Le genti della vecchia Brianza: il concetto di Provvidenza, la mentalità e
l’indole
Se togliessimo le chiacchiere di paese ed i
pettegolezzi, che hanno sempre fatto parte del vissuto di una comunità di
persone, le storie più o meno vere, o verosimili, ovvero infarcite di
balle macroscopiche, fino agli anni Sessanta/Settanta del secolo scorso
venivano raccontate e tramandate ai più giovani oralmente. Solitamente ciò
avveniva in inverno nelle calde e maleodoranti stalle oppure davanti al grande
camino della cucina, ove erano sedute almeno tre generazioni della famiglia
patriarcale, mentre durante i mesi più caldi i principali “centri di comunicazione”
erano i portici ed i loggiati delle cascine e dei cortili rurali. In quei
luoghi erano quasi sempre le persone più anziane a raccontare le storie e i
bambini ed i più giovani ascoltavano in religioso silenzio, a volte a bocca
aperta, altre volte con gli occhi sgranati. Per le generazioni passate era
naturale e istintivo ul piasè de cüntala
su ed i bambini di allora si immedesimavano nel racconto e viaggiavano con
la fantasia. Era un raccontare alla buona, spontaneo e senza pretese, però
sempre con una morale, mural, un
messaggio che dicesse qualcosa di utile a tutti, di esemplare, da cui trarre
insegnamento per una migliore norma di vita.
Le storie di temp
indree, tramandateci dalla tradizione orale brianzola, sono sostanzialmente
esposizione di fatti veri, o solo parte di essi, senza pretese di essere in
possesso di documenti e testi scritti. Alcuni racconti partivano da
contingenze reali e man mano venivano ricostruiti e riadattati con ambiti
ambientati locali e con le caratteristiche dei protagonisti, in sintonia con i
tempi e i luoghi nei quali i fatti erano accaduti. Nella maggior parte delle
vicende raccontate dai vecchi campeggia la figura del “brianzolo tipo”, con i
suoi pregi e difetti, le sue manie, le rigidità di usi e costumi, le sue
ingenuità ma anche le sue furbizie.
Agli inizi del secolo scorso, ed almeno fino agli anni
Sessanta, il vissuto terreno del brianzolo ruotava attorno alla Provvidenza, ai
Santi ed ai suoi Morti. Sono questi aspetti importanti per capire su che basi
si fondava la sua mentalità e come gli riuscisse di non “uscire dal seminato”.
Il vecchio contadino aveva innato il senso del rispetto delle regole, dello
stare al proprio posto, dell’attaccamento alla propria comunità. Ciò era dovuto
anche al fatto che la vita comunitaria rurale della vecchia Brianza era
piuttosto povera di avvenimenti e di novità e che i fatti e le cadenze si
ripetevano stagione dopo stagione, anno dopo anno. Le novità le portavano in
cascina e nei piccoli centri rurali i carbunatt,
i cavalont, gli strascee, coloro che avevano la possibilità di spostarsi con i
carri verso Milano, Monza e Bergamo (https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2015/06/carrettieri-e-cavallanti-brianza.html). La peculiarità delle storie raccontate qui in Brianza
riguardava quasi sempre una velata serenità di spirito che oggi si è persa e
smarrita e della quale noi oggi proviamo una sicura nostalgia. Si trattava di
quella condizione “spirituale” che apparteneva a classi di persone umili, buone
di carattere, spesso prive di turbamenti. Secondo il vecchio brianzolo l’uomo
non era quasi mai protagonista della propria vicenda terrena, governata
com’era dalla Provvidenza, di fronte alla quale l’uomo è spesso soltanto muto
spettatore. Quella Provvidenza era il piano di Dio, dalla quale il contadino
traeva insegnamenti oppure giustificazioni, ma era certo che a quel disegno
divino dipendeva il suo destino spirituale e terreno.
Fecchio, Cascina Lucia, 1914
I racconti brianzoli erano tutti emanazione delle persone
anziane ed ebbero come ribalta, come abbiamo visto, i luoghi tipici del
vissuto contadino. Nella stalla, vicino al grande camino o sotto i portici si
potevano ascoltare storie riferite al mondo dell’infanzia, racconti fantastici
o di soldati che avevano combattuto in guerra oppure ancora racconti edificanti
a carattere religioso, tratti dalla vita dei santi e dei grandi
pellegrini. Siccome le vecchie storie erano tutte calate nel mondo
contadino, per cercare di capirle e dar loro una seppur minima verosimiglianza
bisognerebbe conoscere il contesto entro le quali nascevano e si
sviluppavano, almeno secondo tre concetti richiamati nel titolo: la
Provvidenza, la mentalità contadina e l’indole del brianzolo. Occorre cioè
avere un’immagine precisa dell’intero mosaico, perché è la sua conoscenza
specifica che può consentirci di interpretare e capire quel mondo ormai
scomparso.
