venerdì 28 settembre 2012

La tragica fine di Giovanni Bersan, 18 anni, impiccato ad Aicurzio

Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e la conseguente occupazione tedesca del suolo italiano, a cui fece seguito la nascita della Rsi, Repubblica sociale italiana, i partiti ed i movimenti antifascisti clandestini si posero la domanda su quale fosse l’atteggiamento più idoneo volto a contrastare queste tragiche novità.

Fu subito chiaro a molti che fosse necessario ed urgente rispondere con la resistenza armata. Era indispensabile reagire al clima di terrore imposto dal nuovo sodalizio nazifascista attraverso un’azione di guerriglia nelle sue retrovie, che contribuisse il più possibile a ridurre i tempi di una guerra ormai sfiancante per la popolazione italiana.
Seppur fra mille difficoltà si iniziò ad organizzare i primi gruppi partigiani sulle montagne. Nelle città e nei territori a valle, la prima risposta militare fu progettata dal Partito Comunista Italiano che, a Milano, aveva costituito il Comando generale delle brigate Garibaldi, ossia il braccio armato del partito, che chiamò a raccolta le proprie forze sotto la direzione di pochi ma esperti rivoluzionari. A loro fu affidata la creazione dei Gap, Gruppi d’azione patriottica, la cui funzione fu quella di intervenire nelle città contro tedeschi e fascisti, utilizzando come mezzo le azioni armate ed il terrorismo, fatto di atti duri ed eclatanti, come l’uso di esplosivo contro postazioni militari e attentati diretti contro gli uomini più in vista del nemico.


Bandiera del Comando GAP

I gappisti erano pochi e selezionati ed avevano la forza ed il coraggio necessari per compiere le azioni di lotta richieste loro. Normalmente conducevano un'esistenza alla luce del sole, spesso con un normale impiego dietro al quale camuffavano l'attività di guerriglia. In altri casi erano costretti alla clandestinità assoluta. I radicali metodi di lotta dei Gap suscitarono da subito discussioni e incomprensioni nel fronte resistenziale così come nell’opinione pubblica. Questi partigiani urbani non accettarono il “ricatto della rappresaglia” che avrebbe impedito le stesse possibilità di lotta, convinti che la causa di tutti i mali stesse nell’occupazione nazista spalleggiata dai fascisti di Salò, ritenevano che solo mettendo in pratica da subito la lotta armata avrebbero accelerato la liberazione delle città e placato l’attuazione dei piani criminosi degli occupanti.

Alcuni partigiani appartenenti alla Brigata Garibaldi di Milano

A Milano l’organizzazione dei Gap venne affidata a Egisto Rubini, bolognese, combattente nella Guerra Civile spagnola. Ai Gap milanesi vengono ascritti numerosi attentati e azioni militari, tra cui la distruzione del deposito di benzina all’aeroporto di Taliedo, l’uccisione del federale fascista Aldo Resega, l’attacco alla Casa del fascio di Sesto e l’attentato al questore di Milano, Camillo Santamaria Nicolini. Un grande serbatoio di reclutamento per Rubini e i suoi furono le grandi fabbriche di Sesto San Giovanni. E’ in questo ambito che alcuni brianzoli aderirono alla formazione gappista, pagando con la deportazione, e alcuni con la vita, la loro attività contro i nazifascisti.


Egisto Rubini

Furono nove i brianzoli che finirono nei campi di sterminio in Germania: otto a Mauthausen e uno a Dachau. Ben sette lavoravano alla Breda sezione V aeronautica. La maggior parte fu arrestata nel febbraio del ’44, quando tutto il comando e buona parte dei combattenti fu imprigionata, giustiziata o deportata. Egisto Rubini, che era al comando della 3ª brigata Lombardia, essendo stato sottoposto a perdurante tortura, per non parlare e rivelare i nomi dei suoi compagni si suicidò nel carcere di San Vittore. In particolare, la mattina del 5 febbraio 1944, nell’ambito di un trasferimento di armi, alcuni gappisti vennero sorpresi presso il bar Prealpi di Sesto San Giovanni, fra essi c'era Luigi Bersan, che risiedeva a Monza in via Oriani 6.

