Il
1969 fu un anno di grandi tensioni in tutto il paese. Piccoli attentati che non
causarono morti si erano succeduti per tutta la primavera e l’estate in molte
parti d’Italia. Le contestazioni degli studenti iniziate in varie università nel
1968 si erano fatte sempre più forti, e più dura si era fatta anche la reazione
della polizia. Nell’autunno di quell’anno, quello che venne chiamato “l’autunno
caldo”, alla protesta degli studenti si affiancò quella degli operai di molte
fabbriche e aziende, che iniziarono un periodo di proteste e scioperi per
ottenere aumenti salariali e migliori condizioni di lavoro. Anche la situazione
politica nazionale era molto turbolenta e precaria.
Il
12 dicembre 1969 furono quattro le bombe che esplosero: una a Milano e tre a
Roma (una quinta bomba fu trovata inesplosa a Milano in piazza della Scala).
L’unica a uccidere delle persone fu quella avvenuta intorno alle 16.35 nella
sala principale della Banca dell’Agricoltura, in piazza Fontana a Milano, dove
decine di agricoltori si erano trattenuti oltre l’orario di chiusura per
depositare i loro guadagni di giornata (era venerdì, giorno di mercato). La
bomba era costituita da sette chili di tritolo chiusi in una scatola di metallo
all’interno di una valigia in pelle. La sala della banca, dall’alto soffitto a
cupola, fu devastata dall’esplosione. Diciassette persone furono uccise, di cui
tredici sul colpo. Altre 88 rimasero ferite dalle schegge e dalla potente onda
d’urto. Poco dopo un’altra bomba esplose in un sottopassaggio della Banca del
Lavoro a Roma, ferendo 14 persone. Seguirono altre due esplosioni, all’Altare
della Patria e di fronte all’ingresso del museo del Risorgimento. Era l’attacco
armato più esteso e violento dalla fine della seconda guerra mondiale in
Italia.
La
sera stessa dell’attacco alcune decine di persone furono fermate e interrogate
in questura dalla polizia. Erano quasi tutti “soliti sospetti”, giovani con
simpatie politiche radicali, in buona parte anarchici e neofascisti, fermati
per controlli generici e senza che ci fossero particolari prove nei loro
confronti. Tra loro c’era anche Giuseppe Pinelli, un ferroviere anarchico di 41
anni, ex partigiano, iscritto al Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa di
Milano. Pinelli, in circostanze mai del tutto chiarite, fu trattenuto in
questura e sottoposto a un duro e aggressivo interrogatorio per tre giorni, più
delle 48 ore in cui la legge permetteva di prolungare un fermo senza
l’autorizzazione di un magistrato. Il terzo giorno, Pinelli precipitò dalla
finestra al quarto piano dell’edificio, e morì. Molti suoi compagni, e parte
dell’opinione pubblica, sostennero che Pinelli sia stato gettato dalla
finestra: o per coprire le ragioni della sua morte nella violenza
dell’interrogatorio, o per errore mentre lo si minacciava di gettarlo. Della
morte di Pinelli fu accusato il commissario Luigi Calabresi (che sarà ucciso a
Milano due anni dopo: per il suo omicidio sarà condannato, molti anni dopo, un
gruppo di militanti di Lotta Continua, al termine di un processo lunghissimo,
con sentenze alterne e tuttora molto contestato). Il processò sulla morte di
Pinelli stabilì la sua totale estraneità alle accuse e risolse le molte
contraddizioni nelle testimonianze ed i misteri sulla sua morte, assolvendo i
responsabili dell’interrogatorio in questura, con la formula del “malore
attivo” che avrebbe portato Pinelli a perdere coscienza e cadere dalla
finestra. Ma questo sarebbe successo comunque molto dopo: nei giorni
immediatamente successivi le autorità di polizia – il questore per primo, che
parlò persino di “un balzo felino” – annunciarono che Pinelli si fosse
suicidato perché scoperto come responsabile della strage, e che il suicidio
fosse una conferma della fondatezza della pista anarchica.
Il
giorno dopo la morte di Pinelli, il 16 dicembre, un altro anarchico venne
arrestato: Pietro Valpreda, milanese, classe 1933. Gran parte della stampa è
contro Valpreda, perché, se anche non fosse il colpevole, è comunque un
“pessimo cittadino, un ballerino, un lavoratore occasionale, uno senza
famiglia, un anarchico”. Alcuni titoli di quotidiani del 17 dicembre: Valpreda
è perduto. La furia della belva umana (“Corriere d’informazione”), L’anarchico
Valpreda arrestato per concorso nella strage di Milano (“Corriere della
Sera), Arrestati gli assassini (Il Messaggero), Un anarchico
arrestato per la strage (Il Resto del Carlino), Arrestato un comunista
per la strage di Milano (Il Secolo d’Italia), Il mostro è un comunista
anarchico ballerino di Canzonissima: arrestato (Roma).
