Lavoro e vita quotidiana delle classi popolari in Brianza: oggetti, voci e gesti della tradizione in un nuovo museo di società
di Massimo Pirovano *
Il Museo Etnografico
dell’Alta Brianza, inaugurato a Galbiate nel 2003 e riconosciuto dalla Regione
Lombardia come uno dei pochi musei del settore etnoantropologico nel suo
territorio, è dedicato agli usi e costumi della gente della Brianza storica, la
regione collinare in buona parte compresa nella provincia di Lecco, a ridosso
del lago di Como e delle Prealpi.
“Brianza storica” perché,
come ricordava don Rinaldo Beretta, alla metà del ‘400 questo territorio
cominciò ad essere identificato attraverso una serie di esenzioni fiscali o di
privilegi che furono via via concessi dai Visconti e dagli Sforza ai paesi di
alcune Pievi lombarde e ad alcune famiglie, in virtù della loro fedeltà
politico-militare ai signori di Milano. Si trattava delle pievi di Oggiono, di
Garlate, di Brivio con Ronco, di Missaglia e di Agliate oltre il Lambro, cui si
aggiunsero le squadre dei Mauri e di Nibionno, nella pieve di Incino (Erba) ma
al di qua del Lambro, dislocate attorno al Monte di Brianza.
Dal ‘700 in poi le attrattive del paesaggio, le ville sempre più numerose e prestigiose dei benestanti milanesi, la notorietà del Monte di Brianza, portarono a quella che il Beretta ha definito “la tendenza ad allargare in modo generico l’estensione dell’antico territorio briantino”, fenomeno che divenne macroscopico nell’Ottocento, sia a nord verso il triangolo lariano, sia a ovest verso il torrente Seveso, sia a sud verso Monza.
Il nostro museo, però, non si preoccupa di segnare confini, ma piuttosto di studiare e fare conoscere la storia sociale e la cultura di chi è vissuto e vive in questo territorio, una cultura sempre in divenire anche grazie ai continui scambi con usanze, pratiche e vicende di altre zone.
In altre parole si tratta di un
museo che parla della vita quotidiana, dei lavori tradizionali, dei costumi,
delle credenze, delle forme espressive delle classi popolari nei secoli XIX e
XX, attraverso manufatti, documenti e tracce che rimangono ancora negli edifici
e nel paesaggio, segni di un’epoca che ci conduce dall’età preindustriale fino
ad oggi, con notevoli trasformazioni ma anche con significative permanenze di
‘lunga durata’.
La particolarità di questo museo
è di raccogliere, e in parte di presentare ai visitatori, oltre agli oggetti,
ai documenti scritti e alle fotografie, le testimonianze orali registrate e i
filmati raccolti ‘sul campo’, necessari per studiare e far conoscere le
pratiche, i saperi, le relazioni sociali, le credenze delle donne e degli
uomini vissuti in questo territorio.
Questa scelta deriva dalla
constatazione che la cultura delle classi popolari si caratterizza, rispetto a
quella delle élites, per il prevalere
della comunicazione orale, che ha i dialetti come strumenti fondamentali, e di
quella visiva nella trasmissione del sapere, nell’espressione artistica, nella
definizione dei modelli di comportamento.
Il museo, quindi, non vuole
essere un contenitore di materiali muti e di informazioni fredde, ma intende
coinvolgere anche emotivamente il pubblico, fornendo elementi di conoscenza e
di stimolo ad una riflessione imperniata sul confronto tra culture diverse nel
tempo e nello spazio.
Per questo, accanto alla visita,
si propongono conferenze, dibattiti, concerti, esibizioni e incontri con i
portatori della tradizione.
Camporeso
La sede del museo si trova nel
borgo di Camporeso, un nucleo agricolo a corte chiusa, già attestato all’inizio
del Trecento, con una residenza padronale dotata di oratorio settecentesco e le
abitazioni dei coloni. Proprietari della porzione più consistente di Camporeso
sono stati i nobili Tinelli di Gorla e, per la porzione a monte, l’Ospedale
Fatebenefratelli. E’ in quest’ultimo compendio, acquisito dal Parco del Monte
Barro nel 1991 dall’USSL di Lecco, che è stato realizzato il museo. Fino ad
epoca recente gli ambienti a piano terra erano adibiti a stalle, mentre al
primo piano vi erano le abitazioni coloniche e nel sottotetto i fienili.
