giovedì 12 dicembre 2013

Un paese di temporali e di primule: le antiche terre friulane in Pasolini


 "La morte non è nel non poter comunicare,
ma nel non poter più essere compresi".

Percorro a piedi il lungo viale, ombreggiato da altissimi cipressi, e mi dirigo verso il cimitero di Casarsa della Delizia, Cjasarsa in friulano. L'entrata è scarna: un cancello sovrastato da un arco e una scritta, In pace Christi requiescant. Oltrepasso il cancelletto d’ingresso e conto quindici passi a sinistra. In questo sole invernale, ancora piacevolmente caldo, mi dirigo verso un quadrato di terra. Davanti a un cespuglio di alloro ci sono due lapidi gemelle di color grigio adagiate sul terreno, sulle quali sono incise le epigrafi: Pier Paolo Pasolini (1922 – 1975) e Susanna Colussi (1891 – 1981), la madre del poeta, a ricordare il profondo legame che li tenne uniti per tutta la vita. Si tratta di un sepolcro molto semplice, incorniciato da un’aiuola. Uno dei più grandi poeti, scrittori e intellettuali italiani di sempre è sepolto in una tomba priva di qualsiasi segno di ostentazione del lusso e del potere. Solo l’alloro, simboleggiante negli antichi sapienza e gloria, e una sua foto con la scritta Mio il corpo, nostra la terra, ricordano che lì sotto c’è un poeta.
 
 
 
 
 
La notte tra l'1 e il 2 novembre 1975, Pier Paolo Pasolini venne brutalmente assassinato in uno spiazzo erboso presso un campetto di calcio all'idroscalo di Ostia, vicino Roma. Ricevette violente percosse e bastonate; agonizzante, venne travolto più volte con la sua stessa auto. Dopo l’autopsia, la bara venne traslata alla Casa della Cultura, a due passi da piazza Venezia, per l'omaggio ufficiale. Giunsero i suoi più cari amici e molte personalità della cultura del tempo. Tra gli ospiti di prestigio della camera ardente ci fu anche Enrico Berlinguer, che firmò diligentemente il registro delle presenze. A Campo de' Fiori si tennero le esequie. Il primo a parlare fu Alberto Moravia. Finita la cerimonia a Roma, la salma venne portata a Casarsa. Il corteo arrivò a notte inoltrata e, nonostante fosse così tardi, trovò una folla radunata ad aspettare. La cerimonia funebre venne officiata da un altro illustre friulano, padre David Maria Turoldo, il quale giunse appositamente da Bergamo. Turoldo, oltre a leggere brani dal Vangelo secondo Matteo e dal discorso delle Beatitudini, si rivolse, nell’omelia, alla madre di Pasolini, attraverso la famosa “lettera”, con la quale le chiedeva di tornare “...come una pellegrina a ritroso, verso paesi certo più miti e più cristiani. Ritorna, riaccompagnandolo in quella terra che non ha mai potuto dimenticare. Per quello era cosi gentile, appunto perché umile come umile è il suo Friuli. E tutti lo devono dire che era così buono, fino al tormento, fino a distruggersi con le sue mani. Ed era così bisognoso di amicizia, come appunto è il mio Friuli, così solo”. Aggiunse, Turoldo: “In fondo il tuo Pier Paolo, mamma, ha sempre vissuto con la morte dentro, se l’è portata in giro per il mondo lui stesso come suo fardello di emigrante, come suo carico fatale. Ed ora che l’ha raggiunta, è bene che ritorni anche lui a casa”.(1)

 
Casarsa, chiesa di Santa Croce. Il funerale di Pasolini (Fonte centrostudipierpaolopasolinicasarsa)

Nello stesso cimitero riposano il fratello di Pier Paolo, Guido, partigiano, ucciso il 12 febbraio 1945, ed il loro padre, Carlo Alberto, morto nel 1958.

 
 
 
Il monumento dedicato ai partigiani casarsesi. Guido Pasolini è in alto, primo a sinistra
 
"Sono nato in una famiglia tipicamente rappresentativa della società italiana: un vero prodotto dell'incrocio... Un prodotto dell'unità d'Italia. Mio padre discendeva da un'antica famiglia nobile della Romagna, mia madre, al contrario, viene da una famiglia di contadini friulani che si sono a poco a poco innalzati, col tempo, alla condizione piccolo-borghese. Dalla parte di mio nonno materno erano del ramo della distilleria. La madre di mia madre era piemontese, ciò non le impedì affatto di avere egualmente legami con la Sicilia e la regione di Roma". (2) 

Nel centro storico di Casarsa, su via Menotti, anticamente detta via dei Colùs, per la prevalenza di ceppi omonimi a quello della madre di Pasolini, si affacciano ancora oggi ampi portoni, tutti uguali, con lo stemma di famiglia in pietra e una ruota di carro incastonata nello scudo, a testimoniare le origini contadine. Nell’alternanza tra le facciate intonacate e quelle rivestite con sassi di fiume, risaltano gli affreschi della devozione popolare.

