nella penna di poeti e scrittori
Sino
alla prima metà del Novecento, il paesaggio brianteo conservava gran parte dei suoi
principali tratti distintivi rurali che lo avevano caratterizzato da secoli e
secoli. La massiccia, e a volte dissennata, espansione edilizia della seconda
metà del secolo scorso non si era ancora manifestata. Certo,
il paesaggio agrario e rurale, fino a quel momento presente in Brianza, ha subito
dissodamenti e piccole trasformazioni da parte dell’uomo, per renderlo più
produttivo. Il paesaggio naturale venne sostituito dal paesaggio agrario.
Il “poeta eterno” Giacomo Leopardi, all’inizio del XIX secolo, nelle Operette morali, Elogio degli uccelli, scrisse a tale proposito: “Una grandissima parte di quello che noi chiamiamo naturale, non è; anzi è piuttosto artificiale: come a dire, i campi coltivati, gli alberi e le altre piante educate e disposte in ordine, i fiumi stretti infra certi termini e indirizzati a certo corso non hanno quello stato né quella sembianza che avrebbero naturalmente”.
Il “poeta eterno” Giacomo Leopardi, all’inizio del XIX secolo, nelle Operette morali, Elogio degli uccelli, scrisse a tale proposito: “Una grandissima parte di quello che noi chiamiamo naturale, non è; anzi è piuttosto artificiale: come a dire, i campi coltivati, gli alberi e le altre piante educate e disposte in ordine, i fiumi stretti infra certi termini e indirizzati a certo corso non hanno quello stato né quella sembianza che avrebbero naturalmente”.
L’agricoltura
lombarda, fece osservare il milanese Carlo Cattaneo in Lombardia antica e moderna, “… trasfigurò ogni vestigio della
vegetazione primitiva”, trasformando questa regione in una delle più rigogliose
dell’intera Europa. I vari elementi che componevano il paesaggio, fossero campi
coltivati, praterie o aree boschive, filari di gelsi, corsi d’acqua, terrazzamenti
collinari, casolari o gli antichi borghi rurali, non presentavano alcuna
soluzione di continuità. I quadri ambientali non creavano fratture del
territorio, c’era armonia, ordine e equilibrio perché il lento e sapiente
lavoro dell’uomo ha prodotto una sintesi perfetta.
A
partire dall’età illuministica il fascino e la bellezza di questi luoghi
seppero attrarre pittori e poeti, artisti di ogni genere. Giuseppe Parini, nato
a Bosisio nel 1729, in pieno territorio brianteo, descrisse amabilmente le
bellezze e le amenità del paesaggio da lui spesso percorso e visitato. Alcuni
anni più tardi Ugo Foscolo, scrittore e poeta tra i più grandi dell’età
neoclassica, in una corrispondenza dalla Brianza si compiacque al pensiero di
ammirare alcuni scorci della regione, tra cui i Piani d’Erba. “Vedrò la
primavera sorridere su’ colli di Pusiano
e sugli alberi fioriti del Monte di Brianza” (Epistolario 1809-1811, volume
XVI).
Il lago di Pusiano visto dal santuario di Nostra Signora di Lourdes di Monguzzo
Proprio il lago di Pusiano stimolò le grandi menti
di poeti e scrittori, come detto di Parini, che nei suoi versi cantò le
bellezze del suo lago e degli altri specchi briantei.
Anche Vincenzo Monti e ancora Ugo Foscolo scrissero di questi laghi. Non è quindi un caso che sia Foscolo sia Monti fossero soliti trascorrere le vacanze proprio ad Erba, ospiti magari di importanti famiglie erbesi in alcune ville come Villa Amalia, residenza situata nella parte alta di Erba.
Anche Vincenzo Monti e ancora Ugo Foscolo scrissero di questi laghi. Non è quindi un caso che sia Foscolo sia Monti fossero soliti trascorrere le vacanze proprio ad Erba, ospiti magari di importanti famiglie erbesi in alcune ville come Villa Amalia, residenza situata nella parte alta di Erba.
