domenica 20 dicembre 2015

Verderio, la chiesetta di Sant’Ambrogio

Prima dell’edificazione nel 1902 dell’attuale parrocchiale, dedicata ai santi Giuseppe e Floriano, la chiesetta di Sant’Ambrogio, insieme alla vecchia chiesa poi sconsacrata, costituiva il patrimonio di fede religiosa di Verderio, ex Superiore.
L’area in cui è inserita è di rara bellezza, perché porta con sé ricche testimonianze di storia locale.
L’origine della chiesetta dedicata a sant’Ambrogio non è nota. Supportata da alcune ricerche storiche, si può tuttavia presumere che la prima costruzione di una cappella, sul luogo ove oggi si trova la chiesina, possa risalire ai tempi di Ariberto, discendente da famiglia professante legge longobarda, la quale aveva beni fondiari in territorio bergamasco, in Brianza e possedeva all'estremo limite della Martesana la corte di Antimiano (Intimiano) presso Cantù, donde prendeva nome.
Il 28 marzo 1018 Ariberto fu ordinato arcivescovo di Milano.

 
Anticamente la chiesetta venne utilizzata nei giorni festivi dalla Confraternita del Santissimo Sacramento per recitare l’Ufficio. L’edificio appartenne per lungo tempo al Patronato Arrigoni Confalonieri, che incaricò un cappellano affinché celebrasse la messa.
Nel 1729 si ottennero le autorizzazioni necessarie per ricavare il sepolcro fuori dai cancelli dell’altare della chiesina per seppellire don Arrigoni, il quale è ricordato da una lapide che così recita: “Qui giace Giovanni Maria Arrigoni che morì il giorno 7 settembre 1729 all’età di ottant’anni”.
 
Il 2 ottobre 1738, a seguito della riedificazione dell’edificio sacro, l’arcivescovo di Milano, Carlo Gaetano Stampa, conferì a don Giuseppe Pozzi, parroco di Merate e Vicario Foraneo, la facoltà di benedire la chiesetta (detta Oratorio Pubblico) sotto il titolo di sant’Ambrogio.
Nel 1825, per volontà delle famiglie aristocratiche del luogo, Confalonieri e Ruscone, venne costruito il nuovo altare mentre cinquant’anni più tardi, esattamente negli anni 1876 e 1878, la famiglia Gnecchi Ruscone, nuova proprietaria dell’immobile, finanziò un radicale restauro dell’interno della chiesina, fece costruire alcuni locali che adibì a sacrestia e tribune e ne dismise altri che divennero l’abitazione del cappellano. Nel 1953 venne rimosso il quadro di sant’Ambrogio per consentire la realizzazione di una nicchia sopra l’altare, nella quale venne collocata la statua della Madonna Pellegrina.
 
Nell’ultimo decennio sono stati compiuti alcuni interventi di restauro, manutenzione e conservazione dell’immobile, l’ultimo dei quali è terminato da poche settimane.   
  
Beniamino Colnaghi
 

venerdì 18 dicembre 2015

Gli Ebrei nelle terre orientali dell’Impero austro-ungarico

Il 23 luglio 2015 è stato postato un articolo dal titolo “Le terre orientali dell’Impero austro-ungarico”(1), che si è occupato, seppur per sommi capi, delle regioni orientali dell’Impero. Rispetto alla presenza di numerosi gruppi etnici e di una variegata composizione sociale di quelle società, il testo che segue intende analizzare ed approfondire la popolazione ebraica, componente importante e significativa presente in quelle terre. (bc)

Un mosaico genetico con decisivi apporti da antiche popolazioni originarie del Caucaso, europee e mediorientali: è quanto risulta da uno studio che ha ricostruito le origini degli ebrei dell'Europa orientale, le cui ascendenze sono ancora oggetto di dibattito. La ricerca, condotta da Eran Elhaik della Johns Hopkins University Bloomberg School of Public Health, e pubblicata sulla rivista Genome Biology and Evolution,  permette di fare un significativo passo avanti nella definizione della controversia fra le due ipotesi attualmente in campo, portando dati a favore di quella che sostiene un'ascendenza molto più complessa per gli ebrei dell'Europa orientale rispetto a quelli dell'Europa centrale. Secondo la cosiddetta “ipotesi renana”, infatti, gli ebrei europei discenderebbero da quelli che, nel VII secolo, lasciarono la Palestina in seguito alla conquista musulmana, per trasferirsi in Europa, in particolare nella Renania. Nel corso del XV secolo, circa 50.000 ebrei lasciarono poi questa regione per spostarsi verso est.
L'ipotesi alternativa è quella “cazara”, secondo la quale la fioritura demografica degli ebrei dell'Europa dell'Est avrebbe ricevuto un decisivo contributo dai Cazari, una confederazione di tribù di origine turca, iraniana e mongola che vivevano in quella che oggi è la Russia meridionale, e che fra il VII e il IX secolo si convertirono al giudaismo. In seguito al crollo dell'impero cazaro, arrivato ad estendersi dall'Ucraina fino al lago Aral, le popolazione cazare, amalgamatesi anche con armeni e georgiani, a partire dal XIII secolo si dispersero in tutta l'Europa orientale.

Uno dei primi provvedimenti in Europa di tutela della popolazione ebraica risale al 1233, quando l’imperatore del Sacro Romano Impero, Federico II di Svevia, concesse uno statuto agli ebrei viennesi.
A partire dal XVI secolo l'istituzione dei ghetti caratterizzò la vita di gran parte degli ebrei europei.
In Italia le segregazioni coatte degli appartenenti a un gruppo sociale iniziarono nel Cinquecento. In quel periodo nacquero i ghetti per gli ebrei: il primo fu creato a Venezia nel 1516, il secondo ad Ancona, il terzo a Roma e Bologna nel 1566, poi a Firenze, Verona, Mantova, Ferrara, Torino. 
Ritornando all’Europa orientale, verso la metà del 1500 l’unione polacco-lituana fu l’unico paese nella storia dell’Europa che riconobbe una sorta di autogoverno degli ebrei. Dopo la spartizione della Polonia gli ebrei si trovarono a vivere in altri Stati, tra cui la Prussia e la Russia e nell’Impero Asburgico. Nel 1781 l'imperatore Giuseppe II d’Asburgo emanò i "Decreti di tolleranza" che abolirono molte delle discriminazioni religiose nei confronti dei protestanti, degli ortodossi e degli ebrei ma non ristabilirono mai la precedente autonomia. Dopo la Rivoluzione francese, la nascita dei moderni stati nazionali favorì migliori condizioni di vita delle popolazioni e, nella maggioranza dei paesi, permise l'emancipazione civile degli ebrei.
Nei territori degli Asburgo, le regioni più densamente abitate dagli ebrei erano la Galizia, la Bucovina e la Transilvania. Consistenti insediamenti ebraici si trovavano anche in Boemia e Moravia. In Russia gli ebrei, fino al 1917, furono confinati nelle “Zone di insediamento”, territori annessi in seguito alla spartizione della Polonia.

 Ebrei a Vienna nei primi anni del Novecento

Negli ultimi decenni dell’Ottocento, con le profonde trasformazioni e modernizzazioni della società tedesca e austriaca, l’ebraismo europeo si divise in “occidentale” e “orientale” e si coniarono i termini, divenuti di uso corrente, Westjude e Ostjude. Gli ebrei dell’est, che già venivano criticati per il loro modo di vivere e di comportarsi, furono ulteriormente caratterizzati in termini negativi dagli stessi ebrei dell’Europa occidentale, in particolare dai tedeschi assimilati, i quali tesero a evidenziare la loro lontananza dagli ebrei osservanti dell’est. I profondi legami tra gli ebrei, la solidarietà e la condivisione dei valori tra essi cominciarono a venire meno a causa, appunto, del processo di emancipazione e modernizzazione che portò gli ebrei a conformarsi allo stile di vita delle società in cui vivevano. I due stili di vita cominciarono a confliggere e gli ebrei tedeschi iniziarono a disprezzare gli ebrei orientali.   
Ovunque, in Europa occidentale, l’ebreo dell’est, Ostjude, divenne un personaggio inquietante e da deridere. La necessità, per l’ebreo tedesco, di superare la diffidenza dei popoli occidentali nei suoi confronti, lo porta, per essere accettato, a esternare il disprezzo per il suo pari orientale, che incarnava tutti i tratti negativi tradizionalmente attribuiti agli ebrei.
Joseph Roth, scrittore e giornalista austriaco, testimone letterario d'eccezione della fine dell'Impero austro-ungarico, nato in Galizia, in una sua esemplare, quanto caustica intervista, affermò: “Quanto più occidentale è il luogo di nascita di un ebreo, tanti più sono gli ebrei che guarda dall’alto in basso. L’ebreo di Francoforte disprezza l’ebreo di Berlino, l’ebreo di Berlino disprezza l’ebreo di Vienna, e quello di Vienna disprezza l’ebreo di Varsavia. Poi vengono gli ebrei della Galizia, che tutti guardano dall’alto in basso; e di lì vengo io, l’ultimo di tutti gli ebrei”.  
 
