sabato 17 settembre 2022

1922-2022: è trascorso un secolo dall’arrivo delle suore dell’Immacolata di Genova a Verderio Superiore

La prima scuola dell’infanzia di Verderio fu costruita nel 1891 e venne denominata “Asilo Giuseppina”, in quanto la scuola fu fortemente voluta e finanziata con soldi propri dalla contessa Giuseppina Turati, nata a Busto Arsizio nel 1826, e maritatasi con Giuseppe Gnecchi Ruscone, ingegnere, possidente e Sindaco di Verderio Superiore, dal 1859 al 1889.


La scuola dell'infanzia, Asilo Giuseppina, oggi

Fino al 1922 si alternarono nella gestione dell’asilo, pur senza grande successo, diversi ordini religiosi. Inoltre, durante il periodo della Grande guerra (1915-1918), per ordine del governo, vennero requisiti molti immobili nel Nord Italia, per l’alloggio di ufficiali e soldati convalescenti. Nei due Verderio, la villa Gnecchi Ruscone e l’Asilo Giuseppina, oltre ad altri edifici, ospitarono i convalescenti della VI Armata, occupazione che obbligò le suore a chiudere la scuola e trasferirsi per qualche mese in canonica.
Il 20 gennaio 1922 venne sottoscritto l’accordo tra la famiglia Gnecchi Ruscone e le suore dell’Immacolata di Genova che garantiva, tra le altre cose, la proprietà a vita della casa e diversi altri contributi a favore dell’Istituto religioso. Sul Liber Chronicus, redatto dal parroco di Verderio Superiore, don Luigi Galbiati, è riportato che a sottoscrivere l’intesa da parte della Famiglia, fu Vittorio Gnecchi, nipote di Giuseppe, che negli anni successivi diventerà uno dei più illustri compositori di musica sinfonica, operistica e sacra di quel tempo.
Con l’arrivo delle prime suore da Genova, la scuola poté così essere riaperta e resa operativa a partire già dal mese di settembre dello stesso anno, ospitando ed educando diverse decine di bambine e bambini verderiesi.

Fondatore dell’ordine delle suore dell’Immacolata fu don Agostino Roscelli, oggi santo, nato a Bargone di Casarza Ligure, il 27 luglio 1818, da Domenico e Maria Gianelli, modesti contadini e persone di grande fede.
Don Roscelli fondò, il 15 ottobre 1876, l'Istituto delle Suore dell'Immacolata nella nuova casa di via Volturno 5, a Genova, che fino ad allora era dedita all'educazione e all'istruzione delle ragazze del popolo. Don Roscelli si spense sempre a Genova il 7 maggio 1902. Fu grazie alla sua attività religiosa, sociale ed umana che il 10 giugno 2001 papa Giovanni Paolo II lo proclamò santo.

 

Il libro dedicato all'Asilo Giuseppina è distribuito presso la chiesa parrocchiale di Verderio (Lecco)

Sono quindi 100 anni che le reverende suore dell’Immacolata di Genova sono presenti a Verderio Superiore.
Gestendo la scuola materna paritaria, le suore si sono storicamente integrate, non solo dal punto di vista religioso, nel tessuto sociale e umano della comunità verderiese ed hanno contribuito a creare il giusto spirito che ancora oggi, malgrado i forti cambiamenti intervenuti negli ultimi decenni, pervade la società.
Questa scuola dell’infanzia ha ospitato, a partire dal 1891, diverse migliaia di bambine e bambini, principalmente verderiesi, ma anche provenienti da altri comuni limitrofi. Quelli erano anni difficili e duri per la nostra gente. La condizione sociale del proletariato agricolo era di assoluta sopravvivenza: l’alimentazione era scarsa e di pessima qualità, le malattie decimavano molti bambini in tenera età, le condizioni igieniche e la fatica dei campi erano corresponsabili della maggior parte delle patologie che colpivano i lavoratori della terra. Poi arrivarono due guerre mondiali, frammezzate da una ventennale dittatura, che generarono miseria e morte.
La nascita di questa struttura diede qualche segno di speranza in più alle famiglie contadine e operaie e fu certamente una forma di assistenza e aiuto per le famiglie povere.
Delle suore, i cittadini verderiesi hanno apprezzato lo stile e la riservatezza, il parlare a bassa voce, il carattere sempre disponibile e pronto al dialogo ed all’ascolto, il comportamento mai teso al protagonismo individualista ma proiettato al lavoro con gli altri, per il bene di tutti. Le manifestazioni di stima e di gratitudine sono state molte in tutti questi anni, soprattutto perché le suore che hanno operato a Verderio si sono contraddistinte per la serietà, l’abnegazione e l’impegno, che hanno profuso a favore dei bambini e delle loro famiglie.

Beniamino Colnaghi 

sabato 11 giugno 2022

L'intricata vicenda del trasferimento a Verderio Superiore del polittico di Giovanni Canavesio 

di Marco Bartesaghi


Il 26 ottobre 1902 alla consacrazione della nuova chiesa parrocchiale di Verderio Superiore, dedicata ai santi Giuseppe e Floriano, oltre che dalla bella architettura e dalle vivaci decorazioni i convenuti furono favorevolmente impressionati dalla presenza di un'antica opera d'arte, di notevoli dimensioni, che, per il ruolo di pala dell'altare maggiore che le era stato assegnato, attirava su di sé l'attenzione (1).

Si trattava di un polittico dipinto da Giovanni Canavesio da Pinerolo, pittore che nel XV secolo aveva lavorato soprattutto nell'entroterra della Liguria occidentale, dove sono ancora presenti diverse sue opere. Anche il polittico di Verderio proveniva da una cittadina ligure, Pornassio, in provincia, allora, di Porto Maurizio, oggi di Imperia. Lì era stato conservato dal 1499. Formato da 31 scomparti, è dipinto a tempera ed è dedicato alla Vergine e a San Dalmazio (2).

La pala di Giovanni Canavesio


I giornali e le riviste che scrissero della nuova chiesa dedicarono spazio anche all'opera di Canavesio, segnalandone l'importanza artistica ai propri lettori. Nessuno però si preoccupò di capire e di spiegare in modo esauriente come essa fosse finita a Verderio: solo qualche cenno, alquanto superficiale. Così ne parlò ad esempio Luca Beltrami nel suo opuscolo di presentazione della nuova chiesa: "A decorare l'altare maggiore, la famiglia Gnecchi ebbe la singolare ventura di poter disporre di un grandioso polittico...". "Singolare ventura", niente di più. È evidente come il modo in cui la pala era giunta a Verderio non fosse ritenuto interessante (3).
Invece la vicenda è abbastanza travagliata, si svolge in un arco di tempo di cinque-sei anni, coinvolge diverse istituzioni e alcuni personaggi noti a quel tempo. Inoltre presenta aspetti ancor oggi molto poco chiari: è difficile infatti stabilire, a più di cento anni di distanza dai fatti, a chi appartenga realmente il polittico, se alla parrocchia di Verderio Superiore, come generalmente si pensa, o alla Pinacoteca di Brera, come la ricerca documentale sembrerebbe indicare.
Dirò subito che la ricostruzione che mi accingo a presentare non giunge a risolvere questo enigma.
Essa si basa su due serie di documenti. La prima è conservata a Roma presso l'Archivio Centrale dello Stato, fra le carte del Ministero dell'Istruzione Pubblica, che all'epoca era competente anche per la salvaguardia dei beni culturali e comprendeva la Direzione Generale per le Antichità e le Belle Arti (4). La seconda serie è conservata invece a Milano, presso l'Archivio della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici, che ha sede a Brera (5).
Nel gennaio del 1898 il polittico era stato venduto dalla parrocchia di Pornassio a Pietro Mora, titolare a Milano, in società con i fratelli Giovanni e Luigi, di un negozio di antiquariato e di uno di "mobili artistici" prodotti in una loro fabbrica a Bergamo. Il negozio di antiquariato si trovava in via S. Paolo al n.10, nell'antico Palazzo Spinola, sede, allora come oggi, della Società del Giardino, uno dei principali circoli della città (6).
Il Mora acquistò l'opera a lire 2000, la trasportò a Milano, la ricompose e, probabilmente, effettuò dei lavori di restauro sulla struttura in legno (7).
Il 6 dicembre 1898 il direttore dell'Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti del Piemonte e della Liguria comunicò al Ministero dell'Istruzione Pubblica di essere venuto a conoscenza della vendita di quadri delle parrocchie di Pornassio e di Pieve di Teco (8).
Tali vendite erano state effettuate senza l'autorizzazione del governo, prevista dall'articolo 434 del Codice Civile, e senza quella della Corte d'Appello, richiesta dalle RR. Patenti del 19 maggio 1831, ancora in vigore in Piemonte e Liguria, autorizzazioni necessarie per l'alienazione dei propri beni da parte degli enti ecclesiastici (9).
Del quadro di Pornassio, la lettera dice chi è stato l'acquirente (Pietro Mora) e, dopo una breve descrizione, riporta testualmente la scritta in latino che stabilisce la data di realizzazione, attribuisce l'opera al Canavesio e attesta che essa era stata voluta dalla comunità di Pornassio per onorare la Vergine e S. Dalmazio (10).
Il direttore lamenta di non essere stato informato della vendita da parte del Regio Ispettore di Albenga, avvocato Lanusol, e comunica di averlo sollecitato a compilare le schede inventariali delle chiese del suo circondario, "perché non abbiano più a succedere inconvenienti di questo genere". In seguito dovrà correggersi, dopo che dal Ministero gli venne fatto presente che Pornassio non ricadeva nella zona di competenza dell'ispettore di Albenga, bensì di quello di Porto Maurizio (11).
Dopo la segnalazione, il Ministero dell'Istruzione Pubblica inviò un telegramma al Prefetto di Porto Maurizio, invitandolo ad "assumere ampie informazioni" e a "procurare possibilmente sequestro quadri" (12). Rivolgendosi poi al Ministero di Grazia e Giustizia e dei Culti chiese che venissero denunciati all'autorità giudiziaria i parroci coinvolti (13).
La risposta del Prefetto arrivò poco più di un mese dopo, il 14 gennaio 1899.
La sua indagine  aveva permesso di conoscere i motivi che avevano spinto la Fabbriceria di Pornassio a disfarsi del dipinto. Secondo i fabbricieri la vendita era giustificata dalle sempre peggiori condizioni del quadro e dalla necessità di reperire denaro per urgenti lavori di manutenzione sui beni della parrocchia. Il Prefetto poté appurare che gran parte della somma riscossa era già stata impiegata per dotare la chiesa di un nuovo pavimento in marmo (lire 500), per tinteggiare (lire 470) e restaurare (lire 95,35) il locale Santuario della Madonna della Chiazza e per acquistare alcuni mobili (lire 570). L'avanzo (lire 364,65) era stato depositato su un conto bancario.
La chiesa di Pornassio