 
Casarsa della Delizia, lo stemma dei Colussi

Pier Paolo Pasolini nasce a Bologna il 5 marzo 1922, primogenito di Carlo Alberto, tenente di fanteria, e di Susanna Colussi, maestra elementare. La coppia si sposa nel dicembre del 1921 a Casarsa e si trasferisce in continuazione in molte città a causa del lavoro di Carlo Alberto.  
"Hanno fatto di me un nomade. Passavo da un accampamento all'altro, non avevo un focolare stabile". Visti i numerosi spostamenti, l'unico punto di riferimento della famiglia Pasolini rimane Casarsa. Pier Paolo vive con la madre un forte rapporto di simbiosi. Riferendosi alla madre:  "Mi raccontava storie, favole, me le leggeva. Mia madre era come Socrate per me. Aveva e ha una visione del mondo certamente idealistica e idealizzata. Lei crede veramente nell'eroismo, nella carità, nella pietà, nella generosità. Io ho assorbito tutto questo in maniera quasi patologica". (3) 

Nel 1928, a soli sei anni, è l'esordio poetico: Pasolini annota su un quadernetto una serie di poesie accompagnate da disegni. "La mia infanzia finisce a 13 anni. Come tutti: tredici anni è la vecchiaia dell'infanzia, momento perciò di grande saggezza. Era un momento felice della mia vita. Ero stato il più bravo a scuola. Cominciava l'estate del '34. Finiva un periodo della mia vita, concludevo un'esperienza ed ero pronto a cominciarne un'altra. Questi giorni che hanno preceduto l'estate del '34 sono stati tra i giorni più belli e gloriosi della mia vita". (4)

 
Casarsa nel 1939 (Foto nel pubblico dominio in quanto il copyright è scaduto)
 
Pier Paolo conclude gli studi liceali e si iscrive all'Università di Bologna, facoltà di lettere. Negli anni del liceo crea insieme ad altri un gruppo letterario per la discussione di poesie. In questo periodo Pasolini scrive poesie in friulano e in italiano, che saranno raccolte in un primo volume, Poesie a Casarsa. Partecipa poi alla redazione di una rivista, "Stroligut", con altri amici letterati friulani, con cui ha creato la Academiuta di lenga furlana.
Il dialetto rappresenta una sorta di opposizione al potere fascista: "Il fascismo non tollerava i dialetti, segni / dell'irrazionale unità di questo paese dove sono nato / inammissibili e spudorate realtà nel cuore dei nazionalisti /" (5) 
L'uso del dialetto rappresenta anche un tentativo di privare la Chiesa dell'egemonia culturale sulle masse sottosviluppate. Mentre la sinistra predilige, infatti, l'uso della lingua italiana, e se si eccettuano alcuni sporadici casi del giacobinismo, l'uso dialettale è stata una prerogativa clericale, Pasolini tenta appunto di portare anche a sinistra un approfondimento in senso dialettale della cultura. 

Il ritorno a Casarsa rappresenta, negli anni dell'università, il ritorno ad un luogo felice. Ma il periodo di felicità finisce presto. La seconda guerra mondiale rappresenta per Pasolini, come del resto per la maggior parte degli italiani, un periodo estremamente difficile. Nel 1943 la famiglia Pasolini decide di recarsi a Versutta, piccolissima frazione di Casarsa, luogo meno esposto ai bombardamenti alleati e agli assedi tedeschi. Qui insegna ai ragazzi dei primi anni del ginnasio. Ma l'avvenimento che segnerà quegli anni è la morte del fratello Guido, il quale decide di intraprendere la lotta partigiana. Guido si aggrega alla divisione Osoppo ed assume il nome di battaglia Ermes.
Nel febbraio del 1945, nelle malghe di Porzûs, Guido viene ucciso, insieme al comando della divisione Osoppo. Pasolini metterà in versi la morte del fratello nel Corus in morte di Guido, che appariranno nello Stroligut dell'agosto 1945.

