giovedì 17 settembre 2015


 Ville Aperte in Brianza
 
Edizione speciale Expo 2015
 
dal 20 settembre al 25 ottobre 2015
 
L'iniziativa, promossa e coordinata dalla Provincia di Monza e della Brianza, è un'edizione speciale di "Ville Aperte in Brianza", patrocinata da Expo Milano 2015 e dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo. La manifestazione si conferma come un momento di particolare rilievo per la promozione, anche a fini turistici, del ricco patrimonio culturale della Brianza.
Il territorio brianteo ha saputo cogliere la straordinaria occasione di visibilità internazionale offerta da Expo Milano 2015 aprendo e mettendo in mostra la propria parte migliore per offrire a turisti e cittadini un catalogo di beni visitabili e un calendario denso di eventi.
Sono 130 le ville, le dimore, le chiese, i musei ed i palazzi che potranno essere visitati.
La maggior parte sono compresi nel territorio della Provincia di Monza Brianza ma un buon numero di questi beni insistono in comuni che appartengono alle provincie di Milano e Lecco.
Per quanto riguarda la Provincia di Lecco sono ben 20 i comuni sul cui territorio sono presenti monumenti storici e culturali che sono entrati a far parte dell'edizione 2015 di "Ville Aperte in Brianza". Tra questi comuni sono presenti Verderio, con l'Aia, Robbiate, con Palazzo Bassi Brugnatelli, Montevecchia, Monticello Brianza con Villa Greppi, Merate, Casatenovo, Calco ed altri.
 
 
Verderio: il complesso denominato Aia, un tempo adibito ad essicatoio
 
Spettacolo culturale all'Aia (fonte http://www.merateonline.it/articolo.php?idd=54988)
 
Per informazioni e prenotazioni:
 
 
Infoline tel. 039.9752251
 
Tutti gli eventi sono inseriti nel sito internet
 
 
 
 
 


