Durante l’infanzia e
l’adolescenza, a causa dei continui trasferimenti del padre, ufficiale militare,
Pasolini si sposta prima a Parma, quindi a Belluno, Conegliano, Cremona e
Reggio Emilia. Fondamentali per lui rimangono i soggiorni estivi a Casarsa, «…
vecchio borgo… grigio e immerso nella più sorda penombra di pioggia, popolato a
stento da antiquate figure di contadini e intronato dal suono senza tempo della
campana». Casarsa della Delizia, paese friulano che diede i natali alla madre, incontaminato,
primitivo, puro mondo campestre a cui sarà strettamente legato il suo esordio
letterario e a cui emotivamente lo scrittore rimarrà legato per tutta la vita.
Nel 1942 pubblica a proprie spese
un volumetto di poesie che suscita l’interesse di Gianfranco Contini, Poesie
a Casarsa. La raccolta è scritta in dialetto friulano, in quella che per
lui è «lingua pura per poesia»: in quel momento della storia italiana -
motiverà più tardi in Passione e ideologia - «l’unica libertà rimasta
pareva essere la libertà stilistica». In quello stesso anno, intanto, il padre
- «antagonista e tirannico» con cui ha un rapporto conflittuale feroce e
tragico - è prigioniero degli inglesi in Africa.
Dopo la fuga dalle armi,
«ossessionato dall’idea di finire uncinato; ché così finivano nel Litorale
Adriatico i giovani renitenti alla leva o dichiaratamente antifascisti»,
Pasolini trascorre i lunghi mesi dell’occupazione nazista nella cittadina
friulana e nel vicino borgo di Versuta. Qui, in casa, con mezzi di fortuna,
organizza una scuola gratuita per pochissimi alunni, mentre continua ad
occuparsi del recupero del dialetto friulano con un gruppo di amici. Nel 1944
esce il primo di due quaderni intitolati Stroligut di cà de l’aga - il
primo documento dell’attività del gruppo che nel febbraio del 1945 fonderà l’Academiuta di Lenga Furlana.
Nell’autunno di quello stesso
anno, Pier Paolo si laurea con Carlo Calcaterra, con una tesi dal titolo Antologia
della lirica pascoliana (introduzione e commenti). Sempre in quell’autunno,
finita la guerra, torna dalla prigionia del Kenia il padre, oramai «reduce
malato, avvelenato dalla sconfitta del fascismo,… distrutto, feroce, tiranno
senza più potere». Il ritorno del padre, la morte del fratello e il dolore
sovraumano della madre rendono questo periodo il più tragico della sua vita.
Nel frattempo, cominciano le
pubblicazioni de «Il Stroligut», la
rivista dell’Academiuta di Lenga Furlana
e prosegue la sua attività poetica. Nel ’45 pubblica le raccolte di versi in
italiano Poesie e, per le Edizioni dell’Academiuta, I diarii e
nel ’46 I pianti. Gran parte dei versi scritti dal ’43 al ’49 saranno
raccolti poi nel volume L’usignolo della chiesa cattolica (1958). In
dialetto friulano, invece, uscirà nel ’49 Dov’è la mia patria? e nel ’53
Tal cour di un frut.
Nel 1947, sulla nuova rivista
dell’Academiuta, «Quaderno Romanzo», esce un suo intervento nell’ambito del
dibattito sull’autonomia del Friuli. Il ’47 è anche l’anno della «scoperta di
Marx» e della sua adesione al Partito comunista - ai suoi occhi strumento per
«trasformare la preistoria in storia, la natura in coscienza». Dopo un periodo
d’insegnamento nella scuola media di Valvasone, nel 1949 Pier Paolo, «come in
un romanzo», si sposta precipitosamente con la madre a Roma. «Per due anni -
racconta Pasolini - fui un disoccupato disperato, di quelli che finiscono
suicidi; poi trovai da insegnare in una scuola privata a Ciampino per
ventisettemila lire al mese».
(Bologna, 5 marzo 1922 - Roma, 2 novembre 1975)
La posizione di Pier Paolo
Pasolini nei confronti del dialetto ha una duplice motivazione: una
affettivo-romantica, legata al carattere bucolico dell’entourage familiare contadino
della madre; l’altra politica, di opposizione al paradigma che recita: dialetto
= autonomia regionale = frammentazione nazionale.
Approfondiamo questo argomento.
Con il friulano, come visto, non
aveva un rapporto distaccato. Lo coltivava con affetto, come successivamente
farà con altri dialetti: il romanesco (Ragazzi di vita, Una vita
violenta, Accattone), il napoletano (Decameron), il lucano,
il calabrese, l’abruzzese (Vangelo secondo Matteo) e le lingue e i
dialetti africani e orientali. Ne paventava la fine, anzi, la preannunciava. E
così gli pareva imminente la fine di ogni civiltà contadina e artigiana in ogni
parte del mondo. Nei suoi viaggi in Africa e in Oriente lamentava come ogni
cultura e, in particolare, ogni lingua venisse sopraffatta dal modello
occidentale.