Ebrei dei territori orientali dell'Impero Asburgico (Ostjude)
Nella seconda metà dell’Ottocento l’espressione Ostjude diventa il termine che viene usato per definire “l’ebreo del ghetto”. Per meglio precisare il concetto, con questa espressione non si intendeva chi stava fisicamente nel ghetto, ma si intendeva uno stato mentale perché chi stava nel ghetto era considerato uno straniero in Europa.
Karl Emil Franzos, nato in Galizia, fu uno scrittore ebreo liberale di lingua tedesca, le cui opere ebbero grande diffusione nell’Impero austro-ungarico e in Germania. Raggiunse il successo con numerosissimi romanzi e racconti che risultarono efficaci soprattutto nella colorita rievocazione del mondo ebraico dell'Europa orientale. Franzos descrisse le composite stirpi della vecchia Austria e la tragica odissea delle comunità israelitiche. In particolare scrisse sulla scialba esistenza delle piccole città della Podolia, nelle quali gli ebrei giungevano in autunno a Belz da tutta la Volinia e da tutta la Podolia per trascorrere le festività religiose nella vecchia sinagoga e sognare la lontana patria del Giordano. Compì una distinzione netta tra l’Europa, che era “avanzamento, umanità, cultura” e l’Asia, l’Est, ossia tutto ciò che invece era sordido, barbaro, selvaggio. Descrisse gli ebrei dell’est come arretrati, superstiziosi, miseri, mentre, secondo il suo parere, avrebbero dovuto riscattarsi abbandonando lo yiddish e le loro tradizioni secolari, assimilandosi alla cultura tedesca.  
Per nulla d’accordo con questi concetti era un gruppo di intellettuali che ritenne, invece, fosse da rivalutare la specificità della cultura ebraica orientale perché depositaria dei valori unitari del popolo ebraico, come la lingua, lo yiddish, la mistica, il chassidismo, la letteratura e la musica.   
Il chassidismo, la letteratura, la lingua yiddish, le tradizioni ebraiche furono considerate da questo movimento di rinascita come il vero nucleo dell’anima ebraica. Martin Buber, appartenente a quel movimento, scrisse che “le masse ebraiche di lingua yiddish che vivevano nei villaggi dell’Europa orientale erano la dimostrazione che gli ebrei non erano soltanto, come gli ebrei occidentali, una somma di individui sradicati… Essi erano anche popolo, e popolo allo stesso titolo dei tedeschi, perché, come i tedeschi, avevano una tradizione, una lingua e una letteratura popolari…”. Kafka, lo scrittore ebreo praghese, non fu tuttavia d’accordo con Buber, perché non considerò mai lo yiddish una lingua ma un gergo, un dialetto popolare.
 
 Il vecchio cimitero ebraico di Praga

Il rapporto tra comunità e lingua ebbe una grande importanza nel classificare quelle aree centro-orientali. A cavallo tra Ottocento e Novecento, in quello spazio, il tedesco, seppur non si sostituì alle lingue nazionali, ma convisse con esse, era parlato da grandi fette di popolazioni, ben oltre i confini dello stesso impero asburgico e della Germania. Il tedesco costituiva la lingua colta, parlata da scrittori e intellettuali e praticata in molte comunità ebraiche. Il tragico amore per la lingua tedesca unirà molti scrittori ebrei, anche nei ghetti, prima, e nei lager nazisti, poi. Per quegli scrittori il tedesco era la lingua della patria, della casa, dell’identità, in quanto legame con la propria comunità.
Nella maggior parte delle città della Mitteleuropa, da Praga a Vienna fino a Budapest, avviene il processo di abbandono dell’ebraismo tradizionale e dello yiddish, che si spostano sempre più ad est. La comunità ebraica di Praga si assimila alla comunità tedesca, soprattutto nella lingua e nei costumi.
I centri della cultura tradizionale ebraica divennero, dunque, gli insediamenti ebraici dell’Europa orientale, i piccoli villaggi, abitati da povere persone che vivevano nella miseria e nella sporcizia. Le comunità di quei luoghi erano comunità autonome dalle solide basi, che possedevano proprie concezioni di valori, proprie tradizioni e leggi che si discostavano molto dalle realtà occidentali.
 
 
Golcuv Jenikov (Rep. Ceca). Il ghetto ebraico in una foto del 1914 e il cimitero ebraico oggi
La grave crisi che colpì l’Europa tra le due guerre mondiali costrinse molti ebrei di quei territori orientali ad emigrare o a spostarsi nelle grandi città. La Shoa perpetrata dai nazisti, che sterminò la gran parte degli ebrei, e le epurazioni staliniane cancellarono gran parte di quella cultura. I sopravvissuti lasciarono la Mitteleuropa e migrarono verso gli Stati Uniti, la Palestina prima e Israele poi. Lo sterminio degli ebrei cancellò quel mondo.
Yitzhak Katzenelson, ebreo, dapprima nascosto nel ghetto di Varsavia e poi fuggito in un paesino in Francia, scrisse Il canto, monumento funebre agli ebrei d’Europa. Venne individuato e trasferito ad Auschwitz, dove troverà la morte. Terminata la guerra il suo manoscritto fu pubblicato: “Ahimè, non c’è più nessuno… c’era un popolo, ora non c’è più… c’era un popolo… e ora è scomparso!”
La fine della Seconda guerra mondiale segnò così un duplice tramonto: quello delle culture degli Ostjuden(2) e dei Volksdeutscher(3). Il duplice tramonto, ossia lo sterminio degli ebrei e la pulizia etnica dei tedeschi dall’Europa centro-orientale. Mentre la Seconda guerra mondiale stava terminando e soprattutto dopo la sua cessazione, ad essere vittime furono le popolazioni germanofone dell’Europa centro-orientale. Non si trattò pressoché di nazisti, ma indiscriminatamente vennero colpiti tutti i Volksdeutsche, popolazioni germanofone che si erano insediate in quei territori da secoli, a partire dalla colonizzazione della parte orientale dell’Europa, attuata dai popoli germanici: una grande migrazione, nel corso della quale i tedeschi fondarono insediamenti nelle regioni meno popolate dell’Europa centro-orientale e orientale. Nel 1945, e nell’immediato dopoguerra, saranno vittime di espulsioni, trasferimenti forzati, deportazioni accompagnate da ogni sorta di brutalità, dovute ad un forte risentimento anti-tedesco, soprattutto nelle regioni che furono occupate militarmente dalle forze naziste durante la guerra.

Beniamino Colnaghi

Bibliografia, sitografia e note

Attilio Milano, Storia degli ebrei in Italia, Torino, Einaudi, 1992.
Robert S. Wistrich, Gli ebrei di Vienna, Milano, Rizzoli, 1994.
M. Barbagli, M. Pisati, Dentro e fuori le mura, Bologna, Società editrice il Mulino, 2012.
Massimo Libardi, Fernando Orlandi, Mitteleuropa, mito, letteratura, filosofia, Silvy Edizioni, 2011.
Giuliano Baioni, Kafka, letteratura ed ebraismo, Torino, Einaudi, 1984.
Yitzhak Katzenelson, Il canto del popolo ebraico massacrato, Firenze, Giuntina, 1998.

Il ghetto di Golcuv Jenikov: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.cz/2012_03_01_archive.html
Wikipedia enciclopedia libera: http://it.wikipedia.org/wiki/Storia_degli_ebrei_in_Europa
Wikipedia enciclopedia libera: http://it.wikipedia.org/wiki/Impero_austro-ungarico

(2) Ostjuden, ebreo dell’Europa centro-orientale.
(3) Volksdeutsche è una parola tedesca che significa "cittadino di etnia tedesca". Il termine venne usato nei primi decenni del Novecento per indicare i cittadini di etnia germanica che vivevano al di fuori del Reich. Volksdeutsch indica quindi i tedeschi etnici fuori dalla Germania ma senza la nazionalità tedesca, mentre la parola Reichsdeutsch indica i tedeschi etnici con nazionalità e cittadinanza tedesca.
 