martedì 8 settembre 2015

Per la rassegna  Voci, gesti, culture dell’alimentazione
 
il Museo Etnografico dell’Alta Brianza di Galbiate 
 
presenta la mostra  

Uomini invisibili.  Vivere da pescatori oggi, sul lago di Como
 
Una mostra, con tre documentari, a cura di Massimo Pirovano 

Nell’anno di Expo 2015, sono ancora poche le persone che, persino in una regione ricca di laghi e di fiumi come la Lombardia, conoscono il pesce di lago nelle sue varietà e nelle loro potenzialità alimentari.      Il Museo Etnografico dell’Alta Brianza, aperto al pubblico nel 2003 per iniziativa del Parco Monte Barro che lo finanzia, ha pensato di contribuire a quest’opera di divulgazione, a favore dei prodotti alimentari derivati dalle catture dei pesci di acqua dolce. Ma un museo antropologico non poteva non partire dagli uomini e dalle donne che, con il loro lavoro, le loro competenze tecniche, le tradizioni che hanno conservato e saputo adeguare alla società contemporanea, catturano e lavorano il pesce. Da qui le ricerche, la raccolta e la produzione della documentazione che ora il visitatore del museo può trovare nella mostra Uomini invisibili.  Vivere da pescatori oggi, sul lago di Como, un titolo che Massimo Pirovano, il curatore della mostra, spiega così. “I pescatori di mestiere praticano un lavoro antico, rispetto al quale l’agricoltura rappresenta una novità recentissima nella storia. Da sempre, chi usa le reti nei laghi e nei fiumi costituisce una parte di umanità quasi invisibile, con una vita alla rovescia, che ha nelle ore serali e notturne i momenti cruciali. Una vita di sacrifici, con poche ore di sonno, che continua ancora oggi nonostante le facilitazioni venute dai motori applicati alle barche e dai materiali delle reti.” Nella mostra che parla del passato e del presente della professione, si possono vedere strumenti e attrezzature che hanno avuto un uso secolare e strumenti che si adoperano oggi, sia sulle acque dei bassi fondali sia nelle profondità del Lario, dove vivono o vivevano specie ittiche differenti che richiedono l’impiego di tecniche diverse per la cattura del pesce. Il Museo Etnografico dell’Alta Brianza, che ha avviato le sue ricerche in questo ambito già dagli anni ’90, è ora in grado di proporre – dentro la mostra – la visione di tre documentari, realizzati in diverse epoche, grazie all’incontro e alle lunghe frequentazioni dei pescatori da parte dell’antropologo e del videoperatore.  Infatti, nel 1998, Massimo Pirovano e Giosuè Bolis hanno pubblicato il documentario Il lavoro dei pescatori. Adda, Brianza e lago di Como, cui era stato attribuito un importante  riconoscimento internazionale con il Premio Internazionale “Pitrè – Salomone Marino – Città di Palermo”, ben prima che il museo aprisse al pubblico, nel 2003.  Le riprese e le interviste per il film premiato, facevano seguito alle ricerche storiche ed etnografiche condotte da Angelo De Battista e Massimo Pirovano, per l’Atlante Linguistico dei Laghi Italiani (ALLI) dell’Università di Perugia, con l’ausilio di Lele Piazza, come fotografo, e di Giosuè Bolis, come operatore video.  Gli autori del primo film, collaborando al progetto di una sede staccata del MEAB, da aprire sulle rive dell’Adda nel Comune di Brivio, hanno poi realizzato con Aldo Mandelli, ultimo professionista in attività sul lago e sul fiume antistanti il paese, il documentario Il racconto del pescatore: testimonianze per un museo sulla pesca, nel 2011. Oggi, Bolis e Pirovano aggiungono un nuovo film di un’ora – di cui è possibile vedere qui il trailer  https://www.youtube.com/watch?v=ptVeOYL9arM  con una ricerca di etnografia del contemporaneo, che si aggiunge ai precedente: il documentario Uomini invisibili.  Vivere da pescatori oggi, sul lago di Como, che porta lo stesso titolo della mostra, che il 17 maggio 2015 è stata aperta da due conferenze e da un buffet per molti sorprendente. L’antropologa francese Sarah Laborde e Alessandro Sala, pescatore, hanno  discusso di Cose dell’altro mondo. Il Lario degli scienziati e  quello dei pescatori, tra modelli matematici e reti volanti, mentre Carlo Romanò, idrobiologo e Francesco Ghislanzoni hanno dialogato con Massimo Pirovano sulla pesca di mestiere e i suoi problemi, oggi. Tutto il programma della iniziativa permette di cogliere la complessità della vita dei pescatori, portatori di una cultura esclusiva che anche la loro lingua testimonia con il suo lessico.  Il visitatore della mostra ha inoltre a disposizione un’agile guida in cui si parla di quanto hanno inciso sul mestiere del pescatore il passaggio “dalla fame alla dieta” e i mutamenti di mentalità e di gusti , le storie di commerci, diritti e regole, i cambiamenti nelle tecniche di pesca – tutti fattori che hanno prodotto nuove forme di organizzazione del lavoro, dei pescatori e delle loro famiglie. Oltre alla cattura del pesce, infatti, oggi si deve pensare alla lavorazione, ma anche alla trasformazione del pescato in prodotti gastronomici appetibili, come hanno saputo fare, con notevoli investimenti, i professionisti che praticano anche il commercio, l’ittiturismo che propone la ristorazione con i propri prodotti e il pescaturismo, in cui il pescatore accompagna in barca i suoi ospiti illustrando le particolarità del suo lavoro e della sua vita.  

Progetto e cura: Massimo Pirovano Filmati: Giosuè Bolis, Massimo Pirovano Consulenza: Francesco Ghislanzoni, Alessandro Sala Assistenza tecnica all’allestimento: Mario Colombo, Marco Longhi, Francesco Ghislanzoni, Angelo Panzeri, Massimo Pirovano, Maria Giovanna Ravasi, Luciana Rota, Bruna Vismara Fotografie: Ugo Pelis, Lele Piazza, Massimo Pirovano, Paola Poletti, Mario Spreafico Il materiale documentario esposto fa parte delle collezioni del MEAB o di alcune raccolte private. Si ringraziano, per le loro donazioni, Loredana Alippi, Giuliano Azzoni, Giuseppe Cavalli, Santino Cossio, Antonio Curti, Mario e Giuliano Fraquelli, Francesco Ghislanzoni, Renato Riva, Alessandro Sala, Piero Taroni. Progetto grafico: Daniela Fioroni 
La mostra è realizzata con  il contributo di: Parco Monte Barro, ACEL Service, Comune di Brivio, 
la collaborazione di: “Da Ceko Il pescatore” di Lecco, Ittiturismo Ristorante “Mella” di Bellagio, Provincia di Como, Provincia di Lecco 
e il patrocinio di: Associazione Pescatori Allevatori Trasformatori di Pesce  Atlante Linguistico dei Laghi Italiani Università degli Studi Milano Bicocca DIPARTIMENTO DI SCIENZE UMANE PER LA FORMAZIONE “RICCARDO MASSA” Rete dei Musei e dei Beni Etnografici Lombardi (REBÈL) Sistema Museale della Provincia di Lecco Società Italiana per la Museografia e i Beni Demoetnoantropologico (SIMBDEA) 
 
La mostra è visitabile dal 17 maggio al 1° novembre 2015 presso il Museo Etnografico dell’Alta Brianza.
  
