La dote è
l’insieme dei beni conferiti dalla famiglia della sposa, o dalla sposa stessa,
al marito. La dote era il contributo della donna “ad sustinenda
onera matrimonii” ed era un elemento indispensabile al
matrimonio, sia fra i ceti altolocati sia fra quelli popolari. Dal Medioevo in
poi si comincia a parlare di exclusio propter dotem, cioè dell’esclusione delle donne dall’eredità paterna attraverso
un indennizzo costituito appunto dalla dote, anche se vi sono numerose
testimonianze di donne che continuarono a ereditare beni, oltre alla dote. La
dote doveva essere proporzionata allo status
della sposa e la sua entità era un indicatore della classe sociale. Fra i
contadini era spesso in denaro ma, in alcune regioni italiane ed europee, era
anche diffusa l’abitudine di portare in dote al marito un piccolo appezzamento
di terra, del bestiame o attrezzi utili al lavoro dei campi. Gli altri beni,
come le lenzuola, le camicie, i grembiuli, la biancheria facevano invece parte
del corredo che la madre della sposa e la sposa stessa cucivano e portavano in
dono allo sposo e alla sua famiglia.
Con questo antico atto,
risalente al diritto longobardo, quindi, la famiglia della sposa concordava e quantificava con il futuro sposo e
la sua famiglia la dote e il corredo, che, come abbiamo visto, poteva era
costituita da beni immobili, oppure argenti o da denaro contante.
Fino al 1975 la dote era un bagaglio indispensabile e obbligatorio per la sposa e un onere necessario per padri e fratelli: non averla era per una donna una vera e propria tragedia, un ostacolo nel trovare un marito. Ovviamente la dote era proporzionata alle possibilità della famiglia della sposa e allo status sociale dello sposo a cui veniva concessa.
Fino al 1975 la dote era un bagaglio indispensabile e obbligatorio per la sposa e un onere necessario per padri e fratelli: non averla era per una donna una vera e propria tragedia, un ostacolo nel trovare un marito. Ovviamente la dote era proporzionata alle possibilità della famiglia della sposa e allo status sociale dello sposo a cui veniva concessa.
Dopo le nozze la dote non diventava di proprietà dello sposo ma
era da lui soltanto amministrata. Alla morte del marito, la
dote tornava alla vedova in piena e libera proprietà. Se invece moriva
prima la moglie, senza aver messo al mondo dei figli, il marito era tenuto a
restituire la dote alla famiglia della sposa.
Ma nella cruda realtà di quei
tempi, anche il marito era tenuto a dare alla moglie una "controdote" e un
mantenimento che dovevano servire alla moglie per far fronte ai suoi bisogni.
Prima della celebrazione del
matrimonio, la descrizione dettagliata e il valore totale della dote e del
corredo matrimoniale erano oggetto, per famiglie diciamo benestanti, di un atto
davanti al notaio, oppure, più semplicemente, da un atto del dà paróla, cioè un impegno verbale delle parti
o in alcuni casi persino l’accordo matrimoniale si sanciva con una stretta di
mano tra galantomen, galantuomini. Spesso
ai capitoli matrimoniali era annesso un elenco compilato a mano da una persona
di famiglia o amica, capace di scrivere, dove erano riepilogati i beni in
tessuti, mobili, oggetti di casa e gioielli assegnati alla sposa.
Insomma, anche se la dote non
è più una cosa necessaria, è rimasta da parte delle famiglie la volontà di dare
una continuità ai propri valori e delle proprie tradizioni, anche mediante il
tramandarsi di beni materiali.
Per quanto riguarda il
corredo, in passato, per ogni figlia femmina si cominciava il ricamo delle
stoffe sin da quando queste erano bambine: ciò avveniva in tutte le famiglie,
indipendentemente dall'estrazione sociale, che influiva solo sulla numerosità e
sulla ricchezza dei tessuti. I pezzi erano conservati in cassapanche o piccoli armadi di
legno e dettagliati per iscritto su una lista. Un corredo era composto da una parte per la casa ed una personale.
