Verderio, la raccolta delle uova per finanziare la Chiesa
La raccolta di offerte per le più svariate necessità parrocchiali, dalle nuove opere da realizzare alle manutenzioni ordinarie e straordinarie, dall'abbellimento del patrimonio parrocchiale al mantenimento dei parroci ha assunto modi diversi in funzione delle epoche. Nelle società contadine, alle quali apparteneva Verderio fin dopo la seconda guerra mondiale, la raccolta di fondi era, in stragrande maggioranza, basata sulle offerte e sui prodotti dell'agricoltura e del piccolo allevamento di animali domestici. Terminata la stagione della mietitura e trebbiatura del frumento e della raccolta del mais, ad esempio, i coloni offrivano alcuni chilogrammi dei preziosi cereali, che variavano di anno in anno a seconda della generosità del raccolto.
Per comprendere meglio come fosse
strutturato il sistema di raccolta fondi, di seguito riporto le decisioni
adottate a Montevecchia, Muntavégia in dialetto brianzolo, un comune collinare
che dista una decina di chilometri da Verderio.
Per finanziare la nuova chiesa
parrocchiale di Montevecchia, dedicata a San Giovanni Battista, la cui costruzione venne sollecitata dal
cardinale Andrea Ferrari durante la visita pastorale del 1906, si previde un piano
finanziario volto alla raccolta dei fondi necessari alla sua edificazione. Dopo
quasi vent'anni di progetti e discussioni, nel 1925 si iniziò finalmente la
costruzione della nuova chiesa, secondo il progetto Cabiati, da parte delle ditte
Cogliati e Sironi. Per affrontare la spesa, già dal 1920 era stata aperta una
sottoscrizione. Nel giugno del 1921 il parroco di Montevecchia, chiedendo alla
Curia il nulla osta per la costruzione, poteva garantire il problema economico
in questi termini: "I cespiti che provvederebbero i mezzi per affrontare
la gravosa soluzione della nuova costruzione, sarebbero: sottoscrizione
popolare, che ha già raggiunto le 80.000 lire circa; offerte domenicali delle
uova (lo scorso anno diede più di 7.000 lire); offerta della giornata delle
operaie; ricavi dei lavori festivi di pizzo e ricami (con permesso gentilmente
concesso da codesta ven. Curia); ricavo trebbiatura frumento (L. 2.000
all'anno); offerte in grano, bozzoli, uva, prestazione gratuita di mano d'opera
e di trasporto materiali...".
Chiesa di Montevecchia |
A costruzione avanzata si escogitò,
come detto, il piano finanziario decennale dettagliato: i proprietari di fondi
dovevano versare L. 1,50 ogni anno per ogni pertica; i coloni L. 1 all'anno per
ogni pertica; gli esercenti L. 2.000 all'anno. Per raccolta uova, latte e
diversi L. 10. 000 all'anno circa. Alcuni benefattori si erano impegnati con
una libera sottoscrizione. In sostanza il piano decennale prevedeva (tra
contributo proprietari, coloni, esercenti, raccolta latte e uova, offerte
benefattori, fondo cassa) la cifra di lire 449.810.
L’impegno e gli sforzi dei residenti
di Montevecchia permisero di veder coronato il loro sogno: la nuova chiesa
parrocchiale venne completata nel 1930 e consacrata dal cardinale Alfredo
Ildefonso Schuster nel 1933(1).
A parte il finanziamento delle
opere di natura straordinaria, come la costruzione di chiese, oratori, edifici
sacri, il sistema più praticato e capillare che le gerarchie ecclesiastiche usavano
per reperire fondi, al fine di finanziare le attività ordinarie delle curie e
delle parrocchie, erano i proventi incassati dagli affitti di terreni e immobili, dalle offerte
dei fedeli e da una sorta di “decima” composta di generi alimentari, derivanti dalla
coltivazione della terra, nonché di animali domestici, che le classi subalterne
offrivano alla Chiesa. La “decima” era un vero e proprio tributo, già menzionato
nella Bibbia, che nelle società contadine ha prolungato i propri effetti fin
oltre la metà del XX secolo.
La pratica che più di ogni altra
ha contribuito a raccogliere fondi per le parrocchie italiane è stata la
raccolta delle uova di gallina, in dialetto öf de gaina.
La raccolta era in fase con il
periodo di maggior abbondanza delle uova, ossia durante i mesi primaverili ed estivi.