Chi giunge per la prima volta
all’ingresso del museo può notare, sopra la porta, le labili tracce di un
dipinto popolare, di cui è però possibile identificare i soggetti principali,
secondo un modello assai diffuso: la Madonna in piedi a sinistra e Giobbe seduto
sulla destra. A loro veniva affidato ogni anno nel mese di maggio la buona
riuscita dell’allevamento dei bachi da seta. A questa attività, illustrata
attraverso strumenti di lavoro, oggetti, fotografie e voci, è dedicata la prima
stanza del museo. Per più di due secoli, infatti, in Brianza e nel Lecchese, la
bachicoltura ha avuto grande importanza nell’economia e nella vita quotidiana
per i contadini, tanto da modificarne il paesaggio con una presenza fittissima
di gelsi, delle cui foglie si nutre il baco. Dell’allevamento del baco si
occupavano in particolare le donne contadine, che, nei mesi successivi erano
impegnate anche nella trattura del filo di seta che si compiva nelle filande.
Con un lavoro molto impegnativo,
anche se di poche settimane tra maggio e giugno, in effetti, i contadini si
garantivano un’importantissima entrata di contanti dopo le ristrettezze della
stagione invernale, a condizione che non intervenissero malattie del baco e del
gelso.
Dalla seconda metà dell’Ottocento
la produzione subì varie flessioni anche per la concorrenza straniera, fino
allo smantellamento massiccio delle filande dopo il 1930 e alla loro chiusura
negli anni ’50.
Gelso e baco da seta, fieno e
bovini, mais, frumento, vite sono stati i prodotti principali dell’agricoltura
in Brianza tra Settecento e Novecento.
Un ampio spazio della sala
dedicata all’agricoltura presenta immagini e strumenti relativi alla
coltivazione del mais. Una sequenza di diapositive illustra le varie fasi della
lavorazione tradizionale, dall’aratura all’erpicatura, dalla semina alla
raccolta, dalla sgranatura alla essicazione, alla conservazione.
Originario dell’America, il mais
è stato a lungo in Europa una pianta ornamentale da giardini; è solo nel
Settecento che comincia ad avere una presenza significativa, per raggiungere
un’importanza centrale nella produzione agricola tra il 1750 e il 1850.
Il granoturco divenne una coltura
molto importante nella nostra zona e la sua diffusione fu voluta dai contadini
più che dai proprietari delle terre. Il suo valore commerciale, infatti, era
scarso, mentre era molto richiesto il frumento, cui i proprietari chiedevano
che fosse destinata la maggior parte dei fondi. I contadini, però, coltivavano
il granoturco anche sotto le viti, sulle balze delle colline, dissodando la
terra con la vanga, dove non si poteva arrivare con l’aratro. Ciò perché la
loro alimentazione era imperniata su pani di cereali misti e soprattutto sulla
polenta, che fono alla seconda guerra mondiale si mangiava anche tre volte al
giorno.
Nella stessa sala dedicata
all’agricoltura sono esposti gli strumenti della fienagione. I foraggi, e
principalmente il fieno, sono stati tra le produzioni maggiori per quantità e
più costanti nel tempo, dell’agricoltura lecchese.
La produzione del fieno era infatti
un’attività strategica nell’economia agricola e ad essa veniva dedicato molto
lavoro: tre ‘tagli’ all’anno, che significavano, per tre volte, operazioni di
sfalcio, raccolta, essicazione, trasporto e conservazione: un insieme di
operazioni assai impegnative per il contadino, perché, fino all’introduzione
della falciatrice meccanica, tutto, e a volte persino il trasporto dal prato al
fienile, era affidato al lavoro manuale.
La sala del museo espone gli
attrezzi impiegati ed illustra le varie fasi del lavoro e delle operazioni ad
esso collegate, con un breve filmato: dalla preparazione del prato mediante la
sua concimazione al taglio, dall’affilatura della falce all’essicazione, dal
trasporto alla conservazione. Queste informazioni si integrano con quelle
fornite sull’allevamento nella parte dedicata alla stalla.