Nel 1945 si laurea discutendo una tesi intitolata "Antologia della lirica pascoliniana” e si stabilisce poi definitivamente in Friuli. Qui trova lavoro come insegnante in una scuola media di Valvasone, in provincia di Udine. In questi anni comincia la sua militanza politica. Nel 1947 dà la propria adesione al Pci, iniziando una collaborazione al settimanale del partito "Lotta e lavoro". Pasolini diventa segretario della sezione di San Giovanni di Casarsa, ma non viene visto di buon occhio, sia nel partito sia dagli intellettuali comunisti friulani. Questi ultimi scrivono soggetti politici servendosi della lingua del Novecento, mentre Pasolini scrive con la lingua del popolo senza cimentarsi per forza in soggetti politici. Agli occhi di molti tutto ciò risulterà inammissibile.

Il 15 ottobre del 1949 viene segnalato ai carabinieri di Cordovado per corruzione di minorenne: è l'inizio di una delicata e umiliante trafila giudiziaria che cambierà per sempre la sua vita. Viene accusato di essersi appartato nella frazione di Ramuscello con due o tre ragazzi. I genitori dei ragazzi non sporgono denuncia ma i carabinieri, venuti a sapere delle voci che girano in paese, indagano sul fatto. È un periodo di contrapposizioni molto aspre tra la sinistra e la Dc, siamo in piena guerra fredda e Pasolini, per la sua posizione di intellettuale comunista e anticlericale, rappresenta un bersaglio molto vulnerabile. La denuncia per i fatti di Ramuscello viene ripresa sia dalla destra sia dalla sinistra: prima ancora che si svolga il processo, il 26 ottobre 1949, la federazione del Pci di Pordenone espelle Pasolini, il quale si trova proiettato nel giro di qualche giorno in un baratro apparentemente senza uscita. Nei primi mesi del 1950 Pasolini decide di fuggire da Casarsa; insieme alla madre si trasferisce a Roma. E’ l'inizio di una nuova vita.

 
Pasolini e sua madre verso la metà degli anni '60
 
Per la formazione umana, intellettuale e letteraria di Pasolini, dunque, gli anni trascorsi a Casarsa sono decisivi: il mondo friulano, intensamente vissuto e profondamente amato, resterà per lui un punto di riferimento esistenziale e insieme mitologico. Un paese di temporali e di primule, edizioni Guanda, 2001 e La nuova gioventù, Einaudi, 1975, sono i libri che, attraverso scritti e poesie, racchiudono ed esprimono l’esperienza friulana di Pasolini.

“La morte di Pasolini è stata come la morte di Gramsci”, ha sostenuto lo scrittore e critico letterario Roberto Cotroneo. “Più che un assassinio, e più che un assassinio politico, come molti hanno sostenuto, l'assassinio di Pasolini è stato la fine di una possibilità, lo spegnersi violento e vile di un'intelligenza da cui non si poteva prescindere. E che doveva suscitare rabbia. Sono stati molti gli intellettuali importanti in questo dopoguerra. Abbiamo guardato l'Italia degli anni Cinquanta e Sessanta con gli occhi di Moravia, della Morante, dei fratelli d'Italia di Arbasino, dietro le nebbie della Ferrara di Bassani, attraverso la lente vivida e nitida di Volponi, con il sarcasmo amaro di Ottieri, e con la volteriana sicilianità di Leonardo Sciascia. Abbiamo imparato a leggere i segni del mondo da Umberto Eco e ci siamo mossi con rispetto e attenzione nei sentieri che si biforcano di Calvino. Ma Pasolini era altro. Moderno in una maniera strana. Con squarci improvvisi di futuro, e allo stesso tempo passaggi desueti”.

Beniamino Colnaghi
 
Note
1. Per la lettura completa, consultare il sito:

www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it, itinerario pasoliniano, l’ultimo saluto.
2. P.P. Pasolini, Il sogno del centauro, a cura di Jean Duflot, Editori Riuniti, Roma 1983.
3. Intervista a Dacia Maraini in "Vogue", maggio 1971.
4. Pier Paolo Pasolini, in AA.VV., Pasolini, una vita futura, Ass. Fondo Pasolini, Garzanti, Milano 1985.
5. Pier Paolo Pasolini, Il poeta delle ceneri, a cura di Enzo Siciliano, in "Nuovi Argomenti" nn. 67-68, Roma, luglio-dicembre 1980. 

mercoledì 4 dicembre 2013

Cantù, 9 aprile 1914: il dirigibile “Città di Milano” brucia presso la cascina Novello