Il museo è aperto martedì, mercoledì, venerdì: 9-12, sabato, domenica: 9-12  14-18
Per info: MEAB  0341.240193  -  Parco: 0341.542266:   http://meab.parcobarro.it/
 
Questo blog ha postato un articolo sul Museo Etnografico dell’Alta Brianza di Galbiate - clicca qui http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2013/11/le-tradizioni-popolari-brianzole-nel.html

sabato 5 settembre 2015

Non solo Praga: città d'arte, castelli e storia in Repubblica Ceca. Reportage fotografico
 
Praga, capitale della Repubblica Ceca, meta di alcuni milioni di turisti ogni anno, è una delle città più interessanti al mondo. Forse è per questo motivo, oltre che per questioni di business, che il turismo internazionale si concentra sulla capitale. In Boemia e Moravia, tuttavia, vi sono luoghi storici e naturalistici, piccoli borghi, castelli e città d’arte che meriterebbero comunque una visita.
Questo blog ne propone alcuni attraverso un reportage fotografico svolto nel mese di agosto 2015 (cliccare sulle foto per ingrandirle)
 
Brno
 



 
Kutna Hora



 




Liberec




 
Castello di Frýdlant
 
 
 

Sychrov


 
Trosky


 
Valdštejn




 

sabato 25 luglio 2015

Dalai Lama
 
 
Quello che mi ha sorpreso di più negli uomini dell’Occidente è che perdono la salute per fare i soldi e poi perdono i soldi per recuperare la salute. Pensano tanto al futuro che dimenticano di vivere il presente in tale maniera che non riescono a vivere né il presente, né il futuro. Vivono come se non dovessero morire mai e muoiono come se non avessero mai vissuto.
(Dalai Lama)

giovedì 23 luglio 2015

Le terre orientali dell’Impero austro-ungarico
 
“Al vecchio fu chiesta la storia della sua vita. Era nato, disse, a Czernowitz, era andato a scuola a Cerrnauti, aveva lavorato a Chernovitsy, ed era andato in pensione a Cernivtsy. Avete viaggiato molto, disse il suo interlocutore. Per niente, replicò il vecchio. Ho passato tutta la vita allo stesso posto”.
P. Pulzer, Ritorno alla piccola Vienna, Belfagor, vol. 51, 1996

L'Impero austro-ungarico, o semplicemente Austria-Ungheria, nacque nel 1867 con il cosiddetto Ausgleich, il compromesso tra la dinastia degli Asburgo e la nobiltà liberale ungherese. In virtù di questa riforma costituzionale, l'Impero austriaco divenne «monarchia austro-ungarica» che riconosceva l'esistenza di due regni distinti con pari diritti, uniti dalla figura del sovrano e da tre ministeri comuni: guerra, esteri, finanze. Per cui il Regno d'Ungheria si autogovernava e godeva di una sua politica autonoma in molti campi. Gli Asburgo erano, dunque, sia imperatori d'Austria sia re di Ungheria. Per oltre cinquant’anni il confine tra Austria e Ungheria fu costituito dal fiume Leitha, un affluente del Danubio.
Gli storici individuano questo compromesso col nome di Duplice Monarchia.
 
L'Impero austro-ungarico dopo il compromesso

Al Regno d’Ungheria facevano parte territori dell’attuale Romania (Transilvania, Timisoara), il Regno di Croazia e Slavonia, la Vojvodina, la città di Fiume. La parte occidentale della Monarchia comprendeva l’attuale Austria, la città di Trieste, le contee di Gorizia e Gradisca, l’Istria, il Tirolo, il Regno di Boemia e il margraviato di Moravia, la Slesia, la Galizia e la Lodomiria, il ducato della Bucovina e la Dalmazia. All’insieme di questi variegati territori era stato dato il nome di Cisleithania, terra al di qua del Leitha. Queste terre d’oriente, che ricordavano le gesta e la colonizzazione tedesca di Maria Teresa, ma russe per civiltà e stirpe, e quindi lontanissime dalla cultura tedesca, erano un crogiolo di popoli e un punto d’incontro di stirpi. Era quella parte d’Europa che era stata il teatro della secolare missione dell’Austria, colonizzatrice militare ed economica dei paesi posti fra la Russia e la Germania. Un variopinto mondo slavo popola quelle terre: donne che indossano la leggiadra kasabaika, contadini ruteni e fieri huzuli, montanari dei Carpazi, umili astuti ebrei dai lunghi caffetani, haydamak, briganti con le pistole rabescate e il corno con la polvere.

