Le
vecchie osterie della Brianza lecchese e comasca: un patrimonio irrimediabilmente
scomparso
“A me piacciono gli
anfratti bui delle osterie dormienti, dove la gente culmina nell’eccesso del
canto, a me piacciono le cose bestemmiate e leggere, e i calici di vino
profondi, dove la mente esulta, livello di magico pensiero.”
Alda Merini
Ancora
nei primi anni Ottanta, prima che l’edonismo imperante e la massiccia
urbanizzazione contribuissero a smantellare importanti testimonianze della
nostra storia, tra muri stretti e antichi, anguste piazzette e vicoli campestri
poteva capitare di imbattersi in qualche vecchia osteria. Una delle ultime
rimaste. Certo, il contesto storico e sociale, rispetto alla prima metà del
Novecento, non era già più lo stesso. La scomparsa della civiltà contadina aveva
travolto tutto, dai tradizionali e affezionati avventori ai sapori ed ai
profumi che emanavano le vecchie osterie.
I
sapori e gli odori sono sensazioni e percezioni che non si dimenticano mai,
come non si possono scordare, per chi le ha vissute, le atmosfere piene di vita
popolare e di calore umano, gli sguardi dei contadini nelle penombre dei
locali, l’odore acre del “Toscano” e delle sigarette senza filtro, le
discussioni urlate e “bestemmiose”, il gioco delle carte e della morra.
Il
primo e grande protagonista delle osterie era il vino. Già, il vino. Come non
parlarne, visto che è proprio intorno a Bacco che si è sviluppata tutta la
cultura delle osterie. Sulla qualità, difficile pronunciarsi. Nelle osterie brianzole
i “rossi” erano normalmente vini forti e sostanziosi, di provenienza piemontese
e meridionale, soprattutto pugliese: il Barbera, lo Squinzano e il Manduria. La
forza di questi vini scuri spesso veniva “stemperata” dall’aggiunta di acqua,
che, se fatta in dosi eccessive, generava furibonde liti tra clienti e oste. Oltre
al vino, gli avventori si concedevano anche bianchini, spesso spuzzati con
vermouth rosso, grappini, grigioverdi, sambuca, marsala.
Scrive
Ottorina Perna Bozzi, nel suo libro Vecchia Brianza In Cucina: “Prima dell’ultima fillossera che dal 1860 al
1870 distrusse tutti i vigneti, il vino era una delle più grandi ricchezze
della Brianza. Famose erano le sue enormi botti, e famosi i grandissimi torchi,
di cui il più grande pare fosse quello dei Crivelli ad Inverigo. Ce ne era
infatti una tale abbondanza che nelle annate più ricche si vendeva il vino un
tant al fiaa, ossia per quanto ce ne stava in una sola sorsata per quanto lunga
essa fosse. E i contadini si sfogavano a berlo appena spremuto nei tini, prima
di consegnarlo alle cantine del padrone.”
Il
cosiddetto progresso ha travolto tutto. Alcuni osti, svelti a fiutare l’aria,
hanno trasformato le loro osterie in bar, con tanto di biliardo e juke-box,
altri hanno aperto trattorie con cucina casalinga, ma la maggior parte delle
vecchie osterie è stata frettolosamente smantellata. E i tavoli di noce o di rovere,
le sedie impagliate, i banconi di legno sono finiti su un camino o nel commercio
degli antiquari.
Ma,
tornando indietro un passo, cosa era e come veniva vissuta questa cultura
dell’osteria qui nelle terre pedemontane e collinari brianzole? Un territorio
indubbiamente bello dal punto di vista ambientale e naturale, ricco di piccoli
borghi, gelsi e cascine sparse, ma clivi, cigli, terrazzamenti, pendii lo
rendevano faticoso e impervio da lavorare. In questo mondo rurale, legato alla
terra e alla collina, con i suoi sistemi di lavoro, i suoi tempi, i suoi ritmi,
le sue dinamiche familiari e sociali, il rapporto con il caldo e con il freddo,
con la fatica e con la fame, con la religiosità e con le superstizioni, i contadini
sudavano fatiche tremende, traendo redditi modestissimi, al limite della
sopravvivenza.
Accadeva
così che il colono avesse un solo modo per potersi “distrarre”, per tirà ul fiaa, e staccarsi dai lavori
dei campi: l’osteria. Andare in osteria era come evadere dalla dura realtà, dalla
conduzione rigorosa delle bestie in stalla, dai tempi delle semine e dei
raccolti ed anche, ma non per ultimo, dalle “grinfie” della moglie berciante o
della figlia zitella. Quando i lavori dei campi e la ferrea osservanza dei
precetti della Chiesa cattolica lo consentivano, il colono si rifugiava volentieri
in questo “luogo di perdizione”, soprattutto il sabato sera e la domenica
pomeriggio. Con il sostegno del vino, della chiacchiera e delle imprecazioni
forti, il contadino si dedicava al gioco delle carte e della morra e utilizzava
quel tempo per parlare di politica o delle ultime battute di caccia.
