mercoledì 20 marzo 2019

Anche “la lenta Brianza”, secondo il Cattaneo, partecipò all’insurrezione di Milano del marzo 1848

"Dell’insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra", testo fondamentale del Risorgimento e opera di un Carlo Cattaneo in esilio, è molto più di una mera cronaca degli eventi: riesce a trasfigurare quanto avvenne in quelle convulse giornate in una penetrante analisi del "ventre" politico di una non ancora nata nazione. L’allora storiografia ufficiale, per lo più vicina a casa Savoia, ritrasse in maniera agiografica l'anelito del popolo verso la libertà; un anelito sicuramente presente, ma mescolato a interessi economici potentissimi. Le pagine lucide e infuocate di Cattaneo, allora a capo del consiglio di guerra, ci fanno rivivere quelle giornate piene di passione civile come un vero e proprio "documentario" in presa diretta. Ma, allo stesso tempo, ci ricordano le profonde aspirazioni federaliste, nel senso più nobile del termine, del suo autore, uno dei primi a sognare un'Italia unita nelle sue differenze, cuore pulsante degli Stati Uniti d'Europa. Non a caso le sue memorie, scritte oltre centosessanta anni fa, terminano con le parole testuali: “Avremo pace vera, quando avremo gli Stati Uniti d’Europa”.


Facciamo un passo indietro. Quali furono le premesse che portarono all’insurrezione?
Vediamole sinteticamente.
L’Impero austro-ungarico avviò sui suoi immensi territori dei processi di modernizzazione che rappresentarono, al di là delle buone intenzioni, un unicum in un’Europa che soprattutto si era preoccupata, dopo il terremoto napoleonico, di restaurare i diritti delle case regnanti. Per restare all’ambito che ci interessa, nel Regno Lombardo-Veneto, in cui l’autorità imperiale era rappresentata da un viceré e da un governatore, ricordiamo che lo scontro vero si attuò già da tempo tra nobiltà e grande possidenza da una parte, e governo centrale di Vienna dall’altra.
Non era uno scontro aperto, ma piuttosto un’avversione strisciante che andava consolidandosi da parte di coloro i quali (nobili e grandi proprietari terrieri) si erano in certo senso sentiti traditi da una politica viennese che, dopo la Restaurazione, non aveva potuto non tener conto delle modernizzazioni comunque portate dalle riforme napoleoniche. Se l’autorità centrale restava indiscutibilmente in mano all’imperatore, il sistema di governo locale prevedeva una serie di organi rappresentativi che avevano alla base le assemblee dei Convocati formate da tutti i cittadini, purché iscritti nel registro delle tasse, che votavano in assemblea per l’elezione dei governi locali nei comuni piccoli e medi. Sopra questo livello esistevano le Congregazioni che raccoglievano nobiltà e possidenza, le quali governavano i comuni maggiori e partecipavano alle decisioni di guida dello Stato. La frizione fra questi due organi era inevitabile perché, mentre le assemblee dei Convocati rappresentavano una forma di democrazia diretta, capaci di raccogliere e dar voce anche agli interessi delle classi più umili, le Congregazioni mantenevano un atteggiamento estremamente conservatore e vedevano con ostilità il fatto che venisse data voce alla plebe, tradendo, secondo il loro punto di vista, il lavoro di riordino che si doveva fare in Europa dopo i “pasticci” causati dalla Rivoluzione francese prima e dalle riforme napoleoniche poi. E infatti furono proprio le pressioni delle Congregazioni sul governo centrale che causarono il progressivo esautoramento delle assemblee dei Convocati; già nel 1835 i governi locali allargati venivano ridotti ad organi consultivi. D’altra parte, il Governo Imperiale non poteva non tener conto delle pressioni dei nobili e della possidenza, che detenendo buona parte della ricchezza, erano anche le maggiori fonti di entrate fiscali. Ma proprio su questo aspetto nasceva poi un altro motivo di contrasto, forse il maggiore.
Una delle novità che il governo imperiale cercava di imporre era quella di un riordino del sistema fiscale che privilegiasse l’imposizione diretta, ossia quella che, colpendo i redditi, fa ovviamente pagare di più a chi più guadagna. Cinquant’anni più tardi il governo sabaudo avrebbe potuto sperimentare la popolarità delle imposte indirette, con quei moti di piazza che videro a Milano la carneficina causata dai cannoni del generale Bava Beccaris. Questi concetti in materia fiscale sono per noi, oggi, ovvi e naturali. Un secolo e mezzo fa, in una società ancora basata principalmente sui privilegi di classe e sulla conservazione degli stessi, la leva fiscale poteva rappresentare una vera mina vagante, soprattutto perché un sistema fiscale equo permette anche alle classi più umili di elevarsi socialmente, mentre un sistema vessatorio, oltre che favorire i più ricchi, fa sì che i poveri continuino disciplinatamente ad essere poveri. E questo è un elemento essenziale per la conservazione dello status quo. "Vienna ladrona": questa era una delle accuse principali lanciate dagli oppositori del governo imperiale.
E’ vero che la Lombardia, essendo la regione più ricca, era anche il contribuente più importante dell’impero, ma è altrettanto vero che gran parte di queste imposte, grosso modo la metà, rientravano in Lombardia per il finanziamento di opere pubbliche e di incentivi all’imprenditoria. La creazione dell’Università di Pavia, l’istruzione elementare pubblica, l’organizzazione di pubblici ospedali, sono tutte realizzazioni del periodo di dominazione austriaca.
E i dati di fatto ci dicono anche che si cercava, insieme ad una modernizzazione amministrativa, che a tutt’oggi viene guardata come esemplare, di sollevare le classi più umili, fornendo loro quei servizi di cui si accennava sopra che erano appannaggio della Chiesa, come opere di carità, o dei ricchi che potevano permetterseli. Già nell’Ottocento dire che lo Stato doveva venire in soccorso dei più deboli, riconoscendo quindi dei diritti anche alla "plebe", si faceva già un’opera di grande modernizzazione, non fosse altro perché si comprese che le classi tendevano, per loro natura, ad amalgamarsi, a confondersi, a generare nuovi livelli che sarebbero andati, seppure in un sistema poliziesco e militarizzato, a scuotere i vecchi equilibri, nella ricerca di una maggior giustizia sociale.

