Sviluppo, Progresso, Austerità in Pasolini e Berlinguer
I temi
dell’austerità e della “decrescita
felice”, opposti alle teorie economiche dello sviluppo quantitativo illimitato,
dell’aumento della spesa, della depredazione dell’ambiente e dei territori, sono
alcuni tra i termini che più ricorrono, a livello mondiale, nel
dibattito politico da diversi anni a questa parte. L’austerità, innalzata a
paradigma economico dalle destre liberiste e stigmatizzato dalle sinistre progressiste
e dai movimenti ambientalisti, è un concetto che in ogni caso fa parlare di sé.
Oggi
con austerità siamo soliti riferirci a un insieme di provvedimenti economici e
politici che prevedono un forte taglio della spesa al fine di contenere il
debito pubblico. Le famose misure
lacrime e sangue, che, come è ormai evidente e riconosciuto da chi non
ha fette di salame sugli occhi, non hanno fatto altro che deprimere
ulteriormente economie già in crisi. Eppure non è sempre stato così. C’è stato un tempo in cui con austerità si
intendeva qualcosa di diverso.
A
portare avanti la bandiera dell’austerità in Italia sono stati, tra gli altri, nel
corso degli anni Settanta, due dei personaggi più grandi e affascinanti del nostro
Novecento, uomini di sinistra e, più precisamente, comunisti: Pier Paolo Pasolini ed Enrico Berlinguer. Ma come, si dirà,
non abbiamo appena detto che l’austerità è il mantra delle destre
liberiste? Allora perché due esponenti così di spicco, seppur in modo
radicalmente diverso, del comunismo italiano si sono fatti portavoce
dell’austerità? La risposta è in verità molto semplice: perché l’intellettuale friulano e il politico sardo
con austerità intendevano tutt’altro da ciò che si intende oggi con il
medesimo termine.
Vediamo
subito di contestualizzare storicamente la riflessione delle due personalità in
questione: siamo negli anni Settanta, al
termine di anni di crescita fortissima, il boom economico, seguiti dopo che era terminato il Secondo conflitto
mondiale. In questo lasso di tempo il rapporto capitale/reddito nei paesi europei
è crollato, i consumi privati sono esplosi e ha visto la luce quel fenomeno del
consumismo contro cui Pier Paolo
Pasolini, sopra ogni altro, ha scritto pagine di denuncia fortissime.
Dai
cambiamenti avvenuti in questi pochi decenni l’Italia ne esce radicalmente
trasformata. Ma questa improvvisa impennata di benessere non è destinata a
durare a lungo: basti citare la famosa
crisi petrolifera dei primi anni Settanta.
Poi
vennero gli anni ’80, il neoliberismo e
il mercato privo di regolamentazione e con pochi interventi statali, teorie
portate avanti dal presidente americano Reagan e dalla premier inglese Thatcher,
che ebbero come risultati massicce privatizzazioni, lo smantellamento
dello stato sociale, il taglio dei fondi per il sistema sanitario e
pensionistico.
Pasolini
inizia a scrivere di consumismo appena entrati negli anni Settanta e proseguirà
pressoché ininterrottamente fino alla sua tragica e violenta morte, avvenuta a
Ostia il 2 novembre 1975, ad opera di esecutori materiali e mandanti rimasti
fino ad oggi sconosciuti. Ricordiamo che siamo in un periodo storico nel quale,
a partire dal 1969, con la strage di piazza Fontana a Milano, si susseguono una
serie preordinata e ben congegnata di attentati terroristici e uccisioni
eccellenti, che venne definito col termine di strategia della tensione.
Possiamo,
a grandi linee, riassumere così la complessa e fitta elaborazione teorica
dell’autore: per Pasolini il fenomeno della diffusione del consumismo,
determinato dal cambiamento nei modi di produzione conseguente al boom
economico, ha causato una mutazione
antropologica negli italiani, la quale è un fenomeno di omologazione culturale totale e di
conseguenza di genocidio culturale.