Il prezioso significato sociale della narrativa orale brianzola
sta nel fatto che attraverso di essa possiamo ricostruire pezzo per pezzo la vita
della cascina, il ruolo comunitario del cortile e del grande portico comune, la
funzione romantica, oltre che fondamentale, del pozzo, il senso profondo della
Provvidenza e della vita religiosa. Sono le storie che raccontano la vita di
quelle generazioni di persone, storie che animano la chiesa, l’osteria, le
botteghe artigiane, il lavatoio pubblico, il cimitero, la villa padronale.
È grazie a questo mondo che i racconti e le storie dei
vecchi contadini della Brianza non sono mai banali, perché posseggono un’anima
ed una morale condivisa.
Nella vecchia Brianza la Provvidenza era, come accennato,
il piano di Dio, non sempre comprensibile al colono, dal quale dipendeva il suo
destino spirituale e terreno. Il contadino aveva una tale fiducia nel piano di Dio
che lo chiamava la broca che se sgala mai
(il ramo dell’albero che non si schianta, non si rompe mai) e lo paragonava al
corrimano della scala per andare al piano superiore, che ti indica la strada
anche al buio.
Anche la cattiva sorte girava attorno alla Provvidenza.
In ogni cascina o vecchio cortile c’era sempre quella donna un po’ più saggia
di tutti gli altri, che leggeva la Bibbia e i messali liturgici, che diceva: “Ul Signur al manda la tegna (la tigna,
la disgrazia) ma anca ul capell per
quatala (il cappello per coprirla). Su questa base erano orientate la
cattiva sorte, i guai, le calamità, il dolore, la miseria che il buon Dio
provvidenzialmente trasformava in un mezzo di redenzione dello spirito. Il
contadino accettava di buon cuore la volontà di Dio, convinto com’era che, se
non in questo mondo, certamente nell’aldilà, le sue vicissitudini terrene
sarebbero state meritorie per guadagnarsi il bene eterno. Di conseguenza il
vecchio brianzolo accettava la sofferenza, la rassegnazione e la sopportazione
per guadagnaa ul paradis.
Il vecchio contadino della Brianza, vivendo in un mondo
di figurazioni rurali e avendo bassa scolarizzazione, aveva un suo modo
particolare di pensare per immagini, prese dalle tradizioni e dal mondo che lo
circondava. Per rendere più chiaro e comprensibile questo concetto, di seguito
vengono espressi alcuni esempi:
·
Vendere la pelle dell’orso prima di averlo
ucciso – mangià l’oev (uovo) quand l’è dent amò in de l’uvera (ovaia) del la gaina (gallina);
·
Il lupo cambia il pelo ma non il vizio – ul möll (mulo) vecc el cambia mai ul pass;
·
Bisogna battere il ferro quando è caldo – i dùrt bisügna ciapai quand passen (i
tordi bisogna prenderli quando passano);
·
Non tutte le ciambelle riescono con il buco – Menga de tütt i oev vegn foera ul puresin
(pulcino) nel senso che qualche volta anche il gallo fa cilecca;
·
Essere nato fortunato, o sfortunato – Vess nasüü (essere nato) quand ul Signur l’era cuntent oppure quand ul Signur l’era rabiaa. Per
indicare uno al quale “gli mancava una rotella” ghe mancava una quai rudela, dicevano: l’è nasüü quand ul Signur l’era indurment.
Gli animali
avevano un posto centrale di riferimento nelle frasi composte dalle genti
brianzole, nelle similitudini ed anche nelle invettive. Altri esempi: chela tusa (ragazza) lì l’è un’oca, ignurant cumè ’n asin, ingurd cumè ‘n sciatt (rospo), vunc mè ‘n ratt (unto come un topo), grass comè un purcell (maiale), fort cumè un tor, ul mé padron l’è un pioecc
(pidocchio).