Nel 1871 si registrò il doppio tentativo di trasformare in senso trialistico la Duplice Monarchia: verso sud si tentò di costituire lo “Stato dell’Illiria” comprendente Croazia, Slovenia e Dalmazia, tentativo già intrapreso da Napoleone nel 1809, che però durò solo cinque anni; verso nord vi fu il tentativo di resuscitare il Regno di Boemia, che indusse i cechi a richiedere un’autonomia pari a quella concessa agli ungheresi. I due progetti fallirono a causa delle forti opposizioni interne all’Impero e dei veti incrociati delle altre nazionalità. Tuttavia, di fronte alla crescente potenza germanica e all’espansionismo dell’Impero russo, molti politici e intellettuali di quei territori rimasero convinti della bontà del progetto di riforma dell’Impero asburgico, centrato sulla conversione della Duplice Monarchia in uno stato federale che comprendesse i sudditi slavi e nel quale ogni nazionalità avesse una considerevole autonomia. Il progetto fallì. L'Impero austro-ungarico si dissolse tra il 1918 e il 1919, in seguito ad un lento ma inesorabile declino e al tragico epilogo della prima guerra mondiale. 

 
Il dissolvimento dell’Impero provocò smarrimento di un intero popolo, perdita del senso di appartenenza, scomparsa di un sistema politico e sociale che aveva i suoi usi e costumi, le sue ritualità, le buone abitudini, tutto quel complesso di convenzioni e di modi di esistere che formano una comunità. La riduzione dell’Austria a un paese di sei milioni di abitanti, dai 51 milioni che erano, generò una catastrofe e gettò il popolo, soprattutto la classe media e la piccola nobiltà, nello sconforto e nella perdita dell’identità nazionale, sociale e di casta.  

Questo pezzo intende occuparsi, come anticipato nel preludio, dei territori che stavano a est di Vienna e Budapest, le capitali dei due più grandi stati che formavano la Duplice Monarchia. Le regioni e le province dei confini orientali erano certamente meno importanti, e poco note, rispetto all’Austria ed all’Ungheria, ma, nella loro struttura comunitaria erano presenti secoli di storia e di cultura ed una composizione sociale complessa e variegata. Per meglio comprendere il percorso proposto, si consiglia di seguire la mappa dei territori orientali, qui di seguito pubblicata.

 
Partendo da sud, la prima regione che incontriamo è il Banato, oggi diviso tra Romania (Timisoara) e Serbia (Vojvodina), appartenuto all’Impero ottomano fino al 1718 e ceduto agli Asburgo, che vi trasferirono diverse comunità contadine tedesche. Poco a nord c’è la Transilvania, colonizzata dai tedeschi, in particolare dai sassoni, che la chiamarono Siebenbürgen. Durante tutto il periodo delle riforme, si verificò una costante crescita della popolazione romena e una conseguente diminuzione di tedeschi e magiari.

A nord della Transilvania si trova la Bucovina, la quale venne ceduta all’Austria dall’Impero ottomano nel 1775. Per quanto riguarda l’aspetto etnico, la Bucovina comprendeva ben cinque gruppi etnici, nessuno dei quali tendeva a sovrastare gli altri. A questi gruppi etnici si doveva aggiungere la presenza di numerosi ebrei. Pochi anni prima dello scoppio della prima guerra mondiale, le diverse nazionalità sottoscrissero un compromesso teso a garantire un giusto sviluppo culturale e politico della regione. Dopo il 1918 la Bucovina divenne parte integrante della Romania, ma la sua capitale, Czernowitz, venne occupata dall’Armata Rossa nel 1944 e incorporata nell’Ucraina. Ora si chiama Černivtsi. Sono molteplici le testimonianze sulla pluralità culturale e linguistica di questi territori, nei quali sono nati e cresciuti molti poeti e scrittori di fama. Gregor von Rezzori, forse l’ultimo grande poeta delle province orientali dell’Impero asburgico, coglie, nel suo romanzo Un ermellino (Guanda, 2006), segnali che attestano il vuoto lasciato dalla fine dell’Impero, quali “il giallo e il nero, i colori dell’Austria, ormai sbiaditi sulle insegne delle dogane” o la sostituzione degli zelanti e inappuntabili funzionari asburgici con personaggi spesso dispotici e crudeli.

Spostandosi leggermente verso ovest si incontra la Rutenia subcarpatica. Per lunghi secoli la Rutenia subcarpatica appartenne al Regno d'Ungheria, sotto il quale fu una delle regioni europee economicamente più arretrate. Con la caduta dell'Impero austro-ungarico molti ruteni chiesero l'unione con l'Ucraina, altri invece vollero diventare russi, mentre altri ancora preferirono un'autonomia all'interno dello stato ungherese. Le potenze vincitrici della prima guerra mondiale stabilirono tuttavia l'annessione della Rutenia subcarpatica alla Cecoslovacchia, stato di nuova costituzione, nato dalle macerie della Duplice Monarchia. Nel 1939 la Rutenia proclamò la propria indipendenza. Il 19 marzo 1944 passò sotto l’occupazione tedesca e rimase esposta alle più crudeli atrocità: nel giro di un paio di mesi oltre 100.000 ebrei della regione subcarpatica vennero rastrellati e portati ad Auschwitz. Nell'autunno 1944 la Rutenia venne liberata dai sovietici. Il territorio della Rutenia subcarpatica, già integrato nel dopoguerra nella Repubblica Socialista Sovietica Ucraina, al momento della dissoluzione dell'Urss passò a far parte dell'Ucraina indipendente.

Salendo ancora verso nord si entra in Galizia, una terra di foreste e di stagni. La Galizia, con la prima spartizione della Polonia nel 1772, venne annessa al regno degli Asburgo. Negli anni successivi, sotto Giuseppe II, migliaia di persone, provenienti soprattutto dal Palatinato, immigrarono in Galizia dove si insediarono in villaggi di lingua tedesca. Dopo la terza spartizione della Polonia del 1795, vaste zone della Polonia centrale vennero inglobate alla “terra della corona” con il nome di Galizia occidentale, ma queste, già nel 1809, furono cedute al napoleonico Ducato di Varsavia, il quale nel 1831, dopo il Congresso di Vienna, fu annesso all’Impero Russo.
La Galizia austriaca era estesa molto più ad ovest dell’odierna Ucraina e comprendeva, dal 1846, anche le città di Cracovia, Tarnow e Rzeszow. La capitale del Regno di Galizia e di Lodomeria era Leopoli, ora in Ucraina. Il Regno di Galizia e di Lodomiria era situato in una regione abitata da vari popoli in pace tra loro, ognuno dei quali parlava la propria lingua e praticava la propria confessione religiosa. Vivevano gli uni accanto agli altri polacchi, ucraini, ebrei, tedeschi, ungheresi e armeni, con l’abitudine di coltivare la propria cultura e le proprie usanze.

Leopoli in una foto del 1908

Con il Patto Ribbentrop-Molotov del 1939, la Galizia orientale venne aggiudicata alla sfera di interesse sovietica. Nello stesso patto veniva regolato anche il trasferimento ed il reinsediamento in Germania dei tedeschi di Galizia. Quasi 60.000 tedeschi di Galizia furono trasferiti, con un viaggio di circa 1.000 km, sino ai campi temporanei nella Turingia, Sassonia e nei Sudeti, per poi essere reinsediati nel Warthegau, nella zona di Łódź. Durante l’invasione nazista del giugno 1941 l’esercito tedesco venne accolto in Galizia come liberatore dal dominio sovietico ed alcuni tedeschi di Galizia tornarono nel cosiddetto “distretto della Galizia”. La regione fu riconquistata dall’Armata Rossa nel 1944, gli ultimi tedeschi fuggirono. Il mix secolare di popolazioni, composto da polacchi, ebrei, ucraini, tedeschi, armeni ed altri, venne sostituito da una popolazione etnicamente omogenea.  Oggi, la Galizia austriaca non esiste più; la sua parte orientale appartiene all’Ucraina mentre quella occidentale è entrata a far parte della Polonia.

Subito sopra la Galizia si trova la Volinia che comprende le regioni storiche dell’Ucraina occidentale. L'area è uno dei più antichi insediamenti slavi d’Europa. Ancora più a nord si incontrano la Masuria, oggi regione appartenente alla Polonia nord-orientale, e la Prussia orientale. Per quanto riguarda quest’ultima regione, per approfondimenti, vedasi il post pubblicato su questo blog il 5 maggio 2012(1).

 

Spostandosi verso est si arriva a Vilnius, oggi capitale della Lituania, l’avamposto dell’Europa verso l’Oriente. Città cattolica ma anche giudaica, che gli ebrei chiamavano “la Gerusalemme del nord”, un crocevia di lingue e di culture. Nel secolo scorso fece parte, come molte città di queste terre, di  diversi stati e parlò diverse lingue ufficiali. Questa città non esiste più perché oggi “è sepolta nella lava come Pompei. La maggior parte dei suoi abitanti di allora è stata o assassinata dai nazisti o deportata in Siberia dai russi o trasferita con la forza a occidente, in quei territori dai quali erano stati cacciati i tedeschi”(2). Sviluppandosi velocemente, Vilnius accolse immigrati dall'ovest e dall'est. In città si stabilirono, tra le altre, comunità di polacchi, lituani, bielorussi, ebrei, russi, tedeschi, ruteni, le quali diedero il loro prezioso contributo allo sviluppo della vita cittadina.

A seguito del protocollo segreto allegato al Patto Molotov-Ribbentrop, che divideva l'Europa orientale tra una sfera d'influenza sovietica ed una tedesca, l'Armata Rossa invase la Polonia orientale. Vilnius fu conquistata nel mese di settembre del 1939. Nel giugno 1941 la città fu conquistata dall’esercito tedesco. Nella città vecchia vennero creati due ghetti per la numerosa popolazione ebraica. Gli abitanti del più piccolo furono assassinanti o deportati già nell'ottobre del 1941. Il secondo ghetto sopravvisse fino al 1943, anche se la sua popolazione venne regolarmente decimata per mezzo delle cosiddette Aktionen. Nel complesso, oltre il 90% della locale popolazione ebraica fu assassinata.
Nel 1944 i sovietici conquistarono Vilnius, che fu subito annessa e dichiarata capitale della restaurata Repubblica Socialista Sovietica Lituana. Col crollo dell’Urss, nel 1991 la Lituania proclamò la propria indipendenza.

Beniamino Colnaghi

Bibliografia, sitografia e note
-     Wikipedia enciclopedia libera http://it.wikipedia.org/wiki/Regioni_storiche_dell%27Europa_centrale
-     Wikipedia enciclopedia libera http://it.wikipedia.org/wiki/Impero_austro-ungarico
-     Massimo Libardi, Fernando Orlandi, Mitteleuropa, mito, letteratura, filosofia, Silvy Edizioni, 2011.
-     Claudio Magris. Il mito asburgico, Einaudi, 1996.
-     Gregor von Rezzori, Memorie di un antisemita, Milano, Longanesi, 1990.
-     I Germanici http://www.germanici.altervista.org/galizia/02.html
(1) http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2012/05/la-prussia-orientale-e-il-mese-di.html).
(2) Czeslaw Milosz, La mente prigioniera, Milano, Adelphi, 1981, p. 168
 
Nel blog è presente un altro articolo sull'Europa orientale:

domenica 28 giugno 2015

Carrettieri e cavallanti in Brianza. Un antico mestiere da tempo scomparso 
 
Qualche mese fa, mentre stavo ricostruendo la storia di mio nonno paterno(1), morto a 41 anni sul carro trainato da Nino, il cavallo di famiglia, mi imbattei in una categoria di lavoratori che oggi non esiste più: i cavallanti, o carrettieri, come dir si voglia. Mi incuriosì l’essenza romantica, seppur dentro una vita di stenti e privazioni, di quel mestiere, il rapporto intenso tra l’uomo ed il suo cavallo, l’uscire dallo stretto ambito del villaggio per scoprire realtà e mondi diversi. Spiriti liberi? Esseri alla ricerca di indipendenza? Nomadi? Oppure, più semplicemente, persone mosse dal bisogno e dalla necessità di far quadrare i bilanci familiari?   

Partiamo da uno dei due attori principali: il cavallo. Possiamo affermare che senza il contributo del cavallo il corso dell'evoluzione e della storia dell'uomo sarebbero stati sicuramente diversi? Probabilmente sì. Fra i molti animali domestici che hanno affiancato l'uomo nella sua evoluzione e nella storia, il cavallo ha avuto indubbiamente il ruolo di protagonista. Pensiamo a tutte le attività in cui il cavallo ha affiancato l'uomo: il lavoro nei campi, il trasporto di persone e cose, la compagnia negli spostamenti e nei viaggi, la partecipazione alle guerre e alle conquiste, la salvezza di vite umane, la fedeltà in campo sportivo e ricreativo.  
Il cavallo radunava attorno a sé un fitto sciame di persone per la sua cura. Dal maniscalco al sellaio, dal cavallante al manovale addetto alla pulizia della stalla, questi animali offrivano ed esigevano lavoro. Nei borghi contadini, fino agli anni Sessanta, i cavalli erano innumerevoli. Ogni famiglia che lavorava la terra ne aveva uno. In ogni corte e nelle cascine se ne contavano più d’uno, a seconda delle esigenze e delle dimensioni del luogo. Ma chiunque poteva permetterselo investiva nell'acquisto di un cavallo.  

 
 

In ogni caso, una volta acquistato, il cavallo non era più un animale qualsiasi, ma diventava parte della famiglia, membro di una comunità. Gestire un esemplare richiedeva tempo e fatica. I coloni si dovevano occupare anche di questi animali, accudirli, pulirli, tenerli in buona salute perché i cavalli erano fonte di lavoro e guadagno per le misere entrate delle famiglie contadine. La giornata iniziava presto, quando le stalle venivano aperte per la pulizia quotidiana e per rifornire gli animali di acqua e cibo. A mezzogiorno il lavoro si fermava: i cavalli, con le loro cuffie di tela e i salariati con i cappelli di paglia uscivano dai campi e si riposavano per poi affrontare il sole del pomeriggio. La stessa piccola processione ogni sera ritornava alla corte ed alla cascina.