Più
o meno in quegli anni, uno dei più grandi scrittori europei dell’Ottocento, il
francese Stendhal, sulla tomba del quale, presso il cimitero di Montmartre,
l'epigrafe da lui stesso predisposta recita "Arrigo Beyle - milanese,
scrisse, amò, visse", durante il suo lungo viaggio in Italia si fermò in
diverse località briantee, tra le quali Inverigo, Canzo, Pusiano e Oggiono. Da
queste fugaci apparizioni, avvenute nell’agosto 1818, in compagnia dell’amico
Giuseppe Vismara, Stendhal stese un diario, cui l’autore non attribuì grande
importanza e che infatti rimase abbandonato fra le sue carte. Conquistato dalla
“bellezza sublime” del lago di Como, finì per ambientare buona parte del suo
romanzo più noto, La Certosa di Parma,
nel paesaggio dolcemente malinconico della Tremezzina. A Griante ha sede il
castello della famiglia di Fabrizio del Dongo, il protagonista del romanzo.
Costretto a fuggire inseguito dai gendarmi del Lombardo-Veneto austriaco,
mentre cerca di riparare in Svizzera, lancia uno sguardo sulle bellezze del
paesaggio, tra laghi e monti. “Non aveva ancora percorso una lega, quando le
cime del Resegone di Lecco, celebre montagna del luogo, si profilarono a
oriente in una striscia bianca, abbagliante. La strada si stava animando di
contadini. Ma anziché ragionar da soldato, Fabrizio si lasciava commuovere
dalla bellezza dei boschi attorno al lago di Como. Sono forse i più belli del
mondo… quelli che più parlano all’anima”. Espressioni simili ritornano nelle
note del Diario del viaggio in Brianza,
quando Stendhal sta lasciando i laghi di Alserio e di Pusiano per dirigersi verso
Annone. In più d’un occasione lo scrittore francese cita in dialetto, con
familiarità, “el Rezegon del Leck”.
Sempre
nell’Ottocento, entrano sulle scena letteraria e artistica due personalità nate
nel lecchese, che, seppur non conosciute al grande pubblico, sarebbe ingeneroso
classificare come “minori”: Cesare Cantù e Antonio Ghislanzoni.
Il
primo nacque a Brivio nel 1804 e, ancora bambino, venne mandato dal padre
presso il ginnasio “S. Alessandro” di Milano, istituzione che avrebbe dovuto
avviarlo alla carriera ecclesistica. Ma il giovane Cesare venne ben presto “etichettato”
come molto irrequieto e “nemico della schiavitù”. Terminato il periodo di studi
a Milano si candidò per l'ammissione al “Collegio Ghislieri” di Pavia, ma venne
respinto probabilmente perché, mentre era studente a Milano, diffuse “opinioni
proscritte”. Tuttavia, l'ordinamento scolastico austriaco non prevedeva il
possesso di titoli legali per l'insegnamento nei ginnasi e perciò, da 1824 al
1827, Cantù ricoprì la cattedra di grammatica presso il ginnasio di Sondrio.
