera e battagliera Anita, si sdraiano sull’alzaia e fermano i soldati a cavallo, che preferiscono indietreggiare e ritirarsi, piuttosto che compiere una carneficina.

Novecento, grande film, grande regista, cinema d'autore.
 
Beniamino Colnaghi

venerdì 2 novembre 2018

Verderio Superiore: il 4 novembre ricordato nel 1968

 
 
Il 4 novembre 1918 terminò ufficialmente il primo conflitto mondiale, la Grande Guerra, un evento tragico e drammatico che fece diversi milioni di morti e che segnò per molti anni in Europa la vita di decine di milioni di persone.
Il giorno precedente, il 3 novembre, venne firmato l'armistizio a Villa Giusti, alle porte di Padova, tra i generali del Regio Esercito Italiano e l'Impero austro-ungarico.
Il "cessate il fuoco" entrò in vigore alle ore 15 del 4 novembre, mettendo così ufficialmente fine alla prima guerra mondiale, che per l'Italia durò quasi 3 anni e mezzo. Anche se non direttamente, quella firma sancì pure la fine del secolare Impero d'Austria-Ungheria, che si disgregò sotto le inarrestabili onde dei movimenti nazionalisti, e diede lo spunto per la nascita di nuovi Stati europei.
In questa giornata si ricordano anche tutti coloro che, anche giovanissimi, sacrificarono il bene supremo della vita per la difesa della Patria e della libertà.
A partire dagli anni successivi, in Italia ogni anno si svolgono manifestazioni in ogni città e in ogni piccolo paese, tese a ricordare l'anniversario della vittoria ed insieme la giornata dell’unità nazionale e la giornata delle forze armate, poiché quei giorni del 1918 vennero dedicati alle onoranze funebri per commemorare i soldati morti in guerra. 
Di seguito vengono pubblicate alcune fotografie che riprendono la partecipata manifestazione civile e religiosa avvenuta a Verderio Superiore il 4 novembre 1968.

 
 
 
 
 
 