Le persone sedute ai tavoli si scambiavano le ultime notizie; chi se n’era
andato all’altro mondo, dov’è finito questo, dov’è andato quello. Si veniva a sapere
di chi è nato e di chi è morto, di chi è partito e di chi è tornato, di chi si
sposa e delle liti nelle famiglie.
In
molti paesi brianzoli l’osteria era sorta nelle vicinanze della chiesa, la gésa. In alcuni casi erano una di
fronte all’altra. Questa vicinanza facilitava il curato nello svolgimento delle
visite pastorali e nella redenzione dei suoi fedeli, perché gli consentiva di
tenere d’occhio “le anime più turbolente del suo gregge”.
In
alcune osterie, normalmente la domenica pomeriggio, l’oste pagava un suonatore di fisarmonica
o di organino che aveva il compito di accendere l’allegria e far cantare ai poveri
contadini canzoni della loro gioventù. Verso l’imbrunire cominciavano a
spuntare personaggi che attiravano l’attenzione del locale; erano quelli battezzati
grass de rost o piontagron, i piantagrane di turno per
intenderci, divenuti tali per aver alzato un po’ troppo il gomito.
Nelle
vecchie osterie non si cucinava. Non si preparavano i piatti per i clienti,
come in trattoria. Poteva capitare che l’oste accompagnasse le mescite di vino
con qualche fetta di salame oppure con saporiti formaggini stagionati
sott’olio. Si diceva che ciò serviva “per tenere su lo stomaco”, tra un
bicchiere di vino e l’altro.
Numerose
osterie, ma anche trattorie, erano registrate con il nome del proprietario, o
con il suo soprannome, e solo verso il 1920 si è incominciato ad assegnare loro
un nome ufficiale. La denominazione era normalmente scelta dai proprietari, ma
alcune volte erano gli stessi clienti ad attribuire il nome, la maggior parte delle
volte in dialetto. Molto tipici erano spesso i nomi
che le distinguevano, e presi per lo più a prestito dal regno animale. Il regno
dei volatili e pennuti era abbondantemente usato. Fra i santi, primeggiava San
Giuseppe.
Moltissimi altri nominativi erano dati un po' a caso e un po' con
un significato di colore locale. Molte avevano la bella insegna parlante, cioè
all'esterno della bottega si profilava al di sopra di essa l'immagine
dell'animale o comunque della persona od oggetto che dava il nome all'osteria.
Molto
rare, invece, erano le trattorie o le osterie abbinate all'ufficio postale del
paese o allo stallazzo. Nei piccoli paesi ad inizio secolo il locale tipico
spesso fungeva anche da punto di raccolta e smistamento della posta. Numerose
erano le persone analfabete che in cambio di un buon bicchier di vino dettavano
o una lettera o il testo di una cartolina, da inviare immediatamente al fronte
o alla propria amata. La scrittura avveniva sui tavolati d'osteria provocando
una grafia incerta, lasciando spesso dei residui d'unto o macchie di vino. Lo stallazzo,
invece, era annesso all'osteria in un locale adiacente per ritemprare e sfamare
i cavalli delle carrozze, delle diligenze e dei cavallanti dopo un lungo
viaggio. Se ne trovavano anche in Brianza, lungo le sponde del Lario e nel
circondario di Varese e davano ristoro a chi da Milano partiva verso la
Svizzera e la Germania attraversando i passi Spluga, Stelvio, San Bernardino e
Sempione.
Compiuta una sommaria analisi sui riti e
sulla cultura che permeavano le vecchie osterie ormai scomparse, priva di ogni
pretesa di poter essere considerata esaustiva, mi inoltro in una sorta di
piccolo catalogo, di un’elencazione di vecchie osterie di cui ho memoria,
diretta o tramandata, ovvero delle quali ho avuto conoscenza per mezzo di libri
e riviste. Tutte le osterie e trattorie che verranno citate, erano comprese nei
territori delle province di Como e Lecco.
Partirei dal Comune di Verderio ex Superiore,
il mio paese natio. Sull’asse stradale che “taglia” letteralmente in due parti
il territorio comunale, ancora negli anni Cinquanta del secolo scorso
esistevano una decina di osterie. Quella più ad est, verso Cornate d’Adda, era
denominata Betulén, piccola bettola;
quella più ad ovest, a due passi dalla cascina La Salette, veniva detta La Baita. Marco Gariboldi, Marcu de l’Irolda, il proprietario, era
un apprezzato cuoco ed i suoi migliori piatti, cucinati con passione e maestria
erano il risotto alla milanese, il pollame e la selvaggina, i bolliti, il
brasato con la polenta e la casoeula.
Verderio Superiore in una foto del 1907. Sulla destra si notano quattro osterie
La Baita. Marco Gariboldi è il primo a sinistra
Poi c’era l’osteria di Carlo Motta, detto Carlon, per via della sua statura; il
Circolo Acli, aperto nel 1956, di proprietà della parrocchia di Verderio
Superiore; l’osteria del Fiuranell,
che prese il nome da un antenato che si chiamava Fiorano; del Muleta, che vendeva anche le sigarette sfuse
ed i sigari Toscani; del Prestinée dei
Riva, perché aveva annesso il forno
per la cottura del pane e il negozio di generi alimentari; l’Osteria Nuova,
della famiglia Sala, detta Lona, con
annessa drogheria; la Cooperativa San Giuseppe (vedere nelle note).