I fratelli Luigi e Giovanni Bersan erano nati a Ronco all’Adige, in provincia di Verona. Luigi era della classe 1914 mentre Giovanni era più giovane di dodici anni, essendo nato il 12 luglio 1926.
Ben presto la famiglia si trasferì dal Veneto a Monza per cercare lavoro. Luigi trovò un impiego come operaio aggiustatore alla Breda di Sesto San Giovanni. Un certificato emesso il 31 agosto 1945 dal Cln aziendale della Breda dice:

Risulta a questo sotto Cln che l’operaio Bersan Luigi, deportato e deceduto in Germania, faceva parte della cellula comunista della Breda ed apparteneva alle nostre formazioni armate Gap clandestine nelle quali ha svolto la sua attività fino al giorno della sua deportazione (1).

In un primo momento Luigi venne trasferito al campo di Fossoli, in provincia di Modena, poi venne mandato a Bolzano e da lì fu incluso nel trasporto che partì il 5 agosto ’44 per Mauthausen, dove morì, per deperimento, il 20 marzo 1945 (2).
Il 26 luglio 1944, invece, nei giorni in cui Luigi era recluso a Bolzano, il fratello Giovanni, 18 anni, partigiano, detenuto nel carcere di Monza, veniva impiccato ad Aicurzio per rappresaglia verso un atto di sabotaggio, da lui non commesso, contro un traliccio dell’alta tensione.

Per cercare di capire cosa fosse realmente avvenuto e per quale motivo Giovanni fosse stato impiccato, ho avuto modo di consultare il “Liber Chronicus” della parrocchia di Aicurzio, relativo all’anno 1944. Ecco il testo, parola per parola, redatto dal parroco del tempo.

“26 luglio – Esecuzione di condanna a morte per impiccamento.
Stamane, verso le ore 8, in un campo, sulla strada campestre che conduce verso Sulbiate Superiore, venne eseguita la sentenza di morte per impiccagione, emanata dal Comando militare germanico di Monza, contro certo Bersan Giovanni, d’anni 18, nato a Ronco all’Adige, prov. di Verona, il 12 luglio 1926, domiciliato a Monza, accusato e dichiarato reo confesso di aver partecipato ad attività di bande e di avere ferito gravemente con arma da fuoco un Legionario dell’Esercito Tedesco. Per rappresaglia per triste ammonimento, per un atto di sabotaggio commesso da sconosciuti l’altra notte contro la linea d’alta tensione che trasporta l’energia elettrica a Milano, il povero Bersan fu portato qui in automobile dai soldati germanici e impiccato ad una delle piantane di ferro che erano state danneggiate. Il corpo del disgraziato Bersan Giovanni, rimase colà tutto il giorno e solo verso notte fu messo nella cassa da morto e portato al Cimitero di Aicurzio, dove il Parroco col Coadiutore, essendo stata proibita ogni cerimonia, stavano attendendo per recitare nella camera mortuaria le esequie e impartire la benedizione”.


Per rispetto della verità storica ed a perenne memoria di un ragazzo innocente di 18 anni, sull’accaduto ho raccolto anche la testimonianza del sig. Abele Biffi, già sindaco di Aicurzio e fine conoscitore degli eventi storici del territorio. La sua versione dei fatti è oltremodo avvalorata dalla testimonianza diretta, in quanto il sig. Abele, all’epoca dei fatti, avesse dodici anni e visse direttamente con tutta la popolazione di Aicurzio quella tremenda tragedia.