In una famiglia borghese, ad esempio, il corredo per la casa era generalmente
costituito da 24 lenzuoli doppi di puro lino ricamati a mano, 24 semplici, 36
coppie di federe, 12 asciugamani di tela più 6 per gli ospiti, 12 tovaglie
d'organza più 6 per tutti i giorni e così via. La parte personale invece
contemplava capi di biancheria, camicie da notte di seta, camicie di tela,
mantelle, fazzoletti e via dicendo.
Ovviamente, nelle famiglie
contadine, i pezzi portati in dote e la qualità dei tessuti erano decisamente
più limitati.
Dalle testimonianze orali
raccolte da alcuni anziani qui in Brianza, tramandate dai loro “vecchi”, che
venivano quindi dall’Ottocento, mi è stato riferito che la dote nuziale era
chiamata ancora schirpa, mentre il termine
dóta è più vicino a noi, diciamo a partire dai primi
anni del secolo scorso. Il termine schirpa
pare deriverebbe, secondo il Cherubini e il Banfi, dal latino barbaro “scerfa”,
che significherebbe dotazione.
Ricordo che
mia nonna paterna, classe 1904, rimasta purtroppo vedova a 37 anni, con due
figli piccoli da crescere, quando era in fase di confidenze mi raccontava dei tempi
della sua gioventù. Partiva dalla triste vicenda di sua madre, morta per le
complicanze del parto un mese dopo la sua nascita, della crescita ad opera di
una amorevole e affettuosa zia, della miseria vissuta durante il periodo della
Grande guerra e concludeva con la perdita del marito, morto su un carro agricolo
nel 1941(1). Al che,
schiacciando l’occhio a mio padre, cercavo di riportarla su argomenti per lei
più piacevoli, come quando i genitori di mio nonno e mia nonna decisero che
fosse giunto il momento di far maritare i due ragazzi. Per mia nonna questo
passo l’avrebbe portata ad entrare in una famiglia più “strutturata” che le avrebbe
consentito di migliorare la sua condizione economica. Ciò che le piaceva
raccontare erano i preparativi del matrimonio ed in particolare dei mesi
impiegati a predisporre la dóta; parlava di un gran
lavoro di ricamo e di cucito, di maglieria, di giorni e serate intere passate con l’ago tra le dita per
mettere insieme il suo modesto corredo matrimoniale. Modesto, ma fatto da lei,
probabilmente con l’aiuto di qualche zia. Io ero già un ragazzo, ma mi piaceva
ascoltare la nonna raccontare, perché lei parlava solo il dialetto brianzolo,
il vecchio dialetto, con terminologia oggi pressoché scomparsa, schietta e
sincera, proprio come era la gente contadina quando l’agricoltura era la regina
della povera economia popolare.
Tuttavia, qui
in Brianza, almeno fino al secondo dopoguerra, la famiglia che "perdeva un reddito" dalla formazione di una nuova famiglia era quella di origine
della sposa. Dopo le nozze, infatti, i coniugi non costituivano un nucleo
autonomo, ma andavano a vivere “in famiglia”, ossia insieme alla famiglia dello
sposo. Tuttavia, la famiglia dell’uomo, pur non versando un risarcimento vero
e proprio, anche se provvedeva a fornire qualche capo di biancheria, si
sobbarcava le spese maggiori del matrimonio, volte a predisporre almeno un paio
di locali, cucina e camera da letto, per la nuova coppia, il mobilio e le spese
per i festeggiamenti nuziali.
Ma tutti i
passaggi che portavano alla celebrazione del matrimonio, dote compresa, erano
regolamentati, oltre che nei contenuti, anche nei tempi, in quanto essi si
collocavano in un momento preciso delle varie tappe che componevano la sequenza
rituale delle nozze, al cui centro vi era naturalmente il rito religioso.
Beniamino
Colnaghi
Note
1. Begnàmen
di Barbìs, mio nonno: https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2014/01/begnamen-di-barbis-nonno-verderio.html
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