lunedì 29 ottobre 2018

I profughi della Valle di Ledro
“deportati” in Boemia negli anni 1915-1919

L’articolo che segue contiene integrazioni e ulteriori approfondimenti rispetto ad un post pubblicato il 4 novembre 2017 che trattava la deportazione di diverse migliaia di persone che risiedevano nei territori del Trentino e del Sud Tirolo durante la prima guerra mondiale (1). 
I deportati erano italiani, anche se i loro territori di residenza si trovavano sotto il dominio della potentissima famiglia austriaca degli Asburgo. Difatti, nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, gli abitanti del Trentino, così come quelli della Boemia, della Moravia e di molte regioni slave del centro e del sud dell’Europa, facevano parte di uno Stato multinazionale e multiculturale: l’Austria-Ungheria.
Al fine di approfondire e nutrire di maggiori dettagli storici la vicenda, sono venuto in possesso di alcuni libretti pubblicati da diversi comuni boemi che ospitarono gli sfollati trentini, contenenti preziose informazioni documentali, testimonianze, numeri e aneddoti, scritti in ceco e tradotti in italiano, in omaggio al Patto di gemellaggio sottoscritto tra quei comuni boemi ed i comuni italiani della Val di Ledro.
Sarebbe storicamente utile ricordare, perché quando sono in gioco il potere, il dominio e i grandi interessi geopolitici nulla è scontato, che, nel dicembre del 1912, due anni prima dell’inizio del conflitto bellico, l’Italia riconfermò l’alleanza con la Germania e l’Austria-Ungheria, gli imperi centrali europei. Allo scoppio della guerra, anche questo è importante ribadirlo, l’Italia non entrò subito in guerra ma finse una sospetta neutralità. Nel frattempo, però, pare che il nostro Paese cominciò a trattare il proprio sostegno alla Francia, all’Inghilterra ed alla Russia (Triplice Intesa) in cambio dell’impegno a ottenere, a guerra finita, i territori dell’Impero austriaco confinanti con l’Italia. Nonostante i molti problemi interni e la grave crisi economica, il 24 maggio 1915 il Regno d’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria, convinto che la guerra sarebbe stata breve e vittoriosa e di poter ristabilire in poco tempo l’ordine nel Paese. I campi di battaglia più importanti e cruenti del fronte italiano furono i territori lungo i fiumi Isonzo, Adige e Piave e, soprattutto, il Trentino. In questa regione il fronte passava a nord-ovest del lago di Garda, su alcuni villaggi della Valle di Ledro.
Per liberare dai civili le linee del fronte, le autorità militari austro-ungariche decisero, nei giorni 22 e 23 maggio 1915, di evacuare i villaggi di quest’ultima valle e di zone limitrofe. La gente che aveva sempre vissuto nelle valli e in montagna per tutta la propria vita, isolata dal resto del mondo e dipendente in gran parte dall’agricoltura e dalla pastorizia, fu costretta ad abbandonare la propria casa, gli animali, i possedimenti e a partire per recarsi in località a loro ignote. Dovettero abbandonare anche i propri cari, che nel frattempo vennero arrestati, perché sostenitori dell’Italia unita o perché avevano a casa un quadro di Giuseppe Garibaldi. Secondo il decreto ufficiale, la cittadinanza del Sud Tirolo venne divisa in base alla lingua parlata. La notifica di evacuazione venne consegnata anche ai bambini nelle scuole e agli adulti, comunicata anche dai pulpiti delle chiese. Nella cronaca del tempo si legge che, di notte, una lunga colonna di donne, anziani e bambini si avviò verso la stazione ferroviaria di Riva del Garda. Il viaggio in treno durò dai tre ai cinque giorni, perché i treni carichi di soldati per il fronte avevano la precedenza. Il numero esatto degli evacuati non è certo, tuttavia, lo storico militare ceco Ivan Šedivý ha affermato che ”… più di 100.000 sfollati polacchi ed ebrei, insieme a 20.000 italiani, furono alloggiati in Boemia, altri 50.000 italiani in Moravia. È quasi certo che verso la metà del 1915 oltre 250.000 profughi avevano trovato asilo in Boemia e Moravia. Nel 1917 il numero delle “vittime” di questa guerra raggiunse le 760.000 unità”.
Le autorità austriache cercarono di occuparsi dei profughi inviando ordinanze nei vari comuni ove essi erano stati assegnati, normalmente in comuni piccoli e in villaggi. I consigli scolastici crearono classi per l’insegnamento ai bambini dei profughi ed i sindaci dei comuni ospitanti ricevettero sovvenzioni volte a organizzare la sistemazione degli sfollati italiani ed a pagare i privati che ospitavano i profughi. Le osterie, hospoda o hostinec, in lingua ceca, erano obbligate dallo Stato a destinare qualche locale per far posto a questa povera gente. Un altro motivo, stimolo per i boemi, affinché si desse accoglienza era la possibilità di avere più braccia nelle attività agricole e produttive.
Gli italiani, sui documenti ufficiali che circolavano tra Vienna, Praga e i vari distretti locali, venivano indicati con epiteti tedeschi o con le corrispondenti espressioni in lingua ceca: profughi di guerra (Kriegsfluchtlinge), Italiani dell’impero (Reichsitaliener), cittadini di uno Stato in guerra con la monarchia, Italiani internati, Tirolesi…
Le fotografie che seguono ritraggono interi nuclei familiari italiani vissuti nei piccoli villaggi boemi e scene di vita quotidiana, nei campi, durante un funerale o presso un cimitero locale.