Giovanni, mi ha raccontato il sig. Abele, era un giovane partigiano che fu arrestato a Monza per aver distribuito volantini contro i nazifascisti, e per questo incarcerato. I fascisti costruirono ad arte contro di lui alcune accuse false, tra cui quella di aver ferito un soldato tedesco. La sua "grave colpa", invero, fu quella di essere il fratello minore di Luigi, iscritto al Partito Comunista e membro dei Gruppi d’azione patriottica.
A seguito dell’attentato al traliccio dell’alta tensione, i fascisti locali andarono dal podestà e dal parroco di Aicurzio, ai quali chiesero i nominativi di otto cittadini del paese, tra i più esagitati antifascisti e contrari al regime. Avendo avute risposte negative, i fascisti, che per l’occasione indossarono le divise dei soldati tedeschi, prelevarono Giovanni dal carcere di Monza e lo portarono ad Aicurzio ove, per rappresaglia, lo impiccarono. Secondo le disposizioni impartite dai fascisti, il corpo senza vita del ragazzo rimase effettivamente appeso al traliccio tutto il giorno e furono vietate cerimonie e cortei funebri. Solo il parroco, a tarda sera, potè impartire la benedizione alla salma presso il cimitero del paese.


Il traliccio ove fu impiccato Giovanni Bersan

Il Comune di Aicurzio ha dedicato una via del paese a Giovanni Bersan ed un cippo con due targhe commemorative è stato posto sotto il traliccio dove il ragazzo fu impiccato.








Beniamino Colnaghi

Fonti:
Pietro Arienti, Dalla Brianza ai Lager del Terzo Reich, 2011
Parrocchia di Aicurzio, Liber Chronicus, anno 1944
Abele Biffi, già sindaco di Aicurzio
(1) Mantegazza R. Toppi E. “Al di là del niente. I deportati monzesi nei campi di sterminio nazisti”, Comune di Monza, 2007, pag. 61
(2) Isec, fondo Anpi Milano “Elenco partigiani combattenti 3° Gap”

venerdì 14 settembre 2012

La legge e i potenti nella storia d’Italia

La rivista MicroMega ha pubblicato un saggio di Roberto Scarpinato, procuratore generale preso la Corte di Appello di Caltanissetta, dal titolo “Don Rodrigo e la Costituzione”. Scarpinato ha lavorato con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino presso la Procura di Palermo ed è autore di numerosi saggi e pubblicazioni sia in Italia sia all’estero.

Quella che viene di seguito proposta è un'ampia sintesi del saggio di Scarpinato.

 
Per molti secoli gli italiani non hanno avuto molto rispetto per la legge e lo Stato. Anche perché, né la legge né lo Stato apparivano rispettabili in una società che sino alle soglie del XX secolo era sempre rimasta fondata sulla pietra angolare del rapporto servo-padrone, secondo assetti di potere di tipo tardo feudale.

La legge santificava lo sfruttamento da parte di una casta di privilegiati di una folla sterminata di  "nessuno mischiato con niente”, 
sudditi che mai avevano potuto sperimentare uno statuto della cittadinanza, che ignoravano la stessa base grammaticale della democrazia, che erano stati educati a considerare legge di natura, o legge divina, la divisione del mondo tra potenti e impotenti. Per un popolo composto in massima misura da contadini, che nel 1861 raggiungeva circa l’80% di analfabeti (il 90% nelle isole), l’unica alternativa possibile appariva quella tra il padrone cattivo e quello buono, immaginato di volta in volta nelle vesti ora del principe illuminato, ora del papa re, ora dell’uomo della provvidenza, ora del duce. La legge restava comunque la voce del vincitore di turno in un’ininterrotta lotta per il potere che si giocava sempre sopra la testa e spesso sulla pelle del popolo, mandato al massacro come carne da cannone in battaglia e strumentalizzato dalle varie fazioni di potenti.
In un paese siffatto anche la giustizia era forte con i deboli e debole con i forti. Era la giustizia dei fori speciali dove gli appartenenti alle caste dei privilegiati (aristocratici, ecclesiastici, notabili, ricchi e borghesi) erano giudicati dai loro pari secondo regole separate, diverse da quelle riservate ai poveracci, per i quali valeva il foro comune. Generazioni di italiani hanno dovuto sperimentare per secoli che la legge a nulla valeva contro i soprusi e le ruberie dei potenti.
 