 

martedì 8 dicembre 2015

Voci, gesti, culture dell’alimentazione

Sala Leydi del Museo Etnografico dell’Alta Brianza - Galbiate (Lecco) 
   
Domenica 13 dicembre 2015  alle ore 15

Inaugurazione della mostra Il maiale buono. Testimonianze di una tradizione cambiata  



Interventi di Giorgio Agostoni, titolare di salumificio, Eliseo Brioni, norcino e macellaio, Massimo Pirovano, direttore del Museo Etnografico (MEAB). 
La mostra parla del maiale e del lavoro che ne fa un alimento, ma anche della relatività delle culture umane, con i loro giudizi sugli animali e sugli uomini: le caratteristiche attribuite al porco, infatti, lo fanno “pericoloso” o “prezioso”, a seconda dei contesti ambientali e sociali 

La mostra resterà aperta dal 13 dicembre 2015 al 3 aprile 2016

Info:  http://meabparcobarro.weebly.com/  -  MEAB tel. 0341.240193 Parco tel. 0341.542266  

martedì 1 dicembre 2015

Verderio, la Madonna dell'aiuto

Da alcune settimane a Verderio (Lecco) è in corso una raccolta firme tra i cittadini al fine di sensibilizzare l'Amministrazione comunale e tutta la comunità locale sulla necessità di restaurare e recuperare l'immagine della Madonna dell'aiuto, deteriorata dal tempo e dalle intemperie.
I promotori dell'iniziativa, a cui va il plauso e la riconoscenza dei verderiesi, intendono affidarsi a degli esperti per capire innanzitutto il livello del degrado del manufatto e successivamente individuare le migliori tecniche di intervento del restauro. Inoltre, e non da ultimo, i promotori cercheranno di sapere preventivamente i costi degli interventi e individuare le fonti di finanziamento.
 
Verderio Superiore. La Madonna dell'aiuto in una foto degli anni Quaranta del Novecento, posta sull'angolo tra le vie Fontanile e Principale. Nella foto il titolare e alcuni avventori dell'osteria Fiuranèll (la foto è tratta dal libro Quand sérum bagaj di Giulio Oggioni)
 
L'affresco originale della Madonna dell'aiuto è opera del pittore milanese Achille Dovera, nato nel capoluogo lombardo il 7 aprile 1838. Studiò, tra gli altri, con Francesco Hayez all'Accademia di Brera. Intraprese diversi viaggi di studio in Francia, ed espose a Milano, Torino e Venezia. Alla Galleria d'Arte Moderna di Milano sono conservati alcuni suoi quadri.
Dovera arrivò a Verderio nel 1889 su espressa richiesta della famiglia Gnecchi Ruscone, la quale chiese al pittore di affrescare alcuni locali all'interno della villa padronale. Durante la sua permanenza a Verderio, pare che il Dovera frequentasse l'osteria detta Fiuranèll, gestita dalla famiglia Sala. Non è dato sapere chi commissionò l'affresco della Madonna, ma sta di fatto che il pittore milanese realizzò l'opera direttamente sull'intonaco civile dell'edificio che ospitava l'osteria.  
Dopo alcuni decenni l'intonacò cominciò a sgretolarsi e si persero alcune tracce originali dell'immagine. Negli ultimi trent'anni sono stati effettuati alcuni interventi di restauro che però non hanno prodotto risultati  soddisfacenti. Da qui l'intento dei promotori di intervenire nuovamente sul manufatto originale mediante nuove tecniche e applicazioni più idonee e affidabili.    
 
Storie e leggende del rock: Led Zeppelin

Sapevamo che ciò che stavamo creando sarebbe rimasto.   
Per questo non facevamo singoli ma solo il lavoro completo.
Cercavamo qualcosa di mai sentito prima, e credo che lo abbiamo trovato.
Jimmy Page, chitarrista dei Led Zeppelin

John Bonham era il batterista dei Led Zeppelin, noto negli ambienti musicali col soprannome Bonzo. Ancora oggi viene considerato uno dei più grandi batteristi della storia della musica rock. Il 24 settembre 1980 un assistente dei Led Zeppelin passò a prendere John a casa sua per accompagnarlo ai Bray Studios, dove il gruppo stava preparando il tour americano. Durante il percorso chiese di fermarsi al primo bar. Non ordinò la colazione ma si bevve, in pochi minuti, quattro bicchieri di vodka, quadrupli, si disse. Continuò a bere anche durante le prove. La sera stessa, Jimmy Page, il chitarrista della band, diede una festa nella sua nuova villa a Windsor. L’alcool scorse a fiumi, oltre a tutto il resto. Bonham, completamente ubriaco, si addormentò sul divano. Un collaboratore dei Led Zeppelin se lo caricò sulle spalle e lo portò in una camera da letto al piano superiore. Il giorno dopo, a pomeriggio inoltrato, lo trovarono morto nel letto, soffocato dal suo vomito. Dopo la morte di Bonham, gli altri tre componenti del gruppo presero la decisione di interrompere l'attività artistica con il nome di Led Zeppelin. Il 4 dicembre 1980 (quattro giorni prima dell’assassinio di John Lennon) comunicarono così la loro decisione:
«Desideriamo rendere noto che la perdita del nostro caro amico e il profondo senso di rispetto che nutriamo verso la sua famiglia ci hanno portato a decidere – in piena armonia tra noi ed il nostro manager – che non possiamo più continuare come eravamo.»
 
 
Chi erano i Led Zeppelin? Quali furono le loro origini? In quale contesto nacquero?
Facciamo qualche passo indietro e ritorniamo al mitico 1968.
Tutto nasce da un'idea del chitarrista Jimmy Page. Dopo una lunga gavetta come session-man di artisti del calibro di Who, Joe Cocker e Nico, Page approda agli Yardbirds, storica formazione inglese che in precedenza aveva ospitato nomi come Eric Clapton e Jeff Beck. Sfornato l'ultimo singolo, nei primi mesi del 1968, il gruppo si scioglie. Per obblighi contrattuali Page rifonda il gruppo, sotto il nome di New Yardbirds. Il primo a essere reclutato è il suo amico John Paul Jones (al secolo James Baldwin), bassista/tastierista e anch'esso ricercato session-man. Sfumato il tentativo di reclutare il cantante/chitarrista Teddy Reid e il batterista dei Procol Harum, B.J. Wilson, Page, dopo aver assistito a un concerto degli sconosciuti Hobbstweedle, ingaggia il biondo cantante del gruppo, Robert Plant, dalla potentissima voce di stampo rock-blues. Dirà di lui Page: "Il solo ascoltarlo mi faceva sentire nervoso. A distanza di anni, accade ancora: il suo canto è una sorta di gemito primordiale". Su suggerimento di Plant, viene infine contattato il batterista John Bonham, dal drumming personale e potente, reso ancora più rumoroso dall'uso di foderare i rullanti e i tom di carta stagnola.
 
Soffermandoci ancora un attimo sugli Yardbirds, Jimmy Page influenzò e venne influenzato dagli altri membri della band inglese. Portatori sani del British blues, suonarono in tour con la più grande armonica a bocca della storia della musica, la leggenda Sonny Boy Williamson, dal quale pubblicarono un omonimo album, Sonny Boy Williamson and the Yardbirds. Insieme ai Beatles, agli Who ed ai Rolling Stones sono senza dubbio i protagonisti della British Invasion e di tutto quello che ne conseguirà, ma la caratteristica e la peculiarità dei Yardbirds sta nelle persone e soprattutto nelle personalità artistiche che componevano la band. Si perché non c`è stata nessuna altra band nella storia della musica che una volta scioltasi ha creato, con i nuovi percorsi dei componenti, dei solchi profondi come il letto del Nilo, in quanto seppur succedendosi, militarono rispettivamente: Eric Clapton, al basso Paul Samwell-Smith, sostituito da un certo Jimmy Page, che poi diventa la chitarra ritmica accanto a quella solistica di Jeff Beck, e tutti e quattro rispettivamente ed in modi diversi, dopo l`esperienza con gli Yardbirds, cambiarono per sempre il mondo della musica. Gli Yardbirds si sciolgono, come accennato, nel 68, anche se già in crisi dalla metà del 67 per via di questo concentramento di personalità troppo forti e artisti troppo virtuosi per stare tutti assieme nella stessa band.
Così un giovane Jimmy Page, che si era fatto le ossa accanto a due “mostri sacri” come Clapton e Beck, che avevano introdotto nella scena inglese nuove tecniche chitarristiche quali la distorsione, il feedback e il fuzz tone, decide di coinvolgere una serie di musicisti e sviluppare delle idee che aveva riguardo l`interpretazione di alcuni tipi di hard rock. Così dopo una tournée e lo scioglimento dei Yardbirds, nascono inizialmente i New Yardbirds, in modo da terminare degli impegni contrattuali, così Page autorizzato proprio da Relf a utilizzare il nome, accetta la proposta spontanea di un bassista di nome Jones Paul Jones a collaborare con loro, avendo saputo del probabile scioglimento e comunque della girandola di sostituzioni che vi era stata.
Per la voce aveva pensato a Terry Reid, che nella sua vita si permise di rifiutare due inviti ad essere la voce della band, infatti oltre a Page, disse di no anche alla proposta fattagli qualche tempo più tardi da Ritchie Blackmore a divenire il cantante dei Deep Purple.  Il quale però, pur permettendosi il lusso di dire questi due no storici e intraprendere una carriera da solista, suggerisce a Page un cantante di Birmingham, un certo Robert Plant. Con John Bonham alla batteria, nel 1969 cambiano il nome e nascono a Londra i Led Zeppelin, e da quel momento nel rock cambierà qualcosa per sempre.
 