Verderio Superiore, giorno di bucato in Curt di Barbìs
Un altro ruolo
importante del modo di pensare di quei tempi era il filo diretto che il paisan il contadino, aveva con i suoi
santi protettori, della casa, degli animali, della salute, del raccolto… I
santi più invocati e venerati erano i santi patroni che proteggevano il paese e
la parrocchia locale e quelli più “importanti” e riconosciuti dalla Chiesa. Qui
in Brianza, oltre naturalmente alla Madonna, avevano un posto preminente
Sant’Antonio Abate, Sant’Ambrogio, San Rocco, San Sebastiano, San Biagio, San
Giobbe…
L’indole delle
genti brianzole delle colline, dei laghi sotto Lecco e delle prime pianure
verso Monza poggiava essenzialmente su tre pilastri: la voeia de lavurà (la voglia di lavorare), tegnè a man (risparmiare) e ul
vess galantomm (essere galantuomo). Sono tre qualità, tre virtù che il
brianzolo si è tramandato dai tempi di Alessandro il Grande fino ai giorni
nostri. Esse hanno fatto del brianzolo
il prototipo del lavoratore lombardo. Soprattutto la voglia di lavorare,
che tanto incantava l’imperatrice austriaca Maria Teresa.
Dopo la semina
autunnale del grano i giovani lasciavano a frotte le loro cascine e le corti
dei loro piccoli borghi per recarsi in quei centri ove erano più diffusi
l’industria e l’artigianato a imparà ul
mestee. L’artigianato lombardo ha tratto origine, tra gli altri, da questo
particolare carattere dell’indole brianzola, che ha permesso di soprannominare
questo popolo “i giapponesi d’Italia”. Il vess
galantomm significava anche assumere comportamenti che portavano ad essere
leali e onesti con gli altri. Il brianzolo tipo ci teneva, ma fino ad un certo
punto, perché sapeva anche che c’erano in circolazione personaggi che, appena
ti giravi, ti colpivano alle spalle ed altri che seguivano pedissequamente la
filosofia di certe massime di vita, tipo: L’è
mei ciapà sü del lazaron che n’dà a cà con rott ul firon (meglio essere
additato come un lazzarone che avere la schiena rotta) oppure Se te vegn voeia de lavurà, setes giò e
lassela passà (se ti vien voglia di lavorare, siediti e lasciala passare).
Ovviamente,
considerati i tempi dei quali stiamo parlando e tenuto conto del difficile
contesto socio-economico, si riscontravano anche dissidi, criticità ed eterni contrasti
generati dalla mentalità e dall’indole delle genti di queste terre. Come ad
esempio tra la spusa (la nuora) e la suocera,
che generò il famoso detto digh a la
spusa quell che se vureva fagh savèe a la regiura (parlare a nuora perché
suocera intenda).
Un altro epico contrasto, che assunse anche caratteri
sociali e politici, coinvolse ul sciur,
il ricco, il padrone delle terre e di tutti gli immobili del borgo, e ul paisan, il contadino, il mezzadro,
colui che materialmente lavorava e produceva ricchezza al padrone. In ogni
comune brianzolo, anche nel più piccolo, già a partire dal Seicento, si
riscontra la presenza del sciur, il
capostipite di una famiglia nobiliare e borghese, molto spesso proveniente da
Milano o in generale dalla Lombardia.
Essendo stata la Brianza una terra di forte religiosità,
nell’eventuale contrasto tra ul sciur e ul paisan, veniva spesso coinvolto il
terzo incomodo, ul cürat, il curato, il parroco della chiesa locale, il quale si
doveva però saggiamente e furbescamente orientare nella non facile arte di non
scontentare nessuno dei contendenti, tradotto in dialetto dà una bouta al scerc e un’oltra a la bott.
Senza voler scomodare il don Abbondio manzoniano, che
cosa poteva fare un povero curato di campagna, schiacciato tra il ricco ed il
potente, sempre più ricco e potente, quindi depositario della “borsa” dei danee, dei soldi, ed il contadino, che
tendeva a diventare ancora più povero e sfruttato, per cui economicamente di
poco o nessun aiuto per le opere parrocchiali? Anche perché, molto spesso, era
la famiglia aristocratica e borghese del luogo che “consigliava e indirizzava”
la nomina del parroco presso la parrocchia locale. Uno sgarbo al nobile e la
borsa dei soldi si sarebbe chiusa definitivamente, anche se alcuni parroci trovarono
il modo di “barcamenarsi” e di prendere le difese dei contadini e dei più
poveri.
Anche questi atteggiamenti poc’anzi citati facevano parte
dell’indole brianzola, come, per esempio, il prendersi gioco di mentalità
maniacali di certi vecchi contadini o criticare pesantemente quegli
approfittatori del prossimo e in genere tütt quei del
cravatin che viven süi spall di por diavul.
Il racconto, la narrazione delle genti brianzole, almeno
fino agli anni Sessanta del Novecento, verteva principalmente su due concetti,
due schemi che venivano tramandati di generazione in generazione, la canzon e la storia. Il primo va inteso nel senso più esteso del termine, ossia
che ingloba la fiaba e la leggenda fantastica, la favola e la “balla” più
colossale, nel tentativo però di renderlo il più possibile coerente e affine al
contesto ed al costume nel quale si sviluppa. Per quanto riguarda invece la storia, come già accennato, lo schema
del racconto è calato nella realtà e si rifà ad un fatto realmente accaduto,
vissuto da chi lo raccontava o da un suo amico o da un familiare, avendo però
l’accortezza di utilizzare personaggi fittizi e inventati di sana pianta, che
potevano variare da paese a paese.
