sabato 12 aprile 2014

Lo sfruttamento delle acque del fiume Ticino

Il signor Pietro Marchisio ha scritto un terzo articolo per questo blog. Dopo aver raccontato, nel marzo 2013, come avveniva il trasporto del marmo di Candoglia usato per la costruzione del Duomo di Milano ed averci parlato, il 2 ottobre 2013, del sistema dei navigli attorno al capoluogo lombardo, ora scrive in merito all’uso ed allo sfruttamento delle acque del Ticino.(b.c.)

Il Ticino offre ancor oggi un esempio unico e cospicuo di sfruttamento delle acque superficiali a scopi plurimi. Un sistema di canalizzazioni molto complesso (schema 1) fu iniziato dai monaci nel Medioevo, soprattutto per usi irrigui e sviluppato in seguito, ai tempi del Barbarossa, per la realizzazione del  Naviglio Grande nel 1179. 


Nella seconda metà del 1400 venne anche usato per dare acqua alle prime risaie lombarde. Le opere furono sviluppate e perfezionate dai Visconti e dagli Sforza, anche grazie al genio di Leonardo da Vinci. L’uso plurimo delle acque in un territorio superiore ai 400.000 ettari,  compreso tra le provincie di Milano, Pavia, Novara, Vercelli e Varese era rivolto principalmente alla navigazione (Naviglio Grande), al fine di un efficiente  e comodo trasporto di merci e materiali vari verso Milano. In un secondo tempo l’uso servì per scopi irrigui, quali la coltivazione del riso. Col passare del tempo e col progresso l’uso delle acque è servito per scopi di forza motrice (Rogge Molinare), per azionare mulini e, con la scoperta dell’elettricità, per scopi più tecnologici, quali il funzionamento di macchine idrauliche e termoelettriche atte a produrre energia elettrica.
Nella fattispecie, la necessità di sfruttare le acque del Ticino a valle del Lago Maggiore ha reso necessario regolamentarne il prelievo, controllandolo in modo di non depauperare a monte il livello del lago. Già nel 1863 l’ingegner Eugenio Villoresi progettò un canale irriguo, realizzato tra il 1880 e il1884, che ora porta il suo nome, che preleva l’acqua in località Panperduto (foto 2) di Somma Lombardo e scorrendo per 86 Km alimenta 120 bocche di derivazione per confluire poi nel fiume Adda a Groppello. Questo canale ha una portata limite di 70 mc al secondo, diramandosi in diversi rami secondari e terziari che alimentano una rete irrigua di 1.400 Km.


Dallo stesso bacino del Panperduto verrà in seguito derivato un altro canale (Canale Industriale) che permetterà, dal 1901, lo sfruttamento delle acque per la produzione di energia elettrica nella Centrale di Vizzola Ticino, alla quale si sono aggiunte nel secolo scorso altre centrali: Tornavento, Turbigo superiore ed inferiore e Turbino Termoelettrica.
Nel secolo scorso si rese necessaria una migliore e più raffinata regolazione dell’intero bacino imbrifero del lago Maggiore a monte, in virtù dello sfruttamento delle acque del Ticino a valle, in uscita dal Lago: nel 1943 venne inaugurata la Traversa della Miorina (foto 3), un’opera che permette il passaggio controllato delle acque dal lago Maggiore al fiume Ticino, rispettando anche gli accordi internazionali intercorsi con la Confederazione Elvetica per la regolazione del livello del lago in territorio elvetico.
Questa traversa è composta da 120 porte metalliche regolabili manualmente con uno speciale carro ponte, distribuite sul Ticino per una larghezza di 200 m in località Miorina a Golasecca, 3 Km a sud di Sesto Calende.



Nel 1955 venne poi inaugurato lo sbarramento di Porto Torre in comune di Somma Lombardo, costruito al fine di permettere un prelievo (Canale Regina Elena) di acqua necessaria ad integrare, in Regione Piemonte, il Canale Cavour, rendendo possibile contemporaneamente la produzione di energia elettrica. In sponda piemontese i maggiori prelievi sono: il Canale Regina Elena, la Roggia Molinara di Oleggio, il Naviglio Langosco e il Naviglio Sforzesco. In sponda lombarda i prelievi riguardano il Canale Villoresi ed il Canale Industriale che, a partire da Turbigo, rialimenta il Naviglio Grande verso Milano, originariamente alimentato dal fiume a Tornavento.

L’importanza degli sbarramenti realizzati sul Ticino è tale da permettere lo sfruttamento delle acque superficiali per circa l’80% della portata del fiume, la cui massima è stimata in circa 1.150 mc/sec in ottobre e la minima in circa 60 mc/sec in febbraio, misurate all’idrometro di Sesto Calende.
Praticamente, dal Ticino vengono giornalmente prelevati circa 22 milioni di mc di acqua che si riducono a 13 milioni in inverno. Occorre anche aggiungere che la portata del Ticino verso il fiume Po, a valle dei prelievi suddetti dopo lo sbarramento del Panperduto, viene integrata da acque di risorgiva alimentate dal sottosuolo.

Pietro Marchisio

lunedì 24 marzo 2014

Storie e memorie della vecchia Brianza: nonna Adelina, Bigìn e il mare

Si decise a scendere solo dopo aver parlato con un
 povero contadino, che non avendo mai visto il mare
 prima d'ora, rimase sbalordito alla vista dell'oceano.
A. Baricco, Novecento, Feltrinelli, 1994
 
Siamo in Brianza lecchese. Metà anni Cinquanta. Le poche case del piccolo villaggio sono quasi tutte affacciate sul fiume Adda. Si distinguono le cascine, costruite nell’angusto entroterra semicollinare, attorniate dai campi lunghi e stretti e da filari regolari di pioppi e gelsi. Nonna Adelina, detta Lineta dei Mosè, sta scodellando la polenta. E’ mezzogiorno, un orario sacrosanto per sedersi al desco contadino. Dopo il segno della croce e un breve ringraziamento, nonno Emilio aggiunge alla polenta una piccola fetta di stracchino e “un’unghia” di salamino cotto. Il padre di Emilio svolse, fino a tutti gli anni Trenta, il mestiere dell’arrotino, mulìta. Fu per questo motivo che suo figlio venne soprannominato, fin da piccolo, Mili del Mulìta, il quale, diversamente dal padre, fece il contadino per tutta la vita, alle dipendenze della famiglia possidente del luogo. Emilio, invece, non possedette mai nulla di sua proprietà: né la casa né la terra, concesse in mezzadria fino alla metà degli anni Venti e poi date in affitto, tanto a vani abitativi quanto alla pertica.

 
Un grande camino in una casa contadina
 
“Solo Dio sa quanto è grande il mare! Me lo conterai su bene, neh Biagio?”disse nonna Lineta.
Biagio, Bigìn, aveva da poco superato gli esami di terza media presso un noto seminario vescovile, poco distante dal capoluogo. Suo padre, Pietro, detto Pedrinétt, per via del fisico esile e della bassa statura, da buon socialista anarcoide non fu molto contento della scelta, che però, a malincuore, dovette accettare per non compromettere i rapporti con i suoi “vecchi”. Nonno Emilio, per di più, fu per molti anni l’unico contadino ammesso nel consiglio parrocchiale, insieme al maestro elementare, al medico condotto ed alla levatrice. Tutte persone che sapevano leggere e “fare di conto”, aveva pensato nonna Lineta. “Mio nipote dovrà essere istruito come loro”, disse con tono imperativo a suo figlio, che mandò un grugnito mentre si stava dirigendo ad aprire la posteria del piccolo paese. La bottega venne rilevata da Pietro con tanti sacrifici dopo la fine della seconda guerra e dietro il bancone mise la moglie Lucia. Non dovette fare molta strada per conoscerla. Lucia, in compagnia dei genitori e della sorella più grande, si recò al fiume durante un’afosa domenica di luglio e vide, per la prima volta, il “suo” Pietro che pescava cavedani e pesci persici. Fortuna volle che i due consuoceri si conoscessero, per via dell’acquisto di una mucca da latte anni addietro, e suggellassero senza tante pretese il patto.

Bigìn era il primo di tre fratelli; vispo e intelligente, ma dal fisico gracile e appuntito. Non espresse mai il desiderio di andare a prete, anche se la nonna ed il nonno, che lo accudivano dopo l’orario di chiusura della scuola elementare, gli insegnarono con profitto il catechismo e i buoni precetti cristiani. Naturalmente gli fecero fare il chierichetto a servizio delle messe e delle funzioni della chiesa locale. La figura del prete, incarnata dal suo parroco, gli induceva ammirazione e timore nello stesso tempo. La vocazione gli venne così, poco a poco, e quando il parroco, in accordo con la famiglia, cominciò a parlargli di seminario, a Biagio vennero in mente strani pensieri, come la solitudine che aveva visto negli occhi del suo parroco e la rigida osservanza delle regole imposte al ministero sacerdotale oppure, dall’altro lato, la fatica e il terrore di ripetere il lavoro di suo nonno e di suo padre. Alla fine pensò che per i figli delle povere famiglie contadine non c’era altra salvezza che andare a prete e che lui si doveva sentire fortunato per quell’opportunità che gli era stata offerta.
In seminario Biagio si era applicato con dedizione e grande profitto, ottenendo, come già detto, la licenza media. Fu proprio per l’approccio agli studi e per il buon rendimento scolastico che il rettore del seminario lo premiò, insieme ad altri ragazzini, con un soggiorno marino in una nota località ligure.
“Mangia, mangia, piccolo Bigìn, che prenderai un po’ di colore al mare” disse nonna Lineta “non vedi come sei magro e smorto? Sempre attaccato ai libri! Prego sempre la Madonna e tutti i santi che ti proteggano. Oh Biagio, è stata una grazia per me e per tuo nonno che un giorno diventerai prete. Ma anche tuo padre, alla fine, sarà contento, perché è una brava persona, ha le sue idee, ma si fa in quattro per mandare avanti la famiglia. Vai ben tranquillo al mare, vedrai che ti farà bene”.
Nonna Lineta diceva così, per far forza al nipotino, ma lei il mare non l’aveva mai visto. Forse una sola volta in cartolina, speditale dalle suore di Genova. Ne aveva sentito parlare in parrocchia, quando era ragazzina, da un padre missionario che era andato in Africa via mare.
Adelina conosceva soltanto le rive dell’Adda, perché lì abitava da quando era nata e perché le succedeva di attraversare il fiume con la barca per andare a trovare dei suoi parenti che abitavano sulla sponda opposta, quella bergamasca. Si ricordava anche quell’anno che, a causa delle forti piogge novembrine, le case più vicine al fiume furono allagate e tutte le famiglie dovettero trasferirsi dai parenti che abitavano nelle cascine più interne. Sua madre pianse tre giorni, finché suo padre prese il carro trainato dal cavallo e riportò tutta la famiglia a casa, non ancora sgombra dal fango melmoso.
 