 
Sono indiscutibilmente i padri dell’heavy metal, che appare concettualmente alla fine di un percorso di potenziamento tecnico e tecnologico ed altro non è che l'evoluzione del proto metal, dell'acid rock, dell’hard rock e del rock and blues. L’heavy metal ha ispirato tutta quella branca del rock che diventerà successivamente: speed metal, thrash metal, power metal, black metal, death metal e il doom metal, da cui nacquero, col tempo, una schiera di ulteriori sottogeneri. Hanno ispirato direttamente i Deep Purple e i Black Sabbath di Ozzy Osbourne, ma soprattutto hanno regalato oltre vari tipi di rock che spaziava da quello psichedelico al progressivo, sempre zeppo di quella giusta acidità, una mescolanza unica di sound, avendo affondato da sempre le radici nel blues e nel rockabilly, nel folk e nel rhythm and blues. I primi tre album che si intitolano tutti in maniera omonima e numerata progressivamente (anche il quarto) sono una prodezza musicale di rara bellezza che affondano le radici ancora nel british blues, ma che cominciano anche a saggiare l`audacia del duo Page-Jones, con riff molto aggressivi come in Whole Lotta Love, e segnano un passaggio fondamentale nel cavallo dei Settanta, mescolando riff di bluesman come Willie Dixon e Howlin’ Wolf, rivisti in chiave hard rock con chitarre e bassi distorti. Come un crescendo aumentano l`heavy mentre i sound si intrecciano accarezzandosi e quasi rincorrendosi anche, anzi soprattutto, nella stessa traccia. Poi nel 1975 arriva Physical Graffiti, album doppio, che è un capolavoro assoluto della storia della musica, un diamante sudafricano, al numero 73 dei migliori 500 album della storia secondo Rolling Stone, include capolavori come Kashmir o Houses of the Holy dove la loro acidità trova il perfetto sodalizio con la morbidezza di una chitarra di Page in piena maturità. 
L`album del 1971, Led Zeppelin IV, pare fosse senza titolo e che il progressivo sia stato attribuito ufficiosamente per proseguire la trilogia precedente, il più bello dei primi quattro numerati cronologicamente, il primo della maturità, che include brani hard rock come Black Dog o Rock and Roll, oppure ancora dal sapore mistico-folk come The Battle of Evermore che rievoca una battaglia vichinga, con tanto di guerrieri e cavalcate nelle praterie. Ma senza ombra di dubbio è una la canzone di questo album che vive nell`immaginario di tanti ed è invece impressa a fuoco nell`anima di tutti gli amanti della musica, Stairway to Heaven, che è considerata, insieme a Bohemian Rhapsody dei Queen, la più bella canzone della storia del rock.
 
 
I Led Zeppelin passeranno quindi alla storia per un singolare primato, difficilmente eguagliabile: contribuire in modo massiccio all'evoluzione della musica rock non inventandosi quasi nulla, ma, anzi, attingendo a piene mani dal repertorio blues e rock-blues degli anni '50 e '60 prima, e dal folk e dalla musica orientale poi. Eppure, il loro è un sound completamente fresco e quasi "rivoluzionario", che lascerà segni indelebili nel futuro del rock'n'roll. Ed è proprio questa la grandezza degli Zeppelin, che sono stati capaci di giungere laddove altri gruppi britannici prima di loro avevano solo tentato di arrivare (come gli Yardbirds - in cui militò Page stesso - i Cream, il Jeff Beck Group - con cui collaborò John Paul Jones).
I Led Zeppelin hanno saputo creare un suono unico, fondamentale, semplicemente vestendo con panni nuovi una musica che ormai cominciava a diventare vecchia. Una rivoluzione formale, basata in gran parte sul sound, talmente massiccia, però, da travolgere anche la sostanza, tanto da dare il la a buona parte dell'hard-rock sviluppatosi negli anni a venire, fino ad arrivare ai giorni nostri, nei quali è ancora ben visibile lo spettro del dirigibile su molte band. 
Ma non c'è solo l'immortalità delle canzoni dietro il mito dei Led Zeppelin. Page e soci, infatti, possono vantare una serie di piccole rivoluzioni che hanno cambiato la storia della musica. Furono i primi a raggiungere un successo di massa senza dipendere dalla programmazione radiofonica. Fino ad allora, radio e televisione erano state dominate dalle hit parade, e quindi dal 45 giri. I Led Zeppelin sfondarono senza mai entrare in quelle classifiche. Nemmeno il loro più grande pezzo, Stairway To Heaven, divenne mai un singolo. E anche la laconicità con cui intitolarono i primi album (alcuni privi persino del loro nome in copertina) segnò una rottura con la tradizione, che voleva i titoli dei dischi funzionali al marketing della band.
Più ancora degli hit, ad attrarre moltitudini di fan furono le loro esibizioni dal vivo. Esibizioni che, sull'onda emotiva di Woodstock, riportavano il rock alla sua dimensione più selvaggia e genuina. I concerti dei Led Zeppelin erano pervasi da un'energia feroce, da una fantasia allucinata, da un furore quasi mistico. Erano baccanali assordanti e melodie folk, deliqui blues e sciabolate elettriche: un'orgia sonora dominata dai virtuosismi iper-veloci di Jimmy Page e dal canto stridulo e possente di Robert Plant. Il film "The Song Remains The Same" ne resterà la testimonianza più celebre.
 
Beniamino Colnaghi
 
Relativamente al rock e a gruppi musicali, su questo sito sono anche presenti:
 
 
 
 
 
 
 
 

domenica 15 novembre 2015

Memorie di Lombardia: a Milano i murön fan l'üga”

Nonno Defendente era sveglio da almeno due ore. Tutte le sante mattine si svegliava alle quattro per mungere e regolare le mucche. La stalla e il campo vicino alla roggia “Molino nero” erano tutta la sua vita. Rimase vedovo presto. Sua moglie Francesca, Ceca, morì durante il parto del suo quinto figlio, avvenuto in una gelida notte di gennaio. Volle chiamarlo Benedetto, il figlio, “ricco di benedizioni divine”.  
Defendente uscì dalla stalla verso le sei e si diresse col secchio del latte nella sua umile dimora. Umile, ma pulita e dignitosa. Quando all’età di 40 anni rimase vedovo, non volle l’aiuto di nessuno: né di sua sorella maggiore, Clara, nubile per scelta, né delle vicine di casa che, a suo dire, avrebbero poi spettegolato nelle botteghe del paese sui suoi modi di condurre la casa ed educare i figli. Nulla di illegale né di riprovevole, si intende. Ma quella fedina penale macchiata dalla partecipazione alle proteste popolari nel 1919, caratterizzate dalle lotte operaie e contadine contro i padroni e i latifondisti, lo “marchiò” per lunghi anni. Si sa, queste cose fanno male, soprattutto in un momento storico contraddistinto da pesanti scontri ideologici e odiose discriminazioni. Il padrone lo cacciò di casa. Era una sua facoltà contrattuale, che esercitò immediatamente.
A quel punto, Defendente, già sposato e padre di un figlio maschio, dovette caricare “armi e bagagli” su un carro prestatogli da suo padre e trasferirsi in una piccola cascina della Bassa lombarda. Zona malsana: in estate afa e zanzare lunghe un dito, durante i mesi invernali nebbia fitta che “si tagliava con il coltello”. Ma Defendente era uno tosto, un combattente nato. Cominciò a lavorare alacremente ed a sfornare figli a ripetizione: cinque in quattordici anni.