Come è facilmente comprensibile e deduttivo, canzon e stori sono tutti di emanazione
della fantasia, dell’estro e della “furbizia” dei vecchi contadini delle
nostre terre ed hanno avuto come palcoscenico alcuni luoghi fondamentali della
vita sociale di quei tempi: il grande camino della cucina, la stalla, il
portico, ul casot (il casello di
campagna), la cuntrada e ul lavatoi (il
lavatoio pubblico).
In questi luoghi “sacri” per i vecchi contadini, si
poteva ascoltare di tutto, come sopra accennato, ma principalmente canzon e stori attinenti al mondo dell’infanzia, dei pargoli, un termine usato spesso dalla zia Angiulina, la cognata di mio nonno paterno, alle vite dei santi
e dei martiri e a storie di vita vissuta, tra le quali tenevano banco i
racconti di chi aveva partecipato alle varie guerre.
Poteva capitare che i racconti a carattere religioso
venissero riportati da qualche pettegola di paese al curato, il quale non
gradiva di certo che la testa della gente fosse imbottita di notizie
stravaganti e deformate che staven né in
ciel né in tera.
I messaggi delle storie dei tempi andati della Brianza
vanno intesi e calati tutti nel mondo contadino, che bisogna conoscere a fondo,
affinché si possa comprenderne i messaggi ed i valori etici e sociali, il senso
della vita e della morte, il loro destino e il castigo nell’aldilà dal punto di
vista religioso. La “filosofia” di vita dell’antica gente brianzola consisteva
nel tenere tutti tacaa a la broca che se
sgala mai (ancorati al ramo che non si spezza) perché il fine di ognuno era
de requià, senza pö patì (tranquillità,
senza patire).
Circolavano in quegli anni “massime di vita” che venivano
applicate come fossero sentenze divine, del tipo: Vuress ben al custa nient; Stà
tacaa ai toe Mort che te vütenn nel bisogn; A fa del begn se sbaglia mai; Se viv una
voelta sula; Vardel begn, vardel tütt, l’omm
senza danee l’è propri brütt!
Si tratta quindi di tanti fili conduttori che, associati
all’indole brianzola, danno un quadro affidabile del vivere. Queste “massime”
dei nostri vecchi sono esperienze di vita vissuta nella buona e nella cattiva
sorte, episodi di vita vissuta a carattere religioso e morale. I messaggi
gravitavano prevalentemente attorno alla liturgia del momento, ai santi più
conosciuti, ai tempi che imponeva la natura, alle feste religiose che
rappresentavano il solo diversivo alla vita grama, sempre uguale a se stessa.
Lombardia, anno 1941, raccolta dei bozzoli del baco da seta
Le radici della Brianza affondano, nel bene e nel male,
nelle storie, nelle canzoni, nella mentalità e nell’indole che si è cercato di
raccontare in questo breve “saggio”. Sono l’identikit di chi è nato in queste
terre, nel quale tentiamo, a fatica, di rispecchiarci e tenere vivo.
Scrive il prof. Sandro Motta nell’introduzione alla
raccolta di storie e racconti brianzoli Brianza una volta. Stori di temp indree, Cattaneo editore, 1994: “Il
prezioso significato sociale della nostra narrativa orale sta nel fatto che
attraverso di essa noi possiamo ricostruire pezzo per pezzo la vita della
cascina, il ruolo comunitario del grande portico comune, la funzione romantica
del pozzo, la dinamica della vita familiare, il senso della Provvidenza e
dell’amore del prossimo. Sono le nostre storie che animano il campo, la chiesa,
l’osteria, la magione del proprietario terriero, le botteghe artigiane, i
venditori ambulanti, il lavatoio pubblico ed il camposanto. Se non sono
vivificate da questa narrativa, le ricostruzioni che puntigliosamente si fanno
un po’ da tutti della vita del paisan
di inizio secolo e del suo ambiente, finirebbero per essere fredde, senz’anima
e ci direbbero ben poco…”.
Beniamino
Colnaghi
Note
Si segnalano,
per ampliare la conoscenza della storia
brianzola e della vita vissuta di quelle genti, i seguenti testi:
Sandro Motta, Ul fiur l’è amur, Cattaneo editore;
Sandro Motta, Del tecc in sü e Del tecc in giò editi sempre da Cattaneo.
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