Risale a questo periodo la vera formazione intellettuale del giovane, il quale
si dedica ad ampie e diversificate letture dei classici, messi al bando dalla giurisdizione
austriaca, ma ampiamente e clandestinamente letti da gran parte degli
intellettuali lombardo-veneti. Da questo interesse storico-politico nasce
probabilmente il poemetto Algiso, pubblicato a Como nel giugno del
1828 e avente come tema la lotta dei comuni lombardi contro Federico
Barbarossa. Lo studio della storia con una particolare attenzione verso il
patriottismo, impegna Cantù nella scrittura della Storia della città e della diocesi di Como. Questo lavoro,
nonostante risenta di una certa inesperienza giovanile, rappresenta il primo
tratto originario di un disegno che Cantù vorrebbe più completo e variegato,
ovvero una storia dell'intera Lombardia. Le coordinate preliminari di questo
progettato disegno vengono espresse nel volume Sulla storia lombarda del
secolo XVII. Ragionamenti per servire di commento ai Promessi Sposi (1832)
e Sul romanzo storico. Lettera di un romantico (1831), una costante
rinascita dello spirito civile lombardo, alimentata dal ruolo educatore dei
letterati e di cui Parini risulta essere l'esempio più alto. La posizione
decisamente antiaustriaca ed il sospetto di appartenere al gruppo dei
cospiratori della Giovane Italia gli costò quasi un anno di carcere. Sempre più isolato per le sue idee, si
dedica alla scrittura del suo più importante romanzo storico, Margherita Pusterla, composto tra il
1835 e 1836. Il romanzo, caratterizzato da forti toni antiaustriaci e da
tematiche vicine ai Promessi Sposi
del Manzoni, si rivela un romanzo
storico “cupo” e più pessimista rispetto a quello manzoniano, sia per la
mancanza del lieto fine, sia della divisione "manichea" tra buoni e
cattivi. Nel
suo ultimo scritto pubblicato in vita, Un
ultimo romantico, esprimeva il rimpianto di non aver vissuto nei tempi in
cui dominava la Chiesa e i piccoli Comuni prosperavano forti delle loro
identità municipali. “Concedasi ad un romantico riverire l'inviolabilità della
famiglia, l'autorità della Chiesa, la libertà morale e quella di pregare”. Muore
a Milano nel 1895.
Brivio, il ponte sul fiume Adda ed il castello
Antonio
Ghislanzoni nacque nell’attuale rione di Maggianico di Lecco nel 1823. Oggi
questo nome parla solo agli amanti dell’opera lirica, o ancor meglio ai devoti
di Giuseppe Verdi ed agli studiosi della cultura lombarda. Da Milano il
movimento della Scapigliatura, al quale appartiene Ghislanzoni, si estende fino
al lecchese e l’autore ne prende l’essenza, correggendone gli eccessi e le
spigolature milanesi. Nella personalità di Antonio Ghislanzoni, infatti, si
miscelano sia le componenti ribellistiche ed eversive sia i fascinosi e
suggestivi influssi del territorio di Lecco, da lui descritto con dovizia di
particolari nelle sue numerose opere.
Ai
più il Ghislanzoni è famoso, non solo per aver scritto il libretto di una delle
opere più note e riuscite di Verdi, Aida,
ma anche per essere stato uno degli intellettuali più vivaci e interessanti
della cultura lombarda, non solo “scapigliata”. Fu anche cantante, giornalista,
poeta, romanziere, commediografo, librettista di opere musicali.
Antonio Ghislanzoni
Figura
poliedrica forse poco conosciuta ai più, Romano Guardini, filosofo e teologo
tedesco di origine italiana, sconfinò volentieri nei campi della critica
artistica e letteraria, del pensiero scientifico o politico. A 50 anni dalla
morte, avvenuta a Monaco l’1 ottobre 1968, emergono oggi sempre più nitide e
illuminanti le sue analisi attorno all’uomo, al suo valore infinito,
ultimamente messo a repentaglio dalle sue stesse conquiste scientifiche e
tecnologiche.
E fra i luoghi che segnarono il percorso che Guardini svolse, il contesto di Como e del suo lago assume un particolare rilievo: proprio nei periodi trascorsi a Varenna, catturato da infinite e suggestive immagini, da paesaggi che gli si imprimevano nella mente in ogni minimo dettaglio, scrisse infatti le famose Lettere dal lago di Como. Nel suo caso non si tratta infatti di un soggiorno in una località turistica, privilegiando l’Italia e i suoi laghi, secondo una tendenza che accomunava diversi intellettuali stranieri ma, in realtà, i lunghi periodi estivi trascorsi sulle rive del Lario, a Varenna, per il teologo radicato in Germania rappresentavano un vero ritorno a casa. Per raggiungere Varenna, il teologo attraversava la regione collinare comasca. “Quando passai attraverso le valli della Brianza, da Milano al lago di Como, valli rigogliose, opulente, coltivate con cura diligente, contornate da monti aspri, non volevo credere ai miei occhi… Tutta quanta la natura lavorata e modellata dall’uomo. Ciò che si chiama cultura nel senso più raffinato, mi si presentava nella sua forma più armoniosa… Una cultura nobilissima e nello stesso tempo così semplice, così naturale! Modellata nelle forme, pervasa di spiritualità, tuttavia perfettamente semplice”.