Nei primi mesi del 1848 avvennero diversi fatti e avvenimenti che scossero l’Europa: la polizia austriaca uccise sei milanesi in seguito allo sciopero del lotto e del tabacco, congegnato per togliere alla finanza austriaca una delle sue principali entrate; Palermo insorse contro i Borboni; ci fu la Rivoluzione a Napoli, il giorno 29 gennaio re Ferdinando II di Borbone annunciò la Costituzione; a Milano si svolse un imponente manifestazione alla Scala a favore della Costituzione napoletana; la polizia vietò in tutto il Lombardo-Veneto l'uso di portare cappelli alla Calabrese, all'Ernani, alla Puritana e qualsiasi simbolo o distintivo politico; avvenne la Rivoluzione di febbraio a Parigi che portò alla costituzione della Seconda Repubblica; Karl Marx e Friedrich Engels pubblicarono a Londra il Manifesto del Partito Comunista; il 13 marzo iniziò l’insurrezione a Vienna e la conseguente caduta del cancelliere Von Metternich.
Il 17 marzo 1848 si diffuse a Milano la notizia delle dimissioni di Metternich. La notizia provocò e generò l'occasione per organizzare il giorno successivo una grande manifestazione pacifica davanti al palazzo del governo, nell'attuale piazza Mercanti, per richiedere alcune concessioni tese a dare maggiore autonomia a Milano e alla Lombardia. Il 18 marzo la manifestazione ben presto si trasformò in un assalto. In tutta Milano cominciarono i combattimenti in strada.



Colto alla sprovvista, Joseph Radetzky, nobile boemo, feldmaresciallo austriaco ed a lungo governatore del Lombardo-Veneto, si rinchiuse con alcune migliaia di uomini nel Castello Sforzesco, ordinando di riprendere il palazzo del governatore e pieno possesso della città.
Scrive il Cattaneo: “E la ribellione scoppiava e vedevasi correre a volo per la città il tricolore cisalpino. A quella vista, le guardie austriache restavano immote e stupefatte! Il popolo gridava che il posto degli uomini era nella strada; i giovani uscivano d’ogni parte con pistole, sciabole e bastoni. Alle otto della sera, Radetzky scrisse ai municipali, intimando loro di disarmare la guardia civica, conchiudeva dicendo “mi riservo poi di far uso del saccheggio e di tutti li altri mezzi che stanno in mio potere per ridurre all’obbedienza una città ribelle; ciò mi riuscirà facile, avendo a mia disposizione un esercito agguerrito di centomila uomini e duecento pezzi di cannone”.
Il Cattaneo, dalle informazioni in suo possesso, scrive: “Si è fatto computo che in quella prima notte la città tutta non avesse a fronte del nemico più di tre a quattrocento fucili d’ogni sorta…”.
Le barricate vennero montate in ogni parte della città ed i milanesi si prodigarono affannosamente in cerca di armi. Venne proposto un governo provvisorio. Molti capi della rivolta non furono d’accordo. Lo stesso Cattaneo disse che sarebbe bastato fare un Consiglio di Guerra, non trattandosi altro che di combattere. Il Consiglio venne costituito e ne fecero parte: Giulio Terzaghi, Giorgio Clerici, Carlo Cattaneo, Enrico Cernuschi.