Si accostava a qualsiasi dialetto
come ci si accosta a una lingua straniera; non come a un espediente letterario
o formale, da sfruttare per aggiungere «colore», ma con il rispetto che si
riserva a una cultura da difendere e salvare dall’aggressione di una barbarie
massificata.
Durante la guerra, quando era ancora
residente in Friuli, aprì una scuola, fatta subito chiudere dal Provveditorato
di Udine. Perciò le lezioni continuarono in privato. Gli alunni apprendevano a
scrivere versi in italiano e in friulano. All’interno di un sistema scolastico
«purista», come quello italiano, Pasolini sfidava i luoghi comuni, secondo cui
il dialetto possono usarlo solo i filologi. Fondò appunto una specie di
laboratorio linguistico, l’«Academiuta di
Lenga Furlana» e mentre continuava a registrare gli idiomi locali durante
lunghe uscite in bicicletta, curioso di approfondire le sue conoscenze, sempre
di più si avvicinava alle posizioni dell’autonomia friulana.
A Roma, nel 1950, inseritosi
prepotentemente nelle povere e degradate periferie, apprese subito il romanesco
dei ragazzi di strada e quello degli emigrati meridionali, non quello dei
cultori e dei poeti dialettali locali.
Quando si accorgerà che anche
nelle periferie romane non si parlava più il romanesco genuino dei Ragazzi
di vita e di Una vita violenta, abbandonerà il progetto dei romanzi di
borgata a cui aveva continuato a lavorare fino ai primi anni ’60, perfezionando
le espressioni gergali, con la «consulenza» dei ragazzi che frequentava. Dei
personaggi di Petrolio nessuno parlerà il dialetto perché, con la
televisione, ovunque si era imposto l’italiano degli –ismi, degli –isti e delle
–enze. Accattone sarà l’ultima opera contaminata col dialetto. Nel Decameron
farà parlare napoletano ai suoi personaggi, ma, eccezione, è solo un espediente
stilistico. A Gennariello, lettore ideale di alcuni articoli del ’75 (Lettere
luterane), tenta di restituire la memoria della cultura a cui apparteneva.
La perdita della speranza
nell’ultimo Pasolini si percepisce anche nelle sue considerazioni
sulla lingua e sulla possibilità di utilizzarla a fini
ricreativi. Egli vedeva l’italiano contemporaneo sempre più unitario per merito
della televisione, dei giornali e delle infrastrutture, e con un nuovo centro
linguistico, non più letterario, ma tecnico o tecnologico, che individuava in
Milano. Una lingua omologata e omologante alla quale si poteva opporre il senso
profondo della lingua latina o il senso vero ed esistenziale di quella
dialettale. La sua idea di lingua latina esprimeva proprio un senso di
opposizione all’appiattimento linguistico industriale. Era favorevole infatti
all’insegnamento del latino nelle medie ma solo attraverso una riforma
radicale della scuola. Era convinto infatti che il latino che si insegna a
scuola sia un’offesa alla tradizione, frutto del perbenismo piccolo-borghese e
accademico. Sotto tutta la cultura dominante, aleggia questo latino piccolo e
privilegio di cultura, frutto della scelta della classe dirigente che non vuole
difendere il passato ma solo in definitiva ridurlo ai minimi termini, se non
perfino banalizzarlo. Perché invece, studiare il latino a scuola equivale
radicalmente ad altro, rispetto alla cultura di massa. Pasolini sentiva un
senso profondo nei confronti del passato, cioè egli era per conoscere e amare
il nostro passato, contro la ferocia speculativa del nuovo capitalismo, che non
ama nulla, non rispetta nulla, non conosce nulla.
Il latino ed il
dialetto come difesa per non abiurare il proprio modello culturale e umano, in
antitesi al nuovo modello aziendale, industriale, televisivo che, essendo la
classe dominante a creare e a volere, tende ad omologare. Codici linguistici
come forma di resistenza contro l’omologazione culturale imperante, finalizzata
a “consumare” meglio. Codici linguistici che la nuova cultura industriale
sapeva di dover mettere da parte per uniformare i cittadini al linguaggio dei
consumatori, educati in primis dal linguaggio televisivo.
Dice infatti
Pasolini:
"La cultura che
essi producono, essendo di carattere tecnologico e strettamente pragmatico,
impedisce al vecchio «uomo» che è ancora in loro di svilupparsi. Da ciò deriva
in essi una specie di rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali. La
responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certo in
quanto «mezzo tecnico», ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa.
Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro
elaboratore di messaggi. È il luogo dove si fa concreta una mentalità che
altrimenti non si saprebbe dove collocare. È attraverso lo spirito della
televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere.
Non c’è dubbio, (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre…".
Non c’è dubbio, (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre…".
Beniamino
Colnaghi
Su Pasolini sono
presenti sul blog numerosi articoli, tra i quali proponiamo:
Il caso Pier Paolo Pasolini: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2016/11/il-caso-pier-paolo-pasolini-5-marzo1922.htmlIl dubbio in Pasolini: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2015/11/pier-paolo-pasolini-applaudono-soltanto.html
Un paese di temporali e primule: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2013/12/un-paese-di-temporali-e-di-primule-le.html
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