Don Abbondio e i "bravi"

Nel romanzo “I promessi sposi”, ambientato nell’Italia del Seicento, Alessandro Manzoni ha messo in scena la secolare impotenza della legge dinanzi ai potenti. Il povero don Abbondio cade in uno stato di rassegnata prostrazione quando si rende conto che gli uomini armati che lo avevano circondato imponendogli di non celebrare il matrimonio tra Renzo e Lucia, non erano banditi, bensì “bravi”. La differenza era sostanziale: i banditi erano criminali che operavano in proprio e contro i quali vi era possibilità di difesa denunciandoli al potestà del luogo; i “bravi” erano invece criminali al servizio di un potente, in questo caso don Rodrigo, il quale era al di sopra delle leggi perché appartenente al mondo superiore che la legge la imponeva, ma non la subiva.

L’ingenuo Renzo Tramaglino illudendosi di trovare rimedio nella legge contro la prepotenza di don Rodrigo, si rivolge ad un avvocato, ma quando questi si rende conto che avrebbe dovuto agire secondo legge nei confronti del potente signore al di sopra delle leggi, declina l’incarico. In un’Italia dove la legge non contava nulla dinanzi al potere, Manzoni è costretto a fare entrare in gioco la Provvidenza: l’Innominato libera Lucia perché colto da un’improvvisa crisi mistica e solo la morte per peste riesce a fermare la prepotenza di don Rodrigo. Don Rodrigo non è solo il parto della fantasia letteraria di Manzoni, ma il prototipo del potente e del prepotente italiano che cavalcando i secoli e riproducendosi di generazione in generazione è giunto sino ai nostri giorni.


Don Rodrigo

Anche la giustizia messa in scena dal Manzoni ha attraversato i secoli ed è stata una costante italiana. E’ sperimentata nei secoli la sfiducia popolare nella giustizia. Se si analizza la composizione sociale della popolazione carceraria dall’Unità d’Italia sino ai nostri giorni, nonostante il mutare delle forme dello Stato, risulta che in carcere a scontare la pena finiscono quasi esclusivamente gli ultimi della piramide sociale. La quota di colletti bianchi in espiazione definitiva è sempre rimasta statisticamente irrilevante, anche dopo Tangentopoli e Mafiopoli. In un modo o nell’altro, i ceti superiori sono sempre riusciti ad evitare il carcere ai propri esponenti incappati nelle maglie della giustizia, e a riservarlo solo agli stessi ai quali nei secoli passati era riservato il foro comune: “I nessuno mischiati con niente”.

Sotto la dittatura fascista la condizione ed il rispetto della legge e della giustizia non fecero che peggiorare. Molti prefetti e uomini del regime nelle istituzioni fecero a gara nel chiudere gli occhi di fronte alle violenze e alle aggressioni, salvo poi infierire con particolare severità nei confronti dei cittadini che combattevano il fascismo. Come noto, quest’ultimo fu sostenuto e mantenuto al potere da tutte le principali componenti della classe dirigente nazionale. Può quindi ben dirsi che il fascismo declina sulla scena della modernità del Novecento l’identità culturale ancora tardo-feudale di un ceto padronale che nella sua maggioranza non era riuscito ad evolversi da classe dominante a classe dirigente e che continuava a praticare lo stesso codice della violenza e della sopraffazione da sempre praticato nei secoli precedenti da intere generazioni di piccoli e grandi don Rodrigo. In Italia il sovrano, dunque, è stato l’uomo della provvidenza per alcuni secoli, almeno fino alla metà del Novecento.