Ogni lavoro a contatto con i cavalli richiedeva attenzione ed esperienza nel prevedere le azioni e le intenzioni di questi animali, con cui spesso si dovevano trascorrere, come nel mestiere del cavallante, molte ore a contatto con l’animale stesso. Carri e cavalli trasportavano ogni genere di merci. Alcuni facevano il carrettiere di professione, altri lo svolgevano saltuariamente, mentre altri ancora prestavano o affittavano a pagamento i loro cavalli. Era raro vedere un cavallante viaggiare da solo per lunghi tragitti. Di solito preferivano spostarsi con due carri, o anche più, qualora il caso lo richiedesse, accompagnati da qualche garzone, per sentirsi più sicuri e per aiutarsi a vicenda nelle salite aumentando il tiro con i cavalli dell'altro. I comuni della Brianza e le poche aziende private allora presenti commissionavano il trasporto di ogni tipo di materiale o prodotto finito. Alcuni viaggi erano più legati alla stagione, come il trasporto del carbone. Durante tutto l'anno, invece, i carri si dirigevano verso i mulini carichi di granaglie per tornare con la farina per i fornai o facevano la spola fra le cascine e i mercati per raccogliere e vendere i prodotti dei campi. Per i lunghi viaggi, che richiedevano di stare più notti fuori casa, erano a disposizione gli alberghi con stallazzo, locande fornite di stalle e di personale addetto alla cura dei cavalli. In alcuni comuni della Brianza milanese, Meda, Cantù, Lissone i cavallanti cominciarono ad occuparsi anche del trasporto dei mobili. Stiamo parlando della seconda metà dell’Ottocento. In quel distretto industriale divennero sempre più numerose le botteghe che producevano manufatti d’arredamento, venduti poi in tutta Italia e in Europa. Si racconta che i carri, carichi di fusti di salotti, partivano ogni giorno da quella parte della Brianza alla volta di Milano. Divenne famoso un cavallante di Meda, un certo Angelo Bianchi, detto Buscan, classe 1915, che, insieme al suo cavallo Piero, comparve nel film di Ermanno Olmi Il posto, ambientato a Meda nel 1961. Un altro personaggio balzato alle cronache locali, si fa per dire, è stato Luigi Cappellini, detto Bulogie, contadino e cavallante. Abitava alla casine Famète di Meda e la sua principale abilità consistette nell’aver messo le ruote gommate al suo carro. Caratteristica, questa, che gli avvalse il soprannome di Liturina, Littorina, proprio come il treno. 

Luigi Cappellini con il suo cavallo

Certo, occorrerà anche discernere, distinguere tra cavallanti e cavallanti. Nella categoria ci saranno pur stati dei furfanti e degli irresponsabili se, nei primi decenni dell’Ottocento, precisamente il 28 maggio 1822, a Torino, capitale del Regno di Sardegna, si manifestò l’esigenza di pubblicare il “Manifesto senatorio portante proibizione ai carrettieri, e cavallanti di caricare i loro carri, e bestie da soma, e porsi in viaggio ne' giorni festivi”. Anche la Chiesa fu contraria, negli ultimi secoli, al lavoro svolto la domenica, giorno che invece doveva essere dedicato al Signore. Oppure se nel Canton Ticino, in Svizzera, il “Piccolo Consiglio” fu costretto a regolamentare il lavoro dei cavallanti emanando il decreto “Custodia delle bestie da soma e da tiro sulle strade pubbliche(2), che così recitava:
“Informato che dei cavallanti e carrettieri abbandonano spesso sulla strada le bestie da soma, e i carri che hanno in condotta, in modo, che talvolta da tale trascuranza la mercanzia loro affidata si guasta o perisce, e ne nasce pure, tra gli altri inconvenienti, quello di ritardare la corsa ai Corrieri, ed il cammino a’Viandanti;
Decreta
1.      Ogni Cavallante e Carrettiere è tenuto di accompagnare costantemente sulla strada le bestie da soma, o carri che ha in condotta.
2.      Chiunque contravverrà ad un tale ordine sarà multato nella pena di 10 franchi (ossiano lire venti quattro Cantonali) per ogni volta…
3.      Saranno pure tenuti i Cavallanti, e i Carrettieri ad indennizzare i proprietari per le robbe, o merci che saranno guaste, o perdute per qualunque causa…
4.      E’ proibito sotto la stessa amenda di 10 franchi a qualunque Cavallante o Carrettiere di ritardare la corsa de’Corrieri, ovvero de’passeggeri a cavallo o in vettura…
Bellinzona, 11 Dicembre 1812