 Il ritratto ed il monumento di Carlo Cattaneo a Milano

Alla fine del terzo giorno di rivolta la penuria delle armi ebbe fine.
“Presso la sera del terzo giorno - scrive il Cattaneo - la bandiera tricolore fu inalberata sulla aguglia del Duomo da Luigi Torelli e Scipione Bagaggia. Eravamo ormai padroni della cerchia più interna e popolosa della città, sino a quella larga fossa che i nostri antichi scavarono già per difendersi dall’imperator Federico…”.  Ma come fare per informare dell’insurrezione chi viveva fuori della fossa interna ed anche nelle circostanti campagne? “A tal uopo il Consiglio di Guerra invitò li astronomi e li ottici a collocarsi su li osservatorii e i campanili e di là spedirci d’ora in ora brevi note. E poco di poi si pensò di mandare in aria palloni che seco portassero i nostri proclami. Li Austriaci, accampati sui bastioni, stavano attoniti mirando quelli aerei messaggeri sorvolare alle loro linee, e li bersagliavano con vari colpi”. “A tutte le città e a tutti i communi del Lombardo Veneto. Fratelli! Diceva uno dei proclami, la vittoria è nostra. Il nemico in ritirata limita il suo terreno al castello e ai bastioni. Accorrete; stringiamo una porta fra due fuochi ed abbracciamoci”.
“Molti di quei palloni - aggiunge il Cattaneo - caddero in luoghi ove li abitanti non avevano udito il suono del cannone, o non ne avevano sospettato la causa; altri giunsero fin oltre il confine svizzero, piemontese, piacentino. In molti dei nostri territori furono segnale di sollevamento; dappertutto misero in fermento i popoli. Turbe di contadini condotte da studenti, da medici, da curati, da doganieri, movevano d’ogni parte verso Milano. Cinquecento uomini giunsero dalla Svizzera italiana, la quale per la sua vicinanza aveva non meno di noi patito del nostro malgoverno; congiunti coi montanari del lago di Como e ai giovani di quella città. Poi, combattendo con nuova vittoria a Monza, erano giunti sotto le nostre mura verso tramontana. Dal lato di mezzodì una squadra partiva dalle vicinanze del Po. Il comitato di Lecco armava quel territorio, la Val Sassina, la Valtellina, e sommoveva la lenta Brianza. Bergamo mandò parecchie centinaia de’ suoi cittadini e valligiani. Gerolamo Borgazzi, ispettore della via ferrata di Monza, raccolti duemila uomini, penetrò furtivo in città verso il meriggio del quarto giorno…”.
Nella notte tra il 21 e il 22 marzo si formò il Governo provvisorio di Milano, presieduto da Gabrio Casati. Ne fu segretario Cesare Correnti. Nel corso della stessa notte si svolse una “battaglia” sul naviglio per conquistare il convento di S. Sofia e poi prendere il Collegio di S. Luca.
Il 23 marzo, il giorno successivo alla fine dei combattimenti in città, le truppe piemontesi passarono il Ticino dirigendosi verso Milano, dando inizio alla prima guerra d’indipendenza. L'esercito piemontese si mosse con estrema lentezza dando modo agli austriaci di ritirarsi senza rilevanti perdite nel Quadrilatero. L'incapacità di assumere l'iniziativa da parte piemontese dette in ogni caso modo agli austriaci di ricevere rinforzi che gli permisero di riconquistare Vicenza e di riprendere l'offensiva. Il 10 giugno, Carlo Alberto ricevette una delegazione guidata dal podestà di Milano, Casati, che recava l'esito trionfale del plebiscito che sanciva l'unione della Lombardia al regno di Sardegna. La situazione dell'esercito sardo-piemontese era però compromessa e il re ordinò una ritirata verso l'Adda e Milano, dove i piemontesi vennero accolti da una città fredda e deserta, delusa di aver offerto una vittoria, trovandosi senza colpe in una sconfitta. Il re, sebbene inizialmente respinse ogni proposta di abbandonare la città, decise di porre fine alla guerra, scatenando l'ira dei milanesi che si ammassarono attorno alla sua residenza. Nella sera i bersaglieri sgomberarono la folla e scortarono Carlo Alberto fuori dalla città.
Il 5 agosto 1848 venne firmata la capitolazione. Il giorno dopo gli austriaci rientrarono a Milano, da dove nel frattempo la maggior parte dei partecipanti alla lotta di liberazione era fuggita. Come nuovo governatore fu posto Felix Schwarzenberg, statista austriaco che restaurò l'impero asburgico come grande potenza europea dopo le rivoluzioni del 1848.
Quei giorni di rivolta, durante i quali i cittadini milanesi e lombardi riuscirono a sconfiggere l’esercito straniero, sono ricordati come le “Cinque giornate di Milano”.

