sabato 13 settembre 2014

Verderio, la raccolta delle uova per finanziare la Chiesa

La raccolta di offerte per le più svariate necessità parrocchiali, dalle nuove opere da realizzare alle manutenzioni ordinarie e straordinarie, dall'abbellimento del patrimonio parrocchiale al mantenimento dei parroci ha assunto modi diversi in funzione delle epoche. Nelle società contadine, alle quali apparteneva Verderio fin dopo la seconda guerra mondiale, la raccolta di fondi era, in stragrande maggioranza, basata sulle offerte e sui prodotti dell'agricoltura e del piccolo allevamento di animali domestici. Terminata la stagione della mietitura e trebbiatura del frumento e della raccolta del mais, ad esempio, i coloni offrivano alcuni chilogrammi dei preziosi cereali, che variavano di anno in anno a seconda della generosità del raccolto. 
Per comprendere meglio come fosse strutturato il sistema di raccolta fondi, di seguito riporto le decisioni adottate a Montevecchia, Muntavégia in dialetto brianzolo, un comune collinare che dista una decina di chilometri da Verderio.
Per finanziare la nuova chiesa parrocchiale di Montevecchia, dedicata a San Giovanni Battista, la cui costruzione venne sollecitata dal cardinale Andrea Ferrari durante la visita pastorale del 1906, si previde un piano finanziario volto alla raccolta dei fondi necessari alla sua edificazione. Dopo quasi vent'anni di progetti e discussioni, nel 1925 si iniziò finalmente la costruzione della nuova chiesa, secondo il progetto Cabiati, da parte delle ditte Cogliati e Sironi. Per affrontare la spesa, già dal 1920 era stata aperta una sottoscrizione. Nel giugno del 1921 il parroco di Montevecchia, chiedendo alla Curia il nulla osta per la costruzione, poteva garantire il problema economico in questi termini: "I cespiti che provvederebbero i mezzi per affrontare la gravosa soluzione della nuova costruzione, sarebbero: sottoscrizione popolare, che ha già raggiunto le 80.000 lire circa; offerte domenicali delle uova (lo scorso anno diede più di 7.000 lire); offerta della giornata delle operaie; ricavi dei lavori festivi di pizzo e ricami (con permesso gentilmente concesso da codesta ven. Curia); ricavo trebbiatura frumento (L. 2.000 all'anno); offerte in grano, bozzoli, uva, prestazione gratuita di mano d'opera e di trasporto materiali...". 

Chiesa di Montevecchia





A costruzione avanzata si escogitò, come detto, il piano finanziario decennale dettagliato: i proprietari di fondi dovevano versare L. 1,50 ogni anno per ogni pertica; i coloni L. 1 all'anno per ogni pertica; gli esercenti L. 2.000 all'anno. Per raccolta uova, latte e diversi L. 10. 000 all'anno circa. Alcuni benefattori si erano impegnati con una libera sottoscrizione. In sostanza il piano decennale prevedeva (tra contributo proprietari, coloni, esercenti, raccolta latte e uova, offerte benefattori, fondo cassa) la cifra di lire 449.810.
L’impegno e gli sforzi dei residenti di Montevecchia permisero di veder coronato il loro sogno: la nuova chiesa parrocchiale venne completata nel 1930 e consacrata dal cardinale Alfredo Ildefonso Schuster nel 1933(1).

A parte il finanziamento delle opere di natura straordinaria, come la costruzione di chiese, oratori, edifici sacri, il sistema più praticato e capillare che le gerarchie ecclesiastiche usavano per reperire fondi, al fine di finanziare le attività ordinarie delle curie e delle parrocchie, erano i proventi incassati dagli  affitti di terreni e immobili, dalle offerte dei fedeli e da una sorta di “decima” composta di  generi alimentari, derivanti dalla coltivazione della terra, nonché di animali domestici, che le classi subalterne offrivano alla Chiesa. La “decima” era un vero e proprio tributo, già menzionato nella Bibbia, che nelle società contadine ha prolungato i propri effetti fin oltre la metà del XX secolo.