Una cascina lombarda

Fu uno dei primi a meccanizzare il lavoro dei campi. Comprò un trattore usato Landini e alcune macchine agricole che gli permisero di ampliare le attività e ridurre i tempi. Crebbe i suoi cinque figli con dignità e con la forza del lavoro. Insegnò loro ad essere onesti, ad avere sempre la “schiena dritta” e non scendere mai a compromessi.
Nella sua vita andò poco in chiesa; partecipava alle funzioni religiose solo quando si rendeva strettamente necessario. Non era ateo, ma la sua fede si fermava spesso sul gradino del portone della chiesa. Però fece battezzare tutti i suoi figli e, diventati maggiorenni, lasciò loro ampia libertà sull’impostazione religiosa della loro vita.

Quando Defendente entrò in casa, il suo volto scavato e rugoso, dai tratti severi per sopracciglia folte e ormai bianche, molto simili a embrici sporgenti, si distese improvvisamente.
Carletto, Carletto, forza, scendi, la colazione è quasi pronta!”, disse mamma Ambrogia, trafelata e ansimante. Carletto, Carlo all’anagrafe, era nipote di nonno Defendente, figlio del suo primogenito. Come avveniva normalmente nelle società contadine, il figlio primogenito, dopo aver contratto matrimonio, rimaneva con la sua nuova famiglia nella casa dei genitori. Ci si arrangiava come si poteva, normalmente alzando una nuova parete, stramezza, nella grande camera da letto dei genitori.
L’onore di scegliere il nome del bambino venne affidato al nonno paterno, il quale non ci pensò su due volte: “Si chiamerà Carlo, come mio padre e come Marx”.
L’uso di chiamare i neonati con il nome dei loro avi e quello di riproporre il nome degli anziani nei neonati, nelle culture contadine s’inquadra in una particolare disciplina nominale che ha diverse valenze di tipo etno-antropologico, le quali si possono riassumere nel desiderio di onorare il capostipite, trasferire col nome anche il carattere della persona donante e la convinzione di trasferire l’anima del donante e con essa la vita.

Carlo era già sveglio da un pezzo. Era troppo agitato ed eccitato dalla novità. Si era girato e rigirato nel letto e, nei brevi intervalli di sonno, aveva sognato le guglie del Duomo di Milano, che vide per la prima volta in una foto sul libro di geografia. Quattordici anni appena compiuti, sarebbe partito da casa senza essere accompagnato dai genitori. E’ vero, tre anni prima partecipò ad una colonia estiva a Rimini, organizzata dall’oratorio locale, ma non si trovò a suo agio. Gli mancarono, seppur per il breve periodo del soggiorno, i suoi genitori e, soprattutto, sentì la mancanza del nonno, il suo vero punto di riferimento. Suo padre e sua madre lo iscrissero alla colonia perché nel mese di giugno di quell’anno ebbero la loro secondogenita.   

Carletto, scendi, farai tardi, la corriera non ti aspetterà”. Nella cucina del piano inferiore la colazione era già servita sul grande tavolo di ciliegio massello. Il tavolo venne costruito dal falegname del paese, un certo Ugeni, Eugenio, che sapeva usare la pialla e lo scalpello come pochi altri. Il materiale grezzo fu invece fornito dallo stesso Defendente, il quale fu costretto a tagliare un vecchio ciliegio malato, messo a dimora da suo nonno nella cascina che lo vide nascere. Suo nonno, secondo una storia raccontatagli da suo padre, fu un fervente garibaldino e, per salutare l’Unità d’Italia, piantò due ciliegi ai lati del portone d’ingresso della cascina.
Quando Carlo cominciò a divorare la colazione, sua madre si affacciò alla finestra e vide le prime foglie cadere dagli alberi. “Oh, Signor, vardée, comincia l’autün”, disse. 
Il ragazzo non si alzò dalla sedia finché non ebbe finito di inzuppare il pane imburrato nel latte. Sulla stufa di ghisa sfrigolava dell’altro latte per la colazione del nonno, che finì col traboccare sugli anelli roventi, sollevando uno strepito di bollicine crepitanti in una nuvoletta di fumo acre.

La corriera dei pendolari era pronta sulla piazza del Municipio. Mancavano dieci minuti alle sei e mezza, ma il motore era già acceso, provocando una fastidiosa e maleodorante nuvoletta nera. Gli operai arrivavano alla spicciolata, qualcuno con l’ombrello aperto, per via di una leggera pioggerellina autunnale. Tutti avevano in mano una borsa di cuoio o una sporta dentro le quali era ben riposta la gavetta, schiscéta, il contenitore a più scomparti per portarsi sul luogo di lavoro il cibo già cotto a casa. Dalle vicine stalle, oltre l’inconfondibile odore di sterco, provenivano i muggiti delle mucche e le bonarie lamentele dei contadini. I giovani operai ormai non ci badavano più, perché erano tutti di estrazione contadina e sapevano bene quanto fosse dura quella vita. Le promesse di una vita migliore e le speranze di elevare la condizione economica e sociale, rispetto a quella dei loro padri, li avevano spinti a chiudersi in fabbrica dieci ore al giorno. Ma era ancora sangue contadino a scorrere nelle loro vene ed era l’odore acre della terra che filtrava nelle loro narici.  

La schiscéta
 
Carlo arrivò accompagnato dalla mamma e da un loro vicino di casa, che prendeva la corriera per Milano tutti i giorni, compreso il sabato. In quegli anni la ricostruzione del Paese imponeva duri sacrifici e chiedeva il massimo impegno da parte delle classi sociali meno abbienti, quelle che avrebbero voluto riscattarsi dopo secoli di subalternità.
Qualche operaio più anziano si lasciò andare a qualche battuta scherzosa, tanto per far sentire a proprio agio il ragazzo.  
“Ue, Carletto, che buon profumino che esce dalla tua borsa, la mamma ti ha preparato un buon pranzetto, neh?”. “Devi mangiare, ragazzo, la vita del pendolare è faticosa”.
La corriera alle 6.30 in punto partì scoppiettando dalla piazza. Percorse poche decine di metri, Carlo voltò la testa indietro, cercando il volto di sua madre. La vide che si stava unendo ad un gruppetto di donne vestite di nero, appena uscite dalla chiesa. Il campanile rintoccava le ore, l’osteria “Lisander” stava alzando la clèr, la saracinesca, il lattaio caricava i contenitori del latte sul calesse, il garzone del prestinèe, sulla bicicletta nera con due grandi cesti di vimini, stava consegnando il pane: scene di vita quotidiana in un piccolo borgo contadino.
Il cielo grigio e uggioso fece improvvisamente sparire ogni traccia del paese. La campagna si aprì, facendo intravedere i lunghi filari di gelsi che cingevano i campi addormentati e i pioppeti che fiancheggiavano il fiume. Sulla corriera la compagnia si animò: l’autista cominciò a cantare motivetti allegri e spensierati, alcuni operai iniziarono a giocare a briscola, altri ascoltavano la piccola radio a transistor appoggiata all’orecchio per non disturbare.
A mano a mano che la corriera lasciava alle sue spalle i piccoli paesi che si affacciavano sul “grande stradone” e incontrava le prime case dei quartieri periferici della metropoli, Carlo si “caricò” di curiosità. Osservò ogni palazzo, scrutò in ogni negozio, si meravigliò della frenesia con la quale si muoveva la gente della città. Fantasticò sulle grandezze e le meraviglie di Milano.

Il Duomo di Milano

Un’ora dopo la partenza la corriera scaricò gli operai in un grande parcheggio adiacente il piazzale intitolato a Luigi Emanuele Corvetto, giurista e politico ligure. Gli operai si divisero. Erano parecchie le fabbriche che avevano sede in zona. Carlo, con altri sette operai, si diresse verso Corso Lodi ove aveva sede una nota azienda metalmeccanica. Una folata di vento obbligò il gruppetto ad alzare il bavero dei giacconi e stringersi nelle spalle. Sul breve percorso, due vecchi milanesi in bicicletta, avvolti nel tipico tabarro nero, alzarono gli occhi verso gli operai e urlarono: “Ocio, operai, proletari campagnoli, a Milan i murön fan l'üga, a Milano i gelsi fanno l'uva, ossia a Milano ogni cosa è possibile, tutto può essere realizzato.      
Gli operai, abituati alle battute dei vecchi milanesi, si misero a ridere. Anche Carlo rise, per non essere di meno, anche se non ne comprese bene il senso. Strinse la borsa sotto il braccio destro e salutò gli altri lavoratori, con educazione e rispetto, i quali proseguirono ancora per un centinaio di metri prima di timbrare il cartellino nella loro fabbrica.
Carlo era arrivato. Ad attenderlo c’era il custode, che lo invitò a salire al 5° piano, presso l’ufficio del personale. Durante la salita in ascensore tutto gli parve bello ed entusiasmante. Pensò a nonno Defendente ed alla carezza che il vecchio gli diede quella mattina prima di uscire di casa.
I suoi occhi brillarono di emozione e di gioia, incastonati su un viso fiorito di colori campagnoli.    