A sostegno del proprio operato i fabbricieri addussero il consenso quasi totale della popolazione e l'autorizzazione del Vescovo di Albenga (14). Egli, interpellato, confermò di aver espresso parere favorevole all'operazione e scrisse, a giustificazione propria e della Fabbriceria, che quest'ultima "non credeva esser proprietaria di un oggetto artistico" e che se Lui l'avesse sospettato, al "nihil obstat" pronunciato avrebbe "aggiunto una parola per ricordare l'obbligo di prendere le dovute licenze dalle competenti autorità" (15).
Anche la giunta comunale dichiarò di essere stata a conoscenza della vendita e di averla approvata in quanto "il quadro...montato in legno, andava in deperimento perché vecchio e tarlato, ed era di poco ornamento alla chiesa" (16).
Intanto, già dal 15 dicembre 1898, la questura di Milano aveva rintracciato presso il Mora il dipinto e l'aveva posto sotto sequestro. L'ufficiale incaricato, la guardia di città Giovanni Castioni, per le sue dimensioni, per il cattivo stato di conservazione e per non aver ricevuto le necessarie istruzioni, si trovò costretto, a suo dire, a lasciare in deposito il bene sequestrato presso l'antiquario, al quale furono spiegate le gravi responsabilità penali in cui sarebbe incorso se "avesse a trafugarlo o a muoverlo dal luogo dove si trova sotto qualsiasi pretesto".
In quell' occasione il Mora dichiarò di essere stato certo di aver agito nel pieno rispetto della legalità e mostrò, a sostegno della sua buona fede, i documenti con le autorizzazioni ricevuti dalle autorità parrocchiali di Pornassio (17).
A sequestro avvenuto i due ministeri interessati dovettero decidere in merito a due importanti questioni: se procedere legalmente contro i soggetti coinvolti nell'affare e se far tornare la pala a Pornassio o destinarla ad altro luogo. Su entrambi i problemi le posizioni dei dicasteri furono divergenti.
Il Ministero dell'Istruzione Pubblica, non potendo intervenire direttamente, si appellò a quello di Grazia e Giustizia affinché procedesse contro i responsabili in base all'articolo 434 del Codice Civile. Due i motivi a sostegno di questa posizione. Primo, il pericolo che l'indulgenza potesse incoraggiare la cupidigia degli speculatori, sempre pronti ad approfittare dell'ignoranza in cose d'arte dei fabbricieri e dei sacerdoti. Secondo, la necessità di rispondere all'atteggiamento ostile del clero piemontese nei confronti del governo, comportamento che "paralizza tutte le buone intenzioni di questo Ministero per tutelare il patrimonio artistico delle chiese". Un esempio? L'opposizione di parroci e fabbricieri alla catalogazione degli oggetti d'arte delle parrocchie (18).
Di diverso avviso il Ministero di Grazia e Giustizia e dei Culti che, sentito il parere del Procuratore Generale della Corte d'Appello di Genova, riteneva di non dover procedere perché la vendita "avvenne nella massima buona fede e nell'ignoranza di tali prescrizioni legislative, con l'assenso dei fedeli e della Giunta Municipale e con l'approvazione dell'autorità ecclesiastica". Sui fabbricieri affermava inoltre: "trattasi di persone probe, che prestano opera disinteressata per la chiesa, e che sono anch'esse rimaste dolenti della contravvenzione alla legge" (19).
La replica non si fece attendere. Il Ministero dell' Istruzione Pubblica ribatté che il consueto atteggiamento permissivo dei Procuratori Generali (citava quelli di Venezia e Torino), tendente a riconoscere sempre la buona fede, il disinteressato impegno etc. e ad assolvere i responsabili, non avrebbe avuto più ragione d'essere, dopo un pronunciamento della Corte di Cassazione che aveva annullato una sentenza del Tribunale di Camerino affermando che "la buona fede non è ammissibile" (20).
La controreplica non fu immediata. Essa appariva, nella forma, aperta al dialogo, affermando che il Ministero non avrebbe mancato in futuro di tener presenti gli argomenti espressi dall'Istruzione Pubblica. Era secca però nella sostanza: "questo Ministero persiste nel ritenere che non sia il caso di promuovere un giudizio contro i singoli componenti la Fabbriceria di Pornassio..." (21).
Anche sulla destinazione del bene sequestrato le opinioni non furono concordi. 
Il Ministero dell'Istruzione Pubblica indicò, e in seguito ribadì, che la miglior soluzione sarebbe stata quella di far tornare il polittico alla sua sede naturale, la chiesa di Pornassio. Interessanti e, a mio avviso, molto avanzate le motivazioni, che meritano di essere trascritte: "Non posso poi ammettere, per regola generale, che le chiese si spoglino dei loro dipinti famosi neppure al fin di venderli allo Stato; perché un dipinto, levato dal luogo originario e dalle condizioni di luce in cui volle farlo apparire il suo autore, ha già perduto una parte del suo pregio" (22).
Ebbe la meglio però, ancora una volta, l'altro dicastero che, constatato che la Fabbriceria non era più in grado di riscattare il bene venduto, propose di destinarlo ad un museo o altro ente simile. In seguito, dopo aver verificato l'inesistenza nel territorio di istituzioni idonee, indicò come possibile acquirente la Regia Pinacoteca di Brera a Milano (23).
A questo punto, la Pubblica Istruzione, che non rinuncerà comunque, in vari altri momenti della vicenda, a ribadire le proprie posizioni, si piegò alle proposte del Ministero di Grazia e Giustizia.
Prima di rivolgersi, come indicatogli, alla pinacoteca milanese fece però un tentativo con quella torinese, sembrandogli probabilmente più idonea per via delle origini piemontesi del Canavesio. Nella lettera, dopo aver riassunto i fatti e aver fornito notizie del dipinto e prima di proporre di far visita al Mora per valutare l'opportunità dell'acquisto, il ministero non mancò di aggiungere nuovi e interessanti argomenti a sostegno della sua preferenza per la restituzione del bene alla comunità di Pornassio: "Non è bello, certamente, che una chiesa, per sopperire alla manutenzione del fabbricato, venda un oggetto d'arte il quale, oltreché essere la sua più bella decorazione, era un testimonio della pietà degli avi, un voto sacro collocato in quella chiesa con evidente assegnazione di perpetuità" (24).
Il polittico era già stato offerto alla Pinacoteca di Torino dalla stesso Mora. Nessuna trattativa era però stata intavolata poiché la galleria possedeva già un'opera simile dello stesso autore (25). Anche la proposta dell'Istruzione Pubblica non fu accolta con la motivazione che l'acquisto "non arricchirebbe la quadreria di nuovi elementi". Il diniego fu accompagnato dal consiglio di rivolgersi a Pinerolo, luogo natale dell'artista, o a Genova, città dove egli godeva di grande considerazione (26).
Il Ministero si rivolse invece alla R. Pinacoteca di Brera con una lettera molto simile alla precedente, datata 14 settembre 1899 (27). La risposta, del 21 ottobre, è positiva e porta la firma del direttore, Corrado Ricci: "..l'ho trovato interessante pel suo complesso di molte parti con numerose figure; pel ricco scompartimento dorato e per la firma autentica del pittore. .... Questa Pinacoteca può benissimo acquistarlo al prezzo convenientissimo di lire 2000" (28).
A questo punto la vicenda appare ormai definita e per la conclusione vera e propria sembra mancare solo il nulla osta alla vendita da parte della Corte d'Appello di Genova. Questo documento si fece attendere, al punto che nel mese di giugno del 1900, sette mesi dopo aver espresso il suo assenso, Ricci chiese al Ministero a che punto fossero le pratiche (29). Solo il 16 agosto la Fabbriceria di Pornassio comunicherà a Brera di essere stata autorizzata alla vendita da un decreto della Corte d'Appello del capoluogo ligure, emanato il 31 luglio 1900 (30).
Nei mesi precedenti, forse sollecitata dal Mora, la Fabbriceria si era fatta viva con la galleria milanese, per far notare che le 2000 lire concordate non tenevano conto del fatto che l'antiquario aveva sostenuto spese per il trasporto a Milano e che avrebbe potuto inoltre pretendere gli interessi, avendo impegnato quella somma già da due anni (31). Brera rispose di essere stata autorizzata a spendere 2000 lire "non un centesimo più o meno" (32).
Il 28 agosto, la data è importante, la Pinacoteca comunicò a Pietro Mora che il giorno 30, alle ore 10, i fratelli Annoni, ebanisti, si sarebbero recati da lui per avere in consegna la pala di Giovanni Canavesio (33).
Mentre i fatti sembrano svolgersi in modo lineare, sotto la superficie i Mora brigano per non perdere il profitto, per realizzare il quale avevano acquistato il dipinto. Incuranti della sentenza del giudice e delle prescrizioni del questore, pensavano forse che, di fronte al fatto compiuto di una vendita, purché non destinata all'estero, le autorità avrebbero alla fine chiuso un occhio e lasciato fare.