Una cascina sul fiume Adda
 
Certo, vivere in un luogo di mare sarebbe stato diverso, pensò nonna Lineta. Non avrebbe dovuto pensare alla fatica del lavoro dei campi, ai giorni ed ai mesi tutti uguali, alle carestie ed alle preoccupazioni del vivere quotidiano. Avrebbe preso il battello, pensò, e visitato tutti i paesi che si affacciavano sulla costa, come fanno i signori. E sarebbe andata in spiaggia e si sarebbe lasciata andare al sole caldo e pulito, non feroce e umido come quello della fienagione.

Pensieri. Innocui, senza astio né invidia. Altrimenti avrebbe commesso peccato, solo se lo avesse pensato. Alzò le spalle, ringraziò il buon Dio per averle concesso il cibo e cominciò a sparecchiare la tavola. Biagio, che stava osservando la nonna da alcuni minuti, si accorse che in lei stavano frullando alcuni pensieri. Ebbe uno di quei lampi che ti vengono solo quando sei ragazzino, ed esclamò, rivolto alla vecchia: “nonna, ti piacerebbe andare al mare? Vorresti venire con me?”. “Oh, caro il mio Bigìn”, disse Adelina, “il mare è per i ricchi, per la contessa, la nostra padrona di casa, non per noi poveri”. “Il nostro mare è l’Adda”, intervenne nonno Emilio, Mili, rimasto un po’ in disparte fino a quel momento, “è qui a due passi e non dobbiamo neanche pagare per fare il bagno”.

I due anziani uscirono di casa e si diressero in cortile. La cosa sembrò finire lì. Ma non per Biagio, il quale non si dette per vinto, tanto era sicuro che nonna Lineta avrebbe gradito trascorrere qualche giorno in sua compagnia al mare. Si diresse immediatamente in parrocchia a chiedere l’autorizzazione al parroco. L’ottenne, non senza qualche raccomandazione. Ora non restava che andare a parlarne con suo padre, l’osso più duro. Cercò complicità dalla mamma, la quale consigliò Biagio di attendere la domenica seguente, giorno di chiusura della bottega. Pietro era notoriamente più rilassato la domenica, quando rientrava a casa dopo un pomeriggio trascorso al circolo con i suoi compagni di partito. Il mix di politica, partite a carte e due bicchieri di vino rosso lo mettevano sempre di buon umore. La politica è stata la grande passione della sua vita. Durante la guerra, proprio quando nacque Biagio, il suo primogenito, svolse alcune azioni di appoggio a favore di un gruppo di partigiani d’istanza in una valle vicina. Fece la staffetta, senza grossi rischi, ma ciò bastò al padre di sua moglie di minacciarlo che se avesse continuato si sarebbe ripreso la figlia.

 


“Nonna, ti devo dare una bella notizia, vieni al mare con me”, disse Bigìn. “Vai, vai che qui mi arrangio anche da solo”, fece nonno Emilio. “Oh Madonna del Rosario, al mare, alla mia età! Cosa dirà la gente del paese… e quel “mangiapreti” di tuo padre è d’accordo?”. “Non ti preoccupare, sono tutti d’accordo, compreso papà”, aggiunse il nipote.

Presero la corriera che partì dal capoluogo alle 5.30 del mattino. Era già abbastanza affollato di ragazzi, accompagnati da un paio di seminaristi più grandi. Adelina non tolse gli occhi dal finestrino per nessuna ragione al mondo. Era curiosa e ammirata per i nuovi panorami che via via si incrociavano. Vide i primi palazzi della periferia di Milano, ammirò le zone umide e le risaie del pavese, lanciò un’esclamazione quando la corriera attraversò prima il Ticino e poi il Po, fiumi più grandi della sua Adda.
 
 
 
Man mano che si avvicinavano a Genova, il paesaggio mutò nuovamente, con le impervie colline e le prime gallerie che, complice il buio e la stanchezza, fecero appisolare Adelina. Biagio la lasciò dormire, ma quando il pullman cominciò a percorrere la strada che affiancava il mare, la svegliò dolcemente: “Nonna, guarda, ul mar!”. Un groviglio misto di emozioni e sorpresa le crearono un “groppone” alla gola. “O Madonna santissima, cume l’è grond, cume l’è bel”. Mai avrei immaginato una roba così”.
I parenti dei giovani seminaristi furono sistemati in una piccola pensione che distava un centinaio di metri dalla colonia estiva. Biagio ebbe un bel da fare per spiegare a nonna Lineta che era prevista la pensione completa, tutto compreso, dalla colazione alla cena, persino una camomilla prima di andare a letto. Lineta avrebbe voluto dare una mano in cucina, almeno sparecchiare i tavoli, ma con gentilezza e cortesia la signora Mariuccia, proprietaria della pensione, fece presente che lei era ospite e che avrebbe dovuto solo riposarsi e godersi il sole ed il mare.

 
Colonia marina verso la fine degli anni '50

Una mattina della seconda settimana Biagio stava attendendo che la nonna scendesse in sala da pranzo per la colazione. Quel giorno era prevista una gita al santuario di Gesù Bambino di Praga di Arenzano. Partenza alle ore sette, ma Adelina era in ritardo. “Non è da lei”, esclamò il nipote alla signora Mariuccia, “a casa si alza tutti i giorni alle cinque per recitare le preghiere e preparare la colazione al nonno, ed anche qui ha mantenuto le sue buone consuetudini”. Biagio, preoccupato, pregò la proprietaria di accompagnarlo nella stanza della nonna, affinché verificasse di persona le sue condizioni. Salirono al primo piano, bussarono, ma la stanza 102, con vista sul mare, era vuota. Il ragazzo, dopo un attimo di smarrimento, si diresse sul balconcino e volse lo sguardo verso la spiaggia, a quell’ora ancora deserta. Ma non completamente. Vicino al molo, una figura nera era seduta su un grosso sasso. Immobile. Ferma ad ammirare il mare. Era Adelina. Biagio la riconobbe e corse immediatamente verso di lei. Quando le arrivò a non più di un paio di metri, la chiamò con delicatezza, quasi con un sussurro. “Nonna”. Lineta si destò dai suoi pensieri e fece cenno al nipote di sedersi accanto a lei. “Non avrò mica fatto peccato, neh Bigìn? In questi giorni ho pensato più al mare che a tuo nonno, poveruomo, che ha ormai quasi ottant’anni e non è più quello di una volta”. Biagio la lasciò parlare. “Lo giuro sui miei poveri morti, su quella santa donna di mia madre; il mare mi è proprio piaciuto”. Ma, aggiunse, guardando l’immensa distesa di fronte a sé che carezzava la spiaggia come la lusinga del demonio: “Da vecchia come sono, che più che lavorare e patire non ho fatto altro nella mia vita, devo dirti, caro Bigìn, che aveva ragione il mio Emilio: il mare non è per noi, povera gente di paese. Ul nost mar l’è l’Adda”.

Beniamino Colnaghi

venerdì 14 marzo 2014

Leggende dal ghetto di Praga: Reb Schime Scheftels

Circa l’insediamento dell’antico popolo ebraico a Praga sono stati pubblicati tre post, nei mesi di novembre e dicembre 2012 e nel mese di giugno 2013. Questo quarto post riguarda le gesta di un povero rammendatore di nome Reb Schime Scheftels, che viveva, con sua moglie e i suoi tre bambini, in una delle case più povere della parte superiore della città ebraica di Praga. A causa del suo umile lavoro, Schime non era particolarmente considerato e non godeva di molta stima all’interno della comunità praghese. Non era un uomo erudito e spesso si asteneva dal commentare fatti e avvenimenti che accadevano in città, tanto che gli venne dato il soprannome di “ebreo silenzioso”. Sua nonna Ziperl, vecchissima servitrice del tempio, interveniva appassionatamente in difesa di suo nipote, gridando verso chi lo dileggiava e scherzava: “Lasciate stare il mio Schimele, le acque chete sono profonde, seppiatelo.” E i fatti le avrebbero dato ragione.
 
Era il mese di giugno dell’anno 1286. In città si respirava un’aria vivace poiché era la vigilia della festa dello Schawuot, una tra le maggiori festività ebraiche.
Il vicolo principale del ghetto di Praga sembrava un giardino, perché, dalla Sinagoga Vecchia-Nuova fino al Vicolo d’Oro, le donne vendevano fiori sui banchetti, destinati alla decorazione delle case per i giorni dello Schawuot. Inoltre, le botteghe e gli stretti vicoli erano presi d’assalto dalla gente. Reb Leser, un omone grande e grosso, nonché banditore della comunità, uscì dalla casa del rabbino e batté tre volte per terra un grosso bastone nodoso decorato. Improvvisamente calò il silenzio. Reb Leser lesse un comunicato importante che annunciava l’arrivo nella città ebraica dell’imperatore, re Venceslao II di Boemia, accompagnato dalla moglie Jutta.