Beniamino Colnaghi

martedì 3 novembre 2015

Morti di fame: voci dalla Grande guerra
 
Domenica 8 novembre 2015 alle ore 15.00  
  Sala Leydi del Museo Etnografico dell’Alta Brianza di Galbiate

Immagine
 

Rosalba Negri, Massimo Pirovano e il Gruppo “Leggere per gioco, leggere per amore”

Nel centenario dell’entrata in guerra dell’Italia nel conflitto che è costato 600.000 morti solo al nostro Paese, si presentano testimonianze, lette e cantate, sulla Grande guerra, per ricordare che la vita quotidiana della ‘gente comune’, di cui si occupano i musei etnografici, viene sconvolta dall’irruzione della ‘grande storia’ con le sue decisioni e le sue tragedie.

Info:  MEAB tel. 0341.240193 - http://meab.parcobarro.it/ 
 

domenica 1 novembre 2015

Pier Paolo Pasolini
 
"Si applaudono soltanto i luoghi comuni, mentre sarebbe il caso di coltivare l'atrocità del dubbio"
 
Pier Paolo Pasolini (5 marzo 1922 - 2 novembre 1975)
 
Di Pasolini e su Pasolini ho letto molto. È lo scrittore che più di ogni altro mi ha trasmesso l'interesse e la passione per la letteratura e la memoria. Ho iniziato a leggerlo solo dopo la sua morte. Forse perché il suo assassinio, perpetrato in una terra desolata quale era Ostia a metà degli anni Settanta, creò scalpore, fomentò polemiche, disvelò ai più la cruda realtà delle borgate romane e del sottoproletariato giovanile. Ma quando iniziai a leggerlo, mi si aprì un mondo, una prospettiva. Non potei rimanere indifferente di fronte al suo stile letterario, alla forza di provocazione, alle sue denunce di una società in profonda trasformazione, alla poetica che privilegiava, lui borghese, il rapporto con la realtà più difficile, con il popolo, con gli ultimi. Ciò che Pasolini scrive e filma di quel mondo non ha nulla a che vedere con lo sviluppo e con il boom economico, imperniati sull'omologazione e sulla dittatura dei consumi. Lui lo può fare perché, a differenza della maggior parte degli intellettuali e degli scrittori del tempo, conduce la vita dei suoi simili, parla la loro stessa lingua, frequenta quotidianamente il popolo. Per definire la deriva che stava avvenendo coniò il concetto forte di "genocidio culturale". E difatti, quel mondo e quei suoi personaggi oggi sono stati spazzati via dalla "modernità", dalla storia.
Ebbe decine e decine di querele, denunce, processi per reati che andavano dalla diffamazione a mezzo stampa al vilipendio della religione all'oltraggio al pudore. Non volevano che scrivesse, che si esprimesse, che denunciasse il malaffare, il perbenismo borghese, il moralismo bigotto, le trame occulte e eversive. Venne segnalato all'Italietta del tempo come un artista pericoloso, da evitare. Lo hanno censurato, perseguitato, hanno cercato di fermarlo in ogni modo. E, il 2 novembre 1975, ci sono riusciti.
Non ha lasciato eredi, almeno a me pare, ma di lui abbiamo un'opera letteraria vastissima: scritti di tutti i generi, poesie, romanzi, sceneggiature, film, interventi critici, articoli, saggi.
Da quarant'anni, però, ossia da quando è stato assassinato, ci manca la sua passione viscerale, la sua coscienza critica, la scandalosa irrequietezza, l'analisi lucida e penetrante, il suo orgoglio intellettuale, il suo sguardo profondo sul mondo, il suo immenso talento.
Insomma, ci manca Pasolini.
 
 
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mercoledì 14 ottobre 2015

Pausa pranzo. Cibo e lavoro nell’Italia delle fabbriche.
 
La mostra fotografica si terrà presso la Fondazione Isec, Villa Mylius, Largo La Marmora 17 a Sesto San Giovanni (MI)
 
Mensa operaia della Breda, Sesto San Giovanni, 1920-1930 (fonte www.fondazioneisec.it)
 
La pausa pranzo ha rappresentato uno snodo importante delle politiche di welfare aziendale, in dinamica tensione tra vecchie forme di paternalismo, rivendicazione di migliori condizioni di vita in fabbrica, coscienza di una nuova responsabilità sociale dell’impresa verso tutti i soggetti che ne fanno parte. Un aspetto importante ma ancora poco indagato della vita quotidiana di milioni di lavoratori è il momento del pranzo. Una parabola quella del mangiare in mensa che riflette il percorso della fabbrica stessa e del lavoro nel corso del Novecento. Di questa lunga vicenda la mostra, attraverso un ampio scandaglio di archivi aziendali e sindacali, illustra i capitoli più significativi, partendo da una ricognizione larga delle diverse modalità della pausa pranzo, per poi stringere l’obiettivo sulle mense.

La mostra sarà inaugurata il 23 ottobre alla presenza del sindaco di Sesto San Giovanni
Ingresso libero
Orari di apertura: da lunedì a venerdì, 15.00 – 18.00; Sabato e domenica 16.00 – 19.00
 

giovedì 1 ottobre 2015

In cammino da Verderio ad Aicurzio: la Commenda, Castelnegrino, la Madonna della Neve e Campegorino

Percorro spesso la strada che da Verderio conduce all’abitato di Aicurzio. Sempre a piedi o in bicicletta. Quando porto a passeggio il mio cane, lasciata alle spalle “l’isola ecologica” di Verderio, ex-Inferiore, imbocco la stradina campestre sterrata che fiancheggia gli impianti del depuratore e percorro più o meno un chilometro, in un’oasi di pace e tranquillità, con piacevoli scorci panoramici, finché, sulla sinistra si apre alla vista la torretta della Commenda mentre sulla destra si inizia a scorgere Castelnegrino, avvolto da una vegetazione che riconcilia il viandante e richiama ad una breve sosta.
 
La Commenda
 
Castelnegrino

Proseguendo la camminata sulla strada asfaltata che porta ad Aicurzio, avanti qualche centinaio di metri, in corrispondenza di una curva sulla destra, si scorge una colonna in granito, in cattivo stato di conservazione e manutenzione, sulla cui sommità è posta una croce di ferro. Da questo punto inizia una dolce discesa, ombreggiata, nei mesi estivi, da un doppio filare di robinie, che conduce alla chiesina di Campegorino ed al cimitero del paese.


La chiesa di Campegorino oggi

Sono luoghi incantevoli, densi di storia e significato, che compongono un quadretto suggestivo, tipicamente brianteo.

In più d’un occasione mi ero riproposto l’obiettivo di svolgere qualche ricerca sulle origini e sulla storia di questi luoghi. Il desiderio è rimasto per lungo tempo inevaso, finché, durante una chiacchierata con il signor Abele Biffi, già sindaco di Aicurzio e profondo conoscitore della storia locale, ad una mia richiesta specifica, sono “saltate fuori” due paginette dattiloscritte, datate 5 giugno 2003, recanti cenni storici sui Cavalieri del Tempio di Salomone, sulla Commenda e su Castelnegrino. Su consiglio dello stesso signor Biffi, al fine di avere notizie ancor più dettagliate ed il più possibile esaustive, mi sono recato presso la Biblioteca civica di Aicurzio, ospitata nella settecentesca villa Paravicini, ora di proprietà comunale, la quale accoglie anche un piccolo museo degli usi e costumi dei contadini e delle genti locali. La villa, inoltre, conserva l’archivio cartaceo e fotografico della famiglia Paravicini.
In biblioteca cercavo il classico libro, corredato di fotografie e documenti storici, promosso ed edito dal Comune, nel quale fossero raccolte notizie sulle origini, sulla storia, sulla vita di Aicurzio e sugli usi e costumi della sua gente. “Non c’è, non è mai stato scritto un libro su Aicurzio”, mi dice con tono amareggiato la bibliotecaria. Di fronte al mio palese stupore, la signora, quasi a volersi riscattare da un torto inferto a qualcuno, aggiunge che “abbiamo un vecchio libricino di poche pagine che contiene notizie storiche sul crocifisso di Campegorino”. Lo prende da un piccolo scaffale e me lo porge. Lo sfoglio, leggo il nome dell’autore e l’anno di edizione, scorro velocemente l’indice dei capitoli. Lo prendo, dico. “Ha un mese di tempo per consultarlo”. Trenta paginette di trenta righe cadauna, escluse vecchie fotografie della chiesina e del crocifisso e alcune pagine riservate alle preghiere indulgenziate e alle orazioni. Ne hai voglia! Un mese? Durante il ritorno a casa lo avevo già letto.   

