Mi
sono recato a Rivamonte Agordino (BL), paese che ha dato i natali alla nonna
materna, per rivedere i luoghi, dopo alcuni anni di assenza, e incontrare un
paio di cugine di mia madre che risiedono lassù. Ho approfittato dell’occasione
per scattare alcune fotografie di nuovi murales dipinti su alcune case private e
raccogliere ulteriori informazioni sull’antico mestiere del careghéta, svolto da generazioni di
uomini e intere famiglie del posto.
Un
tempo l’importanza di Rivamonte Agordino era legata in particolare all’attività
estrattiva che si svolgeva nelle miniere di Valle Imperina, situate nel
fondovalle. Le prime testimonianze dell’operatività delle miniere risalgono all’inizio
del Quattrocento, sotto il dominio della Serenissima; un sito, quello di Valle
Imperina che fu sicuramente il più importante del Veneto per l’estrazione della
pirite cuprifera e la produzione di rame e che portò allo sviluppo di un vero e
proprio villaggio minerario, tuttora visibile dalla S.R. Agordina e oggetto
negli ultimi anni di un importante lavoro di recupero, che ha reso Valle
Imperina nuovamente fruibile dal pubblico come museo di archeologia industriale.
Probabilmente,
proprio la necessità di trovare un’alternativa alla dura e malsana occupazione
in miniera o di integrare in qualche modo il magro reddito, cominciò ad
espandersi, a partire dal XVI
Secolo, lo sviluppo nella parte bassa dell’Agordino, di un settore
manifatturiero particolarissimo: l’impagliatura
e la costruzione di sedie in legno. Prevalentemente provenienti dai
Comuni di Rivamonte Agordino, Gosaldo e Tiser (Secondo le testimonianze dello
storico locale, don Mosé Selle (1875-1952), si apprende che l’arte di costruire
e impagliare sedie nacque proprio a Tiser fin dal XVII secolo), i seggiolai, chiamati
“conze” o “careghéte”,
si dedicavano stagionalmente, o anche tutto l’anno per alcuni, a questo
mestiere, migrando verso i paesi e le città dell’Italia centro-nord o alla
volta di Svizzera e Francia. I bambini erano spesso coinvolti prestissimo in
questa attività, non perché fossero utili al lavoro, ma per evitare che gravassero
sul resto della famiglia che rimaneva a casa, mentre il capofamiglia era assente.
Il mestiere del seggiolaio divenne ancora più praticato verso la fine dell’800,
ovvero quando i posti da minatore iniziarono a scarseggiare ed il mestiere di seggiolaio
divenne una necessità e permise la sopravvivenza del nucleo familiare.
Un'intera famiglia intenta ad impagliare le sedie
Fare il
seggiolaio non era certo un’occupazione facile, seppur preferibile alla
miniera; i careghète erano costretti
a spostarsi da una città all’altra, a volte all’estero, trasportando gli
strumenti del mestiere e gli effetti personali in un continuo peregrinare.
L’esigenza di spostamento cozzava poi con la comodità; i seggiolai erano
costretti a limitare il peso degli oggetti personali da portare con sé, per cui
anche l’abbigliamento era ridotto all’essenziale.
Neppure
il processo di fabbricazione delle sedie era una materia semplice; innanzitutto
erano necessari gli strumenti e gli utensili adatti, prodotti principalmente
nelle zone d’origine e difficilmente reperibili in trasferta; poi servivano i
diversi tipi di legno per le differenti parti della sedia. Infine, una grande
abilità: la struttura della sedia doveva essere montata con il minimo utilizzo
di chiodi, al tempo un bene di lusso: la maggior parte delle giunture era
quindi fissata ad incastro, e doveva essere sufficientemente solida da
resistere all’utilizzo finale. Ogni conza
era geloso della propria arte, e solitamente si portava appresso dei ragazzini
affidatigli dalle famiglie di compaesani affinché apprendessero già da piccoli
i segreti della fabbricazione delle sedie. Ovviamente i piccoli apprendisti non
percepivano un salario e dovevano rinunciare alla scuola ed ai giochi per tutta
la stagione; in cambio ne traevano però la conoscenza di una mansione che in
futuro avrebbe loro permesso di sopravvivere.
Per
evitare che i segreti della lavorazione venissero carpiti da altri, o in
particolari situazioni in cui desideravano non farsi comprendere (ad esempio
durante la dominazione austriaca del Veneto nel XIX Secolo, il conza diventerà anche un’utile lingua
per i patrioti agordini), i seggiolai utilizzavano la speciale lingua di loro
invenzione, nota solamente a loro: lo “scapelamént
del conza“. Si tratta di un linguaggio in codice
tradizionalmente inventato dai seggiolai di Tiser e poi trasmesso agli altri
artigiani della Conca Agordina, assolutamente incomprensibile per chi non ne fosse a
conoscenza. Questa affascinante lingua segreta ha rischiato per
lungo tempo di scomparire ed ha fortunatamente trovato in tempi recenti
studiosi volenterosi che si sono prodigati per salvarla dall’oblio,
trascrivendola in svariate pubblicazioni ed addirittura in dizionari.
Anche
se al giorno d’oggi il mestiere del seggiolaio è stato praticamente cancellato
dalla lavorazione industriale e dall’invenzione di materiali più versatili, il
mestiere del seggiolaio non è scomparso dalle valli agordine; periodicamente
vengono organizzati corsi dai Comuni della Conca o da varie associazioni
locali, e sono tanti i giovani che, ascoltati i racconti dei nonni, desiderano
apprendere i segreti di un’arte che fa parte della tradizione culturale locale.
A Gosaldo sorge un interessante Museo Etnografico legato alla figura del seggiolaio,
mentre in tantissime manifestazioni culturali agordine si può assistere a
dimostrazioni di fabbricazione e impaglio tradizionale di sedie. Anche il Club UNESCO Agordino
e diverse attività private di Rivamonte organizzano interessanti lezioni di
impaglio alla maniera dei conze agordini.
Sempre
a Rivamonte, in località Tos, sorge il museo dei seggiolai, un
piccolo ma interessantissimo museo, dedicato all’antica tradizione del mestiere
dei conza o careghéta, in dialetto
locale. All'interno dell'area espositiva sono presenti due mostre permanenti dedicate ai seggiolai, corredate di splendide fotografie d'epoca, documenti originali, strumenti di lavoro e stanze ricostruite con mobili, abiti e oggetti tipici delle abitazioni delle Dolomiti.
Beniamino Colnaghi
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