E fra i luoghi che segnarono il percorso che Guardini svolse, il contesto di Como e del suo lago assume un particolare rilievo: proprio nei periodi trascorsi a Varenna, catturato da infinite e suggestive immagini, da paesaggi che gli si imprimevano nella mente in ogni minimo dettaglio, scrisse infatti le famose Lettere dal lago di Como. Nel suo caso non si tratta infatti di un soggiorno in una località turistica, privilegiando l’Italia e i suoi laghi, secondo una tendenza che accomunava diversi intellettuali stranieri ma, in realtà, i lunghi periodi estivi trascorsi sulle rive del Lario, a Varenna, per il teologo radicato in Germania rappresentavano un vero ritorno a casa. Per raggiungere Varenna, il teologo attraversava la regione collinare comasca. “Quando passai attraverso le valli della Brianza, da Milano al lago di Como, valli rigogliose, opulente, coltivate con cura diligente, contornate da monti aspri, non volevo credere ai miei occhi… Tutta quanta la natura lavorata e modellata dall’uomo. Ciò che si chiama cultura nel senso più raffinato, mi si presentava nella sua forma più armoniosa… Una cultura nobilissima e nello stesso tempo così semplice, così naturale! Modellata nelle forme, pervasa di spiritualità, tuttavia perfettamente semplice”.
La
stessa dimora rurale per eccellenza, la cascina, di cui la campagna briantea
era ricca, si inseriva nelle linee del paesaggio secondo criteri dettati dalla
cura e dall’equilibrio. Come già sopra accennato, l’espansione edilizia civile
e industriale degli ultimi decenni, assorbendo in una maglia inestricabile la
casa contadina e gli antichi borghi storici, non solo ha soffocato questi
contesti, ma li ha anche sfigurati, privandoli del loro originario rapporto con
il paesaggio e la natura.
Ma
la descrizione certamente più conosciuta dell’orografia del territorio di Lecco
è in apertura al primo capitolo de I
Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. “Quel ramo del
lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti,
tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli,
vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume,
tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte; e il
ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile
all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e
l’Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi
di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi
seni”. Il milanese Manzoni, che aveva trascorso infanzia e adolescenza a Lecco,
dimostra di conoscere bene il territorio che intende descrivere. E così
prosegue: “La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende
appoggiata a due monti contigui, l’uno detto di san Martino, l’altro, con voce
lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo
fanno somigliare a una sega: talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di
fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione,
non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia,
dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune.
Per
chi ha vissuto in quei luoghi ed è costretto, dalle circostanze o dai
prepotenti di turno, ad abbandonarli, come il Renzo manzoniano, che lasciata
Lucia a Monza, in cammino verso Milano “… voltandosi indietro vide
all’orizzonte quella cresta frastagliata di montagne, vide distinto e alto tra
quelle il suo Resegone, si sentì tutto rimescolare il sangue…”.
Lecco e il Resegone visti da Paré
Uno
scrittore del Novecento che non rimase per nulla soddisfatto di aver vissuto
alcuni periodi della sua giovinezza in Brianza fu Carlo Emilio Gadda.
Probabilmente più per motivi legati ai pessimi rapporti familiari con il padre
e la madre, che per l’insensibilità verso le bellezze dei paesaggi briantei. O
forse per l’uno e per l’altro motivo. Gadda detestò con tutte le sue forze quella
villa a Longone al Segrino, fatta costruire dal padre sul finire
dell’Ottocento. “Il pensiero di Longone è sempre motivo di grande
irritazione e di profondo scoraggiamento per me, è come la pietra di una tomba
posta sulla nostra vita, sui nostri sacrosanti interessi e diritti… Non
parlarmi quindi mai né di Longone né del sozzo contadiname a cui manteniamo una
casa…”. Così, in una lettera del 1927 alla sorella Clara, Carlo Emilio Gadda
parla della villa di famiglia di Longone al Segrino, in Brianza. Per costruirla
il padre si era rovinato, gettando in miseria l’intera famiglia; come se non
bastasse poco prima di morire aveva ipotecato l’immobile per restituire alla
figlia di primo letto la controdote materna; ovviamente dopo la morte di lui a
dover far fronte alle spese era stato lo stesso Gadda, in qualità di capo
famiglia, a costo di quelle privazioni di cui non cesserà mai di lamentarsi.