Beniamino Colnaghi

 

martedì 5 marzo 2019

“Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno…”
Da Lecco verso l’abbazia cistercense di Piona

Da Lecco, per raggiungere il piccolo promontorio dell’Olgiasca, sul quale è dolcemente adagiata l’abbazia cistercense di Piona, o per meglio dire il Priorato di Piona, poco prima che l’Adda si getti nel lago di Como, è consigliabile, dal punto di vista panoramico, percorrere la vecchia strada costiera. Quella, per intenderci, che attraversa tutte le piccole località che da Lecco portano a Colico, dove, “ad un tiro di schioppo”, inizia la Valtellina.
Da Lecco all’abbazia di Piona sono circa 40 chilometri. Un percorso che può essere tranquillamente intrapreso in bicicletta o con uno scooter. Comunque lo si voglia affrontare, la bellezza di alcuni luoghi e gli scorci panoramici sullo specchio d’acqua lariano meriterebbero alcune soste, senza lasciarsi sopraffare da quella frenesia visiva e cognitiva che contraddistingue i turisti di oggi e il popolo dei selfie.
Se un escursionista avesse buone gambe, fiato e il giusto tempo a disposizione, potrebbe raggiungere l’abbazia percorrendo a piedi il “sentiero del viandante”, in passato conosciuto come "via Ducale" o "via Regia", che riprende una serie di tracciati che anticamente collegavano i paesi della sponda orientale del lago, da Lecco a Colico, e che facevano parte di un più ampio sistema di collegamento da Milano ai passi alpini. L'origine della rete di comunicazione non è certa, ma di sicuro costituiva un sistema alternativo al trasporto tramite imbarcazioni sul lago e collegava diverse fortificazioni presenti sul territorio.

A Mandello del Lario, gli appassionati di motociclismo, volendo, potrebbero visitare il museo Moto Guzzi, posto all’interno dell’omonima fabbrica di motociclette. L'esposizione del museo ripercorre la storia della produzione delle moto, dai prototipi ai primi modelli di serie. Tra gli oltre 150 esemplari, spiccano la prima motocicletta costruita nel 1919 da Carlo Guzzi e il primo modello "Norge" del 1928. Il percorso espositivo si sofferma anche sulle moto di serie che furono molto diffuse nell'Italia del dopoguerra. Un'altra sezione è dedicata ai veicoli da corsa, dalla Guzzi 4V alla 350 che vinse il Campionato del Mondo nel 1950. Nell'ultima sezione sono illustrati con alcuni filmati i momenti più significativi della storia della produzione della fabbrica lariana.

Di seguito alcune foto di Varenna
 
 
 


Una manciata di chilometri separano Mandello da Varenna. Personalmente ritengo questa località la più bella e caratteristica della sponda lecchese del Lario, con squarci davvero incantevoli.  Varenna è situata su un promontorio roccioso sovrastato da un monte a picco, si propone da una parte come un vivace e moderno centro turistico, nodo della navigazione lacustre, dall’altra come custode di vestigia di un passato medievale tra i meglio conservati della zona dei laghi. Il centro storico del paese parte dalla piazza antistante la Chiesa di S. Giorgio, antico foro romano, e scende per le strette viuzze e scalinate verso il lungolago, dove si concentrano bar, ristoranti e negozi. Molto suggestiva è la passeggiata dell’amore, un percorso pedonale lungo una passerella a sbalzo sull’acqua che conduce dal centro del paese fino all’imbarcadero, dal quale si può raggiungere Bellagio in battello. Oltre al Castello di Vezio, in posizione sopraelevata, tra gli edifici di interesse storico e monumentale di Varenna spiccano Villa Cipressi, oggi adibita a hotel, e Villa Monastero, situata a pochi passi dal centro, uno degli esempi più interessanti di residenza in stile eclettico, circondata da un giardino di grande impatto scenografico.
 