Museo di Praga, illustrazione dalla Aggadah (1526)

Il rabbino ordinò di fare tutti i preparativi per accogliere con onore l’illustre ospite: la preghiera pomeridiana, detta Mincha, fu pronunciata nelle sinagoghe già a mezzogiorno e i rappresentanti della comunità si radunano con largo anticipo davanti al Municipio. Gli abitanti del ghetto erano tutti nelle strade e nei vicoli. Le campane della chiesa di Tein annunciarono che il re era arrivato nel cuore del ghetto ebraico e che stava ricevendo gli omaggi delle autorità religiose e civili.
Quando il corteo reale stava percorrendo il vicolo Belele, un grosso mattone cadde da una vecchia casa, proprio di fronte al sovrano. Re Venceslao rimase illeso, ma se ne andò via di corsa, pieno d’ira.
La sera, quando l’intera comunità si riunì per il rito divino nella Sinagoga Vecchia-Nuova, il Beth-din-Schammes, il servitore del collegio dei rabbini, portò al rabbino capo Jonathan uno scritto provvisto del sigillo reale. Il re Venceslao chiedeva al Rabbi di consegnare alla comunità, entro otto giorni, il malfattore che aveva scagliato il mattone dalla casa del vicolo Belele, pena la cacciata di tutti gli abitanti.

Praga, il municipio ebraico (1910)

Tutti i tentativi di trovare il responsabile rimasero infruttuosi. Nella casa da cui era caduto il mattone non era stato trovato nessuno. Il secondo giorno dello Schawuot il Roschhakohol, il capo della comunità, tentò di ottenere un’udienza dal cancelliere di Stato del re, Zawisch von Rosenberg, ma venne respinto. Trascorsi i giorni dello Schawuot, Rabbi Jonathan ordinò alla comunità tre giorni di digiuno e penitenza. I cancelli di ferro del ghetto furono chiusi anche di giorno per paura di rappresaglia da parte di chi nutriva un odio sfrenato nei confronti degli ebrei, i quali non fecero altro che radunarsi nelle sinagoghe e nel vecchio cimitero a pregare i loro avi.
Così avvenne anche nell’ultimo giorno concesso dal re per consegnare il colpevole. Intanto, una terribile folla armata di asce, scuri e vanghe cominciò a radunarsi davanti ai cancelli, pronta a saccheggiare il ghetto. Tutta la comunità ebraica era radunata nelle sinagoghe. Soltanto uno mancava, Reb Schime Scheftels, “l’ebreo silenzioso”, il quale era uscito di casa la sera prima e non vi aveva fatto più ritorno.
Rabbi Jonathan salì improvvisamente sull’Almemor, la tribuna nella sinagoga sulla quale viene letta la Thora, e annunciò: “l’intera comunità è salva dalla disgrazia incombente. Uno dei nostri uomini, senza tante parole, come era nel suo stile, si è sacrificato per la comunità di Israele. Ieri sera Reb Schime Scheftels è andato al castello e si è consegnato, dicendo di essere l’uomo che aveva tentato di uccidere il re. Noi tutti sappiamo però che egli è innocente. Presto il suo sacrificio sarà compiuto: il re ha deciso che Schime dovrà pagare con la vita. Onore a Reb Schime Scheftels che ha salvato la nostra comunità!”
In mezzo a tanto rammarico, un solo cuore esplose di gioia per ciò che udì: Ziperl, la nonna di Reb Schime nonché servitrice del tempio, che sedeva nell’area femminile della sinagoga, emise un urlo di gioia e cadde a terra morta.

I consiglieri del re decisero che il colpevole sarebbe stato giustiziato facendolo precipitare dalla casa in cui aveva tentato di compiere il suo gesto. Dalla porta della Vecchia Sinagoga entrò una colonna di Lanzichenecchi a cavallo, in mezzo alla quale camminava in catene Reb Schime. La colonna si fermò davanti alla casa nel vicolo Belele. L’intera comunità era lì radunata per volere del re. Reb fu condotto sul tetto: si voltò un’ultima volta verso Oriente e con il grido di invocazione: “Sch’ma Jisrael, adonai elohenu, adonai echod”(1) si gettò contro le lance dei Lanzichenecchi che erano puntate verso l’alto.

 
Praga, sinagoga Vecchia-Nuova vista da via Maiselova

Per tre giorni l’intera comunità di Praga si mise a lutto per il martire, per dieci giorni di seguito rimase accesa per lui la candela delle anime nella Sinagoga Vecchia-Nuova. Il terzo giorno dopo la morte, Rabbi Jonathan sognò che Schime era un discendente del profeta Zaccaria, il quale era stato ucciso da Israele perché ne aveva denunciato i costumi degenerati.

Due anni più tardi, il cancelliere di Stato del re, Zawisch von Rosenberg, morì sul patibolo in quanto colpevole di alto tradimento. Prima di morire volle parlare con Rabbi Jonathan, al quale confessò che fu lui ad istigare un suo servo affinché attentasse alla vita del re Venceslao II, perché sapeva che questo misfatto sarebbe stato attribuito agli ebrei.
Il Rabbi, da quel preciso momento, ordinò che la comunità ebraica di Praga si prendesse cura della famiglia dell’”ebreo silenzioso” e pagasse gli studi ai suoi tre figli orfani.

Beniamino Colnaghi

Note e riferimenti bibliografici
1. Le prime parole di una importante preghiera della liturgia ebraica, una tra le più sentite, la quale proclama l’unità di Dio.
Bloch Chajim, Der Prager Golem (Il Golem di Praga), Berlino 1920.
Collezione praghese di leggende ebraiche, nuova raccolta rivista, Vienna e Lipsia 1926.

mercoledì 26 febbraio 2014

La “Cooperativa di consumo San Giuseppe” di Verderio Superiore

Nell’era moderna lo sviluppo della cooperazione è andato avanti di pari passo con la crescita economica, sociale e culturale dei soci cooperatori e di tutti gli individui coinvolti. Ci furono tentativi di realizzare concretamente queste nuove società, basate sulla cooperazione, prima nei nuovi territori americani, poi nelle campagne inglesi verso la fine del Settecento e poi ancora in Francia. In seguito si svilupparono iniziative di cooperazione, in particolare in Germania, dove, verso metà Ottocento, nacquero le Banche Popolari e le Casse Rurali, con lo scopo di far accedere al credito artigiani e contadini. Ma l’anno che più di ogni altro è ricordato come l’inizio del movimento cooperativo è il 1844. La prima vera cooperativa organizzata nacque dunque quell’anno a Rochdale, sobborgo di Manchester, in Inghilterra, per iniziativa di un gruppo di operai tessili che già allora diedero vita ad uno statuto, espressione degli obiettivi cooperativi, le cui finalità di fondo ancora oggi sono un punto di riferimento per milioni di cooperatori in tutto il mondo.
Le prime esperienze cooperative in Italia ebbero inizio con alcuni anni di ritardo rispetto all'Inghilterra e trovarono sviluppo soprattutto al nord, dove operavano le Società Operaie e le Società di Mutuo Soccorso. Gli ultimi decenni dell’Ottocento videro svilupparsi piccole esperienze in ambiti locali che si potenziarono negli anni successivi. La Federazione delle Società Cooperative Italiane nacque a Milano nel 1886, durante il primo congresso dei cooperatori italiani, “vi emergono in varia misura orientamenti liberali, cattolici, radicali, operaisti, socialisti, scrive Zangrandi”. Durante il 5° congresso tenutosi a Sampierdarena nel 1893 la federazione assunse la denominazione di Lega nazionale delle Cooperative. L'importanza e lo scopo della Lega è da ricercare nella capacità che, attraverso essa, ebbero le diverse imprese iscritte di far sentire la propria voce, le proprie ragioni e i loro interessi comuni in ambito nazionale, anche se i governi conservatori di fine Ottocento si dimostrarono sospettosi verso qualsiasi esperienza che comportasse un ampliamento della democrazia.

Con queste premesse e finalità in Brianza sorsero numerose cooperative, sia politicamente unitarie sia di matrice cattolica o di esclusivo orientamento socialista.

Già dagli anni Trenta del Novecento, in piazzetta Roma a Verderio Superiore era attiva un’osteria. Una delle tante, in quell‘epoca. Ne era proprietaria la famiglia Pozzoni, detta Tampen, che la gestiva grazie all’impegno diretto dei suoi componenti. Nei primissimi anni Quaranta l’osteria era condotta da Mario Pozzoni e da sua moglie Aldina. La gestione diretta si protrasse fino ai mesi estivi del 1945, quando la famiglia Pozzoni affittò i locali alla “Cooperativa di consumo a responsabilità limitata San Giuseppe”, fondata nel 1945, pochi mesi dopo la conclusione della seconda guerra mondiale. L’atto costitutivo della società venne redatto dal notaio Luigi Stella di Nesso, provincia di Como, e sottoscritto davanti allo stesso “in una sala al primo piano del palazzo comunale di Verderio Superiore”. Prima di elencare i nomi dei fondatori, riterrei importante e storicamente corretto evidenziare il fatto, almeno così è parso allo scrivente, che tutti coloro che parteciparono alla fondazione della “San Giuseppe” lo fecero con spirito unitario e nel solco della dichiarazione del Zangrandi, ossia tutti gli orientamenti politici e culturali dell’epoca, usciti vittoriosi dalla lotta contro il fascismo, vennero rappresentati. Per confutare questa affermazione basterebbe leggere i nomi dei fondatori e conoscere le pagine più significative della storia della prima metà del Novecento di Verderio Superiore.