Enrico Forlanini, a cui venne dedicato l’aeroporto di Milano ed il lungo viale che ne consente l'accesso, sviluppò una serie di aeronavi semirigide, nel periodo che va dai primi anni del Novecento fino ai primi anni Trenta. Queste aeronavi, assieme ai dirigibili tedeschi, furono le prime a presentare la navicella di comando solidale con l’involucro per ridurre la resistenza aerodinamica. Inoltre, nel suo ultimo progetto, l’Omnia Dir che volò postumo nel 1931, Forlanini realizzò il primo utilizzo pratico di getti d‘aria compressa per il controllo direzionale di un aeromobile. Confortato dal successo della sua prima aeronave, Forlanini si impegnò nella costruzione di un progetto più ambizioso: il nuovo dirigibile bimotore, chiamato Città di Milano, era quasi quattro volte più grande del suo predecessore. Per motivi di sicurezza, dato che l’aeronave era gonfiata con idrogeno, tutte le stoffe avevano ricevuto trattamento ignifugo e l’aeronave presentava un doppio involucro. Il primo volo ebbe luogo il 17 agosto 1913 nel cielo sopra Milano. Il 21 dicembre ebbe luogo il volo forse più significativo, destinazione era il campo di San Siro, dove il dirigibile fu benedetto dalle autorità ecclesiali e ricevette il gonfalone.

Il 9 aprile 1914, giovedì della Settimana Santa, la “nave aerea”, come venivano definiti i dirigibili, era partita dall’aeroporto di Baggio per dirigersi sui cieli della Brianza, precisamente sulla direttrice Cantù – Como. La giornata era limpida ed un leggero vento spirava da sud verso nord. Ciò, tuttavia, non destò gran preoccupazione negli uomini che la pilotavano. A bordo erano saliti gli otto membri dell’equipaggio e quattro signore.
Cantù in una foto scattata intorno al 1890
Verso le 10.30 il dirigibile evidenziò le prime difficoltà dovute ad una perdita di gas dagli scomparti di poppa che fece perdere gradualmente la posizione orizzontale. Gli ufficiali alla guida tentarono allora un’inversione di rotta che riportasse il dirigibile verso Milano. Il mezzo, tuttavia, assunse una pericolosa inclinazione che rese problematico proseguire il volo. Gli ufficiali spensero così i motori e decisero di atterrare su un terreno adatto nei pressi della cascina Novello Inferiore, una struttura isolata tra i campi, situata nei pressi del cimitero di Cantù. I contadini a quell’ora erano al lavoro nei campi, occupati nella semina delle patate. Quando il dirigibile toccò terra, i contadini, dopo un primo momento di smarrimento e timore, accorsero cercando di rendersi utili, collaborando all’opera di ancoraggio. Dalla navicella lanciarono delle funi affinché venissero fissate agli alberi circostanti, in particolare dei robusti gelsi.

La manovra di atterraggio non sfuggì agli abitanti dei borghi vicini. Molta gente cominciò ad accorrere incuriosita. Sopraggiunsero anche, entro pochi minuti, le guardie di Cantù ed i pompieri.
All’equipaggio dell’astronave si presentò subito il compito di avvertire la base dell’atterraggio di emergenza e di provvedere allo smontaggio del dirigibile per il suo successivo trasporto a Milano. Ma nelle fasi di atterraggio il dirigibile riportò dei danni. Il timone di coda si era spezzato e dagli scomparti di poppa continuava la fuga di idrogeno. Le strade che da Cantù e dai paesi contigui portavano alla cascina Novello erano percorse da un’ininterrotta processione. Gente a piedi, in bicicletta, coi carri ed anche in carrozza non volevano perdersi uno spettacolo così unico. La folla si stringeva sempre più vicina al dirigibile e non sembrava minimamente preoccupata del pericolo costituito dalla perdita di gas.
 
La copertina della Domenica del Corriere dedicata all'incidente
Questa immagine è nel pubblico dominio perché il relativo copyright è scaduto.

Gli ufficiali chiamarono Milano per far mandare sul posto i soldati addetti all’hangar. Il comandante del presidio di Como inviò da parte sua un centinaio di soldati, i quali arrivarono verso mezzogiorno. Tutto sembrava ormai pronto per dare inizio ai lavori di smontaggio, quando verso le 12.30 un colpo di vento strappò gli ormeggi che tenevano bloccata l’astronave. I gelsi vennero divelti ed il dirigibile si spostò verso nord strisciando sul terreno. La gente cominciò ad urlare e scappare verso ogni dove. Ad un certo punto il mezzo si fermò. Aveva percorso allo sbando un centinaio di metri. Immediatamente il maggiore Del Fabbro, che dirigeva le operazioni, diede l’ordine di iniziare lo smontaggio.