Lasciamo la Svizzera e trasferiamoci ora nella Brianza lecchese e vediamo com’era la situazione del trasporto merci a Verderio Superiore. Anche nel piccolo borgo brianzolo si registrò l’esigenza, almeno fino ai primissimi anni Cinquanta, di utilizzare i carri trainati dai cavalli per il trasporto e la movimentazione di merci di qualsiasi tipologia. Quando il lavoro dei campi lo consentiva, i coloni, al fine di incrementare le già magre disponibilità economiche familiari, occupavano il tempo residuo a loro disposizione fornendo le sopraccitate prestazioni. Erano almeno un ventina i residenti che, regolarmente o saltuariamente, svolgevano il mestiere di cavallante. Felice Colnaghi me ne ha elencati alcuni. Il coordinatore era Marco Gariboldi, Marcu de l’Irolda, colui che spesso riceveva le richieste e gli ordini e li girava ai singoli contadini. Poi c’erano i coloni che abitavano nelle corti del centro storico: Aquilino e Mario Colombo, dei Benedétt; Guido e Rinaldo Frigerio, dei Custònt; Giuseppe Colnaghi, dei Barbìs; Vincenzo Oggioni della corte dei Fredich; Angelo Oggioni, dei Beloeusch; Luigi Viganò, dei Peregài. Alcuni cavallanti abitavano invece nelle cascine di Verderio Superiore, come Battista Villa, dei Pelòt, o Romeo Frigerio della cascina La Salette.    

Marco Gariboldi è il primo a sinistra (fonte Giulio Oggioni)

Le attività erano tra le più varie, come pure diverse tra loro erano le località che dovevano essere raggiunte dai carri. Milano era una meta abituale e ambita, una metropoli che attirava i poveri contadini delle aree rurali lombarde, curiosi e desiderosi di vedere cose nuove e gente che viveva, bene o male, in maniera diversa rispetto alla loro. A Milano, i cavallanti verderiesi trasportavano sabbia scavata nelle cave di Porto d’Adda, cemento dallo stabilimento Italcementi di Calusco d’Adda, carbone scaricato dai vagoni dei treni merci arrivati alla stazione FS di Paderno-Robbiate, mattoni fabbricati nelle fornaci di Trezzo d’Adda e Ronco Briantino. Questi materiali, naturalmente, venivano trasportati e distribuiti anche in molti altri comuni, ovunque se ne registrasse l’esigenza e laddove vi fosse richiesta. Dalla fonderia Rossi di Calusco d’Adda, ad esempio, venivano prelevati e portati alle varie destinazioni le fusioni e gli stampi, come pure alla ditta Frigerio di Paderno d’Adda i cavallanti consegnavano le materie prime volte alla produzione del sapone e dei detersivi. Durante gli anni della seconda guerra mondiale i carri trainati dai cavalli vennero impiegati per il trasporto di mobili e arredi degli sfollati, famiglie costrette a lasciare le proprie abitazioni, che da Milano, Monza e dai centri industriali del Nord sfuggivano ai bombardamenti, trasferendosi nella più tranquilla e sicura Brianza.

Sfollati nella Milano bombardata del 1943

Nei viaggi più lunghi, per i quali i cavallanti impiegavano tutta la giornata, nasceva la necessità, un po’ come avviene oggi durante lunghi viaggi in auto, di effettuare alcune soste intermedie per far riposare cavallo e conduttore, rifocillarsi e adempiere a naturali bisogni fisiologici. Quando i carri si dirigevano a Milano, una delle mete più frequentate dai verderiesi era un’osteria situata in località Sant’Albino, un  piccolo borgo vicino Monza. Lì insisteva un’osteria/trattoria di proprietà della famiglia Pozzoni di Verderio Inferiore ma, probabilmente, originaria di Robbiate. Era gestita da Agostina Pozzoni, detta Gustina, la quale era una brava cuoca e sapeva cucinare i piatti della tradizione brianzola.   Agostina aveva due sorelle: Celeste, detta Celestra, che possedeva anch’essa una trattoria in via Papa, a Milano, e Giuseppina, sposatasi con Alessandro Riva, Sonder, di Verderio Superiore.

Carrettieri, vestiti elegantemente per l'occasione, trasportano una campana presso una chiesa brianzola
 
Che dire, per concludere? Un mondo scomparso. L’abbandono e la fine del trasporto delle merci ad opera dei cavallanti e dei carrettieri sono dipesi da vari fattori. Il primo, a mio avviso, fu dovuto al rapido mutamento socio-economico verificatosi nell’Italia del dopoguerra, quando il repentino cambiamento del modello di sviluppo, soprattutto nel Nord-Ovest del Paese, causò diversi problemi, tra cui l’abbandono progressivo delle campagne e la trasformazione delle destinazioni d’uso delle stalle di corti e cascine, dalle quali vennero espulse mucche e cavalli per far posto ai primi esemplari della Vespa e della Fiat 600. La famosa mutazione antropologica di pasoliniana memoria, un fenomeno descritto da Pasolini che riguarda i cambiamenti profondi verificatisi con l'avvento della società dei consumi. Qui però mi fermo, altrimenti il ragionamento mi porterebbe troppo lontano.              

Beniamino Colnaghi

Note
1.Vedasi il post “Begnamen di Barbiss, mio nonno” pubblicato il 3 gennaio 2014
2.Compendio del bullettino officiale del cantone ticino, Volume 1, Lugano, 1826.