Prima pagina dell'atto costitutivo della Cooperativa

Il 5 agosto 1945, di fronte al notaio Stella comparvero, così come li leggo dall’atto costitutivo: Gnecchi Ruscone dott. Alessandro fu Cav. Antonio, possidente (sindaco incaricato dal Comitato di Liberazione Nazionale nel 1945 N.d.a.); Comi Pietro fu Luigi, industriale; Robbiati Francesco di Felice, giardiniere; Sala Luigi fu Giovanni, contadino; Cassago Cesare fu Giovanni, contadino; Oggioni Antonio fu Defendente, macellaio; Oggioni Vincenzo di Gerolamo, contadino; Colombo Eligio fu Domenico, contadino; Viscardi Carlo fu Giuseppe, contadino; Pozzoni Mario fu Ercole, litografo; Colnaghi Angelo di Cesare, contadino; Spada Domenico fu Giuseppe, contadino; Oggioni Francesco fu Giuseppe, contadino; Gariboldi Marco fu Antonio, contadino; Viganò Giuseppe fu Carlo, contadino; Ponzoni Gerolamo fu Giovanni, mediatore. 
“I comparenti all’unanimità per acclamazione” nominarono cinque membri che costituirono il primo consiglio di amministrazione della San Giuseppe: “Gariboldi Marco, Oggioni Antonio, Ponzoni Gerolamo, Robbiati Francesco e Viganò Giuseppe“. Gli stessi, a latere, nominarono all’unanimità alla carica di presidente Gerolamo Ponzoni. All’atto costitutivo venne allegato lo statuto della società, negli anni poi modificato più volte per esigenze di coerenza con le leggi dello Stato, il quale, all’art. 2 recitava che la cooperativa aveva la durata di anni trenta, prorogabili, mentre l’articolo 3 indicava gli scopi mutualistici e sociali, tra i quali, vi erano “l’acquisto di generi alimentari, attrezzi e prodotti agricoli, concimi, combustibili, casalinghi, abbigliamento per i soci alle migliori condizioni possibili, compresa la gestione di un circolo vinicolo”. Gli scopi statutari, dai quali rimase esclusa qualsiasi attività politica, ebbero espressamente il fine di “migliorare le condizioni economiche e sociali dei soci”.

Nei locali presi in affitto, dunque, la Cooperativa mantenne l’osteria ed aprì uno spaccio alimentare, nel quale, oltre i generi alimentari, venivano vendute alcune tipologie di sementi, necessarie per la produzione di cereali. Durante la stagione estiva, nel cortile interno del bar venivano posizionati alcuni tavolini che permettevano agli avventori di giocare a carte e chiacchierare all’aria aperta.

Le famiglie verderiesi parteciparono convinte alla fondazione della Cooperativa. Il signor Rino Galbusera mi ha riferito che divennero soci tutti i capifamiglia del paese e che, nel primo anno, i residenti iscritti alla Cooperativa furono 240. Si iscrisse anche don Carlo Greppi, parroco di Verderio Superiore dal 1923 al 1950. Una grande partecipazione di popolo, un risultato straordinario, se consideriamo che nel ’45 gli abitanti del borgo brianzolo erano poco più di 1.100, compresi dunque i bambini ed i minori. L’entusiasmo e la partecipazione non erano altro che il tratto distintivo di quei tempi, nei quali alcuni milioni di italiani cercarono di riscattarsi socialmente ed economicamente dopo aver subito circa vent’anni di dittatura e cinque anni di guerra. La voglia di ricostruire lo Stato democratico, nato dalla liberazione del Paese da parte delle forze alleate e della Resistenza partigiana, era patrimonio della maggior parte dei cittadini italiani.

 
Azione della Cooperativa
 
Ai dirigenti ed ai soci la piccola sede andò ben presto stretta. Durante le riunioni del consiglio cominciò a maturare la convinzione che fosse necessario avere un sede di proprietà, più spaziosa e funzionale al clima di riscatto che regnava in quegli anni.
Per meglio comprendere ciò che avvenne negli anni immediatamente seguenti, è fondamentale aggiungere che in quegli anni cominciò a montare un altro clima, che travolse impetuosamente lo spirito unitario del 1945, spirito che favorì la nascita della Coop San Giuseppe: la Guerra fredda. In estrema sintesi, a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta il mondo venne diviso in due blocchi contrapposti, a capo dei quali si posero gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica. Le terribili e a volte tragiche divisioni ideologiche si calarono fin nelle viscere delle società europee, generando lacerazioni e rotture spesso insanabili. L’Italia fu uno dei Paesi maggiormente coinvolti da questo clima, perché geograficamente e politicamente strategico e perché ebbe il più forte e meglio strutturato Partito comunista dei paesi occidentali. A fronte di questo nuovo clima, Verderio Superiore, come la maggior parte delle realtà italiane, vide nascere divisioni e tensioni che portarono all’apertura di due “circoli”: l’Acli, nel 1956, di orientamento democristiano e il “San Giuseppe”, come vedremo, di tendenze socialcomuniste.

Il Circolo Acli in una foto degli anni '70 (fonte Verderio, la storia attraverso le immagini e i personaggi, a cura della biblioteca intercomunale)
 
L’appezzamento di terreno sul quale gli amministratori della Cooperativa posero gli occhi era di proprietà di Alessandro Gnecchi Ruscone, membro dell’omonima famiglia, la quale, come più volte ricordato in alcuni articoli pubblicati su Storia e storie di donne e uomini, era proprietaria della quasi totalità degli immobili e dei terreni insistenti nel Comune di Verderio Superiore. Il resto apparteneva alla Curia e ad un paio di famiglie locali. L’area in questione, avente una superficie di circa 1700 m2 e una rendita dominicale di lire 121,80, recintata da un alto muro di pietra, era compresa tra la strada comunale per Cornate d’Adda, che correva a sud, e altri appezzamenti. Il terreno che i dirigenti della Cooperativa San Giuseppe intendevano acquistare rappresentava una porzione di un mappale più ampio, accatastato col numero 104 e denominato Runchétt. L’area venne frazionata a cura dell’ingegner Angelo Corti di Paderno d’Adda nella primavera del ‘52. Su un’altra porzione di quell’area, confinante ad est con la precedente, posta di fronte alla vecchia parrocchiale, insistette, fino al 1891, il vecchio cimitero, poi spostato in via per Cornate su un’area di proprietà Gnecchi.

Targa posta sul muro di cinta del cimitero di Verderio Superiore
 
Gli amministratori della Cooperativa non entrarono direttamente nella trattativa di acquisto ma la affidarono ai fratelli Sala, i quali abitavano in una piccola cascina in via dei Maggioli, denominata Campée. Il signor Giovanni Oggioni mi ha confidato che Benvenuto Sala, uno dei fratelli, disse agli Gnecchi che su quell’area avrebbe voluto costruire una piccola officina per il figlio, che già svolgeva la mansione di meccanico a Milano. Questa cautela fu assunta per il timore che la famiglia Gnecchi non vendesse un terreno sul cui suolo vi era l’intenzione di realizzare una società cooperativa di chiara matrice socialcomunista, nei locali della quale avrebbero trovato posto le sezioni del Partito comunista e del Partito socialista e nel giardino con balera retrostante si sarebbero svolte le prime Feste dell’Unità e dell’Avanti. Nei primi mesi del 1952, in accordo con il Consiglio della Cooperativa, i fratelli Sala trattarono il prezzo del terreno direttamente con Alessandro Gnecchi Ruscone. L’istromento venne stipulato il 16 maggio 1952 nello studio del notaio Antonio Strada di Merate. Di fonte allo stesso, comparvero Alessandro Gnecchi Ruscone, possidente, e Francesco Robbiati, presidente della “Cooperativa di consumo San Giuseppe” di Verderio Superiore, delegato dal Consiglio di amministrazione, di cui al verbale datato 11 maggio 1952, allegato all’atto notarile. “La vendita è fatta per il prezzo dalle Parti dichiarato di L. 120.000 – lire centoventimila…”. Prosegue il rogito: “La vendita è pure fatta con inizio del godimento nell’acquirente, col prossimo undici novembre, come il terreno trovasi in fatto e in indirizzo”. Il frazionamento operato dall’ingegner Corti previde la realizzazione di una strada privata nel bel mezzo del Runchétt, la quale “…unisce la strada comunale per Cornate a quella per i boschi. La strada sarà costruita in parti proporzionali alle singole superfici dagli acquirenti dei vari lotti del mappale 104 originario ed affacciati all’attuale 104 d… Detta strada sarà larga 4 metri e pertanto ciascun frontista concorrerà per la sua parte, cioè metri due in larghezza”.
Fu così che la Cooperativa San Giuseppe, a fronte di quelle disposizioni di natura urbanistica, dovette cedere una superficie di circa 100 m2 per la costruzione della strada. Proiettata ai giorni nostri, la strada in parola si riferisce al primo tratto dell’attuale via Antonio Gramsci, fino all’intersezione con via Campestre.
Il signor Felice Colnaghi, ultimogenito del consigliere Giuseppe Colnaghi, mi ha raccontato con dovizia di particolari gli aspetti che hanno riguardato le fasi progettuali e costruttive dell’immobile.
Poco più che ventenne, Felice, impiegato presso la Cooperativa di Costruzioni Lavoranti Muratori di Milano (per approfondimenti vedasi il post del 1 novembre 2012), coinvolse un tecnico della cooperativa stessa, il geom. De Zan, che aveva da poco progettato una coop a Basiano. Venne organizzato un incontro tra il tecnico ed i componenti del CdA, i quali diedero le prime indicazioni di massima al fine di poter predisporre il progetto preliminare della nuova sede. Avvennero altri incontri che servirono ad affinare e completare il progetto, che, entro poche settimane, fu presentato agli uffici comunali per l’ottenimento dei permessi propedeutici alla costruzione dell’immobile. Dopo il “quinquennio rosso” (1946 – 1951), durante il quale il Comune di Verderio Superiore venne retto da una giunta socialcomunista, nel 1952, a seguito del drammatico ribaltone del 1951, l’ente locale era amministrato da una giunta democristiana, guidata dal sindaco Giuseppe Cassago.
Ottenuta la licenza di costruzione, i lavori iniziarono nel mese di novembre dello stesso anno.
Tutte le maestranze che contribuirono alla costruzione della sede della Cooperativa, dai contadini ai muratori, dagli elettricisti agli imbianchini, prestarono la loro opera in maniera gratuita e volontaria, con abnegazione e spirito comunitario. Si cominciò con gli scavi per i lavori di fondazione, tutti eseguiti a mano, normalmente svolti dai contadini locali, i quali usarono i loro carri trainati dai cavalli per l’asportazione della terra e la fornitura delle materie prime. Terminati gli scavi entrarono in azione i muratori, magött, ed i carpentieri, di cui il paese era ben fornito.