Osteria Carlon
Osteria Fiuranell
Osteria Prestinée
Anche Verderio ex Inferiore ebbe le sue belle
osterie. Una delle più apprezzate dalla popolazione era la trattoria-osteria
San Giuseppe, meglio conosciuta come Cantinón.
Ne era proprietaria la famiglia Consonni, originaria di Lentate sul Seveso.
Chiuse i battenti nel 1985.
Nel febbraio del 1947 venne fondata la Cooperativa
Familiare, la quale, dopo una breve permanenza in via Tre Re, nel 1951 costruì
la propria sede in via Roma, alla quale, nel corso degli anni, affiancò una
struttura commerciale, ora affiliata alla Coop.
Osteria Cantinón
Circolo Cooperativa Familiare
Osteria Barelli
Trattoria Ricci
In pieno centro storico, su via Tre Re,
erano attive due osterie: quella della famiglia Barelli, che divenne anche
trattoria e ampliò le attività nel settore dell’autonoleggio da rimessa e della
vendita di abbonamenti ferroviari e l’osteria-trattoria Tre Re, che ogni
venerdì invernale preparava dell’ottima trippa e nei suoi locali trovarono
posto le sedi degli alpini e dell’associazione ciclistica.
Affacciata sulla piccola piazza del paese,
piazza Annoni, dalla quale necessariamente si transitava per recarsi in chiesa,
si trovava l’osteria della famiglia Ricci, con tanto di rivendita tabacchi.
Imbersago
Bosisio Parini
Cucciago
Ponte Lambro
Urago (Montorfano)
Delle tante osterie sparse nelle più
recondite contrade di quel che era rimasto del mondo contadino, vorrei citare il
Circolo Familiare Libertà di Imbersago, l’osteria Carlambroeus,
Carlambrogio
Brivio, di Montevecchia, Meco, tra le
colline di Olgiate Molgora e Santa Maria Hoè. Salendo verso Lecco c’era
l’osteria Buzzi di Bosisio Parini, a due passi dalla casa dove nacque il poeta,
mentre, dalle parti di Erba Incino, le osterie Cavenaghi, Ness e Porcu Düü, il
giovedì distribuivano la büseca, la
trippa, a mezzo paese. Ad Alserio, vicino all’omonimo lago, sorgeva
l’osteria-trattoria Falcone, dove cucinare la cacciagione era un’arte, come
pure i fegatini di pollo serviti dalla padrona dell’osteria San Rocco di Lurago
d’Erba. E gli ossibuchi con il risotto del Giusepen
Rigamonti dell’Alpina di Erba? Unici! A Cucciago, in piazza Garibaldi, sorgeva l'osteria che serviva vini meridionali e piemontesi. A Ponte Lambro, ai piedi del Triangolo
lariano, a metà strada tra Como e Lecco, c’era l’Osteria San Giuseppe. Nella piccola e incantevole Urago, appena sopra il laghetto di Montorfano, c'era il Crotto dei Francés. A
Longone al Segrino, ancora nei primi anni Settanta era aperta l'Osteria del
Cuor Contento, citata da Carlo Emilio Gadda, di cui oggi restano solo la volta
d' ingresso e l'androne. Sulle colline verso Erba c’erano la Suspirada e
l’Osteria del pan de mei.
Un mondo scomparso, soppiantato e sostituito da decadenti e impersonali bar e locali senza anima e privi di socialità.
Beniamino Colnaghi
Bibliografia
Giulio
Oggioni, Quand sérum bagaj, Barzago,
Marna, 2004.
Giulio
Oggioni, Verderio. La vita contadina, le
corti e le cascine, Cornate d’Adda, A. Scotti Editore, 2013.
Ottorina
Perna Bozzi, Vecchia Brianza in Cucina, Ibis Edizioni, 2013.
Note
Sull’argomento
osterie/Brianza/vita contadina, nel blog sono presenti anche i seguenti post:
1)
La “Cooperativa
di consumo San Giuseppe” di Verderio Superiore:
http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2014/02/la-cooperativa-di-consumo-san-giuseppe.html
2)
La domenica andando alla messa…
http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2013/06/la-domenica-andando-alla-messa.html
3)
Il paesaggio
rurale della vecchia Brianza. Verderio tra luci ed ombre
http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2014/06/il-paesaggio-rurale-della-vecchia.html
4) Il piacere di raccontarla dei brianzoli
https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2017/12/ulpiase-de-cuntala-su-dei-brianzoli-il.html
5) Le trasformazioni sociali e culturali in Brianza
https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2016/01/le-trasformazionisociali-e-culturali.html
6) I carrettieri e cavallanti in Brianza
https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2015/06/carrettieri-e-cavallanti-brianza.html