Per quanto
per anni fosse stata causa della miseria della famiglia, la madre, l’ungherese
Adele Lehr, si era talmente attaccata alla villa da opporre un caparbio rifiuto
a qualunque ipotesi di vendita. Sarà soltanto dopo la morte di quest’ultima che
Gadda potrà finalmente disfarsi della “fottuta casa di campagna” che aveva
“incenerito” la sua giovinezza.
Il panorama
che si godeva dalla terrazza della casa dei Gadda spaziava su di una “orografia
serena”, dove la “tristezza dei colli” invitava però alla malinconia. Nel
romanzo a cui la villa fa da sfondo, La
cognizione del dolore, Gadda maschera i riferimenti geografici della sua
autobiografia e storpia i toponimi con un lessico spagnoleggiante, non mancando
di rendere riconoscibile l’alta Brianza attraverso continui echi manzoniani.
Villa Gadda in una foto dei primi anni del Novecento
Giuseppe
Pontiggia era nato a Como nel 1934, ma aveva trascorso la sua infanzia, prima
che la famiglia si trasferisse in Liguria, a Erba. Poi visse lunghi anni a
Milano, ove si laureò ed entrò a far parte del mondo letterario milanese e
italiano. Ottenne importanti riconoscimenti e premi letterari, tra i quali il
Premio Strega nel 1989 con La grande sera
e il Premio Campiello con Nati due volte.
Prima
di morire chiese di essere sepolto ad Arcellasco, una frazione di Erba. Molti
si sono chiesti le ragioni della volontà dello scrittore di essere sepolto ad
Arcellasco. Di certo egli lo ha considerato come un ritorno a casa, nel
cimiterino sulla collina che domina il Piano d’Erba. Ad Incasate, piccolo rione
accanto ad Arcellasco, si trovava la casa dei nonni di Pontiggia; qui il
piccolo Peppo, veniva spesso da bambino e poi da ragazzo e qui aveva collocato,
ormai scrittore affermato, la sua seconda casa. Lì vicino, a un tiro di
schioppo, Carlo Emilio Gadda, come abbiamo appena letto, possedeva la casa
paterna, alla quale giungeva spesso in treno, salendo poi in calesse a Longone
e passando proprio dal cimitero di Arcellasco.
Arcellasco in una cartolina d'epoca e villa Torricella
Proprio dietro il muro cimiteriale
comincia a salire la collina di Torricella. In cima al colle si erge la storica
villa settecentesca che è uno dei luoghi storicamente più importanti dell’alta
Brianza. Qui, Alessandro Manzoni, nel 1859, fu ospite quando gli consigliarono
di lasciare Milano perché gli austriaci lo tenevano d’occhio. A Torricella
visse per qualche anno il poeta milanese Carlo Porta, sposatosi con
l’aristocratica Vincenza Prevosti, proprietaria della villa. Successivamente la
proprietà passò al conte Cesare Borri, padre di Teresa Borri Stampa, la seconda
moglie del Manzoni, il cui figliastro, Stefano Stampa, fece costruire il
camposanto di Arcellasco.
Di
tutti questi richiami al Manzoni, al Porta, a Gadda parlava spesso Giuseppe
Pontiggia, quando tornava nella sua Erba. “Con gli anni ho riscoperto il mondo
della mia infanzia, dell’adolescenza e della provincia. La provincia è
importante perché è straordinariamente ricca di figure e esperienze. La
campagna è un terrazzo di osservazione molto più ampio di quello metropolitano.
In quasi tutti i miei libri c’è il paese”, disse in una sua intervista poco
prima di morire.
Beniamino Colnaghi
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