 
 



Sono stati rinvenuti negli archivi storici di alcuni comuni e presso le stazioni distrettuali della polizia diversi verbali circa dei controlli, da parte della gendarmeria, di “Italiani dell’Impero” sospettati di aver commesso piccoli reati o di non essersi presentati negli uffici preposti per essere arruolati come militari di leva. Appena raggiungevano l’età per essere arruolati, i nostri giovani venivano mandati al campo d’internamento di Katzenau, nei pressi di Linz, o a Drosensdorf nella Bassa Austria.
Più liberi di muoversi erano i preti cattolici italiani che, dovendo spostarsi per far visita ai loro fedeli o officiare la messa, ricevevano un sussidio e anche un biglietto gratuito della ferrovia statale. L’Impero, però, li obbligava a tenere un registro su cui annotare il numero dei loro fedeli, le spese di viaggio e di alloggio sostenute, le entrate e le ricompense. Fin da subito, i parroci italiani ebbero un ruolo fondamentale di sostegno e supporto, anche psicologico e morale, nei confronti dei loro parrocchiani. Alcuni preti partirono subito con gli sfollati, duranti i primi trasporti, gli altri li raggiunsero più tardi già nelle località a loro assegnate. Per i contadini analfabeti o semianalfabeti, fortemente credenti, il prete fu il loro principale punto di riferimento, il consigliere, l’interprete.
Nella regione a sud-ovest di Praga, nel distretto di Beroun, i preti organizzavano anche i pellegrinaggi presso il santuario di Svatá Hora (Montagna Sacra), il più importante della Boemia, dedicato alla Vergine Maria, nel quale si incontravano tutti gli italiani rifugiati in Boemia.

 
I deportati italiani in due foto di gruppo presso il santuario
 
 
Il santuario di Svata Hora oggi 
 
Nei cimiteri dei piccoli paesi ove vissero gli italiani, sono stati sepolti soprattutto i contadini, le donne e i bambini, che dopo la guerra non sono ritornati nella Valle di Ledro. Il loro prete li battezzò e li istruì, diede loro l’estrema unzione, celebrò i loro funerali. Li accompagnò, nel bene e nel male, durante tutte le fasi della loro vita in Boemia.
Quando arrivarono in Boemia e Moravia, gli sfollati italiani vennero distribuiti nelle località loro assegnate, in un numero proporzionale alle dimensioni di quei paesi. I sindaci e molti volontari locali furono costretti, anche in piena notte, a recarsi nelle varie stazioni ferroviarie con i necessari carri per prelevare gli sfollati italiani. Durante gli ultimi giorni di maggio e i primi di giugno del 1915, da parte delle autorità boeme e morave vennero attuate tutte quelle azioni volte a ricevere e sistemare i nostri “deportati”. A Kladno, un telegramma trasmesso al sindaco parla dell’arrivo di cento sfollati, a Podkozi furono trenta, anche a Libečov una trentina, solo a Železná ne arrivarono circa 60, ma, in una lettera del parroco di questa località, si racconta della presenza di circa 240 italiani in tutti i villaggi compresi nella parrocchia di Železná. A Chyňava, secondo alcune informazioni verbali tramandate dai più anziani, i profughi italiani alloggiarono in tre taverne e osterie che avevano delle sale idonee ad ospitarli. In alcune di queste località i consigli comunali fecero domanda alle autorità centrali di ulteriori sovvenzioni in corone austriache affinché si concedessero nuovi finanziamenti ai proprietari delle strutture private che ospitavano i profughi, che, come abbiamo visto poco sopra, non erano solo italiani. In una delle tre taverne del villaggio, denominata Hospoda U Lepičů, accanto alla stazione dei gendarmi imperiali, abitava il parroco italiano, don Luigi Miorelli, sua nipote e la perpetua. A Železná, un villaggio di circa 400 anime, in una struttura pubblica che veniva definita “granaio comunale” abitava una famiglia di contadini di Mezzolago, sul lago di Ledro, mentre un altro nucleo familiare italiano abitò nell’albergo dei poveri, adiacente la chiesa parrocchiale. Dalle registrazioni anagrafiche dei decessi risulta che Železná ospitò soprattutto persone provenienti da Mezzolago e Bezzecca, distretto di Pieve di Ledro, ossia l’allora Capitanato di Riva in Tirolo. A Libečov, presso la taverna locale, abitavano una decina di “Tirolesi”, mentre nella casa del calzolaio Rudolf Kučera, pare che abitassero, secondo la cronachista locale, due sorelle italiane, così brave a cantare canzoni della loro terra in jodel che vennero invitate a cantare nelle chiese dei villaggi.
Dell’amore per il canto dei profughi scrive il parroco Miorelli di Bezzecca subito dopo le prime settimane di permanenza nella parrocchia di Železnà: “I cechi osservano con ammirazione la devozione del popolo trentino. La domenica sera molti partecipano alla nostra Santa Messa e ascoltano volentieri le canzoni italiane. La nostra religiosità riesce a diffondere gioia e consolazione”.
A Podkozi, come quasi ovunque, i profughi alloggiati erano bambini, donne e uomini con un’età superiore a 52 anni. Il cronachista locale scrive che lì nacquero e morirono molti profughi, in media più che da ogni altra parte. La carenza di cibo e la mancanza di igiene erano diffusi ovunque, ma in quella località mancava anche l’acqua potabile che, molto probabilmente, fu la causa dello scoppio di un’epidemia di tifo. Poi, nel 1918, ci si mise anche l’influenza spagnola, che fece altre vittime.