Cominciò
così il calvario dell’anarchico, anni di sofferenze, di lotte, di umiliazioni. Valpreda
era stato riconosciuto da un tassista che sostenne di averlo portato di fronte
alla sede della Banca dell’Agricoltura, in piazza Fontana, dove avrebbe
depositato una valigia prima di ritornare sul taxi. Valpreda fu immediatamente
indicato come il sicuro colpevole da gran parte della grande stampa italiana. Ma oltre
alla testimonianza del tassista non c’era nient’altro, e man mano che la pista
neofascista appariva più plausibile, in molti iniziarono a dubitare del suo
coinvolgimento. Nel 1972, dopo aver trascorso oltre 1.100 giorni di carcere,
Valpreda fu liberato grazie a una legge ad personam che
introduceva i limiti alla custodia cautelare anche per gli accusati di reati
gravissimi, come la strage. L’assoluzione definitiva per lui sarebbe arrivata
soltanto nel 1987.
Al
termine dell'ultimo processo del 2005, la Cassazione ha affermato che la strage
fu realizzata dalla cellula eversiva neofascista di Ordine Nuovo, diretta da
Franco Freda e Giovanni Ventura, non più processabili in quanto assolti con
sentenza definitiva nel 1987. Non è mai stata emessa una sentenza per gli
esecutori materiali, coloro che cioè depositarono in banca la valigia con la
bomba.
Chissà quante persone,
soprattutto giovani, sanno che cosa è successo il 12 dicembre 1969 in piazza
Fontana a Milano e che cosa avvenne negli anni successivi, con l’umiliante
odissea della mancata verità dei fatti e della giustizia fallita, andata avanti
36 anni, tra 11 processi di condanna svolti in diverse città italiane, 4
giudizi in Cassazione, assoluzioni in appello, depistaggi e ostacoli di ogni
genere, inganni, false testimonianze, deviazioni di uomini dei servizi segreti,
apposizione del segreto politico e militare, fino alla sentenza del 3 maggio
2005: tutti assolti, strage senza colpevoli, i parenti delle vittime condannati
persino a pagare le spese di giudizio.
Furono diverse le persone che
testimoniarono l’innocenza di Pietro Valpedra, confermarono l’alibi dell’anarchico,
ossia che quel maledetto 12 dicembre era a letto malato. Tra le prime figure ci
sono quattro donne, le parenti più strette di Valpreda: la madre, Ele Lovati, la
sorella Maddalena, la nonna, Olimpia Torri e la prozia, Rachele Torri.
Quest’ultima certamente la più combattiva, l’anello forte della famiglia, il
vero avvocato del nipote Pietro. Aveva lavorato come guardarobiera e dama di
compagnia in famiglie borghesi e benestanti milanesi, aveva modi gentili e
eleganza di linguaggio. Tenne testa a tutti, anche in tribunale, donna ricca di
temperamento, di passione, di cultura, anche se le mancavano gli studi.
La prozia così ricorda quel
pomeriggio: “Pietro era a letto con la febbre. Bisognava andare a prendere il
cappotto che avrebbe usato l’indomani per andare in ordine dal giudice Amati.
Bene ci andai io. Saranno state le 19-19,30 e ricordo che salendo sull’autobus
E in piazza Giovanni Dalle Bande Nere una signora ha aperto “La notte”
e ho visto a grossi caratteri qualcosa di morti; le chiesi se fosse stato un
incidente e lei mi rispose che erano state le bombe. Sono scesa in piazza del
Duomo e passando in via Dogana per prendere il tram 13 per andare in piazza
Corvetto dai genitori di Pietro, mi sono fermata all’edicola e ho comprato “La
notte“. Arrivata da mia nipote le ho detto che Pietro era arrivato, che
stava male che perciò ero andata io a prendere il cappotto. La sorella di
Pietro, la Nena, mi ha raccomandato di farlo mangiare, mi ha dato il cappotto e
le scarpe. Allora sono tornata subito a casa, ho detto a Pietro che sua sorella
gli raccomandava di mangiare, poi gli ho dato il giornale” (Intervista a
Rachele Torri pubblicata su “A-rivista anarchica” del febbraio 1971).