Francesco Gnecchi Ruscone

La chiesa dei santi Giuseppe e Floriano di Verderio Superiore in una foto del 1902

L'occasione si presentò loro con i fratelli Gnecchi Ruscone che a Verderio Superiore, dove erano di gran lunga i principali possidenti di case e terreni, stavano costruendo la nuova chiesa parrocchiale, voluta e finanziata dalla loro mamma, Giuseppina Turati, deceduta il 18 luglio 1899, quando i lavori erano già iniziati da poco meno di un anno (34).
Per il nuovo edificio, disegnato dal nobile Fausto Bagatti Valsecchi (35), gli Gnecchi avevano pensato di trovare alcuni arredi autentici del quattrocento. Perciò si erano rivolti ai Mora: in uno scritto, senza data, né destinazione, né firma, gli antiquari affermavano di dover fornire per la nuova chiesa di Verderio "...un coro originale dell'epoca, un Cristo sopra la navata pure antico e molte altre cose. Così si avrà un complesso tutto antico autentico" Nello stesso testo scrivevano inoltre che il quadro del Canavesio "fu venduto al cav. Francesco Gnecchi" (36) il quale "ne fa regalo alla Chiesa Parrocchiale di Verderio Superiore [...] quindi non esce dallo stato" (37).
I Mora avevano trovato gli acquirenti per un'opera posta sotto sequestro e della quale non erano proprietari!
L'accordo per la vendita era stato stipulato nei primi mesi del 1900. Adducendo ritardi del Ministero per il rilascio dei permessi (38) e prendendo a pretesto anche lo stato di avanzamento dei lavori della chiesa (39), i Mora ad agosto non avevano ancora consegnato il polittico. Il 29 agosto, il giorno prima che Brera ritirasse il dipinto, Francesco Gnecchi scrisse al Ministro dell'Istruzione Pubblica, onorevole Gallo, per sollecitare la chiusura della pratica: la lettera parlava di un trittico proveniente dalla chiesa di Oneglia, in Liguria, e non faceva alcun cenno all'autore. Evidentemente, oltre a non essere stato messo al corrente della situazione giudiziaria dell'opera d'arte che si accingeva a comprare, era stato tenuto all'oscuro anche della sua esatta provenienza (40).

Il Ministero, allarmato da una vendita da parte della parrocchia di Oneglia, di cui non era stato messo a conoscenza, si rivolse subito all'ufficio piemontese per la Conservazione dei Monumenti affinché indagasse (41). Negli stessi giorni però ricevette una lettera dai fratelli Mora, un capolavoro dell'arte della persuasione commerciale che merita di essere ampiamente trascritta, che svelava che il quadro in questione non era altro che il polittico proveniente da Pornassio.
La lettera, praticamente un'arringa contro il direttore di Brera, iniziava dicendo che la loro ditta, "Casa di artisti che vive serenamente dell'arte...", aveva venduto il dipinto di Canavesio al Cav. Gnecchi Francesco per la chiesa di Verderio. Poi continuava: "Il direttore della Pinacoteca di Brera s'è fissato di averlo e non vede nella sua buona fede di raccoglitore, che questo quadro sarà più utile a far da Re nella erigenda chiesa monumentale [...] che da ultimo dei servi in Brera. Osteggiare l'opera grandiosa regale del Cav. Gnecchi e rendere priva anche l'istruzione pubblica della riuscita di un monumento che avrà il carattere nazionale e che posto in un centro popoloso laborioso alle porte di Milano - Como - Lecco e Bergamo, dove gli studiosi di ogni arte potranno studiare anche l'effetto pittorico e generale, ci pare cocciuta ed odiosa non perdonabile nemmeno al maniaco che gli basta raccogliere bene o male purché agglomeri" (42).
Infine, dopo aver affermato che il direttore di Brera avrebbe fatto meglio ad utilizzare le 2000 lire per trattenere in Italia qualcuna di quelle opere per le quali invece firmava il nulla osta all'espatrio, i Mora invitavano il Ministero a far sì che Brera "soppraseda alle sue determinazioni". Nessun accenno al fatto che l'opera fosse sotto sequestro.
La lettera, indirizzata all'ente più tenacemente contrario alle vendite di opere ecclesiastiche, non sortì naturalmente effetto. Non c'è fra i documenti una risposta ma, di fatto, i Mora escono, almeno per il momento, di scena.
Non si ritirarono invece gli Gnecchi, che continuarono la trattativa direttamente con la pinacoteca. Per raggiungere l'obiettivo si fecero appoggiare da alcune loro conoscenze politiche: l'onorevole Enrico Panzacchi, il Marchese Emilio Visconti Venosta e l'onorevole Giulio Prinetti (43).
Con una serie di telegrammi, scambiati fra il Ministero dell'Istruzione Pubblica e la Pinacoteca di Brera tra l'11 e il 15 ottobre 1900, si arrivò ad una conclusione favorevole alla famiglia e, di conseguenza, alla parrocchia di Verderio.
L'11 ottobre Corrado Ricci informò il ministero che l'ancona del Canavesio era richiesta dalla famiglia Gnecchi e quindi lui chiedeva "schiarimenti codesto Ministero avendomi S.E. On. Panzacchi raccomandato cessione" (44).
Il Ministero rispose, il 12 ottobre, chiedendo se lui avesse gravi obiezioni verso questa cessione "che viene molto raccomandata" (45).
Precisa la posizione che Ricci espresse, rispondendo, lo stesso giorno: dichiarò che non si sarebbe opposto alla cessione dell'opera a patto che Gnecchi si impegnasse a non trasferirla né a venderla, pena il sequestro a favore di Brera (46).
Condizioni fatte proprie dal ministero che il 15 ottobre rispose e concluse: "Dopo parere Vossignoria autorizzo cedere ancona Canavesio per chiesa Verderio previo pagamento dal sig. Gnecchi di lire duemila e previo atto autentico col quale Gnecchi medesimo per sé e suoi successori prenda impegno destinarla soltanto detta Chiesa sotto pena sequestro a favore Pinacoteca Brera se detta ancona fosse quando che sia rimossa dal luogo ove fu destinata. Attendo comunicazione atti. Ministro Gallo" (47).
La documentazione conservata dall'Archivio Centrale dello Stato si interrompe definitivamente nell'ottobre del 1900 (48); nello stesso mese cessa, ma solo temporaneamente, anche quella della Pinacoteca: riprenderà, con gli ultimi sei pezzi, fra l'ottobre e il novembre del 1903.
Si apprende da questi ultimi documenti che nell'autunno del 1903 l'atto formale richiesto da Pinacoteca e Ministero per acconsentire all'accordo con gli Gnecchi non era stato ancora sottoscritto e neppure redatto. Si viene a sapere anche che i Mora avevano intentato causa contro i fratelli Gnecchi per ottenere il rimborso delle spese sostenute per trasportare il polittico da Pornassio a Milano. Proprio per difendere in tribunale le ragioni degli Gnecchi contro i Mora l'avvocato dei primi, Giovanni Tacconi, sollecitò a più riprese la conclusione dell'atto e insistette affinché questo fosse preceduto da un'ampia ricostruzione di come si era svolta tutta la faccenda, dalla vendita illegale al sequestro e così via (49).La Regia Avvocatura Erariale di Milano ebbe il compito di stendere il testo. Nel redigerlo si preoccupò soprattutto di evitare il coinvolgimento di Brera nella vertenza Gnecchi - Mora:

MINUTA DI ATTO

Hanno dichiarato e convenuto quanto segue: Ratificato ed approvato in ogni parte le premesse normative. Il comm. Francesco Gnecchi dichiara di aver prima d'ora ricevuto la tavola della Vergine con diversi santi dipinta da Giovanni Canavesio .....alta.....larga.....all'unico scopo che venisse posta nella nuova chiesa Parrocchiale di Verderio (prov. di Como) dove essa fu anche collocata, e tuttora si trova come pala d'altare.
Lo stesso comm. Gnecchi riconosce che la proprietà di quella tavola, vincolata però all'uso perpetuo della chiesa Parrocchiale di Verderio, spetta alla Pinacoteca di Brera e solo nel caso in cui tale uso a favore della chiesa di Verderio avesse per qualsiasi ragione a cessare, sarà nel diritto della Pinacoteca di riavere la tavola senza obbligo di pagamento alcuno.
Rimane perciò escluso qualsiasi uso della tavola all'infuori di quello sopraindicato, e proibito l'asporto della medesima dalla chiesa, obbligandosi il sig. comm. Gnecchi anche per i propri eredi e successori a non disporre in modo diverso, e qualora intendesse di toglierla dalla chiesa, non potrà eseguire tale asporto se non per farne immediata consegna alla pinacoteca, escluso qualsiasi diritto in lui di rimborso delle spese fatte per avere la tavola.
Il parroco di Verderio D. Luigi Galbiati interviene al presente atto per dichiararsi notiziato di quanto sopra e per obbligarsi a darne notizia alle superiori autorità in modo che anche i successori suoi ne siano edotti.

La lettera con cui questa bozza veniva presentata, del novembre del 1903, terminava con le seguenti indicazioni: "Tale convenzione dovrà essere tradotta in forma legale o per atto pubblico notarile o per scrittura privata con autenticazione della firma da parte di un notaio" (50). Il 30 gennaio 1904 l'avvocato Tacconi scrisse alla Fabbriceria di Verderio Superiore per comunicare l'invio di un atto con firma autenticata dei signori Gnecchi, che doveva essere sottoscritta anche dai fabbricieri, per poi essere sottoposta a un notaio. Anche se nel testo non si fa esplicito riferimento alla pala del Canavesio, per la data e il contesto, di essa si dovrebbe trattare (51).

Da questa lettera e da una successiva che il Tacconi scrisse al segretario di Brera, signor Viganò, sembra di capire che il contenuto della convenzione sia stato accettato dai signori Gnecchi. Però, alla data di quest'ultimo documento, 20 marzo 1904, l'atto non era ancora stato sottoscritto e Tacconi terminava quindi con queste considerazioni: "Non pare anche a Lei che la posizione attuale anche della Pinacoteca sia poco regolare? Che occorra stabilire i rapporti fra le parti interessate?" (52).
Non so se in seguito l'atto formale previsto dagli accordi sia stato o no firmato, non essendo riuscito a rintracciarlo: né presso la Pinacoteca, né presso la parrocchia, né presso la famiglia Gnecchi. La ricerca è stata condotta anche negli Archivi Notarili di Milano, dove ho scorso i registri dei notai che hanno operato in città fra il 1904 e il 1906, e di Como, dove, per le più restrittive condizioni di accesso, ho potuto verificare, non di persona, quelli dei notai che sapevo aver collaborato con gli Gnecchi in quegli anni. Un successivo tentativo è stato fatto presso l'Archivio Arcivescovile e l'ufficio economico dell'Arcivescovado, senza trovare nulla.
Sono tuttavia convinto che il documento sia stato sottoscritto e quindi, in qualche luogo, per ora sconosciuto, ci sia. Non sarebbe infatti plausibile che ai signori Gnecchi fosse stato permesso ciò che ai Mora era stato proibito: l'acquisto di un’opera d'arte sacra di una chiesa, per destinarla ad una chiesa diversa. È impensabile, a mio avviso, che una faccenda che aveva coinvolto due Ministeri, una Corte d'Appello, un paio di Soprintendenze e qualche altro ente alla fine si sia sgonfiata al solo cambio di uno dei soggetti coinvolti, il compratore. Per questo ritengo, ripeto, che una convenzione, magari non quella corrispondente alla bozza predisposta dalla Regia Avvocatura, sia alla fine stata sottoscritta, anche se in seguito se ne è persa traccia e memoria.
Non resta che tornare alla bozza di convenzione predisposta dall'Avvocatura Erariale e su di essa fare qualche considerazione. Nel testo, per la prima volta, si parla esplicitamente della proprietà del bene, per assegnarla alla Pinacoteca di Brera: "Lo stesso comm. Gnecchi riconosce che la proprietà di quella tavola, vincolata però all'uso perpetuo della chiesa Parrocchiale di Verderio, spetta alla Pinacoteca di Brera".
Un'importante conferma di ciò si trova nella relazione che seguì alla visita pastorale del Cardinale Carlo Andrea Ferrari, avvenuta nel 1905: parlando dell'opera del Canavesio si dice: "...è stata comperata a buoni contanti dalla benemerita famiglia Gnecchi che l'ha qui depositata e starà sempre qui, ma la vera proprietà è dell'Istituto artistico di Brera in Milano"  (53).
Un ulteriore indizio, che sembra confermare che per un certo periodo di tempo dopo la collocazione a Verderio della pala si era ancora a conoscenza dell'esatto svolgimento dei fatti, e che avvalora l'ipotesi che essa appartenga a Brera, mi pare si possa individuare in un brano contenuto nel "Liber Cronicus": nell'ottobre del 1905 uno studioso dell'Università di Zurigo, il professor Siegfried Weber, interessato allo studio della pala, dalla parrocchia di Pornassio dove si era recato per osservarla, fu indirizzato alla Pinacoteca di Brera, dove gli dissero che l'opera era "depositata a Verderio" (54).
Tuttavia il polittico di Verderio non compare in nessuno dei 9 volumi di "Pinacoteca di Brera", catalogo dei beni posseduti dall'istituto milanese, comprendente anche i beni depositati altrove, presso enti e chiese (55).