Essendo un prodotto delicato e fragile da trattare, i responsabili delle
parrocchie dividevano il territorio comunale in zone e per ogni zona incaricavano
alcuni giovani di recarsi presso ogni famiglia. Normalmente se ne occupavano le
bambine e le ragazzine dai sei ai dodici anni.
Brianza, raccolta delle uova verso la metà degli anni Venti |
Anche a Verderio Superiore le
uova venivano raccolte “porta a porta”. Al fine di poter avere informazioni
attendibili ho ritenuto indispensabile raccogliere dati pertinenti e oggettivi
attraverso il metodo dell’inchiesta, con interviste ad alcune donne di
Verderio. Le interviste dirette sono una delle tecniche più diffuse, non solo per
raccogliere dati ed informazioni, ma anche per conoscere opinioni e motivazioni
e sono il metodo di raccolta dati che preferisco, perché, oltre al piacere del
dialogare con gli altri, si prefigge lo scopo di alimentare lo scambio di opinioni
e di idee tra i due attori dell’interazione.
Il periodo storico analizzato
abbraccia un ventennio ed è compreso tra la metà degli anni Quaranta, in
sostanza subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, e la metà degli
anni Sessanta. La raccolta avveniva normalmente il giovedì, giorno di chiusura
della scuola elementare e si svolgeva secondo un programma messo a punto dalle
suore dell’Immacolata dell’asilo Giuseppina Gnecchi (vedasi il post del 4
settembre 2012)(2), che assegnavano alle
ragazzine raccoglitrici i percorsi e le zone del paese da seguire. Le
incaricate si spostavano in coppia raggiungendo tutte le abitazioni dei
residenti del paese, i quali, per libera volontà e secondo le loro disponibilità,
deponevano le uova nelle ceste di vimini che le bambine portavano con cura sottobraccio.
Verderio, asilo Giuseppina Gnecchi |
La signora Agnese, allora
bambina, che abitava con la sua numerosa famiglia alla fattoria ai Boschi, mi
ha confidato che in paese si aprirono due scenari: da un lato le famiglie
verderiesi che, per i più disparati motivi, non offrivano le uova alla Chiesa,
dall’altro, invece, quei nuclei che aprirono una vera e propria gara a chi
offrisse più uova. La mamma di Agnese era una donna generosa e offriva ogni
settimana parecchie uova alla Chiesa locale. Nel depositare le uova nel paniere
di vimini diceva, con la proverbiale saggezza contadina, che “la carità onesta
esce dalla porta e rientra dalla finestra”. La signora Letizia, che avrà avuto
sì e no dieci/undici anni, ricorda, in particolare, che partecipava alla
raccolta delle uova durante la
Quaresima. La signora Bruna è stata una delle ultime
ragazzine a svolgere quel compito affidatole dalle suore. Mi ha raccontato che
nei primi anni Sessanta, ogni giovedì, insieme ad un’altra giovane incaricata
andava a piedi fino alla cascina La
Salette, depositava le uova offerte in un cestino di vimini che
poi consegnava alle reverende dell’Immacolata.
Il ruolo delle suore consisteva
nell’organizzare e gestire le ragazzine che svolgevano le attività e annotare
su un registro il numero delle uova raccolte. Le religiose consegnavano la
merce in canonica ad un incaricato del parroco, che provvedeva ad avvisare il
commerciante con il quale si era sottoscritto il migliore contratto di vendita.
A cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta le uova venivano vendute al
pollivendolo di Merate, ul pulireù Natale
Cereda, che aveva un piccolo negozio vicino al bar La Pianta di piazza Italia.
La bicicletta di un pollivendolo esposta in un museo contadino |
Terminato il periodo stagionale
di raccolta “porta a porta” delle uova, sul bollettino parrocchiale il parroco
di Verderio Superiore si dava cura di informare con diligenza i parrocchiani
dei proventi ricavati dalla vendita.
A partire dai primissimi anni
Sessanta, il boom economico e i profondi cambiamenti intervenuti nella
struttura sociale della società contadina hanno mutato antiche e consolidate
tradizioni secolari.
Dalle informazioni assunte
durante le interviste, pare che la raccolta delle uova per finanziare le
attività parrocchiali abbia cessato di essere svolta verso la fine degli anni
Sessanta.
Beniamino Colnaghi
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