Nella società tradizionale la
stalla era forse il luogo più importante della vita contadina, destinato alla
custodia degli animali (bovini e equini, prima di tutto, in particolare nelle
ore notturne e nel periodo invernale) ma anche al ritrovo delle persone, alla
comunicazione tra le generazioni e i sessi, alla educazione dei bambini, al
corteggiamento tra i giovani, alla trasmissione delle credenze mediante i
racconti, e di pratiche religiose, come la recita del rosario. Nelle ore serali
e nella stagione fredda era inoltre un luogo dove si svolgevano lavori
artigiani sia femminili che maschili.
L’allevamento bovino nella nostra
zona era praticato in stalle piccole, in media con due-tre bestie grosse, anche
in proporzione della disponibilità di foraggio, ed alla forza lavoro su cui
poteva contare la famiglia contadina. Gli animali, comprese le pecore che
davano la lana, erano un bene molto prezioso per la famiglia contadina, che li
affidava alla protezione di sant’Antonio abate, una figura che era
rappresentata accanto al maiale ma spesso anche ad altri animali domestici.
L’allestimento di questo ambiente
è giocato sull’ostensione di pochi oggetti, su una proiezione di dipinti e foto
d’epoca (tra cui compare anche una foto in bianco e nero scattata nel 1917 in
una stalla di Cucciago) sulla diffusione di materiali sonori che evocano le
varie componenti della comunicazione orale che avveniva in stalla.
Nel museo la stalla si apre sul
portico. Qui si è deciso di esporre i mezzi usati per il trasporto che si
giovava del lavoro manuale e le bardature per buoi e cavalli.
Nella società tradizionale, però
erano prima di tutto i contadini – uomini e donne – a trasportare
quotidianamente prodotti, merci, oggetti: dai prati al fienile, dal bosco alla
legnaia, dall’orto al mercato, dal mercato alla casa, dal pozzo alla cucina,
dalla casa al lavatoio. Prima della meccanizzazione e della diffusione del
benessere, che avrebbero portato all’uso anche tra le classi popolari della
bicicletta prima e dei veicoli a motore poi, si impiegavano gli animali da soma
e da tiro (cavalli, asini, muli e soprattutto buoi) ma più spesso si usava il
proprio corpo per portare i carichi a braccia, a spalla o sul dorso. Il
trasporto era per tutti una dura necessità, ma per il colono c’era l’obbligo di
trasportare fino alla casa del padrone quello di cui costui aveva bisogno.
La Brianza ha una vocazione
vitivinicola molto antica. Il museo ne rende conto nella sezione sulla
viticoltura nella sala sull’agricoltura e nella cantina, anche attraverso
immagini, interviste e filmati realizzati negli ultimi anni. In passato i vini
prodotti nella nostra regione erano estremamente apprezzati – valgano per tutti
i giudizi entusiastici che ne dava nei suoi versi Carlo Porta. A partire dalla
metà dell’Ottocento tuttavia una serie di calamità, dovute a malattie giunte
dall’America, si abbatté sulla viticoltura brianzola, come su quella di tutta
Europa: dapprima l’oidio che a partire dal 1850, causò un gravissimo tracollo
della produzione. La scoperta dell’azione dello zolfo contro il parassita
permise di superare la crisi; ma già alla dine degli anni ’70 comparve la
peronospora, un altro fungo parassita che provoca la morte della vite. La
gravissima crisi provocata dalla diffusione della fillossera, dopo il 1879, fu
superata grazie al ricorso dei vitigni americani, dimostratisi resistenti al
parassita: si rivelò infatti possibile coltivare, da un lato, varietà di viti
americane per la produzione diretta di uva, e dall’altro, salvare le antiche
varietà europee, assai più pregiate, innestandole su vitigni americani. Tra i
primi “produttori diretti” ad essere
importati (ancora nell’Ottocento) fu il tuttora diffusissimo Clinton
(localmente clinto).
Oggi solo nei comuni intorno alla collina di
Montevecchia, si produce vino secondo gli standard moderni con un’attività
economica specializzata. D’altra parte la piccola viticoltura, praticata a
livello familiare più per ragioni sentimentali che economiche, ha fatto sì che
il museo abbia ricevuto le donazioni di molte famiglie, di oggetti e strumenti
utilizzati nella vigna o in cantina.