Il libretto è intitolato La Parrocchia di Aicurzio ed il S. Crocifisso di Campegorino. Memorie storiche e preghiere. L’autore è padre Giustino Borgonovo (1), Oblato missionario di Rho, nativo di Aicurzio. La prefazione del libretto, dello stesso autore, è datata 10 marzo 1931. “XXII anniversario della morte di mia Madre”, annoterà il religioso. Le notizie riguardanti le memorie e le origini di Aicurzio sono interessanti e, integrate dalle note del signor Biffi, soddisfano pienamente le esigenze di poter svolgere una ricerca storica rigorosa e adeguata.
Padre Borgonovo, nella prima parte delle memorie, inquadra il territorio di Aicurzio all’interno di un contesto più esteso e ne richiama le origini: “Poeticamente suggestiva è la regione Briantea che dalle alture dell’Orobia degrada alla grande pianura lombarda. È un succedersi di ripiani e di valloncelli, di morene fertilizzate e di campi ubertosi, che appaga l’occhio e ricrea lo spirito. Montevecchia e Vimercate, l’Orobia e Trezzo sono i quattro angoli di un quadrilatero o trapezio in mezzo al quale sta Aicurzio. A ridosso di una valle che anticamente doveva essere fiume, scaglionato sulla riva, colla sua bella chiesa che domina l’abitato, è adagiato il paese. A Nord, sul bellissimo altipiano che prospetta Merate, Montevecchia ed i Colli di Brianza, stanno Castelnegrino, e più in alto, a destra la Commenda colla sua torretta caratteristica, due frazioni antiche, che erano due baluardi, due avamposti di difesa naturale. Sulla strada, a un terzo di distanza dal paese, è Campegorino, colla sua Chiesetta, col suo Cimitero, solingo e devoto. Il paesaggio ha tutti i pregi caratteristici della Brianza autentica; aria salubre, campagna fertilissima, dolci declivi e placida pianura, abitanti intelligenti e laboriosi, di indole tranquilla, viventi di fede e praticanti la Religione. Aicurzio ha pure una storia interessante che lo rende doppiamente caro”.

La Commenda

Padre Borgonovo, oltre ad essere nato ad Aicurzio, dedicò gran parte della sua vita allo studio, elemento centrale, insieme alla preghiera, della vita comunitaria dei padri oblati missionari. Da ciò si può supporre che il religioso aicurziese dedicò molto tempo allo studio, grazie al quale ebbe modo di approfondire le conoscenze sulla storia e le origini del suo paese e sui luoghi di cui si sta occupando questa ricerca.  
“Il nome Aicurzio – prosegue il religioso – è romano autentico. Qui doveva esserci evidentemente una colonia o una famiglia romana, e forse anche una piccola guarnigione militare. Curtius è nome famigliare nella storia romana; mio padre, persona intelligentissima, a me giovane chierico diceva di aver raccolto dai Parroci e dai più antichi del paese che qui un Curtius, nobile romano, avesse la sua villa sul tipo di quella descritta da S. Agostino nelle Confessioni. Che poi fosse posto militare ben lo si capisce dalla sua ubicazione. Presso i contrafforti delle Alpi, rappresentava a quei tempi un magnifico punto strategico di difesa. Difatti sono nomi guerreschi, sia quello Castelnegrino, che quello di Bernareggio (Hibernia regia) ossia accampamento invernale. Nelle memorie più antiche esistenti in Parrocchia e all’Archivio di Stato, viene nominata: terra Curciorum o Curtiorum, ossia “terra dei Curzii”; donde la frase: “ire ad Curcios” “andare ai Curcii”. Spiegabilissimo quindi la successiva contrazione “Ai Curzii, alli Curti” e la formazione del nome attuale di Aicurzio. Il nome attuale comincia a comparire negli atti pubblici nel 1784”.
Dopo essersi soffermato su alcune vicende storiche legate al territorio lombardo ed alla guerra tra Spagnoli e Austriaci dei primi anni del Settecento, combattuta sulle rive dell’Adda, padre Borgonovo apre un capitolo su Castelnegrino e la Commenda.
“Castelnegrino è un gruppo di case che col palazzo padronale, forse antico castello, sorge sulla riva del vallone che scende dall’Orobia. La Commenda sorge alta e forte sull’adiacente promontorio ed è sorella maggiore di Castelnegrino nel nome e nella posizione strategica. Castelnegrino, colle terre circonvicine (e quindi colla Commenda) apparteneva ai Cavalieri Templari ed era aggregato ai beni della lor Casa di S. Maria del Tempio in Milano, che si congettura fosse nel distretto di Porta Romana nel luogo detto appunto la Commenda dei Cavalieri di Malta. Apparteneva alla Pieve di Brivio, ed aveva un Oratorio dedicato a S. Giacomo, rovinato e cadente, per la trascuratezza dei Cavalieri di Malta. Vi fu poi eretto l’Oratorio attuale, dedicato a S. Maria della Neve, benedetto nel 1623 al 30 Ottobre dal Parroco di Aicurzio Galeazzo Castiglioni”.
 Castelnegrino


 Madonna della Neve

A questo punto riterrei utile fornire qualche informazione sui templari, visto che sono stati chiamati in causa, e approfondire i motivi che hanno indotto il loro ordine a insediarsi tra Verderio e Aicurzio. La nascita dell'ordine si colloca in Terrasanta al centro delle guerre tra forze cristiane e islamiche, scoppiate dopo la prima crociata indetta nel 1096. In quell'epoca le strade della Terrasanta erano percorse da numerosi pellegrini provenienti da tutta Europa, che venivano spesso assaliti e depredati. Per difendere i luoghi santi e i pellegrini nacquero diversi ordini religiosi. Intorno al 1118-1119 un pugno di cavalieri decise di fondare il nucleo originario dell'ordine templare, dandosi il compito di assicurare l'incolumità dei pellegrini europei che continuavano a visitare Gerusalemme. L'ordine venne ufficializzato nel 1129. 