Come è possibile che un popolo con tale storia alle spalle abbia potuto esprimere e darsi la Costituzione del 1948 che costituisce uno dei massimi vertici della cultura europea dello Stato democratico di diritto? Una Costituzione che per la prima volta poneva le fondamenta per la costruzione di uno Stato e di una legge finalmente “rispettabili”. Di una legge cioè che non fosse più ad uso e consumo dei potenti, espressione dei poteri forti, ma espressione invece di una repubblica fondata sulla pari dignità sociale di tutti i cittadini. Una Costituzione che finalmente cancellasse una secolare e vergognosa storia di servi e padroni e si facesse garante della nascita di una giustizia sociale ed economica. Scarpinato dà questa risposta: “La Costituzione del 1948 (così come era già avvenuto con lo Stato liberale del 1860), non fu affatto espressione della maggioranza dell’Italia reale nella sua duplice componente padronale e popolare, ma di alcune minoranze”. Dopo la seconda guerra mondiale si apre uno spazio provvisorio che assegna il timone del comando a ristrette élite culturali, quali uomini della Resistenza di diversa espressione politica e esponenti della cultura liberale e del riformismo cattolico costretti all’esilio, che selezionano i membri della Costituente ed i futuri parlamentari della Repubblica. L’alchimia della storia trasforma dunque un’avanguardia culturale in maggioranza politica. La nostra Costituzione superò la nostra storia ed indicò un modello: la costruzione di uno Stato democratico di diritto che superava le possibilità etiche delle culture autoctone delle classi dirigenti e delle masse. Nonostante alcuni limiti, la Costituzione del 1948 non rimase solo un libro dei sogni ma fu un lievito di crescita democratica per l’intero paese.
 

 
 
Oggi, però, sono venuti meno due fattori che avevano messo in sicurezza la Costituzione da tentativi di restaurazione. La fine del bipolarismo internazionale e la scomparsa, o irrilevanza sociale, della classe operaia che operava come virtuale catalizzatore politico generale delle masse e baricentro di tutto il sistema politico. Lo stesso partito popolare di don Sturzo nacque dall’esigenza di costruire un possibile polo politico riformista alternativo alla sinistra. Con il venir meno di questi due fattori, le masse sono tornate ad essere, così come erano sempre state nel tardo feudalesimo, soggetto passivo della storia, manipolabile dall’alto, e la Costituzione è diventata oggetto di tentativi di modifiche e di svuotamento da parte delle maggioranze governative. Le élite o le minoranze illuminate sopravvivono solo grazie ad alcune enclave istituzionali protette (per ora) come quelle della Corte costituzionale e della Magistratura. Vi sono anche le minoranze della società civile che si mobilitano nelle piazze, nei circuiti culturali alternativi, nella rete web.

La strada è in salita e la storia si ripete. La sovranità popolare è stata svuotata, il parlamento è stato ridotto a un’assemblea di nominati dal Principe, la separazione tra potere esecutivo e legislativo è stata fortemente ridimensionata, l’informazione televisiva è stata occupata, il conflitto di interessi è ai massimi livelli. Il neofeudalesimo italiano affollato da tanti vassalli e servitori in cerca del loro principe, da tanti sudditi contenti di esserlo, da tanti intellettuali la cui massima aspirazione è di diventare consiglieri privilegiati del principe, sembra essere una riedizione della storia più vera e autentica del nostro paese.

Che fare? Chi salverà questo paese da se stesso? La lezione della storia dimostra come in alcuni frangenti cruciali l’Italia non sia stata salvata dalle sue maggioranze, ma dalle sue minoranze. Sono state le minoranze che hanno fatto il Risorgimento, sono state le minoranze che hanno fatto la Resistenza e hanno concepito la Costituzione. La difesa della Costituzione resta l’ultima spiaggia. Salvare la Costituzione significa salvare la parte migliore della nostra storia. Gli storici e gli analisti del potere sanno bene che la storia non è fatta dalle maggioranze disorganizzate, né dalle oligarchie paralitiche. Oggi viviamo una fase della storia nella quale le minoranze eredi di quelle che vollero la Costituzione, che vollero il Concilio Vaticano II, che realizzarono lo Statuto dei lavoratori e promossero riforme di libertà, sembrano essere diventate orfane di rappresentanza e guida politica.