La chiesa di Verderio oggi e, sotto, la navata centrale con la pala sullo sfondo




NOTE
Abbreviazioni:
ACS: Archivio Centrale dello Stato

APVS: Archivio Parrocchiale Verderio Superiore
ASdS Milano: Archivio Storico della Soprintendenza per i Beni Storici ed Artistici di Milano MGGeC: Ministero di Grazia e Giustizia e dei Culti
MIP: Ministero dell' Istruzione Pubblica
RPB: Regia Pinacoteca di Brera
Uff. Reg. Piemonte: Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti del Piemonte e della Liguria

NOTE

(1) Marco Bartesaghi, 1896 - 1902: il progetto, la realizzazione e la storia della nuova chiesa, in Autori Vari, Verderio, la chiesa parrocchiale dei Santi Giuseppe e Floriano 1902 - 2002, Verderio Superiore, 2002.
(2) Elisabetta Parente, Il polittico con Madonna e Santi di Giovanni Canavesio nella chiesa di Verderio Superiore,   in Archivi di Lecco, anno XV, n. 2, aprile - giugno1992.
(3) Luca Beltrami, La nuova chiesa di Verderio Superiore, Milano, 1902.
(4) Archivio Centrale dello Stato (ACS), Titolo fondo/ Serie AA BB, Div. XII , 1888 - 1907, numero busta 293 "Ministero dell'Istruzione Pubblica" - 4 - Portomaurizio - 1898, Quadri venduti dalle parrocchie di Pornassio e di Pieve di Teco.
(5) Archivio Storico della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Milano (ASdS Milano) - Archivio Antico, parte seconda "Cambi, cessioni, restituzioni e prestiti" (cassette 11 e 12), 206 ANCONA DEL CANAVESIO, 1900 -1903, classificazione 4, segnatura 11/13.
(6) Il negozio di mobili artistici si trovava in via Vittorio Emanuele, a poche decine di metri da quello di antiquariato (cfr Guida Savallo, Milano, 1898).
(7) Un riferimento ai lavori effettuati dai Mora sulla struttura in legno si trova in "L'Eco di Bergamo", 29 - 30 ottobre 1902. In un articolo intitolato "La nuova chiesa parrocchiale di Verderio Superiore" riguardo alla  pala si dice: "Con soddisfazione abbiamo notato come la corniciatura fosse completata egregiamente in Bergamo, nel laboratorio dei signori fratelli Mora".
(8) ACS, lettera, dall'Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti del Piemonte e della Liguria (Uff. Reg. Piemonte) al Ministero dell'Istruzione Pubblica (MIP), Direzione Generale per le Antichità e le Belle Arti, 6 dicembre 1898. Dalla parrocchia di Pieve di Teco, secondo l'Uff. Reg. Piemonte, erano stati venduti due quadri: uno, di forma semicircolare, del XVII secolo, rappresentava un presepio; l'altro, una tavola del XV secolo raffigurante la Madonna, era stato da tempo trasformato in tavolino mediante l'apposizione di quattro gambe. Del primo si seppe in seguito che non era stato mai venduto ma solo spostato all'interno della chiesa. Il secondo, venduto circa un anno prima al prezzo di 60 lire, fu in seguito riacquistato e ricollocato al suo posto (crf. ACS, lettera da Prefettura di Porto Maurizio a MIP, 14 gennaio 1899).
(9) L'articolo n. 434 del Codice Civile, in vigore nel 1898, recitava: "I beni degli istituiti ecclesiastici sono soggetti alla legge civile e non si possono alienare senza l'autorizzazione del governo".
(10) La scritta in latino è la seguente: ANNO - DNI - MCCCCLXXXXVIIIJ + DIE - VIGESIMA - MENSIS - MARTII + AD - HONOREM - DEI - ET - GLORIOSAE - VIRGINIS  - MARIAE - AC - SANCTI - DALMATII + COMUNITAS - PORNAXI - FIERI - FECIT - HOC - OPUS + REGENTE - DNO - PRESB. - LAZARO - BONANATO - RECTORE - DICTI - LOCI. (trascrizione di Elisabetta Parente, vedi nota 2). Nella lettera dell'Uff. Reg. Piemonte (vedi nota 8) la data trascritta è però 1490 e non 1499 come nella realtà: questo errore si trascinerà per tutta la documentazione che stiamo esaminando.