Il quotidiano di Como, “L’Ordine”, descrisse così queste fasi:
     “Vennero quindi aperte le valvole per far uscire il gas e l’involucro cominciò lentamente ad afflosciarsi. A operazione ultimata restavano però ancora alcune sacche di idrogeno, e per accelerarne l’uscita vennero aperte anche le manichette, tubi del diametro di 60 centimetri. L’idrogeno riprese ad uscire con violenza e per reazione le manichette cominciarono a sbattere compiendo un mezzo giro. Le bocche d’uscita… con il mezzo giro si erano rivolte verso destra dove la massa dei curiosi era a non più di 6 o 7 metri. Quasi subito, all’improvviso, vicino al dirigibile balenò una fiammata verdognola, seguì prima una detonazione non molto forte, poi altre due formidabili, infine una grande fiammata, violenta, avvolse tutto il dirigibile e si dissolse in alto in una densa nube di fumo nero e giallo”.

Proseguì “L’Ordine”: 
     “La folla in preda al più pazzo terrore, urlando come indemoniata, si diè a fuggire da tutte le parti inseguita da lingue di fuoco. Uomini, donne, bambini attaccati dal fuoco cadevano contorcendosi tra gli spasimi strappandosi le vesti di dosso, calpestandosi gli uni agli altri, calpestati questi a loro volta da altri fuggenti che sopravvenivano”.

Passati i primi attimi di sbigottimento e sorpresa, per gli illesi cominciò l’opera di soccorso dei feriti. I più fortunati riportarono solo ustioni alle mani e al collo. Altri, investiti in pieno dalla fiammata, erano in gravi condizioni. Tra questi ultimi si citano: Innocente Broggi, pompiere canturino, Angelo Innocente Marelli, falegname nonché capo dei pompieri, Giulio Galbiati, muratore, Giuliano Galbiati, sarto. Complessivamente si contarono circa 200 ustionati tra i civili e 21 tra i militari.
La notizia dell’incendio si diffuse in un baleno. Lo spettacolo, se così si può definire, che si presentò sul luogo della tragedia fu impressionante. A chi arrivò per prestare soccorso, il luogo sembrò un campo di battaglia. Del forzato atterraggio del “Città di Milano” fu avvertito anche il suo costruttore, l’ing. Enrico Forlanini, il quale arrivò sul posto nel momento in cui la sua creatura stava bruciando.
La grave sciagura ebbe una grande eco, non solo in Italia. Si aprì un’inchiesta per appurare le cause del sinistro e accertare le responsabilità. Intanto la gente continuò, pur nei giorni seguenti, il “pellegrinaggio” verso la cascina Novello. L’ambizione dei più era quella di portarsi a casa un pezzo del dirigibile o fare incetta di alcune parti per poterle vendere e ricavarne piccoli compensi.

Domenica 12 aprile, Angelo Innocente Marelli cessò di vivere. Lunedì 13, giorno dell’Angelo, ebbero luogo i funerali, a spese del comune e con un’enorme partecipazione di folla. Le esequie furono imponenti. I negozi vennero chiusi. I cordoni a fianco del carro erano sorretti dalle maggiori autorità convenute a Cantù, dallo stesso ingegner Forlanini all’equipaggio del dirigibile, dal sindaco alle massime autorità militari. Parteciparono al corteo le tre bande musicali cittadine.

La piccola edicola della Madonna posta su una parete della cascina Novello

Nei giorni seguenti si tentò il bilancio dei danni materiali. La distruzione del dirigibile fu quantificata in lire 300mila e diverse migliaia di lire furono i danni subiti dai proprietari dei fondi agricoli per la distruzione della seminagione e dei numerosi gelsi.

Nacquero anche le prime polemiche, soprattutto tra i giornali ed il comune di Cantù. I primi accusarono alcuni curiosi presenti sul luogo di essersi mesi a fumare a ridosso del dirigibile, provocando lo scoppio e l’incendio. Il sindaco di Cantù, durante il Consiglio comunale del 19 settembre, affermò, senza indugi che “…è escluso che lo scoppio del gas sia dovuto a fumatori o all’accensione dei camini delle case ove avvenne lo scoppio”. La “Domenica del Corriere”, invece, sostenendo la tesi che la causa dell’esplosione era da attribuire ai fumatori, scrisse: “Il contadino è cocciuto nell’ignoranza”.

La targa commemorativa

La vasta area che circonda la cascina Novello è oggi notevolmente cambiata. Dove un tempo esistevano distese di campi coltivati e vasti filari di gelsi, negli ultimi anni sono state costruite decine e decine di villette.
Le vittime dell’incendio e la perdita del dirigibile sono ricordate da una lapide murata su una parete esterna della cascina stessa, sulla facciata rivolta verso i prati che furono teatro della tragedia.

Beniamino Colnaghi