I flauti di Pan in una sala esposizioni del Meab
Un museo della vita quotidiana
delle classi popolari, oltre a dare lo spazio adeguato alle varie attività
produttive, non deve dimenticare gli aspetti della vita festiva. In questa
prospettiva si colloca la sezione che il MEAB dedica al flauto di Pan. Ampiamente
documentato in tutto il mondo attraverso quattro tipologie fondamentali, questo
strumento fatto di canne ha trovato posto già nella mitologia e nella
letteratura classica greca e romana. In Europa, la sua presenza è attestata
lungo una fascia geografica che partendo dalla Spagna giunge alla Romania, con
propaggini in Lituania e Russia. In Lombardia viene indicato con termini come firlinfö, fregamüsón, fit-fut,
orghenìi, sìfol.
Già presente in Brianza tra il
XVIII e il XIX secolo, come strumento di cascina e di osteria, dapprima come
solista e, in seguito, collocato in piccole bande accanto ad altri
strumenti musicali quali, ad esempio, la
chitarra, la fisarmonica o l’armonica a bocca, il firlinfö si afferma nella sua dimensione orchestrale a
partire dalla fine dell’800. La costituzione e la diffusione dei gruppi
folcloristici di firlinfö si realizza a
partire dagli anni ’20 e ’30, sotto la spinta dell’Opera Nazionale Dopolavoro
ed è continuata grazie anche all’apporto dell’ENAL, subentrata all’OND, negli
anni del dopoguerra. Oggi i gruppi folcloristici di firlinfö sono presenti
nelle provincie di Bergamo, Como, Lecco, Milano, ed anche nel Canturino.
Di alcuni costruttori, a cui
hanno fatto o fanno riferimento i suonatori del territorio brianzolo, è stata
documentata l’attività e, per mezzo dei loro manufatti e delle loro
informazioni, la sala del museo è in grado di illustrare le tecniche
costruttive dello strumento. Sono inoltre presentate la struttura degli
organici bandistici e il ruolo dei maestri, nonché le modalità esecutive con
cui i repertori vengono interpretati.
L’esposizione degli allestimenti
– permanenti o temporanei – nel museo rappresenta, dunque, l’ultimo passaggio
di un processo di ricerca, sempre aperta a nuovi sviluppi, che è stata affidata
ad alcuni specialisti, impegnati talora a coordinare gruppi di lavoro e
seminari di formazione per la ricerca etnografica.
Queste indagini hanno prodotto
negli anni diverse pubblicazioni – volumi, documentari, compact disc – ad
alcune delle quali sono stati assegnati importanti riconoscimenti a livello
nazionale (Premio Pitrè – Salomone Marino 1998 e Premio Nigra 2003).
Destinatari privilegiati della
proposta formativa del museo sono, però, i bambini e i ragazzi in età scolare,
per i quali sono pensate specifiche visite e attività di laboratorio.
Ciò che si vuole favorire
soprattutto è l’incontro diretto tra i ragazzi e i ‘portatori’ della
tradizione, con le loro esperienze, i loro ricordi, la loro cultura, secondo
una formula che è stata battezzata: “al museo con il nonno”. Nel territorio
circostante, poi, è possibile visitare aziende e soggetti che ancora operano
nell’ambito delle attività tradizionali.
La ricca articolazione di
interventi che il museo propone è possibile anche grazie alla fattiva
collaborazione degli amici del museo
che si esprime in molti momenti e in varie forme, a partire dall’apertura ai
visitatori per oltre 20 ore settimanali.
Anche questo aspetto fa del museo
etnografico qualcosa di diverso dagli altri tipi di museo: un museo che parla
della società, ma anche un museo di
società.
*Massimo Pirovano è uno studioso di etnografia, dirige il MEAB.
Museo Etnografico dell’Alta Brianza, Località Camporeso, 23851 Galbiate LC
Il Meab: https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2013/11/le-tradizioni-popolari-brianzole-nel.html
Il fluto di Pan: https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2017/01/ilflauto-di-pan-mitologia-e-tradizioni.html
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