(11) ACS , minuta di lettera, da MIP a Uff. Reg. Piemonte, 14 dicembre 1898; lettera da Uff. Reg. Piemonte a MIP, 2 gennaio 1899.
(12) ACS, minuta di telegramma di stato, da MIP a Prefetto di Porto Maurizio, 9 dicembre 1898.
(13) ACS, minuta di lettera, da MIP a Ministero di Grazia e Giustizia e dei Culti (MGGeC), 14 dicembre1898.
(14) ACS, lettera da Prefettura di Porto Maurizio a MIP, 14 gennaio 1899.
(15) ACS, lettera, da Vescovo di Albenga a Prefetto di Porto Maurizio, 8 gennaio 1899.
(16) ACS, Certificato rilasciato a Pornassio dalla Giunta  Municipale alla Fabbriceria della parrocchia, 14 febbraio 1899.
(17) ACS, verbale di sequestro, Regia Questura di Milano, sez. II, via Spiga 81, 15 dicembre 1898. Il documento porta le firme di Pietro Mora, Giovanni Castione, guardia, e Lodovico de Cesare, delegato di P.S.
(18) ACS, minuta di lettera, da MIP a MGGeC, 23 gennaio 1899.
(19) ACS, lettera, da MGGeC a MIP, 11 aprile 1899.
(20) ACS, due minute di lettere, da MIP a MGGeC, 19 e 26 aprile 1899.
(21) ACS, lettera, da MGGeC a MIP, 18 agosto 1899.
(22) ACS, due minute di lettere, da MIP a MGGeC, 19 e 26 aprile 1899.
(23) ACS, lettera, da MGGeC a MIP, 18 agosto 1899.
(24) ACS, minuta di lettera, da MIP a Direttore Pinacoteca di Torino, 28 agosto 1899.
(25) La Galleria Sabauda di Torino possiede un polittico dipinto da Giovanni Canavesio nel 1491. Composto da 16 scomparti ha, al centro, una Madonna in trono con il Bambino. L'opera proviene probabilmente dalla chiesa di Notre Dame des Fontaines di Briga. Cfr Mario Marchiando Pacchiola (a cura di ), Sulle orme di Giovanni Canavesio (sec.XV), Pinerolo, 1990.
(26) ACS, lettera, da Regia Pinacoteca di Torino a MIP, 31 agosto 1899.
(27) ACS , minuta di lettera, e ASdS Milano, lettera, da MIP a Regia Pinacoteca di Brera (RPB), 14 settembre 1899.
(28) ACS e ASdS Milano, lettera da RPB a MIP, 21 ottobre 1899. Corrado Ricci (Ravenna 1858 - Roma 1934), scrittore e critico d'arte. Fu direttore della Pinacoteca di Brera e di quella di Firenze. Dal 1906 al 1919 fu direttore generale delle Antichità e Belle Arti di Roma.
(29) ACS e ASdS Milano, lettera da RPB a MIP, 29 giugno 1900.
(30) ASdS Milano, lettera, da Fabbriceria di Pornassio a RPB, 16 agosto 1900.
(31) ASdS Milano, lettera, da Fabbriceria di Pornassio a RPB, 16 febbraio 1900.
(32) ASdS Milano, lettera da RPB a Fabbriceria di Pornassio, 14 marzo 1900.
(33) ASdS Milano, lettera da RPB a Pietro Mora, 28 agosto 1900. I fratelli Annoni compaiono alle voci "Ebanisti e stipettisti" e "mobili: fabbricanti e negozianti" della Guida Savallo di Milano del 1898. Il loro indirizzo era via S. Ambrogio 61.
(34) La famiglia Gnecchi era presente a Verderio dal 1842, quando i fratelli Giuseppe e Carlo ereditarono da uno zio materno, Giacomo Ruscone, i beni che questi possedeva in paese. Giuseppina Turati (Busto Arsizio 1826 - Verderio 1899), moglie di Giuseppe Gnecchi Ruscone (Milano 1817 - 1893) aveva maturato , tra il 1897 e il 1898, l'intenzione di donare a Verderio Superiore una nuova chiesa, in sostituzione della vecchia, ormai inadeguata alle esigenze del paese. Dedicando la chiesa oltreché al patrono, S. Floriano, anche a S. Giuseppe, ella volle rendere omaggio al defunto marito (cfr. Autori vari, Verderio, la chiesa parrocchiale... cit).
(35) Al nobile Fausto Bagatti Valsecchi ( Milano1843-1914), amico della famiglia Gnecchi, si deveil disegno della chiesa parrocchiale mentre il progetto vero e proprio fu realizzato dall'ingegner Enrico Combi  (Milano 1832 - 1906).
(36) Francesco Gnecchi Ruscone (Milano 1847 - Roma 1919) era il figlio maggiore di Giuseppe e Giuseppina Turati. Noto come numismatico e pittore, fu sindaco di Verderio dal 1893 al 1919. Su di lui si può consultare: N. Parise, GNECCHI RUSCONE, Francesco, Dizionario Biografico degli Italiani (http://www.treccani.it/Portale/ricerche/searchBiografie.html).
Notizie anche in Marco Bartesaghi (a cura di) Da Verderio a Cisano, note di un antiquario: autore Francesco Gnecchi Ruscone, 1882, Archivi di Lecco, anno XXIV, n. 4, ottobre -  dicembre 2001.
All'edificazione della chiesa contribuirono anche i fratelli di Francesco: Ercole, Amalia, Carolina, Antonio ed Erminia.
(37) ACS, lettera, da F.lli Mora a MIP, senza data.
(38) Ne parla Francesco Gnecchi nella lettera al Ministro Gallo citata nel testo qualche riga più avanti.
(39) Archivio Parrocchiale di Verderio Superiore (APVS), lettera, da F.lli Mora a parrocchia di Verderio Superiore, 18 luglio 1900, Titolo VI (chiesa e luoghi sacri),cl.1,parrocchia, cart. 1, fasc.2/1.Nella lettera i Mora chiedono un atto scritto che attesti l'avvenuta compravendita di un quadro, non ancora consegnato per le condizioni edilizie della chiesa.
(40) ACS, lettera da Francesco Gnecchi a Ministro dell'Istruzione Pubblica, 28 agosto 1900. Nicolò Gallo (Agrigento 1849 - Roma 1907), avvocato e letterato, fu eletto per la prima volta in Parlamento nella XVI legislatura, come esponente della sinistra storica. Ministro dell'Istruzione Pubblica nei governi Rudini dal dicembre 1897 al giugno 1898, e Saracco, dal giugno 1900 al febbraio 1901, fu in seguito Presidente della Camera e ministro di Grazia e Giustizia.
(41) ACS, minuta di lettera, da MIP a Uff. Reg. Piemonte, 9 settembre 1900.
(42) ACS, lettera, da F.lli Mora a MIP, 29 agosto 1900.
(43) Enrico Panzacchi (Ozzano dell'Emilia 1840 - Bologna 1904), poeta e narratore, fu docente di storia dell'arte all'Università di Bologna. Eletto deputato ricoprì la carica di sottosegretario all'Istruzione Pubblica. Emilio Visconti Venosta (Milano 1829 - Roma 1914), fra i partecipanti alle 5 Giornate di Milano, fu in seguito perseguitato dal governo austriaco e costretto ad espatriare in Piemonte. Eletto deputato nel 1860 e Senatore del Regno dal 1886, tra il 1863 e il 1901 ricoprì la carica di Ministro degli Esteri in diversi governi. Giulio Prinetti (Milano 1848 - Roma 1908), ingegnere e industriale, fu eletto in Parlamento nel collegio di Lecco nel 1882 e restò deputato fino alla morte. Fu Ministro dei Lavori Pubblici nel governo Rudini, dal luglio 1896 al dicembre 1897, e Ministro degli esteri nel governo Zanardelli, dal febbraio 1901 al febbraio 1903.
(44) ACS e ASdS Milano, telegramma, da Corrado Ricci a MIP, 11 ottobre 1900.
(45) ACS e ASdS Milano, telegramma, da MIP a Corrado Ricci, 12 ottobre 1900.
(46) ACS e ASdS Milano, telegramma, da Corrado Ricci a MIP, 12 ottobre 1900. Sul telegramma conservato in ACS c'è la seguente annotazione a penna: "Sta bene. G - È il quadro del quale si sono occupati S.E. il M.se Visconti Venosta e S.E. Panzacchi".
(47) ACS, minuta di telegramma di stato, Da Ministro Gallo a Corrado Ricci, 15 ottobre 1900.
(48) L'ultimo documento conservato in ACS è una minuta di lettera inviata, il 29 ottobre 1900, da MIP a destinatario ignoto. In essa lo scrivente fa sapere che l'on. Prinetti è stato informato della cessione  "al cav. Gnecchi" della pala di Canavesio e delle condizioni dell'accordo.
(49) ASdS Milano, lettera, da avv. Giovanni Tacconi a signor Viganò, segretario RPB, 4 novembre 1903.
(50) ASdS Milano, lettera: "Oggetto Convenzione Gnecchi (Allegato n.4)", da R. Avvocatura Erariale a RPB, novembre. Alla lettera è allegato il foglio intitolato : "MINUTA DI ATTO", trascritto nel presente testo.
(51) Archivio Parrocchiale Verderio Superiore (APVS), Titolo X, Fabbriceria, Cart.6, Fasc. II, Atti: lettera, da avv. Giovanni Tacconi a Fabbriceria, 30 gennaio 1904.
(52) ASdS Milano, lettera, da avv. Giovanni Tacconi a signor Viganò, segretario RPB, 20 marzo 1904.
(53) APVS, Titolo II, Arcivescovo, Cl.1, Visite Pastorali, Cart.1, Fasc. 6/1.
(54) APVS, Liber Cronicus 1897/1913, ottobre 1905. Il libro che di Siegfried Weber scrisse nel 1911, intitolato "Die Bregunder der Piemonteser Malerschule im XV und zu Begin des XVI Fahrhunderst",  risulta essere la prima analisi puntuale dell'opera di Canavesio (cfr. Elisabetta Parente, Il polittico con Madonna e Santi... cit. pag. 232).
(55) Pinacoteca di Brera, 9 volumi, direttore scientifico Federico Zeri, collana Musei e Gallerie di Milano, Milano.


Marco Bartesaghi


Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista Archivi di Lecco, n.2, anno XXXII, aprile-giugno, 2009

L'articolo sul sito di Marco Bartesaghi: 

https://bartesaghiverderiostoria.blogspot.com/2010/09/lintricata-vicenda-del-trasferimento.html

venerdì 27 maggio 2022

Alcuni personaggi famosi nati 100 anni fa

Il 24 febbraio scorso è stato postato su questo blog un ricordo di Pier Paolo Pasolini, in occasione del centenario della sua nascita (1922 - 1975).

Ritengo giusto che, oltre a lui, vengano ricordate altre persone conosciute, non solo italiane, che hanno lasciato un segno, una traccia nella nostra storia. Ve ne sono certamente altre, molte altre, ma ho dovuto selezionarle per questione di spazio. Eccone alcune:

Beppe Fenoglio 

Scrittore e partigiano italiano 

(01.03. 1922 - 18.02.1963)

Jack Kerouac

Scrittore statunitense

(12.03.1922 - 21.10.1969)

Ugo Tognazzi

Attore e regista

(23.03.1922 - 27.10.1990)

Enrico Berlinguer

Politico e segretario del PCI

(25.05.1922 - 11.06.1984)

Margherita Hack

Astrofisica italiana

(12.06.1922 - 29.06.2013)

Pierre Cardin

Stilista di moda

(02.07.1922 - 29.12.2020)

Vittorio Gassman

Attore

(01.09.1922 - 28.06.2000)

Francesco Rosi

Regista

(15.11.1922 - 10.01.2015)

José Saramago

Scrittore portoghese premio Nobel

(16.11.1922 - 10.06.2010)






mercoledì 30 marzo 2022

Le genti della vecchia Brianza: il concetto di Provvidenza, la mentalità e l’indole