Classi di bambini italiani vennero aperte in po’ in tutte le scuole. In molti documenti e verbali reperiti negli archivi di quei comuni si trovano annotazioni e aneddoti sulle classi italiane. A Chyňava, nel libro dei ricordi della scuola è scritto. “Classe italiana. Su ordinanza dell’I.R. Consiglio scolastico distrettuale è stata istituita nella nostra scuola la classe per i figli dei profughi tirolesi di Chyňava, Železnà, Libečov e Prilepy. L’insegnamento è iniziato il giorno 13 dicembre 1915. Insegna il prete, profugo tirolese, don Luigi Miorelli. I bambini sono oltre 40”. Un’altra nota dice: “A causa di un’epidemia di tifo, i bambini di Podkozi non potevano venire a scuola”. Nella cronaca dei vigili del fioco di Podkozi è riportato che si ammalarono di tifo circa trenta persone e ne morirono sei. Alcuni cronachisti delle località boeme ospitanti italiani scrissero che, nelle scuole, i nostri bambini studiavano tutti insieme, in quanto non erano divisi né secondo l’età né secondo il sesso. Le scuole nei capitanati distrettuali erano visitate e controllate dagli ispettori o direttamente dal Consiglio distrettuale. L’Ispettorato dovette spesso registrare l’atteggiamento negativo dei bambini cechi verso i profughi italiani, come è stato documentato in più d’una circolare dei responsabili delle scuole distrettuali, trasmesse alle direzioni e amministrazioni delle scuole, agli uffici comunali e alle autorità religiose. In una di queste, è scritto: “Il comportamento incivile di alcuni bambini è per noi una vergogna…, dimostra una brutalità e un’insensibilità degne di deplorazione e che vanno combattute con ogni mezzo… Lo stesso Consiglio scolastico distrettuale è dovuto intervenire direttamente ed è indignato e addolorato per l’ineducazione dei nostri giovani”.
Tutte le cronache e i documenti storici descrivono la grave carenza di cibo nella regione, i soldi perdevano progressivamente il loro valore e le malattie e le carestie uccidevano molte persone. A seguito dell’entrata in guerra dell’Impero, in tutti i villaggi arrivarono le ordinanze di chiamata alle armi per i giovani e gli uomini fino a 52 anni. Fu così che gran parte del peso della vita familiare e del lavoro nei campi cadde sulle spalle delle donne. Un’altra ordinanza riguardò la requisizione di cavalli e bestiame. Gli abitanti dei villaggi boemi e moravi dovettero privarsi, ogni mese, di alcuni capi di bestiame da “cedere” allo Stato. Nell’ambito delle requisizioni, i competenti uffici statali acquistarono i beni alimentari dai poveri contadini a prezzi molto bassi. In molti casi, a causa dei cattivi raccolti, le autorità militari confiscarono in tutti i villaggi tutto ciò che trovarono. All’inizio del 1918 la Boemia si trovò sull’orlo di una pesante carestia e in questa difficile situazione vissero anche gli sfollati italiani. Ma, come cita un saggio proverbio, i contadini boemi e italiani “fecero di necessità virtù”, ossia tutti gli abitanti dei villaggi cominciarono a collaborare secondo le loro possibilità, compresi i bambini che portavano a pascolare le capre o le oche e raccoglievano le spighe nei campi. I sussidi dello Stato erano distribuiti a tutte le donne, ceche e italiane, i cui mariti erano al fronte a combattere.
I profughi arrivati dalla Valle di Ledro erano per la maggior parte nullatenenti. Già una delle prime ordinanze riportava che “… il sussidio è destinato a coprire le spese per l’alloggio e il vitto dei profughi nullatenenti”. I sindaci dei paesi ospitanti i profughi italiani dovevano obbligatoriamente redigere e trasmette un elenco con i nomi dei profughi, quanti giorni queste persone erano state pagate e la cifra totale erogata per questi scopi. L’importo base dei sussidi veniva periodicamente aggiornato e rivalutato. Tutte le operazioni nell’intera Austria-Ungheria erano dirette dall’Ufficio supremo per gli sfollati con sede a Vienna.