Il santuario di Lezzeno visto da Bellano e, sotto, l'interno della chiesa
 
 
Proseguendo l’itinerario verso Piona, si incontra Bellano, famoso anche per la presenza sul suo territorio dell’Orrido, una cascata situata in una gola naturale che si stima si sia formata 15 milioni di anni fa, a causa dell'erosione delle acque del torrente Pioverna che, scolpendo il fondovalle, scavò un solco sempre più stretto e profondo che da Taceno raggiunge il Lario.
Dal lungolago di Bellano, alzando lo sguardo verso la collina, si scorge la frazione di  Lezzeno, nella quale, il 6 agosto 1688 la leggenda narra che  il contadino Bartolomeo Mezzora, sorpreso da un furioso temporale mentre lavorava nei campi, si rifugiò in una piccola cappella con all'interno un medaglione raffigurante l'immagine di una Madonnina. Quando il contadino iniziò a pregare verso l'immagine sacra, chiedendo clemenza per i suoi vigneti, si accorse che l'immagine della Madonna stava piangendo lacrime di sangue. Due anni più tardi iniziò la costruzione del santuario sul colle vicino al luogo in cui avvenne il miracolo. Il santuario è in stile barocco classicheggiante, con navata a volte, presbiterio rettilineo, ed una bella cupola affrescata. La facciata è a tre colori ed ai lati dell’arco si trovano due grandi nicchie con le statue di San Pietro e San Giuseppe. L'interno è costituito da tre pregiati altari: quello maggiore, che risale al 1746 ed è fatto di marmi policromi, ed i due laterali, quello di sinistra dedicato a San Giuseppe e quello di destra, settecentesco, dedicato a Sant’Anna. La volta e le pareti del santuario sono ricoperte di affreschi di Luigi Morgari e sulla cupola si possono ammirare gli angeli che portano in cielo Maria, alla quale viene offerto lo stemma di Bellano.
 
Scendendo da Lezzeno si riprende la provinciale verso nord. Superato l’abitato di Dorio un cartello turistico indica che per l’abbazia di Piona occorre svoltare a sinistra, percorrere un breve tratto di strada in leggera salita e quindi svoltare nuovamente a sinistra. Lasciati alla spalle un paio di ristoranti e alcune villette immerse nel verde, ciò che appare di fronte a noi è una strada in leggera discesa, pavimentata con ciottoli di fiume ben arrotondati e levigati. Qualche modesto avvallamento e cedimento del terreno consiglia di affrontarla con la dovuta prudenza.  
L’abbazia, o meglio il Priorato di Piona, ci appare dopo una manciata di minuti, adagiata sull’estremità del promontorio dell’Olgiasca e incorniciata dai monti Legnone e Legnoncino. 
La prima fonte in possesso della comunità dei religiosi e degli storici attesta che nel VII secolo d.C. in quel territorio esisteva una comunità monastica, probabilmente di impostazione eremitica.
Il luogo, abitato fin dall'antichità da Celti e Romani, divenne caposaldo longobardo alla fine del VI sec. Nel 616 vi giunse Agrippino, vescovo di Como, che edificò un oratorio dedicandolo a Santa  Giustina, come testimonia un cippo in marmo bianco, con l’iscrizione: ''Monaci dell'abbazia cluniacense di S. Pietro in Vallate vi si stabiliscono costruendo una grangia". Edificano una chiesa più ampia, in stile romanico, dedicata alla Beata Vergine Maria, che nell'anno 1138 venne consacrata dal vescovo Ardizzone. L'abside è affrescata: al centro del catino il "Cristo Pantocratore", Signore del mondo, ai lati i quattro evangelisti, rappresentati nei noti simboli di leone, aquila, angelo e bue. Sotto, i dodici apostoli in atteggiamento di preghiera. Nel 1154 la chiesa fu ampliata e dedicata a un nuovo patrono: San Nicola. Nel 1252 venne attuata a spese del priore del monastero, Ser Bonacorso De Canova di Gravedona, l'opera artistica di maggior risalto dell’intera abbazia: il chiostro, che mostra ancora oggi l’antica bellezza e la religiosità medievale nei capitelli, che raffigurano piante e animali. In un documento della curia vescovile di Como, datato 1256, il monastero di Piona è indicato come uno dei dodici più ricchi di tutta la diocesi.