Come e perché arrivarono a Castelnegrino? Per dare una risposta, mi sono avvalso della ricerca condotta dal signor Abele Biffi, che reputo interessante e storicamente affidabile. 
“Si ritiene che la Commenda di Santa Croce e Santa Maria del Tempio di Milano sia stata una delle più antiche precettorie italiane. Forse i cavalieri templari furono invitati a stabilirsi a Milano da San Bernardo di Chiaravalle, loro patrono, verso l’anno 1134, anno in cui il monaco cistercense soggiornava nel capoluogo lombardo. Questa precettoria era situata “in capite Brolii Sancti Ambrosii”, un vasto spiazzo fuori l’antica Porta Romana, compreso fra la Via Romea, la Via Larga e la Via della Commenda. La precettoria di Santa Croce e Santa Maria del Tempio di Milano possedeva numerosi beni immobili (fabbricati e terreni) situati in Città, nei Corpi Santi di Milano, a Zunico, Rovagnasco, Castel Negrino, Montesordo, Cermenate e Pusnago. Non si conosce se CASTEL NEGRINO venne costruito dai templari, quando entrarono in possesso del luogo, o se era un manufatto preesistente, ristrutturato e fortificato per renderlo adatto ad ospitare i pellegrini di passaggio diretti in Terra Santa. Da documenti antichi, si rileva che un certo Dalmazio di Verderio, che è da ritenere di famiglia nobile, era ascritto ai templari. Morto innanzi all’anno 1149, aveva lasciato alla Commenda del suo Ordine di Milano dei terreni e delle vigne posti a Paderno ed a Castel Negrino, località, queste, allora entrambe appartenenti alla Pieve di Brivio. Il 22 marzo 1312, il Papa Clemente V° con la bolla “Vox in excelso” soppresse l’Ordine del Tempio. Parte dei suoi beni immobili furono trasferiti all’Ordine Ospitaliero di San Giovanni di Gerusalemme, poi detto di Rodi ed, infine, di Malta”.
La ricerca del signor Biffi prosegue fino ai giorni nostri, citando date, fatti e personaggi che hanno contribuito a scrivere la storia della Commenda e di Castelnegrino.
Campegorino è rimasto fino ad ora un po’ ai margini della ricerca. Non mi rimane quindi che riprendere il libricino di padre Borgonovo e occuparmene.
Nella parte centrale del libretto, il religioso si sofferma sulla parrocchia di Aicurzio ed elenca tutti i parroci (li chiama “Santi Pastori”) succedutisi alla guida della Chiesa locale, dal 1571 al 1931. Ne traccia le biografie e le azioni più significative.
Su Campegorino così esordisce: “È il nome della località dove sorge il piccolo Santuario nel quale è venerato il taumaturgo Crocifisso, e dove è anche il Cimitero, dove convergono i pensieri e gli affetti del popolo di Aicurzio. Anticamente si diceva Campo pecorino; poi Campo pegorino, e finalmente, per maggior brevità, Campegorino”.
Con prosa bucolica e raffinata l’autore descrive il paesaggio circostante “... posto solingo… meta di pellegrini, specialmente nelle ore vespertine, quando il sole scompare dietro i colli di Montevecchia…” e inizia a tracciare le origini di Campegorino. “La Chiesetta ha una storia antica; il Cimitero è di data recente, perché cominciò a funzionare quando la legge Imperiale austriaca proibì di seppellire i morti nei sagrati presso le Chiese. Le memorie di Archivio ricordano che l’ultimo cadavere sepolto nel sagrato della Chiesa fu di Colnago Angiola Maria il 27 Novembre 1787, e che il Cimitero fu benedetto il 29 Agosto 1787. Il primo cadavere sepolto a Campegorino fu del bambino Stucchi Primo di Paolo, il 25 Dicembre 1787”.
“La storia dell’Oratorio, come la divozione al Santo Crocifisso, è molto antica; ma più si risale negli anni, più si fa incerta finché si perde in una nebulosa di luce sopranaturale eterea…”.
“A Campegorino, fin da antico tempo, dovette esistere una cappelletta campestre, di quelle che si trovano specialmente nella nostra Brianza ed in montagna, ai crocevia o in certi luoghi di passaggio. Era semplicissima, aperta pel davanti, ed il popolo ne aveva devozione. In occasione della peste del 1576 e del 1630, qui furono sepolti i morti dal contagio, e d’allora in poi la divozione del popolo andò crescendo. Nel 1705 si verificò il miracolo della comparsa di un’armata prodigiosa, che arrestò e volse in fuga la truppa dei soldati invasori che si precipitavano sopra di Aicurzio per saccheggiarlo. Il prodigio è ricordato in un quadro di squisita fattura”.


Padre Borgonovo, deluso dal fatto che “… non si trova memoria dell’autore del disegno della Chiesetta”, prosegue così il racconto: “Dopo tal miracolo, fu sentito il bisogno fabbricare una Chiesetta che fosse come un Santuario di divozione. Le memorie più antiche dell’Archivio Parrocchiale risalgono al 1725 circa; e dal libro dei conti, sotto l’anno 1731, ne risulta la breve storia della costruzione. Essa è denominata la “Chiesa dei Morti”. La Confraternita, o Commissione speciale, presieduta da un Priore raccoglieva le offerte per la fabbrica, sotto la direzione ed alla dipendenza del Parroco Giulio Pietro Sampietro. La Chiesa sebbene non ultimata fu benedetta il 26 Giugno 1731. Risulta che subito fu provvista di sacri arredi per celebrarvi la Santa Messa e che il Parroco od altri Sacerdoti venivano a tal Oratorio e celebravano la S. Messa “per i Morti”. Risulta pure che nel 1731 fu celebrata la festa di San Rocco al 16 Agosto, e che pochi anni dopo (1748) si faceva anche la festa ad onore di S. Sebastiano. La “Chiesa dei Morti” dopo il 1731 assume il nome di Oratorio di S. Rocco e così è chiamata nella visita del Vicario Foraneo di Vimercate Alessandro Banfi il 3 Aprile 1742. In questo anno (1742) si fece festa solenne ad onore di S. Rocco e si ottenne persino una speciale Indulgenza”.
Durante la visita pastorale del cardinale Pozzobonelli, svoltasi nel 1756, risulta agli atti che quest’ultimo ordinò al parroco ed alla confraternita di terminare i lavori di costruzione della chiesetta e di individuare una posizione più consona al crocifisso. La disposizione del cardinale venne resa esecutiva entro poco tempo, tanto che “… non solo la Chiesa fu condotta a termine ma nacque l’idea di costruirvi una Cappella speciale ad onore del SS. Crocifisso”.

La chiesina di Campegorino denominata Oratorio di San Rocco
 
Il crocifisso
 
Dalle informazioni riportate dal religioso aicurziese, estrapolate dagli archivi parrocchiali, risulta del tutto evidente che il crocifisso esisteva da tempo nell’oratorio di Campegorino e che era oggetto di devozione e culto da parte del popolo, il quale si rivolgeva a Cristo per ottenere la grazia o per invocare protezione e misericordia. Nel luglio del 1775 si svolsero “… due Tridui di pubblica preghiera per ottenere la pioggia, con processione dalla Parrocchia al Campegorino e Benedizione colla Reliquia della S. Croce, per implorare la serenità”.
Nell’aprile del 1764 il parroco di Aicurzio, don Giuseppe Bernè, espose il progetto di costruire una cappella laterale sulla sinistra nella chiesina: “In essa si vorrebbe collocare la Sacra Immagine del Crocifisso, a cui e questo ed altri popoli vicini hanno speciale divozione”. Il progetto passò l’esame della Curia di Milano e per l’autunno dello stesso anno la cappella fu pronta. Il 4 novembre 1764 venne solennemente inaugurata mediante una processione dalla parrocchiale all’oratorio. “La festa dovette essere solenne – scrive don Borgonovo – perché io ne raccolsi eco lontana dal labbro di mia madre, che veniva dalla famiglia Ronchi, Sagrestani, e aveva raccolto tradizioni preziose”.
Pochi anni dopo venne costruita anche la cappella laterale destra, dedicata alla Vergine Addolorata.
“Nell’Agosto del 1848, al ritorno dei Tedeschi a Milano, si fece un Triduo di penitenza a Campegorino. Il S. Crocifisso era invocato come Protettore e Salvatore”.
Analogamente, nel 1866, i fedeli di Aicurzio si raccomandarono al S. Crocifisso, il quale “… salvò il paese dalle funeste conseguenze della guerra e dal colera… e specialmente perché nessuno dei 41 soldati del paese era stato ucciso o ferito o lesionato”.
Nel 1905, in occasione del secondo centenario del miracolo, il parroco, don Viganò fece erigere “in meno di 4 mesi” il nuovo campanile della chiesina con tre campane, in sostituzione dell’antica campanella collocata sulla piccola torretta sopra la sacrestia. 

La chiesa di Campegorino col nuovo campanile

Padre Borgonovo conclude così il libretto di memorie sul suo paese e sul crocifisso di Campegorino: “Non v’è famiglia, non vi è persona, si può dire, che al S. Crocifisso di Campegorino non sia debitrice di qualche insigne favore, non abbia deposto ai piedi di quella taumaturga immagine la sua offerta, simbolo di una riconoscenza tutta sopranaturale e di un’offerta tutta spirituale”.
 
Beniamino Colnaghi

(1)  Padre Giustino Borgonovo (1877-1960). Nato ad Aicurzio (bassa Brianza), da famiglia di agricoltori di solida fede cristiana, p. Borgonovo fu alunno dei seminari diocesani e nel 1899, appena ricevuta la sacra ordinazione, entrò nel Collegio degli Oblati missionari di Rho, impegnandosi con straordinario fervore nella predicazione delle missioni e nella cura delle anime attraverso il sacramento della penitenza. La sodezza teologica, che sottendeva la sua esuberante oratoria e la semplicità che gli consentiva sante audacie nel dirigere gli spiriti, gli meritarono presto fama di buon predicatore ed ottimo direttore spirituale.
Richiesto da Pio XI, che lo aveva avuto confidente ed amico, nel 1929 predicò il ritiro quaresimale alla Cappella Pontificia ed ancora nel 1939, per desiderio di Pio XII, suo ammiratore. Apostolo instancabile, p. Borgonovo affidò pure i tesori della propria esperienza e dei tenaci studi a numerose pubblicazioni. Tra le prime la Vita di p. Giorgio M. Martinelli, fondatore degli Oblati di Rho (1912), di cui p. Borgonovo promosse la causa di beatificazione. Di «santità» egli si intendeva, tanto che alla sua morte si poté dire che il suo fu «il messaggio della santità».
F. Mandelli, Profili cit., I, pp. 149-162; cf. pure M. Busti, Maestro della Parola, Padre Giustino Borgonovo degli Oblati missionari di Rho, Milano 1970, p. 267.
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