Nel dicembre 1978, il giornalista Corrado Stajano
intervistò la signora Rachele, che così si espresse in merito all’accusa contro
suo nipote e ad alcune fasi del dibattimento giudiziario e processuale. “Se i
morti di piazza Fontana potessero lasciare le loro tombe, farebbero vedere le
streghe, gli aggiusterebbero le ossa ai generali, ai ministri. E questi
personaggi, allora, le loro medagli, i loro cilindri, sarebbero costretti a
lasciarli sulla povera terra delle fosse. Che vergogna, eh che vergogna. Quando
ho saputo dell’infame richiesta del pubblico ministero, sono rimasta
amareggiata. E qui, sola, ho pensato: Signore santo, allora in Italia non c’è
un minimo di giustizia. Occorre coscienza e onestà per giudicare. Ho visto la
passerella che hanno fatto a Catanzaro politici e militari, uno più vigliacco e
bugiardo dell’altro, facce di palta, si dice a Milano. Ho visto il presidente
del Consiglio negare il Cristo in croce. Due o tre giorni dopo l’ho visto in
San Pietro con un libro da messa in mano. Il più indignato sarà stato Gesù
Cristo perché la religione è un’altra cosa. Che vergogna. Dopo nove anni tirano
in ballo quel povero Valpreda. Guardi, lei sta parlando con una persona
profondamente cattolica: sa che cosa ho pensato quando ho saputo? Ecco,
esistono uomini che non temono la giustizia di Dio, che ne hanno dimenticato
l’esistenza. Non ci sono ragioni di stato, segreti politici e militari, non c’è
il Sid per la legge di Dio. La giustizia di Dio è inesorabile e qualcuno dovrà
pur pagare per gli scandalosi errori, per la prigione, il linciaggio, la
sofferenza di Valpreda”.
Così poi prosegue la signora Torri. “Io sono una
povera donna di 75 anni e ho vissuto una tragedia più grande di me quando ho
visto alla televisione quei testimoni, l’ammiraglio, soprattutto l’ammiraglio
Henke, il capo del Sid che diceva: “Era scritto, non era scritto, la matita
rossa, la matita verde, io non l’ho mai usata la matita verde, io non c’ero,
lui non c’era, c’era quell’altro, ma è morto e quell’altro ancora, ma è
scappato all’estero”, allora ho pensato: ma sono questi, dunque, gli uomini che
ci governano, possibile che giochino ai bussolotti con la vita degli italiani?
Che farsa se non fosse una terribile tragedia. E quei poveri morti! Valpreda è
ancora vivo, ma è stato ucciso un po’ da tutti perché è un povero Cristo,
perché è un anarchico, non vorrei mai essere la zia di Andreotti, per esempio.
Quando alla tv lìho visto a Catanzaro, mi son detta: vi ringrazio, Signore, di
non essere la zia di quest’uomo. Io volevo andare al processo a sentire la
requisitoria del pubblico ministero, ma poi ho fatto i conti di cassa – la mia
pensione è di 101.000 lire al mese. In gennaio diventeranno 123.000 – e ho
dovuto rinunciare. Per fortuna, perché avrei senz’altro parlato, avrei gridato
nell’aula contro lo scandalo e l’ingiustizia e mi avrebbero messo dentro e
sarei diventata io la colpevole della strage di piazza Fontana…”.
“L’unica persona in cui credo è il presidente della
Repubblica (Sandro Pertini, ndr). Io non penso a lui come al capo della
magistratura, ma come al rappresentante del popolo. Mi sembra una figura
pulita, diversa da tutte le altre. Ho una grande stima per quest’uomo:
intervenga come può e cerchi di porre fine a uno scandalo così grande. Io
voglio l’assoluzione completa per il mio Pietro, non voglio nessuna grazia. Non
abbiamo bisogno di nessuna grazia. Stimo Pertini per tutto l’insieme, per il
suo comportamento, per il suo passato glorioso. Signor Presidente della
Repubblica: chi ci governa ha dimenticato i sacrifici dei nostri giovani, i
nostri sacrifici, ha dimenticato la Resistenza. Lei ha fatto la Resistenza, ha
combattuto il fascismo, ha subito carcere, esilio, persecuzione. È stato sempre povero come
noi. Parli, dica che l’Italia è di chi l’ha fatta, che l’Italia è del popolo,
non di questi predoni.” (Corrado Stajano, La zia Rachele e il presidente
Pertini, in
“Il Messaggero”, 3 dicembre 1978, tratto dal libro, sempre dello stesso
Stajano, La città degli untori, 2009, Garzanti, Milano).
Rachele Torri muore il 23 agosto 2000, ha 97 anni;
l’amato nipote, Pietro Valpreda, muore a Milano il 6 luglio 2002, all’età di 69
anni.
Beniamino Colnaghi
Beniamino Colnaghi
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