Se togliessimo le chiacchiere di paese ed i pettegolezzi, che hanno sempre fatto parte del vissuto di una comunità di persone, le storie più o meno vere, o verosimili, ovvero infarcite di balle macroscopiche, fino agli anni Sessanta/Settanta del secolo scorso venivano raccontate e tramandate ai più giovani oralmente. Solitamente ciò avveniva in inverno nelle calde e maleodoranti stalle oppure davanti al grande camino della cucina, ove erano sedute almeno tre generazioni della famiglia patriarcale, mentre durante i mesi più caldi i principali “centri di comunicazione” erano i portici ed i loggiati delle cascine e dei cortili rurali. In quei luoghi erano quasi sempre le persone più anziane a raccontare le storie e i bambini ed i più giovani ascoltavano in religioso silenzio, a volte a bocca aperta, altre volte con gli occhi sgranati. Per le generazioni passate era naturale e istintivo ul piasè de cüntala su ed i bambini di allora si immedesimavano nel racconto e viaggiavano con la fantasia. Era un raccontare alla buona, spontaneo e senza pretese, però sempre con una morale, mural, un messaggio che dicesse qualcosa di utile a tutti, di esemplare, da cui trarre insegnamento per una migliore norma di vita.
Le storie di temp indree, tramandateci dalla tradizione orale brianzola, sono sostanzialmente esposizione di fatti veri, o solo parte di essi, senza pretese di essere in possesso di documenti e testi scritti. Alcuni racconti partivano da contingenze reali e man mano venivano ricostruiti e riadattati con ambiti ambientati locali e con le caratteristiche dei protagonisti, in sintonia con i tempi e i luoghi nei quali i fatti erano accaduti. Nella maggior parte delle vicende raccontate dai vecchi campeggia la figura del “brianzolo tipo”, con i suoi pregi e difetti, le sue manie, le rigidità di usi e costumi, le sue ingenuità ma anche le sue furbizie.
Agli inizi del secolo scorso, ed almeno fino agli anni Sessanta, il vissuto terreno del brianzolo ruotava attorno alla Provvidenza, ai Santi ed ai suoi Morti. Sono questi aspetti importanti per capire su che basi si fondava la sua mentalità e come gli riuscisse di non “uscire dal seminato”. Il vecchio contadino aveva innato il senso del rispetto delle regole, dello stare al proprio posto, dell’attaccamento alla propria comunità. Ciò era dovuto anche al fatto che la vita comunitaria rurale della vecchia Brianza era piuttosto povera di avvenimenti e di novità e che i fatti e le cadenze si ripetevano stagione dopo stagione, anno dopo anno. Le novità le portavano in cascina e nei piccoli centri rurali i carbunatt, i cavalont, gli strascee, coloro che avevano la possibilità di spostarsi con i carri verso Milano, Monza e Bergamo (https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2015/06/carrettieri-e-cavallanti-brianza.html).
La peculiarità delle storie raccontate qui in Brianza riguardava quasi sempre una velata serenità di spirito che oggi si è persa e smarrita e della quale noi oggi proviamo una sicura nostalgia. Si trattava di quella condizione “spirituale” che apparteneva a classi di persone umili, buone di carattere, spesso prive di turbamenti. Secondo il vecchio brianzolo l’uomo non era quasi mai protagonista della propria vicenda terrena, governata com’era dalla Provvidenza, di fronte alla quale l’uomo è spesso soltanto muto spettatore. Quella Provvidenza era il piano di Dio, dalla quale il contadino traeva insegnamenti oppure giustificazioni, ma era certo che a quel disegno divino dipendeva il suo destino spirituale e terreno.

Fecchio, Cascina Lucia, 1914


I racconti brianzoli erano tutti emanazione delle persone anziane ed ebbero come ribalta, come abbiamo visto, i luoghi tipici del vissuto contadino. Nella stalla, vicino al grande camino o sotto i portici si potevano ascoltare storie riferite al mondo dell’infanzia, racconti fantastici o di soldati che avevano combattuto in guerra oppure ancora racconti edificanti a carattere religioso, tratti dalla vita dei santi e dei grandi pellegrini. 
Siccome le vecchie storie erano tutte calate nel mondo contadino, per cercare di capirle e dar loro una seppur minima verosimiglianza bisognerebbe conoscere il contesto entro le quali nascevano e si sviluppavano, almeno secondo tre concetti richiamati nel titolo: la Provvidenza, la mentalità contadina e l’indole del brianzolo. Occorre cioè avere un’immagine precisa dell’intero mosaico, perché è la sua conoscenza specifica che può consentirci di interpretare e capire quel mondo ormai scomparso.
Il prezioso significato sociale della narrativa orale brianzola sta nel fatto che attraverso di essa possiamo ricostruire pezzo per pezzo la vita della cascina, il ruolo comunitario del cortile e del grande portico comune, la funzione romantica, oltre che fondamentale, del pozzo, il senso profondo della Provvidenza e della vita religiosa. Sono le storie che raccontano la vita di quelle generazioni di persone, storie che animano la chiesa, l’osteria, le botteghe artigiane, il lavatoio pubblico, il cimitero, la villa padronale.
È grazie a questo mondo che i racconti e le storie dei vecchi contadini della Brianza non sono mai banali, perché posseggono un’anima ed una morale condivisa. 
Nella vecchia Brianza la Provvidenza era, come accennato, il piano di Dio, non sempre comprensibile al colono, dal quale dipendeva il suo destino spirituale e terreno. Il contadino aveva una tale fiducia nel piano di Dio che lo chiamava la broca che se sgala mai (il ramo dell’albero che non si schianta, non si rompe mai) e lo paragonava al corrimano della scala per andare al piano superiore, che ti indica la strada anche al buio. 
Anche la cattiva sorte girava attorno alla Provvidenza. In ogni cascina o vecchio cortile c’era sempre quella donna un po’ più saggia di tutti gli altri, che leggeva la Bibbia e i messali liturgici, che diceva: “Ul Signur al manda la tegna (la tigna, la disgrazia) ma anca ul capell per quatala (il cappello per coprirla). Su questa base erano orientate la cattiva sorte, i guai, le calamità, il dolore, la miseria che il buon Dio provvidenzialmente trasformava in un mezzo di redenzione dello spirito. Il contadino accettava di buon cuore la volontà di Dio, convinto com’era che, se non in questo mondo, certamente nell’aldilà, le sue vicissitudini terrene sarebbero state meritorie per guadagnarsi il bene eterno. Di conseguenza il vecchio brianzolo accettava la sofferenza, la rassegnazione e la sopportazione per guadagnaa ul paradis.
Il vecchio contadino della Brianza, vivendo in un mondo di figurazioni rurali e avendo bassa scolarizzazione, aveva un suo modo particolare di pensare per immagini, prese dalle tradizioni e dal mondo che lo circondava. Per rendere più chiaro e comprensibile questo concetto, di seguito vengono espressi alcuni esempi:

·         Vendere la pelle dell’orso prima di averlo ucciso – mangià l’oev (uovo) quand l’è dent amò in de l’uvera (ovaia) del la gaina (gallina);

·         Il lupo cambia il pelo ma non il vizio – ul möll (mulo) vecc el cambia mai ul pass;

·         Bisogna battere il ferro quando è caldo – i dùrt bisügna ciapai quand passen (i tordi bisogna prenderli quando passano);

·         Non tutte le ciambelle riescono con il buco – Menga de tütt i oev vegn foera ul puresin (pulcino) nel senso che qualche volta anche il gallo fa cilecca;

·         Essere nato fortunato, o sfortunato – Vess nasüü (essere nato) quand ul Signur l’era cuntent oppure quand ul Signur l’era rabiaa. Per indicare uno al quale “gli mancava una rotella” ghe mancava una quai rudela, dicevano: l’è nasüü quand ul Signur l’era indurment.

Gli animali avevano un posto centrale di riferimento nelle frasi composte dalle genti brianzole, nelle similitudini ed anche nelle invettive. Altri esempi: chela tusa (ragazza) lì l’è un’oca, ignurant cumè ’n asin, ingurd cumè ‘n sciatt (rospo), vunc mè ‘n ratt (unto come un topo), grass comè un purcell (maiale), fort cumè un tor, ul mé padron l’è un pioecc (pidocchio).



