I
lavatoi pubblici rappresentano una delle testimonianze più preziose e, in
moltissimi casi, meglio conservate della nostra storia pre-industriale e della
cultura contadina. Sino agli anni Cinquanta/Sessanta del secolo scorso, ossia
fin quando venne portata l’acqua corrente nelle abitazioni e fino all’avvento
delle lavatrici, in quasi tutti i comuni della Brianza si potevano ancora
incontrare alcune donne anziane, cariche di ceste di panni, che si dirigevano
verso il lavatoio pubblico.
Negli
anni, parecchi di questi manufatti sono stati restaurati dalle amministrazioni
comunali più sensibili e resi funzionanti; una buona parte versano ancora oggi in
condizioni di abbandono, altri sono stati lasciati in stato di abbandono e nell'incuria generale, come se si
trattasse di residui e inutili tracce del nostro passato.
Eppure
vi fu un’età in cui la costruzione di un lavatoio coperto era percepita da una
comunità come un’irrinunciabile conquista di carattere sociale. Presenti nelle
città mercantili e nelle comunità più ricche sin dall’inizio dell’età moderna,
in Brianza la costruzione di questi manufatti iniziò verso la metà del XIX
secolo e coincise con il lento e
graduale miglioramento delle condizioni economiche delle famiglie contadine e
operaie locali. Da alcuni documenti
d'archivio rinvenuti a Erba, Alta Brianza, si rileva che fin dal primo
trentennio dell'Ottocento nei sette comuni allora autonomi (prima che
si fondessero e costituissero la città di Erba) erano presenti lavatoi
pubblici, tutti annessi a fontane e con abbeveratoio per le bestie. Alcuni
erano alimentati da torrenti o rogge, altri dalle sorgenti
di cui il territorio era ricco.
Senna Comasco
Ravellino di Colle Brianza
Spesso,
come ad esempio il caso di Verderio, Imbersago e Senna Comasco, la costruzione
del lavatoio venne finanziata dalla famiglia borghese del posto, come segno di
munificenza verso la comunità che amministrava.
In assenza di fonti e vasche pubbliche
le ragazze e le donne lavavano i panni lungo i corsi d’acqua, presso qualche
sorgente o sulle sponde dei laghi, degli stagni e dei fossati di scolo delle
acque piovane. Le donne si inginocchiavano sulle sponde erbose e sporgendo il
corpo verso l’acqua sfregavano con forza gli indumenti su tavole di legno o
piani di granito.
Alcune fotografie storiche di quei
tempi, scattate da alcuni fotografi, mostrano in maniera cruda e reale lo
sforzo compiuto da gruppi di lavandaie sulle rive dei fiumi e dei laghi oppure
sui navigli milanesi per mantenersi in equilibrio. Altri documenti mostrano le
diverse fasi del lavoro femminile nei lavatoi della Brianza, in quegli anni
ancora ampiamente frequentati.
Come si scriveva all’inizio di questo
articolo, di queste vecchie e nobili strutture ne sono rimaste poche decine in
buone condizioni, grazie alla sensibilità di amministrazioni pubbliche,
associazioni e singoli benefattori. In alcuni paesi il lavatoio era comodamente
posizionato nel centro abitato, mentre in altre situazioni le strutture
orografiche del luogo non consentirono la captazione dell’acqua in un punto
centrale, e quindi il lavatoio venne costruito in aperta campagna a distanze
ragguardevoli dai centri abitati.
I lavatoi venivano ovviamente costruiti
in prossimità di una fonte, di una sorgente, dalle quali l’acqua veniva captata
e convogliata nella grande vasca centrale in pietra. Queste nuove strutture consentivano
alle lavandaie di lavorare in piedi, al riparo dal sole e dalle intemperie,
essendo la maggior parte coperte. La vasca, la cui dimensione permetteva contemporaneamente
il lavoro di alcune donne, era composta da un piano inclinato in pietra, sul
quale, le lavandaie, con la forza delle braccia, lavavano e risciacquavano gli
indumenti. Talvolta la vasca era suddivisa in due o anche tre bacini
comunicanti, dei quali, quello in prossimità dell’acqua sorgiva, era destinato
al risciacquo.
Monguzzo
Novate di Merate
Verdegò
Le strutture edilizie che normalmente
coprono le vasche si differenziavano spesso tra loro e venivano costruite in
conformità alle caratteristiche del luogo, ai materiali a disposizione, alle
esigenze ed alle risorse messe in campo da chi finanziava l’opera. Rispetto ai
lavatoi che ho avuto modo di visionare e fotografare, la maggior parte sono costituiti
da semplici strutture aperte a pianta rettangolare ed il tetto, strutturato da
capriate lignee e sorretto da pilastri in mattoni, è coperto da tegole o coppi.
In alcuni casi, i lavatoi sono aperti sui quattro lati, si veda Imbersago,
Vertemate e Verdegò, mentre in altri le strutture avevano uno o entrambi i due
lati minori chiusi da un muro. Altri ancora, come quelli di Arlate Calco e
Monguzzo, sono aperti solo su un lato.
A Verderio ex Superiore le donne che abitavano nel centro storico facevano
il bucato presso il lavatoio pubblico di piazza Roma. Come si evince
dalla prima fotografia pubblicata qui sotto, il piccolo lavatoio era composto
da una parete di mattoni, una pensilina metallica utile a ripararsi dalla
pioggia e da due piccoli lavelli in granito, alimentati dall’acqua che veniva
“pescata” da un serbatoio interrato, attraverso l’azionamento di due pompe
manuali. Fu cosi fino al 1895, quando la famiglia Gnecchi Ruscone fece
costruire la fonte Regina, una condotta composta di tubi in ghisa che prendeva
l’acqua dal laghetto di San Rocco, sito appena sopra l’ospedale di Merate, e la
portava nella villa padronale di Verderio. L’acqua venne utilizzata anche per
alimentare un paio di fontane che abbellivano le proprietà degli Gnecchi, un
rubinetto ad uso pubblico posto di fronte al municipio ed un nuovo lavatoio a due
vasche, dinnanzi al quale, nel 1902 venne costruita la nuova chiesa
parrocchiale.
Verderio, il lavatoio di piazza Roma poi demolito nei primissimi anni Sessanta
Purtroppo, come spesso accade quando
l’uomo deve occuparsi dei segni della nostra storia e delle migliori tradizioni
di un territorio, tramandati da chi ci ha preceduti, troppo tardi si è presa
coscienza del valore storico, culturale e sociale rappresentato da questi
manufatti, parte dei quali, seppur tutelati e vincolati dalla legge, sono stati
lasciati in stato di abbandono per troppo tempo, come è toccato a numerose cascine
e corti della Brianza, o, ancor peggio, incautamente e frettolosamente distrutti.
Beniamino
Colnaghi
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