 


Nel 1798, per ordine del Direttorio della Repubblica Cisalpina, tutti i beni dell'abbazia vennero incamerati dal dipartimento dell'Adda e messi all'asta. Solo un secolo dopo iniziò il restauro della chiesa, con contributi governativi e sovvenzioni del comune e della provincia di Como.
All'inizio del XX secolo comincia
rono nuovi lavori per il recupero del chiostro e della chiesa, ma il monastero tornò a rivivere solo nel 1938, quando l’imprenditore Pietro Rocca acquistò l’edificio e, con l’aiuto della madre Annetta Pogliani, a causa di una disgrazia in famiglia, decise di affidare il monastero come gesto di purificazione e perdono alla Congregazione dei cistercensi di Casamari (Frosinone).
La chiesa appare, in tutta la sua sobria eleganza, leggermente arretrata rispetto al lato occidentale del monastero cui si appoggia. Sulla facciata si apre la porta bronzea dello scultore Giuseppe Abram (1982); i due battenti sono ripartiti in sei riquadri rappresentanti la storia di san Benedetto, tratti da "I Dialoghi" di san Gregorio Magno. Sono di Abram anche le formelle che ritraggono le scene della "Via  Crucis" lungo le pareti interne della navata. Sulla facciata si apre una monofora, mentre una serie di arcatelle segue gli spioventi del tetto e prosegue lungo le pareti laterali, la cui superficie è scandita da monofore e sottili lesene. A destra dell'abside si erge il campanile quadrangolare, un rifacimento del XVII secolo, la cui verticalità è rallentata da tre cornici marcapiani. Sui lati del campanile si susseguono con ritmo ascensionale e alterno loculi e feritoie fino alla cella campanaria che prende respiro da quattro fornici a tutto sesto.


 


Qualche considerazione anche sul chiostro. Realizzato intorno al 1242 in uno stile di passaggio tra il romanico e il gotico, è il punto di riferimento di tutto il complesso monastico. L'edilizia claustrale si ispira al peristilio della villa romana nell'intento di raccordare le parti dell'intero monastero. Nel periodo della riforma cluniacense nascono in Europa numerosi monasteri che ricalcano il  modello della casa madre Cluny. 
Il chiostro è il luogo del silenzio, non quanto alla rinuncia della comunicazione interpersonale, ma perché è attraverso il silenzio che è possibile il dialogo con Dio. La struttura quadrangolare del chiostro evoca la forza simbolica del numero quattro: i quattro elementi dell'universo, i quattro punti cardinali, il disprezzo di se, il disprezzo del mondo, l'amore del prossimo, l'amore di Dio. Al centro del chiostro la fonte e l'albero raffigurano la fonte delle delizie e l'albero della vita del paradiso terrestre. Sulle due lapidi del 1252 e del 1257 si legge che il chiostro di Piona fu fatto costruire dal priore Bonacorso de Canova di Gravedona. Gli archi a tutto sesto delle gallerie poggiano su capitelli compositi e sono marcati da ghiere in mattoni rossi. Di incredibile bellezza i capitelli decorati con motivi vegetali e figurati, oltre agli affreschi “Calendario con Santi” degli inizi del XIII secolo e “Miracolo di San Benedetto”, della fine del XII secolo.


 



La sala capitolare, posta sul lato orientale del chiostro, prende il nome dalla sua antica funzione di luogo di lettura del Capitolo della Regola e del Capitolo delle Colpe, nei quali i monaci si accusavano delle colpe commesse e chiedevano perdono ai fratelli.
Attualmente, in questa sala la comunità elegge, con votazione segreta, il superiore, discute i problemi più importanti, ammette postulanti al noviziato e alla vestizione dell'abito monastico e si riunisce per la lecito divina. L'aspetto attuale della sala è il risultato degli ultimi restauri.
Gli stalli e le spalliere in legno - di scuola veneziana del secolo XVIII - provengono dalla sagrestia di San Zeno a Verona. Lo stile classicheggiante, con colonne tortili e lesene sormontate da capitelli compositi, è arricchito da pannelli intarsiati. Particolare attenzione meritano il pannello raffigurante il sole che irradia luce sulla terra e i due pannelli con la cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre. 

Beniamino Colnaghi 

In merito al lago di Como, su questo blog sono anche presenti: