Storie della Brianza di una volta: la pergola dei Proserpio
L’estate del 1947 fu torrida; in quei mesi si registrarono temperature tra le più alte del secolo.
L’estate del 1947 fu torrida; in quei mesi si registrarono temperature tra le più alte del secolo.
Nel mese di luglio
di quell’anno uno stuolo di ragazzini, incuranti del solleone, giocava a nascondino
scorazzando tra la grande corte e gli orti esterni della cascina. Per non
essere scoperti, si appiattivano dietro i pilastri dei portici o si
accucciavano sotto i carri agricoli. Le galline, impaurite dalle urla e dalle
corse dei ragazzini, fuggivano sbattendo le ali in ogni dove, mentre le oche
starnazzavano stupidamente. Qualche vecchia usciva dalle porte protette dal caldo
da ruvide tende a righe verticali, redarguendo qualche giovincello troppo
esuberante. Le donne anziane alzavano le braccia e scuotevano la testa,
scambiando pochi commenti con le vicine e sparendo quasi subito dietro le tende
abbassate. I pargoli dormivano beatamente dentro le semibuie e fresche stanze e
per nessuna ragione al mondo dovevano essere svegliati.
L’aia della cascina
Addolorata era molto grande, la più ampia di tutte. Su di essa si affacciava un
lungo porticato, sotto il quale si aprivano sedici abitazioni, tutte
rigorosamente esposte verso sud. Ai lati del corpo centrale avevano sede le
stalle ed i fienili e alcuni portici aperti, sotto i quali i contadini
depositavano i carri e gli attrezzi agricoli.
Sotto il grande
porticato, gli uomini anziani, per combattere le ore più calde della giornata,
se ne stavano appisolati sulle panche di legno, appena fuori dalle loro
abitazioni. Sui tavolini di rovere massello erano posate alcune brocche di
acqua fresca, “pescata” dal pozzo per dissetare i ragazzini che stavano
giocando, mentre i vecchi, tra uno sbadiglio e una sventagliata del cappello a
larghe falde sul viso per rinfrescarsi, si facevano versare dalle premurose
massaie di casa un buon calice di vino rosso, il pincianel, un vinello decantato dal poeta
milanese Carlo Porta nell’Ottocento e nel secolo scorso anche dagli scrittori
Gianni Brera e Mario Soldati.
Una cascina lombarda con il tradizionale pergolato d'uva (cliccare sulle immagini per ingrandirle)
La pergola della
famiglia Proserpio era la più grande e la più ricca di uva. Anselmo, il padre dell’attuale
capofamiglia, venne ad abitare in cascina nell’ultima decade dell’Ottocento, a
servizio del padrone, il conte Malinverni. Anselmo era un giovane di alta
statura, biondo con gli occhi chiari, come certi montanari che provengono dalle
valli alpine dell’estremo nord. Ma lui era nato in un piccolo paese del Triangolo
Lariano, che si estende come una penisola incuneata tra i due rami del Lario:
quello di Como e quello di Lecco.
Il conte aveva
necessità di assumere un bravo bergamino per migliorare le tecniche di allevamento
dei suoi bovini da latte. Il buon Anselmo si inserì così bene in cascina che,
di lì a pochi anni, sposò l’unica figlia del conte, Maria Vittoria Malinverni,
dalla quale ebbe un figlio maschio, Pietro Maria. Pochi giorni dopo il parto la
mamma cominciò a deperire a vista d’occhio. A nulla valsero i consulti dei più
rinomati medici cittadini, chiamati dal conte al capezzale della figlia: Maria
Vittoria morì di una malattia allora sconosciuta. Era trascorso meno di un mese
dal parto. Il dolore che afflisse il conte fu così forte che lo portò ad
assumere la decisione di vendere la cascina Addolorata e tutti i terreni di sua
proprietà. Si ritirò nella sua bella casa di Milano, ove, solo e depresso, morì
pochi anni dopo, lasciando tutti i suoi soldi e le proprietà ad un noto
orfanotrofio della città. Tranne un piccolo appezzamento di terra, circa quindici
pertiche lombarde, che nel suo testamento lasciò al nipote Pietro Maria. La
decisione del defunto di non lasciare tutti i suoi averi al nipote, il
discendente a lui più prossimo, suscitò mormorii e pettegolezzi in cascina ed
in paese, tanto da confermare le dicerie che circolarono in occasione del
matrimonio di sua figlia col bergamino, secondo le quali il conte non benedisse
mai quell’unione, anche se, per amore verso la figlia, mantenne un
atteggiamento defilato.
Verderio, curt del Legnamée (falegname) e del Murnée (mugnaio): la pergola ricca di uva americana di proprietà della famiglia Besana.
Sotto la pergola il vecchio Anselmo chiacchierava
amabilmente con Gusten, Agostino
Galbusera, l’uomo più vecchio della cascina, classe 1865, il quale raccontava
quasi ogni giorno delle vicissitudini trascorse durante la Guerra di Abissinia, il conflitto al quale partecipò tra il
dicembre del 1895 e l'ottobre del 1896. La guerra si concluse con una dura
sconfitta per le forze armate del Regno d'Italia e con la perdita di diverse
migliaia di soldati. Agostino ritornò a casa qualche mese dopo, nella primavera
del 1897, e da allora non smise mai di raccontare ciò che vide in quel
terribile periodo. I due vecchi avevano ormai troppi anni per lavorare nei
campi e anche l’ortaglia era diventata troppo grande per le loro deboli
braccia. Anselmo sapeva che la pergola lo avrebbe protetto ancora per poco
tempo. Fumava il toscano, accarezzando, ti tanto in tanto con la mano destra, i
capelli biondi del bambino.
“Nonno,
perché non sei nel campo ad aiutare il papà?”
“Non
posso, Vittorio, sono troppo vecchio per tagliare il grano”.
Il
vecchio sventolò il suo cappello contro le mosche, attirate dal sudore che gli
rigava le guance.
Il
piccolo Vittorio, che ereditò il nome della nonna paterna, era il secondogenito
di Pietro Maria, il figlio di Anselmo.
“Posso
assaggiare l’uva, nonno?”
“E’
ancora un po’ indietro nella maturazione, mancano ancora dieci giorni a
Sant’Anna”.
Verderio, la pergola della cascina Isabella.
Anna
era la madre di Maria e la sua festa cade il 26 luglio. Molti riconoscono in
Sant’Anna la propria patrona: i commercianti, le ricamatrici e le sarte, i
naviganti e i minatori, le vedove. Ma la santa è invocata soprattutto dalle
gestanti, alle quali in cambio di devozione garantisce il buon esito della
gravidanza ed un parto agevole. Nelle camere dei contadini non mancava, oltre
all’immagine della Sacra Famiglia appesa al muro, un’effigie di Sant’Anna:
allora nel grande letto nascevano tutti i figli che la bontà di Dio voleva
donare.:In alcune parti d’Italia
la festa di Sant’Anna interrompeva i lavori di mietitura e trebbiatura. Narra
la leggenda che un tempo, quando per separare i chicchi delle spighe dorate si
usava il correggiato, oppure si facevano calpestare da una coppia di buoi, un
contadino decise di rompere il tabù di lavorare nel giorno dedicato alla santa.
I cerchi concentrici tracciati dai buoi che calpestavano le spighe divennero un
vortice che sprofondò inghiottendo l’aia e tutto quel che conteneva. Infine la
buca si riempì d’acqua. Il mito della nascita delle stagioni, dell’alternanza
del periodo secco e di quello piovoso, è riprodotto dai contadini anche
attraverso l’usanza di recarsi, durante la festa di Sant’Anna, in un luogo di
balneazione. Che si trattasse di un corso d’acqua o di un laghetto, o ancora
della riva del mare, lunghe teorie di carri agricoli trainati dai buoi
trasportavano le famiglie. La pratica di gettarsi in acqua sembrava avere una
valenza purificatrice, ma anche un auspicio di fecondità.
La festa di Sant’Anna, per il modo in cui veniva celebrata dai contadini, e per gli elementi che presenta la leggenda ad essa legata, con l’astensione dalle attività lavorative, il mito della voragine, la presenza dell’acqua, sembra ricollegarsi alle antiche celebrazioni di un culto agrario dedicato a Demetra la cui ricostruzione è più ipotetica che reale, ma di cui attraverso la pratiche tradizionali si riescono ad intravedere alcuni brevi tratti.
La festa di Sant’Anna, per il modo in cui veniva celebrata dai contadini, e per gli elementi che presenta la leggenda ad essa legata, con l’astensione dalle attività lavorative, il mito della voragine, la presenza dell’acqua, sembra ricollegarsi alle antiche celebrazioni di un culto agrario dedicato a Demetra la cui ricostruzione è più ipotetica che reale, ma di cui attraverso la pratiche tradizionali si riescono ad intravedere alcuni brevi tratti.
Il vecchio Anselmo, per
accontentare il nipotino, si alzò lentamente dalla panca di legno, accostò uno
sgabello al muro e salì tanto quanto bastò per prendere un piccolo grappolo,
uno dei più maturi.
“Vai in casa e chiedi alla mamma di lavarlo perché c’è su un po’ di
verderame”.
Di ritorno, il piccolo iniziò a mangiare alcuni acini, ma il suo viso
cominciò ben presto ad esprimere un certo disgusto. Anselmo sorrise. “Te
l’avevo detto che non era ancora matura”.
Il bambino era una buona compagnia in queste giornate di luglio. Altri
vecchi erano seduti sotto altre pergole. Lui li conosceva tutti. Erano in
cascina perché l’osteria più vicina stava in paese ed era troppo rischioso,
alla loro età, andare a giocare a carte con quel solleone. Le loro gambe non
avrebbero retto la fatica ed il cuore avrebbe sofferto eccessivamente. No, la
cosa più saggia era starsene sotto la pergola a riposare e chiacchierare con
gli altri vecchi della cascina.
Verderio, la "ridimensionata" pergola della cascina San Carlo, casina del Cürat.
“Non vuoi assaggiare l’uva, nonno?”
“No, caro Vittorio, mai prima di Sant’Anna. E’ sempre stata una tradizione
e io ho imparato, fin dalla tua età, che le tradizioni bisogna rispettarle”.
“Nonno, raccontami del signor conte. E’ vero che non voleva bene alla
nonna?”
“Eh, tu sei piccolo, certe cose non le puoi capire. Quando andrai a scuola
e sarai più grande, capirai che nel mondo ci sono i ricchi e i poveri, ci sono
sempre stati, e non sempre vanno d’accordo. Il tuo bisnonno era una brava
persona, ha dato da mangiare a tante famiglie qui in paese, ma aveva le sue
idee. Secondo lui, e quelli della sua stirpe, una persona ricca non doveva
sposarsi con uno che apparteneva ad una famiglia di contadini. C’erano di mezzo
le proprietà e il buon nome del casato”.
“Allora io, quando sarò grande, non potrò sposare Rosangela, la figlia del
macellaio?”
“Certo che potrai sposarla. Tu
diventerai un bel giovane, studierai, perché l’intelligenza non ti manca, e
prenderai un pezzo di carta. Vedrai, i tempi cambieranno anche per noi povera
gente e un giorno tu vivrai meglio di tuo nonno e di tuo padre”.
Il vecchio cominciò a guardare oltre il muro di cinta della cascina, verso
le colline dell’alto Lario, dove si intravedevano le cime dei pioppi e dei
grandi platani. In fondo, il campanile del paese rintoccava le quattro del
pomeriggio. Poco prima del campanile c’era il campo che il conte lasciò in
eredità a suo figlio, quello che mai aveva tradito un raccolto. Quando lavorava
in quel campo sentiva la presenza discreta di sua moglie Maria Vittoria.
Malgrado fossero trascorsi tanti anni dalla sua morte, la ricordava sempre con
emozione. Una lacrima gli scivolò sul viso, fino ad inumidirgli i baffi ormai
bianchi.
“Che cosa pensi, nonno?”
“La terra, rispose Anselmo, ti dà
molta soddisfazione, ma ti cava il sangue. Se ti va bene, dai da mangiare a
tutta la famiglia, ma se un anno il tempo fa il matto, non ti restano neanche i
soldi per pagare l’affitto al padrone”.
Il bambino sentì la mano di suo nonno stringergli forte la testa. Non si
voltò verso di lui. Sapeva che stava lottando per non piangere. Lo faceva
sempre più spesso, ultimamente. Nessuno però se n’era accorto, fuorché il
piccolo Vittorio.
Beniamino
Colnaghi
I personaggi ed i luoghi del racconto sono puramente immaginari.
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