Il paesaggio e le sue manipolazioni
di Domenico Palezzato *
Paesaggio. Questo termine
è ormai entrato nel parlare comune. Continuamente invocato dai media di
qualsiasi livello ed entrato nelle priorità (verbali?) di tutti gli
amministratori in campagna elettorale sembra proprio che sia diventato una
necessità dei nostri tempi. E come tale viene messa in discussione con attori
di tutte le estrazioni ed opinioni. E ognuno racconta la propria posizione.
In questa situazione,
però, può essere opportuno spendere delle parole per tentare di dire cos’è il
paesaggio, o meglio cosa intendiamo con tale termine. Quasi sempre per
paesaggio si intende un “bel paesaggio”. Ma il “bel” paesaggio diventa
inevitabilmente soggettivo.
Tutte le organizzazioni di
ogni tipo ed estrazione che si occupano del tema hanno dato, con sfumature e
contenuti culturali differenti, una definizione di paesaggio.
Ma definire significa
individuare, distinguere ciò che è da ciò che non è. Qui sta il punto. In una
recente lezione libera, tenuta alla facoltà di architettura dell’Università di
Pavia, ho chiesto agli studenti di non chiedersi cos’è paesaggio, ma di provare
a chiedersi che cosa “non è” paesaggio. Aggiungendo che, se si fossero dati una
risposta, c’era qualcosa da rivedere. Quindi possiamo provare a non parlare di
paesaggio ma di luoghi.
Ognuno di noi ha i suoi
luoghi. Quelli che riconosce e dove si riconosce. Rimini o il deserto è lo
stesso. Possiamo allora dire che ognuno di noi da alcuni luoghi riceve delle
sensazioni positive che possiamo chiamare emozioni vitali, mentre da altri
riceve delle sensazioni accettazione dovuta, quasi di sudditanza o
sopraffazione. Forse qui sta la differenza e la ragione per cui certi luoghi
vengono mutati da chi li vive abitualmente, secondo un proprio criterio d’uso
razionale, mentre gli stessi luoghi dovrebbero, nel pensiero emozionale di
altri, essere conservati immutati affinché durante le loro presenze saltuarie
continuino a trasmettere quelle sensazioni vitali di cui sono dotati.
Le caratteristiche dei
luoghi, quindi, non sono solo oggettive ma anche, ed in modo significativo,
soggettive.
Vi sono luoghi, che per la
loro unicità o comunque rarità provocano emozioni vitali alle intere comunità
sia stanziali che saltuarie e quindi vengono riconosciuti e tutelati come
templi della terra, senza interpretazioni bilaterali di sorta. Ma sono casi
sporadici e privilegiati. Vengono dichiarati dal mondo “paesaggi da conservare
e trasmettere”. Questo è l’indirizzo attuale della tutela. Ma fra due pensieri
contrapposti quello troppo spesso emergente è: “bisogna necessariamente
conservare il paesaggio di proprietà altrui” mentre “io posso, anzi devo,
utilizzare la terra secondo i miei bisogni”.
Se nel paesaggio del
nostro lago sono state inserite molte costruzioni (troppe?) significa che tanta
gente apprezza e vuole godere del lago stesso. Gente che considera la propria
costruzione non significativa nell’ambito della perturbazione generale del
paesaggio, per il quale è comunque doveroso che “gli altri” si pongano il problema
della salvaguardia affinché la gente che oggi lo “usa” non venga disturbata da
nuovi “intrusi”.
Ci sono però in assoluto
delle matrici che è necessario ricordare e tutelare oltre ogni singolo
pensiero. Queste matrici sono la tipicità e la riconoscibilità dei luoghi
stessi.
Le singole matrici sono
ovviamente complesse e contengono molti fattori unitari. La tipicità può essere
l’insieme di varie azioni esercitate in quel luogo e solo in quel luogo
restituiscono le loro origini, il loro dialogo con la terra e lo scambio di
valori vitali fra il luogo stesso e le persone (Rimini con la gente e Rimini
senza la gente sono due luoghi diversi).
La riconoscibilità è forse
la funzione più importante.
Uno dei maggiori disagi
dell’uomo è quello di non riconoscere il luogo che lo accoglie. La nebbia fitta
o la bufera di neve provocano la perdita di cognizione e di attualità di quel
momento.
Alla scala quotidiana ed
in alcuni luoghi questa distonia tra luoghi e persone si è inserita
gradualmente esercitando a volte una specie di subdola assuefazione dalla quale
si fugge inconsapevolmente con l’esercizio delle “vacanze” in un altro luogo
ma, sempre, alla ricerca di un altro paesaggio. Poi si torna a casa, alla
normalità, alla conformità. E’ proprio sulla conformità, che contiene le
matrici originarie sopra dette, che si innesta la manipolazione.
Usato ormai quasi
esclusivamente nella sua accezione negativa, il termine manipolazione ha
significato di distorsione della realtà, di forzatura della naturalità delle
cose, di un loro uso inadeguato. E, credo, tutti siamo d’accordo sul fatto che
il paesaggio sia stato manipolato.
Nella sua accezione
positiva è contenuta tutta la storia e la tipicità di un luogo quale
trasformazione razionale ed assoggettamento del luogo alle esigenze vitali
dell’uomo con dialogo e rispetto reciproco nella consapevolezza della necessità
reciproca di sopravvivenza.
Vi è però l’accezione
antica e originale del termine manipolazione che rappresenta il gesto più
nobile dell’uomo. Nella civiltà romana la manipolazione significava la
liberazione dello schiavo. Non fingendo di ignorare che comunque il territorio
sarà sempre oggetto di “manipolazioni” sarebbe buona regola se queste fossero
improntate verso l’antica accezione del termine, anche quale forma di riscatto
verso il debito che abbiamo accumulato nei confronti della nostra terra.
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