Verderio Superiore, giorno di bucato in Curt di Barbìs


Un altro ruolo importante del modo di pensare di quei tempi era il filo diretto che il paisan il contadino, aveva con i suoi santi protettori, della casa, degli animali, della salute, del raccolto… I santi più invocati e venerati erano i santi patroni che proteggevano il paese e la parrocchia locale e quelli più “importanti” e riconosciuti dalla Chiesa. Qui in Brianza, oltre naturalmente alla Madonna, avevano un posto preminente Sant’Antonio Abate, Sant’Ambrogio, San Rocco, San Sebastiano, San Biagio, San Giobbe…
L’indole delle genti brianzole delle colline, dei laghi sotto Lecco e delle prime pianure verso Monza poggiava essenzialmente su tre pilastri: la voeia de lavurà (la voglia di lavorare), tegnè a man (risparmiare) e ul vess galantomm (essere galantuomo). Sono tre qualità, tre virtù che il brianzolo si è tramandato dai tempi di Alessandro il Grande fino ai giorni nostri. Esse hanno fatto del brianzolo  il prototipo del lavoratore lombardo. Soprattutto la voglia di lavorare, che tanto incantava l’imperatrice austriaca Maria Teresa.
Dopo la semina autunnale del grano i giovani lasciavano a frotte le loro cascine e le corti dei loro piccoli borghi per recarsi in quei centri ove erano più diffusi l’industria e l’artigianato a imparà ul mestee. L’artigianato lombardo ha tratto origine, tra gli altri, da questo particolare carattere dell’indole brianzola, che ha permesso di soprannominare questo popolo “i giapponesi d’Italia”. Il vess galantomm significava anche assumere comportamenti che portavano ad essere leali e onesti con gli altri. Il brianzolo tipo ci teneva, ma fino ad un certo punto, perché sapeva anche che c’erano in circolazione personaggi che, appena ti giravi, ti colpivano alle spalle ed altri che seguivano pedissequamente la filosofia di certe massime di vita, tipo: L’è mei ciapà sü del lazaron che n’dà a cà con rott ul firon (meglio essere additato come un lazzarone che avere la schiena rotta) oppure Se te vegn voeia de lavurà, setes giò e lassela passà (se ti vien voglia di lavorare, siediti e lasciala passare).
Ovviamente, considerati i tempi dei quali stiamo parlando e tenuto conto del difficile contesto socio-economico, si riscontravano anche dissidi, criticità ed eterni contrasti generati dalla mentalità e dall’indole delle genti di queste terre. Come ad esempio tra la spusa (la nuora) e la suocera, che generò il famoso detto digh a la spusa quell che se vureva fagh savèe a la regiura (parlare a nuora perché suocera intenda).  
Un altro epico contrasto, che assunse anche caratteri sociali e politici, coinvolse ul sciur, il ricco, il padrone delle terre e di tutti gli immobili del borgo, e ul paisan, il contadino, il mezzadro, colui che materialmente lavorava e produceva ricchezza al padrone. In ogni comune brianzolo, anche nel più piccolo, già a partire dal Seicento, si riscontra la presenza del sciur, il capostipite di una famiglia nobiliare e borghese, molto spesso proveniente da Milano o in generale dalla Lombardia.
Essendo stata la Brianza una terra di forte religiosità, nell’eventuale contrasto tra ul sciur e ul paisan, veniva spesso coinvolto il terzo incomodo, ul cürat, il curato, il parroco della chiesa locale, il quale si doveva però saggiamente e furbescamente orientare nella non facile arte di non scontentare nessuno dei contendenti, tradotto in dialetto dà una bouta al scerc e un’oltra a la bott.
Senza voler scomodare il don Abbondio manzoniano, che cosa poteva fare un povero curato di campagna, schiacciato tra il ricco ed il potente, sempre più ricco e potente, quindi depositario della “borsa” dei danee, dei soldi, ed il contadino, che tendeva a diventare ancora più povero e sfruttato, per cui economicamente di poco o nessun aiuto per le opere parrocchiali? Anche perché, molto spesso, era la famiglia aristocratica e borghese del luogo che “consigliava e indirizzava” la nomina del parroco presso la parrocchia locale. Uno sgarbo al nobile e la borsa dei soldi si sarebbe chiusa definitivamente, anche se alcuni parroci trovarono il modo di “barcamenarsi” e di prendere le difese dei contadini e dei più poveri.
Anche questi atteggiamenti poc’anzi citati facevano parte dell’indole brianzola, come, per esempio, il prendersi gioco di mentalità maniacali di certi vecchi contadini o criticare pesantemente quegli approfittatori del prossimo e in genere tütt quei del cravatin che viven süi spall di por diavul.
Il racconto, la narrazione delle genti brianzole, almeno fino agli anni Sessanta del Novecento, verteva principalmente su due concetti, due schemi che venivano tramandati di generazione in generazione, la canzon e la storia. Il primo va inteso nel senso più esteso del termine, ossia che ingloba la fiaba e la leggenda fantastica, la favola e la “balla” più colossale, nel tentativo però di renderlo il più possibile coerente e affine al contesto ed al costume nel quale si sviluppa. Per quanto riguarda invece la storia, come già accennato, lo schema del racconto è calato nella realtà e si rifà ad un fatto realmente accaduto, vissuto da chi lo raccontava o da un suo amico o da un familiare, avendo però l’accortezza di utilizzare personaggi fittizi e inventati di sana pianta, che potevano variare da paese a paese. 
Come è facilmente comprensibile e deduttivo, canzon e stori sono tutti di emanazione  della fantasia, dell’estro e della “furbizia” dei vecchi contadini delle nostre terre ed hanno avuto come palcoscenico alcuni luoghi fondamentali della vita sociale di quei tempi: il grande camino della cucina, la stalla, il portico, ul casot (il casello di campagna), la cuntrada e ul lavatoi (il lavatoio pubblico).
In questi luoghi “sacri” per i vecchi contadini, si poteva ascoltare di tutto, come sopra accennato, ma principalmente canzon e stori attinenti al mondo dell’infanzia, dei pargoli, un termine usato spesso dalla zia Angiulina, la cognata di mio nonno paterno, alle vite dei santi e dei martiri e a storie di vita vissuta, tra le quali tenevano banco i racconti di chi aveva partecipato alle varie guerre.
Poteva capitare che i racconti a carattere religioso venissero riportati da qualche pettegola di paese al curato, il quale non gradiva di certo che la testa della gente fosse imbottita di notizie stravaganti e deformate che staven né in ciel né in tera.   
I messaggi delle storie dei tempi andati della Brianza vanno intesi e calati tutti nel mondo contadino, che bisogna conoscere a fondo, affinché si possa comprenderne i messaggi ed i valori etici e sociali, il senso della vita e della morte, il loro destino e il castigo nell’aldilà dal punto di vista religioso. La “filosofia” di vita dell’antica gente brianzola consisteva nel tenere tutti tacaa a la broca che se sgala mai (ancorati al ramo che non si spezza) perché il fine di ognuno era de requià, senza pö patì (tranquillità, senza patire).
Circolavano in quegli anni “massime di vita” che venivano applicate come fossero sentenze divine, del tipo: Vuress ben al custa nient; Stà tacaa ai toe Mort che te vütenn nel bisogn; A fa del begn se sbaglia mai; Se viv una voelta sula; Vardel begn, vardel tütt, l’omm senza danee l’è propri brütt!  
Si tratta quindi di tanti fili conduttori che, associati all’indole brianzola, danno un quadro affidabile del vivere. Queste “massime” dei nostri vecchi sono esperienze di vita vissuta nella buona e nella cattiva sorte, episodi di vita vissuta a carattere religioso e morale. I messaggi gravitavano prevalentemente attorno alla liturgia del momento, ai santi più conosciuti, ai tempi che imponeva la natura, alle feste religiose che rappresentavano il solo diversivo alla vita grama, sempre uguale a se stessa.

Lombardia, anno 1941, raccolta dei bozzoli del baco da seta

Le radici della Brianza affondano, nel bene e nel male, nelle storie, nelle canzoni, nella mentalità e nell’indole che si è cercato di raccontare in questo breve “saggio”. Sono l’identikit di chi è nato in queste terre, nel quale tentiamo, a fatica, di rispecchiarci e tenere vivo.
Scrive il prof. Sandro Motta nell’introduzione alla raccolta di storie e racconti brianzoli Brianza una volta. Stori di temp indree, Cattaneo editore, 1994: “Il prezioso significato sociale della nostra narrativa orale sta nel fatto che attraverso di essa noi possiamo ricostruire pezzo per pezzo la vita della cascina, il ruolo comunitario del grande portico comune, la funzione romantica del pozzo, la dinamica della vita familiare, il senso della Provvidenza e dell’amore del prossimo. Sono le nostre storie che animano il campo, la chiesa, l’osteria, la magione del proprietario terriero, le botteghe artigiane, i venditori ambulanti, il lavatoio pubblico ed il camposanto. Se non sono vivificate da questa narrativa, le ricostruzioni che puntigliosamente si fanno un po’ da tutti della vita del paisan di inizio secolo e del suo ambiente, finirebbero per essere fredde, senz’anima e ci direbbero ben poco…”.

Beniamino Colnaghi

Note

Si segnalano, per ampliare la conoscenza della storia brianzola e della vita vissuta di quelle genti, i seguenti testi:
Sandro Motta, Ul fiur l’è amur, Cattaneo editore;
Sandro Motta, Del tecc in sü e Del tecc in giò editi sempre da Cattaneo.