 
Prime fasi di costruzione dell'edificio (fonte Verderio, la storia attraverso le immagini e i personaggi, a cura della biblioteca intercomunale)
 
 Alcuni muratori durante la costruzione (fonte Fabrizio Oggioni dal blog Bartesaghi Verderio storia)

La soletta tra il piano terra e il primo piano venne gettata in opera la domenica delle Palme del 1953, la festività che precede la Pasqua. Quando il parroco, don Antonio Molteni, fu informato che un buon numero di suoi parrocchiani, mediamente una quarantina, non seguivano le funzioni religiose domenicali ma erano impegnati nella costruzione della Cooperativa, non ci pensò due volte ad applicare le direttive emanate dalla Congregazione del Sant’Uffizio della Chiesa cattolica nel 1949, meglio conosciute come scomunica ai comunisti. Tutti coloro che erano impegnati nei lavori domenicali, vennero scomunicati.

Nei primi mesi autunnali del ’53 fu portata a termine la copertura dell’edificio. Durante i mesi invernali alcune attività iniziarono anche all’interno della struttura, quali la realizzazione degli impianti elettrici ed idraulici e la posa dei pavimenti. I lavori di completamento dell’area esterna, invece, proseguirono a rilento. Dalla relazione dei consiglieri contenuta nel verbale del CdA del 5 febbraio 1954 risulta che “i lavori procedono all’interno ma che all’esterno non è possibile procedere con rapidità a causa del continuo cattivo tempo. Devono essere terminati i gabinetti e le fognature”.
In verità, la realizzazione e posa della fognatura subì un ritardo dovuto a controversie, poi risolte, con il responsabile dell’ufficio tecnico comunale circa il punto di immissione delle tubazioni sulla condotta comunale.

Di seguito, un ventennio di storia della Cooperativa San Giuseppe viene tracciato per mezzo di tre verbali di 100 pagine ciascuno, manoscritti, normalmente con bella calligrafia, a cura dei segretari che si sono avvicendati dal 1954 a tutto il 1974. Attualmente i verbali sono custoditi pressa la sede della società in via Antonio Gramsci, angolo via Principale.

Nei primi mesi del 1954 il presidente del CdA della “San Giuseppe” era Francesco Robbiati, mentre i consiglieri erano Ferdinando Acquati, Giuseppe Colnaghi, Carlo Sala, Giovanni Sala, Giuseppe Sala e Luigi Sala. La funzione dei sindaci era svolta da Aldo Colombo, Giuseppe Galbiati, Luigi Zambelli.

Sul verbale di riunione del Consiglio del 26 febbraio 1954 il presidente inserì all’odg due punti che riguardavano la nuova struttura. Il primo, relativo all’acquisto di nuovi mobili ed attrezzature, trovò tutti concordi nel ritenere necessario richiedere dei preventivi ad alcune ditte locali. Il secondo, più critico, atteneva l’individuazione di fonti di finanziamento per portare a termine i lavori. A tale proposito il segretario scrive: “La discussione segue animata e dopo varie proposte viene deliberato alla unanimità di rivolgersi ai soci chiedendo loro di sottoscrivere nuove azioni sociali; detta propaganda sarà svolta da tutti i consiglieri”.
Questo passaggio insegna, qualora ce ne fosse bisogno, quanto fossero profondamente diversi quei tempi rispetto ad oggi e quanto fosse più impegnata e motivata la gente nel perseguire e raggiungere degli obiettivi sociali e comunitari. Oltre il lavoro gratuito e volontario, i soci, la maggior parte dei quali erano contadini e operai, si autotassarono per raggiungere un obiettivo per loro importante e significativo. 
Nella seduta del CdA del 28 marzo 1954 il presidente informò i consiglieri che “…le autorità di P.S. e comunali hanno concesso il trasferimento della cooperativa, spaccio e circolo nei nuovi locali e che pertanto è necessario decidere il trasloco”. Dopo alcuni attimi di esultanza da parte dei presenti, che cominciarono a progettare nuove attività e iniziative, venne stabilito di trasferire tutto l’arredamento nel nuovo edificio durante la sera del 30 marzo. E così avvenne.

La nuova sede della Cooperativa, che aveva una superficie di circa 185 , comprendeva la cantina interrata, il bar e lo spaccio alimentare al piano terra, il salone per banchetti e riunioni e l’appartamento del gerente al primo piano, oltre il giardino con balera situati nell’area retrostante l’edificio.

La sera del 25 aprile 1954 venne convocata l’assemblea annuale dei soci che, oltre all’approvazione del bilancio, chiuso alla fine del 1953, della relazione che lo accompagnava e all’adesione alla Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue, si occupò della nomina del nuovo CdA. A seguito dell’espressione della volontà dei soci, entrò nel nuovo consiglio Aldo Colombo, della cascina di Rho. Francesco Robbiati venne riconfermato presidente. Il consiglio, tra l’altro, stabilì che il 6 giugno 1954 si sarebbe inaugurata la nuova sede di via Principale. La decisione fu presa “dopo vivace discussione”, perché i partecipanti si interrogarono sull’opportunità di svolgere una festa così impegnativa durante un periodo denso di lavori agricoli. Venne deciso il programma di massima e la ripartizione delle responsabilità e degli incarichi tra i consiglieri. Alle donne impegnate nella Cooperativa venne “affidato il compito di produrre addobbi e bandierine”. Il programma, elaborato da Aldo Colombo e Giovanni Sala e discusso e approvato dal consiglio, previde “una corsa per asini, la banda musicale e altre iniziative folcloristiche”. La propaganda si concretizzò in inviti a partecipare rivolti ai consigli delle cooperative dei comuni limitrofi ed alle autorità locali e provinciali, nonché all’attacchinaggio dei classici manifesti murali. 
I dirigenti della società affidarono la gestione delle attività legate al bar ed allo spaccio alla famiglia di Giovanni Sala, soprannominata dei Caenett.

Nella prima riunione del CdA successiva all’inaugurazione, il presidente ed i consiglieri erano entusiasti della buona riuscita della festa, alla quale “…malgrado il tempo piovoso e pessimo, hanno partecipato circa un migliaio di persone…”. Il verbalizzante aggiunge che “…era presente il sindaco di Sesto (San Giovanni n.d.a.), il rappresentante della Federazione delle cooperative e numerosi segretari di altre varie organizzazioni”. Prosegue dicendo: “Le manifestazioni folcloristiche e strumentali sono pienamente riuscite e i consiglieri plaudono al presidente che è stato l’animatore e l’organizzatore di tutta la attività”.
Alla festa di inaugurazione mancarono le autorità religiose, non perché non furono invitate, ma semplicemente perché il parroco, don Antonio Molteni si rifiutò di intervenire e di svolgere la cerimonia di benedizione dell’edificio, in ossequio alle disposizioni contenute nella scomunica papale del 1949. Erano tempi duri, quelli. Le contrapposizioni ed i pregiudizi erano feroci, divisivi. Per dare l’idea del clima che si instaurò negli anni Cinquanta nelle piccole comunità è utile narrare un aneddoto che è circolato a Verderio per molti anni. Uno dei comportamenti che contraddistinse parte della popolazione più vicina alla Chiesa e segnatamente di orientamento politico democristiano, consistette nel volgere fisicamente lo sguardo dall’altra parte o fare il segno della croce quando si passava nelle vicinanze della sede della “San Giuseppe”.
Sì, erano tempi duri, ma anche tempi densi di speranza e di voglia di costruire un futuro che avesse al centro la pace e la prosperità. A Verderio questi slanci si concretizzarono nell’apertura dei circoli San Giuseppe e Acli e nella fioritura di numerose iniziative di carattere sociale, umanitario e volontaristico.

Francesco Robbiati
 
L’entusiasmo e la fiducia vennero duramente colpiti dalla tragica e improvvisa morte del presidente della Cooperativa. Nell’agosto del 1954 Francesco Robbiati morì “a seguito di incidente motociclistico, avvenuto il giorno di sabato 21 agosto, alle ore 13.45 circa, sulla strada Lecco – Milano, mentre ritornava a casa a Verderio, dopo essersi recato a Lecco per incarico del Consiglio, per l’acquisto di legna e carbone per conto della Cooperativa San Giuseppe”. Il 29 dello stesso mese il Consiglio, convocato in seduta straordinaria, si incaricò di nominare un nuovo consigliere ed il presidente, in luogo del defunto Robbiati. “Dopo breve consultazione viene nominato all’unanimità a consigliere il socio sig. Ponzoni Napoleone mentre a nuovo presidente viene eletto il sig. Sala Giovanni”.
Il 4 settembre 1954 si consumò, con la partecipazione di un centinaio di invitati, il primo banchetto di nozze nella grande sala del primo piano della Cooperativa. Gli sposi erano due giovani di 27 e 23 anni: Giovanni Colnaghi di Verderio Superiore e Antonietta Scotti di Porto d’Adda.

La seconda metà degli anni Cinquanta fu parecchio critica dal punto di vista economico e finanziario. Malgrado la buona volontà e la voglia di fare, la gente aveva pochi soldi in tasca ed il boom economico, in un piccolo borgo brianzolo, era di là da venire. Su alcuni verbali redatti in quegli anni, presidente e consiglieri lamentavano il fatto che la cooperativa “si dibatte in difficoltà serie, dato lo scarso giro di vendite” e che “i crediti di banco è difficile riscuoterli data la precaria situazione economica dei soci”, aggiungendo che nel 1955 i crediti vantati dalla Cooperativa nei confronti di alcuni clienti “sono aumentati di 120.000 lire circa ed anche questo è stato un aggravio al nostro bilancio”. Le perdite di esercizio erano dovute anche al fatto che “le spese di gestione sono forti e così pure le tasse che gravano sul nostro modesto giro d’affari”. D’altra parte, aggiungeva il presidente nella sua relazione che accompagnava il bilancio di quell’anno, la politica portata avanti dalla Cooperativa ha sempre perseguito l’obiettivo di “contenere i prezzi al minimo possibile” e svolgere “una grande opera calmieratrice a favore dei soci e dei clienti che sono tutti dei modesti lavoratori”. Durante una riunione del 9 giugno 1955 i membri del CdA proposero una serie di misure volte a contrastare i fenomeni negativi che generavano parte delle perdite di esercizio e azioni da intraprendere verso i soci ed i cittadini verderiesi. La prima fase previde di “prendere contatto con i fornitori per trattare gli acquisti dei generi alimentari di largo consumo” e di “svolgere una certa vigilanza e controllo sia nello spaccio alimentari sia nello spaccio bevande, controllando prezzi, qualità e quantità delle merci esposte…”. Venne inoltre osservata la necessità di “sviluppare le attività sociali, sportive, ricreative ecc” per avvicinare più gente possibile ed ai soci venne chiesto maggior sostegno e vicinanza “alla loro cooperativa perché i tempi sono particolarmente difficili”.

Il 4 settembre 1955 il presidente, Giovanni Sala, della cascina Mezzanuga, informò i consiglieri che “il 5 agosto 1945 è stata costituita la Cooperativa San Giuseppe” e che pertanto “ritiene di interpretare i sentimenti dei soci proponendo di onorare la fondazione con una giornata di festeggiamenti famigliari da svolgersi nei locali stessi della Cooperativa”. La festa si svolse con grande partecipazione popolare. Nei mesi centrali del 1956 il CdA fu impegnato a predisporre ”un progetto di sistemazione del piazzale retrostante la sede e di costruzione del muretto di cinta, con lavoro gratuito dei soci volenterosi”.

Il ’56, l’anno dei tragici fatti d’Ungheria, si chiuse con “un modesto utile di lire 55.865. Questo risultato è stato ottenuto senza aumentare i prezzi delle merci ma eseguendo una accorta e sollecita vigilanza sui prezzi di acquisto”. Per i più curiosi e gli amanti della statistica “il prezzo del vino che viene esportato è venduto a lire 130 al litro”.

Il 6 luglio 1957 il consiglio deliberò di richiedere, su sollecitazione dei clienti, la licenza dei superalcolici, di organizzare una gita sociale e una gara di scopone e “vedere la possibilità di istituire una piccola biblioteca”. Vedasi, a tale proposito, la necessità, in Gramsci, di creare le condizioni affinché le masse contadine si potessero acculturare, in quanto solo una consapevole presa di coscienza di classe avrebbe potuto promuovere la loro emancipazione.

Il 1958 fu un anno turbolento per la Cooperativa sociale San Giuseppe. Sul verbale della seduta del 18 marzo risulta che i componenti del consiglio si trovarono sul tavolo le dimissioni della dispensiera, dovute all’imminente matrimonio. “Dopo lunga e dettagliata discussione il consiglio delibera di accettare le dimissioni… e indire un concorso per la nuova dispensiera fra i cittadini del comune”. Nella riunione del 12 maggio il consiglio venne chiamato a decidere circa l’assunzione della nuova commessa e l’opportunità di “dividere lo spaccio generi alimentari da quello delle bevande”. Che ci fossero pareri discordi sui due punti all’odg lo si comprese già nei giorni precedenti, quando spuntarono malumori tra alcuni soci, confermati poi dall’”assenza giustificata” di un consigliere durante la seduta. Sulla divisione fisica del salone “i pareri sembrano diversi ma poi prevale quello suggerito dal presidente”, ossia sulla necessità di tenere separate le due attività. In merito all’assunzione delle due nuove commesse “sono prese in esame le diverse domande, su ogni domanda si discute in modo esauriente. Vi è qualche contrasto”. Ma alla fine il consiglio decise “con 5 voti favorevoli e con 1 voto contrario” e deliberò di assumere, con decorrenza 1 maggio 1958 le due nuove commesse; una destinata al reparto alimentari, l’altra al bar. Il 31 maggio la spaccatura nel consiglio, per la prima volta nella sua storia, fu netta e si palesò attraverso la presentazione della lettera di dimissioni da parte di due consiglieri, che vennero accolte “al termine della discussione, alla unanimità”. Un altro colpo di scena era però dietro l’angolo, pronto ad evidenziarsi alcuni giorni dopo, precisamente il 28 giugno 1958, quando anche il presidente presentò una lettera di dimissioni dalla sua carica e dal consiglio. “Il vice presidente dà lettura della lettera di dimissioni presentata dal presidente…, il quale motiva le sue dimissioni da esigenze famigliari e contrasti personali con alcuni consiglieri”. Le decisioni del dimissionario furono “irremovibili” e non lasciarono spazio a mediazioni e “opere di persuasione”. Il consiglio decise, conseguentemente, di convocare, entro pochi giorni, l’assemblea generale dei soci al fine di eleggere tre nuovi consiglieri, in luogo dei tre dimissionari. L’assemblea, con lungimiranza, decise che era giunto il momento di avviare una politica di rinnovamento delle classi dirigenti, eleggendo tre giovani consiglieri trentenni: Giovanni Oggioni della cascina Alba, Camillo Sala dei Circa, e Angelo Sala dei Campèe. Nel ruolo di presidente venne eletto uno dei soci storici della cooperativa, Napoleone Ponzoni, detto Pulon, e tra i consiglieri venne confermato Ambrogio Sala, detto Bianchi. L’annus terribilis 1958 si concluse con la decisione del consiglio di cambiare il fornitore del carbone “perché l’ultima fornitura era carbone bagnato” e di regalare a Natale ai bimbi dell’asilo Giuseppina Gnecchi “un piccolo giocattolo ed un sacchetto di caramelle”.

Il decennio dei “favolosi” anni ’60, del boom economico e della libertà nei costumi, iniziò con la riconferma a presidente del CdA di Napoleone Ponzoni e la nomina di Vincenzo Cassago alla carica di vicepresidente, sostituito, quest’ultimo, da Luigi Frigerio a partire dal luglio 1966. La situazione amministrativa e contabile era pressoché stazionaria e stabile il volume delle vendite. L’utile netto al 31 dicembre 1962 era di lire 91mila, salito a 210mila l’anno seguente per poi ridiscendere a 42mila nel 1965. Normalmente il consiglio decideva di destinare almeno il 70% dell’utile al fondo attività sociali. Seppur gli utili fossero cifre modeste, i membri del CdA, nella seduta del 19 gennaio 1967 ritennero che ”… pur nella modestia della nostra gestione, di aver continuato a svolgere un servizio utile e conveniente per tutti i soci e, quindi, per la collettività, nella persuasione che non ci mancherà, anche per il futuro, il necessario sostegno di ognuno”.

A livello nazionale gli anni Sessanta si chiusero con segnali di grande rinnovamento e cambiamento, anche se, in alcune circostanze, vi furono degenerazioni e violenze. Furono anni di rottura e di grandi rivendicazioni, sia nel campo studentesco, sia nel mondo del lavoro. Grandi masse di uomini e donne, studenti e operai in testa, chiedevano più diritti e libertà. Per cercare di arginare e soffocare le rivendicazioni ed i cambiamenti in corso, forze reazionarie e settori deviati dello Stato misero in atto un disegno eversivo che produsse una serie di attentati terroristici, iniziati con la strade di Piazza Fontana, avvenuta a Milano il 12 dicembre 1969.

In quell’anno il consiglio del San Giuseppe era così composto: Napoleone Ponzoni, presidente, Luigi Frigerio, vicepresidente, consiglieri Giovanni Oggioni, Umberto Salomoni, Ambrogio Sala, Giuseppe Sala, Felice Sala. I componenti del collegio sindacale erano: Antonio Acquati, Angelo Sala, Giuseppe Brivio, Angelo Salomoni e Paolo Oggioni. Il 2 dicembre 1969 il CdA, su proposta del presidente, deliberò l’adesione della cooperativa verderiese alla Coop Italia di Milano, perché, venne spiegato, vi erano “vantaggi di cui fruiscono le cooperative ad essa associate”.

Cominciarono così gli anni Settanta. Un decennio che, per molti aspetti, segnò profondamente la storia del nostro Paese, il decennio, come è stato definito da molti, più importante del secondo dopoguerra. Per inquadrare meglio il periodo storico, è utile fornire alcuni dati ed eventi. Lo stipendio di un operaio si aggirava tra le 100 e le 120mila lire. Una tazzina di caffé ed un quotidiano costavano 70 lire mentre un litro di benzina ne costava 160. Furono gli anni degli zatteroni di Fiorucci, della teoria degli opposti estremismi e delle leggi speciali, delle Brigate Rosse e del terrorismo neofascista, del trionfo delle radio libere, dei flipper e dei juke box in ogni bar, degli omicidi di Aldo Moro e di Pier Paolo Pasolini. Nel 1974 gli italiani si espressero a larga maggioranza contro l’abrogazione della legge sul divorzio e nel 1975 entrò in vigore la legge di riforma del diritto di famiglia. Lo Statuto dei lavoratori del 1970 è ancora oggi una delle norme fondamentali nel diritto del lavoro in Italia. Sul piano politico, causa un forte calo dei consensi dei partiti di governo, cominciò a prendere corpo l'idea di un “compromesso storico” fra le due principali forze politiche del Paese, la Dc ed il Pci, quest’ultimo cresciuto enormemente alle elezioni regionali e comunali del 1975 e ancor più alle politiche del 1976. Si trattò di un progetto, naufragato con l’omicidio di Moro, ideato dallo stesso leader del Pci, Enrico Berlinguer.

Nel 1971, precisamente il 10 febbraio, venne posta all’ordine del giorno l’accettazione delle domande di adesione alla Cooperativa da parte di quattro giovani del paese: Giancarlo Aldeghi, detto Pippo, Rino Galbusera del Bacheten, Enrico e Olimpio Oggioni dei Fredich. Il consiglio deliberò all’unanimità l’accettazione delle domande. I primi due assunsero, negli anni seguenti, ruoli importanti nella dirigenza del Circolo Cooperativa e nei partiti della sinistra verderiese.
Il 21 maggio 1971, proseguendo l’opera di rinnovamento e ringiovanimento dei quadri dirigenti, avvenne un cambio al vertice della società: fu eletto presidente Luigi Frigerio dei Custont.
Nell’agosto del 1973 la commessa della Cooperativa, Enrica Galbusera, dopo un periodo di assenza dovuto allo stato di gravidanza, rassegnò le proprie dimissioni per motivi famigliari. La stessa venne prontamente sostituita da una signora verderiese, Giuseppina Frigerio.
L’esercizio contabile a fine ’73 registrò una perdita consistente, pari a oltre 270mila lire. Il consiglio, nella seduta del 18 febbraio 1974, discusse “animatamente” sulle cause che generarono tale disavanzo, “avanzando critiche, suggerimenti e proposte”. “La perdita riscontrata preoccupa seriamente il consiglio d’amministrazione, non tanto per la cifra in se, ma per il fatto che mentre registriamo un aumento delle vendite, riscontriamo parimenti una diminuzione dell’utile lordo, evidenziando così la difficoltà da parte nostra nel seguire costantemente il modificarsi del mercato e il continuo aumento dei costi non sempre compensato con l’aumento dei prezzi da noi praticati. Tale situazione, in un momento di mercato particolarmente difficile, mette il consiglio d’amministrazione in condizione di studiare provvedimenti e accorgimenti necessari per un miglior funzionamento della cooperativa…”.

Il 9 marzo arrivò un’altra “tegola” sulla testa dei consiglieri: le dimissioni della commessa, la quale prese servizio solo sei mesi prima. “Tali dimissioni – si legge nel verbale della seduta – aumentano le difficoltà già esistenti per la continuità dello stesso spaccio, in quanto già da parecchio tempo la gestione è in seria difficoltà per la sensibile diminuzione degli incassi. Il presidente ritiene che in considerazione alle difficoltà di reperire personale idoneo alla gestione in aggiunta alla già precaria situazione dello spaccio sottopone al consiglio la decisione di procedere alla eventuale chiusura dello spaccio”. I membri del consiglio furono chiamati ad assumere una decisione tanto forte quanto lacerante, perché l’eventuale chiusura avrebbe significato anche il fallimento di un progetto nel quale avevano creduto diverse centinaia di donne e uomini verderiesi. Ma il consiglio sembrò non avere alternative serie e praticabili, tanto che decise “la chiusura dello spaccio con il 30 marzo”. Tale decisione avrebbe potuto generare malumori e disaccordi, se non opportunamente gestita con interventi e procedure trasparenti e condivise. A fronte di quelle particolari criticità, il consiglio si impegnò a convocare l’assemblea dei soci, che si tenne il 16 giugno 1974. Non si conoscono gli esiti e le risultanze dell’assemblea, ma oggi par di capire che ai soci non rimase altro che ratificare le decisioni assunte dal consiglio. Il dado era ormai tratto. Il giorno dopo, in tempi strettissimi, i componenti del rinnovato consiglio nominarono il nuovo presidente nella persona di Federico Acquati, detto Casciola.
 

Appunti e un primo "schizzo" sulla ristrutturazione dei locali
 
I dirigenti della Cooperativa non persero tempo e, senza indugio, abbozzarono un progetto di parziale ristrutturazione interna e di sistemazione dei locali lasciati vuoti dalla chiusura dello spaccio alimentare. L’idea di fondo fu quella di ampliare gli spazi adibiti al bar, destinando i nuovi locali all’ampliamento della cucina e ad attività ludiche e ricreative, che avrebbero coinvolto soprattutto una clientela giovane. Vennero installati due biliardi, richiesti a gran voce da numerosi soci, un jukebox ed un calcio balilla. Il costo totale degli interventi di demolizione e ristrutturazione dei locali si aggirò intorno ai 630mila lire.
Chiuso lo spaccio alimentare, da quel momento il bar e l’edificio stesso vennero identificati col nome di Circolo San Giuseppe. “Ci troviamo al Circolo”, si diceva.


Il balconcino che guarda verso il centro paese

Dalla seconda metà degli anni Settanta gli abitanti cominciarono a risalire, dopo la progressiva diminuzione iniziata durante gli anni coincidenti con la prima guerra mondiale. Lo sviluppo urbanistico ed edilizio, generato dal Piano di fabbricazione, portò nuovi residenti e ampliò gli insediamenti produttivi e commerciali. La Cooperativa San Giuseppe, che nei primi anni Ottanta contava ancora 135 soci, colse queste nuove opportunità sviluppando le attività proprie di una trattoria, sfornando piatti della cucina popolare, graditi ai lavoratori ed alla nuova clientela di passaggio. In quegli anni si registrarono nuove iscrizioni, molte delle quali erano di giovani verderiesi, alcuni dei quali entrarono nel consiglio con incarichi direttivi. Nei primi anni Ottanta venne eletto presidente Lorenzo Oggioni, al quale, nel decennio successivo, succedette Adelio Besana, attuale presidente pro tempore della Cooperativa.

Prima della chiusura di questa lunga storia, vorrei ricordare i nomi di alcune famiglie che si sono avvicendate, con passione, capacità e spirito cooperativo nella gestione dello spaccio alimentare e del bar: Pozzoni, Comi, Sala, Galbusera, Frigerio, Motta, Viganò, Redaelli ed altri ancora.

Per il resto, è storia dei nostri giorni. Verso la metà degli anni Novanta l’assemblea dei soci della Cooperativa decise di vendere la licenza di somministrazione di alimenti e bevande e affittare l’immobile ad un ristoratore locale, che aprì un ristorante-pizzeria di buon livello. La società tenne per sé alcuni locali al primo piano, che vennero messi a disposizione di associazioni e gruppi locali per lo svolgimento di attività sociali e culturali.

La storica sede del consiglio è rimasta nelle disponibilità del Circolo San Giuseppe.


L'attuale sede sociale del Circolo San Giuseppe

Anche i due piccoli balconcini sono sempre al loro posto. L’uno, ad uso del ristorante, guarda verso il centro del paese, l’altro, con vista a est, è affacciato sulla vecchia parrocchiale e sul platano centenario.

Beniamino Colnaghi

La ricostruzione storica della nascita della Cooperativa San Giuseppe è stata possibile grazie alla consultazione di atti e verbali, a cui sono stato autorizzato dal presidente e dal consiglio di amministrazione. Alla documentazione scritta ed ufficiale, si sovrappongono le memorie personali, a volte vissute in prima persona, di testimoni appassionati, dai quali ho raccolto avvenimenti, fatti e curiosi aneddoti sulla storia, sul costume e su personaggi del nostro recente passato. I ringraziamenti sono doverosi nei confronti dei signori: Felice Colnaghi, Giovanni Oggioni, Rino Galbusera e Adelio Besana.

lunedì 17 febbraio 2014


Il “Club 27” del rock: maledizione, coincidenze o operazione mediatica?


Le maledizioni non esistono, ha detto qualcuno, e questa non sappiamo neanche da chi sia stata lanciata, ma si tratta comunque di "qualcosa" che sembra proprio esistere, sotto gli occhi di tutti, con una lunga serie di vittime che non accenna ad arrestarsi. Si tratta della “maledizione dei 27 anni” e di tutte le coincidenze e fatti strani che si trascinano con essa.

Tutto ebbe inizio domenica 17 gennaio 1892. Sul Tropico del Capricorno, a San Paolo del Brasile, il pianista, compositore, direttore d’orchestra Alexandre Levy moriva all’età di ventisette anni. Pioniere assoluto dei suoi tempi per aver esplorato la fusione tra musica classica e folk popolare brasiliano, il maestro paulista lasciò un vuoto che i suoi concittadini cercarono di riempire subito bandendo un prestigioso premio a lui intitolato. Con la morte di Levy nel mondo apriva i battenti un club davvero selettivo.

Vediamo.
Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison, Kurt Cobain sono stati i più grandi artisti del rock che se ne sono andati a soli 27 anni. Troppo famosi gli scomparsi e, a parte Cobain, soggetti attivi e impegnati nel fermento post sessantotto. Se ne occupò anche la Cia, che indagò sulle morti e cercò improbabili prove dell'intrigo o del complotto. Complotto o meno che fosse, oltre che per le comuni radici ribelli, Hendrix, Joplin e Morrison furono affiancati anche per altro. Ciò che apparve evidente, persino ai più scettici osservatori, furono alcune coincidenze quanto meno inquietanti. Coincidenze che, per di più, riportavano anche alla dipartita di un quarto rocker, il chitarrista e cofondatore dei Rolling Stones, Brian Jones, spirato esattamente due anni prima del leader dei Doors. Dal complotto alla maledizione il passo fu brevissimo.
Cominciamo a vedere le prime quattro morti. Poi, negli anni successivi, ce ne furono altre, molte altre, delle quali parleremo più avanti.

Brian Jones (foto nel pubblico dominio)

Intorno alla mezzanotte tra il 2 e il 3 luglio 1969, nella sua fattoria dell’East Sussex, Brian Jones fu trovato dalla sua ragazza svedese immobile sul fondo della piscina. L’inglese Jones fu tra i fondatori dei Rolling Stones. Non è chiaro se l’artista fosse già morto quando il corpo fu recuperato. Di sicuro lo era all’arrivo del personale medico. Sul referto dell’autopsia alla voce causa, il coroner scrisse death by misadventure, morte per incidente; di seguito annotò con diligenza che il fegato e il cuore del chitarrista erano pesantemente compromessi dall’abuso di alcol e droghe.
La morte di Brian Jones fu subito avvolta dal mistero. Testimonianze, smentite, ammissioni, confessioni di alcune persone presenti nella notte della morte fecero calare un’ombra di mistero sulla morte del cantante. La vicenda non fu mai pienamente chiarita.
 
Jimi Hendrix (fonte e24.se da Wikimedia.org, foto nel pubblico dominio)

Samarkand Hotel fu la residenza londinese dove James Marshall “Jimi” Hendrix, trascorse i suoi ultimi giorni di vita. Nelle prime ore del 18 settembre 1970, il chitarrista mancino ispirato da Dio moriva affogato nel proprio vomito causato da un cocktail di alcol e tranquillanti. Mentre la causa della morte non è stata mai smentita, diversi sono stati invece i momenti in cui il decesso è stato collocato temporalmente: nottetempo nell’hotel, come asserito dalla polizia e dal personale dell’ambulanza che accorsero sul posto, oppure durante il trasporto in ospedale, forse per un infelice posizionamento della testa del cantante, secondo una delle versioni attribuite a Monika Dannemann, l’ultima fidanzata del chitarrista e ultima persona a vederlo vivo, la quale, negli anni successivi, rilasciò diverse interviste contraddittorie in merito a quella notte.

Janis Joplin (fonte Wikipedia.org, autore Grossman Glotzer Management, foto nel pubblico dominio)

Poco più di due settimane dopo il decesso di Jimi Hendrix, il pomeriggio di domenica 4 ottobre 1970, Janis Joplin (1943 - 1970), una delle voci più sensazionali di tutti i tempi, doveva presentarsi negli studi della Sunset Sound di Hollywood per registrare la traccia vocale di una canzone che diventerà il suo epitaffio: Buried alive in the blues. Quando non la vide arrivare, il manager del suo gruppo, John Cooke, andò a cercarla al Landmark Motor Hotel dove Janis alloggiava dall’agosto. Appena arrivato, Cooke notò che la Porsche con la carrozzeria psichedelica dell’artista era ancora nel parcheggio. Il cattivo presagio che lo sfiorò si materializzò all’interno dell’albergo: riversa a terra nella sua stanza, Janis Joplin giaceva stroncata da un’overdose di eroina. Secondo Cooke, la rocker doveva essersi iniettata, inconscia del pericolo, una dose più potente del solito, così come sarebbe stato dimostrato dagli altri incidenti da overdose in cui incapparono diversi clienti riforniti dallo stesso spacciatore della Joplin.

Jim Morrison (fonte Wikipedia.org, autore Elektra Record, foto nel pubblico dominio)

Il 3 luglio 1971 a Parigi, James Douglas "Jim" Morrison, colto, figlio ribelle di una ricca famiglia borghese, pieno di velleità poetiche e rivoluzionarie, cantante e leader del gruppo rock dei Doors, si spegneva a ventisette anni in circostanze ancora oggi non chiarite. Il referto ufficiale parlò genericamente di arresto cardiaco, ma nessuna autopsia fu effettuata per individuare la causa esatta dello stop al cuore del Re Lucertola e del Dioniso del rock. In assenza di certezze, la teoria più diffusa dai media dell’epoca fu un’overdose da miscuglio di alcol ed eroina. La mancata autopsia (nonostante i sospetti sulla droga e vista l’identità e la giovane età del morto), alcuni dubbi sul luogo dove sarebbe avvenuto il decesso, i funerali svoltisi in gran segreto nel cimitero di Pére Lachaise, il fatto che tra gli abusi del cantante non fosse nota l’eroina: tutti questi elementi fecero sì che ben presto, tra i fan inconsolabili e i giornalisti in cerca di scoop, si spargesse la voce che il leader dei Doors non fosse affatto morto, bensì avesse architettato una complicata messinscena per potersi defilare dalle luci della ribalta. Tra avvistamenti e smentite, questa leggenda metropolitana è andata avanti fino ai giorni nostri e ancora il 4 luglio 2008, in un’intervista al Daily Mail, il tastierista ex Doors Ray Manzarek confessava di chiedersi spesso se “…la sua morte sia stata un’elaborata sciarada”.

Oltre ai quattro artisti, “il club” ne comprende molti altri. Vediamone solo alcuni, tra i più conosciuti.

Alan "Blind Owl" Christie Wilson (1943 – 1970) è stato il leader, cantante e compositore principale della band americana Canned Heat. Scrisse le canzoni più originali e fortunate della band, tra le quali On The Road Again e Going Up The Country. Morì per overdose di barbiturici secondo quanto riportato nella sua autopsia. Alcuni colleghi ipotizzarono che si tolse la vita, ma non ci furono prove a sostegno di questa tesi. Col suo gruppo prese parte a due dei più importanti festival degli anni Sessanta: Monterey Pop Festival nel 1967 e Woodstock nel 1969.

Ron “Pigpen” McKernan, tastierista dei Grateful Dead morì l’8 marzo 1973 a soli 27 anni, a causa di una cirrosi epatica. Nato alla metà degli anni Sessanta, il gruppo fu una pietra miliare della storia di quello che veniva chiamato acid rock o rock psichedelico. Divenne celebre per il suo stile eclettico che univa elementi di rock, folk, blues, country e jazz. I Grateful Dead nacquero a San Francisco nel ’65, città dove stavano emergendo artisti come Jefferson Airplane e Carlos Santana, che conferirono alla città la fama di capitale della controcultura hippie. Di questo ambiente i Grateful Dead divennero presto il gruppo di punta, forti anche dello straordinario livello tecnico di tutti i membri del gruppo. Nel 1969 i Dead parteciparono anch’essi al festival di Woodstock, ma la loro esibizione fu compromessa da un violento temporale e risultò deludente, tanto che il gruppo decise poi di non apparire né sul disco né nel film. Col finire del movimento hippie, iniziò a scemare anche il rock psichedelico, che ne seguì le sorti.

Gary Thain (1948 – 1975) è stato un bassista neozelandese, noto soprattutto per il suo lavoro con gli Uriah Heep e la band di Keef Hartley. Il suo stile era caratterizzato da fraseggi possenti, veloci e melodici che diedero nuova vita ai pezzi degli Uriah Heep, donando una ben più presente "spina dorsale" in buona parte dei loro lavori. Era già gravemente malato quando, l'8 dicembre 1975, la sua ragazza lo trovò morto per un’overdose di eroina nel bagno della sua casa.

Anche un artista italiano è entrato a far parte del club. Si tratta di Ringo De Palma, al secolo Luca De Benedittis (1963 – 1990) batterista che fece parte dei Litfiba e dei CCCP Fedeli alla linea. Grazie alla conoscenza del bassista Gianni Maroccolo e del cantante Piero Pelù, De Palma entrò nei Litfiba nel 1983. Con essi partecipò alla pubblicazione di tre album studio, tre album dal vivo più numerose tournée sia in Italia sia all'estero. Nel 1990 lasciò il gruppo ed entrò nei CCCP Fedeli alla linea. Dopo pochi mesi morì a Firenze per overdose di eroina. I Litfiba gli dedicheranno la canzone Il volo, contenuta nell' album El Diablo. La salma è stata cremata e l’urna riposta in un piccolo loculo senza fotografia nel cimitero di Firenze.


Kurt Cobain (foto nel pubblico dominio)
 
Kurt Cobain (1967 – 1994) era autore, voce e anima dei Nirvana, la band grunge di Seattle esplosa a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. Di indole depressa e tossicodipendente, Cobain era sfuggito a un paio di overdose, l'ultima delle quali a Roma, un mese prima di morire.
Il 30 marzo 1994 il cantante si ricoverò all'Exodus Medical Center di Los Angeles per disintossicarsi, ma già nella notte tra il 1 e il 2 aprile lasciò di nascosto l'ospedale e tornò a Seattle, dove fece perdere le sue tracce. Sua moglie, Courtney Love, per rintracciarlo ingaggiò un investigatore privato. Non servì. L'8 aprile un elettricista rinvenne il corpo del cantante riverso a terra nel garage di casa Cobain sul lago Washington. L'autopsia accertò che la morte sarebbe avvenuta il giorno cinque per un colpo di fucile auto-inflitto alla testa. Un suicidio, dunque. Tra le ultime parole scritte dal cantante dei Nirvana nella lettera trovata accanto al suo cadavere venne citata la strofa, inequivocabile, di una vecchia canzone di Neil Young: It's better to burn out than to fade away, è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente.

Il 23 luglio 2011 la cantante Amy Winehouse è stata trovata morta nella sua casa di Camden Square a nord di Londra, in circostanze ancora tutte da chiarire. Aveva 27 anni.
Il suo album di debutto, Frank, venne pubblicato il 20 ottobre 2003. Fu prodotto con molte superficiali influenze jazz e, salvo due cover, ogni canzone fu scritta (anche se non interamente) dalla Winehouse. Il grande successo arrivò però quattro anni dopo, nel 2007, con l'uscita del secondo album Back to Black, che, trainato da un paio di singoli ben azzeccati, scalò le classifiche mondiali, ottenendo un successo che la portò alla vittoria di cinque Grammy Awards. Contemporaneamente, l'artista fece spesso parlare di sé per gravi problemi legati a droga, alcol e disordini alimentari che la portarono a ritardare la realizzazione del suo terzo album fino alla prematura morte. L’album uscì postumo.

Per gli amanti dell’occulto la parola casualità viene cancellata definitivamente dal vocabolario e per gli statistici la lista degli appartenenti al “Club 27”, lista che varia di fonte in fonte, si è ulteriormente incrementata negli ultimi anni. Vedasi Nicole Bogner.

Nel libro dei soci iscritti al club c’è un intero pezzo d’umanità. Umanità sfortunata? Forse.
Qualcuno parla ancora di una semplice bizzarria statistica, altri si rifanno alla casualità, molti gridano al trucco: volendo, dicono, possiamo trovare qualsiasi tipo di coincidenza strana, sia per la morte dei cantanti sia per quella degli attori, dei postini o dei piloti di Formula 1.

Le maledizioni non esistono, si è detto, però occorre fare attenzione: il “Club 27” è sempre aperto.

Beniamino Colnaghi