Oggi è tempo che ciascuno assuma su di sé l’onere e la responsabilità di aiutare il vecchio a morire per consentire al nuovo di nascere. Giacché il futuro non è il tempo che viene e sopraggiunge, ma il tempo che si costruisce insieme. E, per citare Gaetano Salvemini, ciascuno di noi troverà nell’avvenire quel tanto che vi avrà messo di se stesso. Solo chi si arrenderà ai fatti non vi troverà nulla, perché vi avrà messo nulla.

 

martedì 4 settembre 2012

L’asilo “Giuseppina Gnecchi” di Verderio Superiore
 

L’asilo infantile “Giuseppina Gnecchi” fu costruito a Verderio Superiore nel 1891 per iniziativa di Giuseppe Gnecchi Ruscone, sindaco di Verderio dal 1859 al 1889, il quale lo dedicò alla moglie Giuseppina Turati, la quale proveniva da una nobile e ricca famiglia di Busto Arsizio.


 
 
Fino al 1922 si alternarono nella gestione dell’asilo diversi ordini religiosi; in quell’anno la struttura fu donata dalla famiglia Gnecchi alle suore dell’Immacolata di Genova, che tuttora la mantengono in attività, ospitando alcune sezioni della scuola dell’infanzia paritaria.

Fondatore dell’ordine delle suore dell’Immacolata fu don Agostino Roscelli, nato a Bargone di Casarza Ligure il 27 luglio 1818 da Domenico e Maria Gianelli, modesti contadini e persone di grande fede.

Don Roscelli fondò, il 15 ottobre 1876, l'Istituto delle Suore dell'Immacolata nella nuova casa di via Volturno 5 a Genova, che fino ad allora era dedita all'educazione e all'istruzione delle ragazze del popolo. Don Roscelli si spense sempre a Genova il 7 maggio 1902. Fu grazie alla sua attività religiosa, sociale ed umana che il 10 giugno 2001 papa Giovanni Paolo II lo proclamò santo.
 



Sono quindi 90 anni che le reverende suore dell’Immacolata sono presenti a Verderio Superiore.

Gestendo la scuola materna paritaria, le suore si sono storicamente integrate, non solo dal punto di vista religioso, nel tessuto sociale e umano della comunità verderiese ed hanno contribuito a creare il giusto spirito che ancora oggi, malgrado i forti cambiamenti intervenuti negli ultimi decenni, pervade la società.

Questa scuola dell’infanzia ha ospitato, a partire dal 1891, diverse centinaia di bambine e bambini, principalmente verderiesi, ma anche provenienti da altri comuni limitrofi. Quelli erano anni difficili e duri per la nostra gente. La condizione sociale del proletariato agricolo era di assoluta sopravvivenza: l’alimentazione era scarsa e di pessima qualità, le malattie decimavano molti bambini in tenera età, le condizioni igieniche e la fatica dei campi erano corresponsabili della maggior parte delle patologie che colpivano i lavoratori della terra. Poi arrivarono due guerre mondiali, frammezzate da una ventennale dittatura, che generarono miseria e morte.

La nascita di questa struttura diede qualche segno di speranza in più alle famiglie contadine e fu certamente una forma di assistenza e aiuto per le famiglie povere.

Delle suore, i cittadini verderiesi hanno apprezzato lo stile e la riservatezza, il parlare a bassa voce, il carattere sempre disponibile e pronto al dialogo ed all’ascolto, il comportamento mai teso al protagonismo individualista ma proiettato al lavoro con gli altri, per il bene di tutti. Le manifestazioni di stima e di gratitudine sono state molte in tutti questi anni, soprattutto perché le suore che hanno operato a Verderio si sono contraddistinte per la serietà, l’abnegazione e l’impegno che hanno profuso a favore dei bambini e delle loro famiglie.

 
Beniamino Colnaghi