Molti dei profughi italiani strinsero profonde amicizie con la popolazione ceca e morava, impararono parzialmente la lingua, seppur nei tratti principali, mantennero i contatti per molti anni dopo la fine della guerra e dell’esilio, attraverso lettere, cartoline e fotografie. I più giovani ebbero maggiori possibilità di scambio di messaggi epistolari, grazie anche ad una maggiore scolarizzazione e apprendimento della lingua ceca. Anche parecchi anziani in Boemia, raccontando dei ricordi tramandati dai loro genitori, hanno affermato che, in alcune circostanze, all’interno della loro famiglia venivano pronunciate alcune brevi frasi in lingua italiana, che i loro genitori avevano fatto amicizia con i loro coetanei tirolesi e che, da bambini, portavano i fiori sulle tombe degli italiani deceduti.
Ancora oggi, come più ampiamente documentato nel primo post del 4 novembre 2017, iniziative, cerimonie, scambi culturali e soggiorni turistici tra i cittadini italiani e cechi intendono ricordare l’esodo dei nostri connazionali in terra di Boemia e Moravia.
 
 
 
 
 

 
 
 
Durante la primavera e l'estate del 2018, in occasione del decimo anniversario del patto di amicizia e gemellaggio tra i comuni della Valle di Ledro e alcuni comuni della Repubblica Ceca, si sono svolte manifestazioni e iniziative importanti, volte, non solo a ricordare gli eventi storici vissuti in quei terribili anni, ma anche a far conoscere ai più giovani le testimonianze di ciò che i loro avi hanno vissuto ed a trasmettere messaggi di pace, tolleranza e convivenza civile e democratica tra i popoli.

Beniamino Colnaghi

Note
1. La Valle di Ledro e la Boemia: storie di guerra e di amicizia:

Le terre orientali dell'Impero austro-ungarico:
http://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2015/07/le-terre-orientali-dellimperoaustro.html

Nel santuario di Svata Hora è stato collocato il monumento a ricordo degli oltre 400 ledrensi deceduti nel corso dell'esilio in Boemia
 
Bibliografia
Miroslav Oliverius, Naše Chyňava, obec Chyňava, 2014
In memoria degli sfollati della Valle di Ledro nella provincia di Kladno (1915-1919), maggio 2009