La pratica che più di ogni altra ha contribuito a raccogliere fondi per le parrocchie italiane è stata la raccolta delle uova di gallina, in dialetto öf de gaina.
La raccolta era in fase con il periodo di maggior abbondanza delle uova, ossia durante i mesi primaverili ed estivi. Essendo un prodotto delicato e fragile da trattare, i responsabili delle parrocchie dividevano il territorio comunale in zone e per ogni zona incaricavano alcuni giovani di recarsi presso ogni famiglia. Normalmente se ne occupavano le bambine e le ragazzine dai sei ai dodici anni.

Brianza, raccolta delle uova verso la metà degli anni Venti

Anche a Verderio Superiore le uova venivano raccolte “porta a porta”. Al fine di poter avere informazioni attendibili ho ritenuto indispensabile raccogliere dati pertinenti e oggettivi attraverso il metodo dell’inchiesta, con interviste ad alcune donne di Verderio. Le interviste dirette sono una delle tecniche più diffuse, non solo per raccogliere dati ed informazioni, ma anche per conoscere opinioni e motivazioni e sono il metodo di raccolta dati che preferisco, perché, oltre al piacere del dialogare con gli altri, si prefigge lo scopo di alimentare lo scambio di opinioni e di idee tra i due attori dell’interazione.

Il periodo storico analizzato abbraccia un ventennio ed è compreso tra la metà degli anni Quaranta, in sostanza subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, e la metà degli anni Sessanta. La raccolta avveniva normalmente il giovedì, giorno di chiusura della scuola elementare e si svolgeva secondo un programma messo a punto dalle suore dell’Immacolata dell’asilo Giuseppina Gnecchi (vedasi il post del 4 settembre 2012)(2), che assegnavano alle ragazzine raccoglitrici i percorsi e le zone del paese da seguire. Le incaricate si spostavano in coppia raggiungendo tutte le abitazioni dei residenti del paese, i quali, per libera volontà e secondo le loro disponibilità, deponevano le uova nelle ceste di vimini che le bambine portavano con cura sottobraccio. 

Verderio, asilo Giuseppina Gnecchi

La signora Agnese, allora bambina, che abitava con la sua numerosa famiglia alla fattoria ai Boschi, mi ha confidato che in paese si aprirono due scenari: da un lato le famiglie verderiesi che, per i più disparati motivi, non offrivano le uova alla Chiesa, dall’altro, invece, quei nuclei che aprirono una vera e propria gara a chi offrisse più uova. La mamma di Agnese era una donna generosa e offriva ogni settimana parecchie uova alla Chiesa locale. Nel depositare le uova nel paniere di vimini diceva, con la proverbiale saggezza contadina, che “la carità onesta esce dalla porta e rientra dalla finestra”. La signora Letizia, che avrà avuto sì e no dieci/undici anni, ricorda, in particolare, che partecipava alla raccolta delle uova durante la Quaresima. La signora Bruna è stata una delle ultime ragazzine a svolgere quel compito affidatole dalle suore. Mi ha raccontato che nei primi anni Sessanta, ogni giovedì, insieme ad un’altra giovane incaricata andava a piedi fino alla cascina La Salette, depositava le uova offerte in un cestino di vimini che poi consegnava alle reverende dell’Immacolata.
Il ruolo delle suore consisteva nell’organizzare e gestire le ragazzine che svolgevano le attività e annotare su un registro il numero delle uova raccolte. Le religiose consegnavano la merce in canonica ad un incaricato del parroco, che provvedeva ad avvisare il commerciante con il quale si era sottoscritto il migliore contratto di vendita. A cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta le uova venivano vendute al pollivendolo di Merate, ul pulireù Natale Cereda, che aveva un piccolo negozio vicino al bar La Pianta di piazza Italia.     

La bicicletta di un pollivendolo esposta in un museo contadino

Terminato il periodo stagionale di raccolta “porta a porta” delle uova, sul bollettino parrocchiale il parroco di Verderio Superiore si dava cura di informare con diligenza i parrocchiani dei proventi ricavati dalla vendita.
A partire dai primissimi anni Sessanta, il boom economico e i profondi cambiamenti intervenuti nella struttura sociale della società contadina hanno mutato antiche e consolidate tradizioni secolari.  
Dalle informazioni assunte durante le interviste, pare che la raccolta delle uova per finanziare le attività parrocchiali abbia cessato di essere svolta verso la fine degli anni Sessanta.

Beniamino Colnaghi


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