Ai fini di quanto viene però trattato qui, è necessario prendere in esame lo
scritto inedito Sviluppo e progresso,
pubblicato in Scritti corsari,
edito da Garzanti nel 1975, che precedette di pochi mesi la scomparsa
dell’Autore. Scrive Pasolini: «Ci sono due parole che ritornano
frequentemente nei nostri discorsi: anzi, sono le parole chiave dei nostri
discorsi. Queste parole sono “sviluppo” e “progresso” […]. Bisogna
assolutamente chiarire il senso di queste parole e il loro rapporto».
Lo sviluppo, prosegue l’autore… «ha
oggi una rete di riferimenti che riguardano un contesto indubbiamente di
“destra”. Chi vuole infatti lo “sviluppo”? Cioè, chi lo vuole non in senso
astratto e idealmente, ma in concreto e per ragioni di immediato interesse
economico? È evidente: a volere lo “sviluppo” in tal senso è chi produce;
sono cioè gli industriali. E, poiché lo “sviluppo” in Italia è questo sviluppo,
sono per l’esattezza, nella fattispecie, gli industriali che producono beni
superflui. La tecnologia… ha creato la possibilità di una industrializzazione
praticamente illimitata, e i cui caratteri sono ormai in concreto
transnazionali. I consumatori di beni superflui, sono da parte loro,
irrazionalmente e inconsapevolmente d’accordo nel volere lo sviluppo, questo sviluppo».
Per
Pasolini, dunque, lo sviluppo è
essenzialmente lo sviluppo industriale, cioè la crescita quantitativa
della produzione di beni. Secondo l’intellettuale friulano però anche le
“masse” vogliono questo sviluppo, poiché esso «significa
promozione sociale e liberazione, con conseguente abiura dei valori culturali
che avevano loro fornito i modelli di “poveri”, di “lavoratori”, di
“risparmiatori”, di “soldati”, di “credenti”». Proprio questa abiura dei
valori culturali costituisce il nocciolo della mutazione antropologica, che Pasolini osserva essere
avvenuta in Italia negli anni del boom.
Definito
in questi termini lo sviluppo, cos’è allora il progresso? Per Pasolini esso è «una
nozione ideale (sociale e
politica): là dove lo “sviluppo” è un fattore pragmatico ed economico» e a
volerlo sono «coloro che non hanno interessi immediati da soddisfare […]: lo
vogliono gli operai, i contadini, gli intellettuali di sinistra. Lo vuole chi
lavora e chi è dunque sfruttato». Il
progresso è dunque un miglioramento delle condizioni di vita.
Come può esistere un progresso senza sviluppo, può d’altro canto esistere
uno sviluppo senza progresso e questo è quanto avvenuto nell’Italia del boom: all’esplosione
dell’industrializzazione e all’aumento dei redditi non ha fatto da
contraltare un salto in avanti sul piano culturale e sociale. Per concludere,
secondo Pasolini «è questa dissociazione che richiede una “sincronia” tra
“sviluppo” e “progresso”, visto che non
è concepibile (a quanto pare) un
vero progresso se non si creano le premesse economiche necessarie ad attuarlo».
Un
pensiero di una modernità sconvolgente, alla faccia di chi vede in Pasolini un
nostalgico reazionario.
È bene notare che in Pasolini non compare mai il termine
austerità, ma possiamo comunque dire che, se avesse avuto questo termine
nel suo lessico, lo avrebbe certamente utilizzato come antitesi politica ed economica al consumismo.
Questo concetto è invece
utilizzato esplicitamente da Enrico Berlinguer nel discorso che ha tenuto al
Teatro Eliseo di Roma, in chiusura del convegno
degli intellettuali promosso dal Pci il 15 gennaio 1977 e poi inserito
nella raccolta di scritti La
passione non è finita (Einaudi, 2013) con il titolo Austerità. Occasione per trasformare l’Italia.
Non sappiamo che rapporti
intercorressero fra Pasolini e Berlinguer; ciò che è certo è che entrambi erano
marxisti, comunisti, grandi uomini di cultura. Berlinguer, senza farsi
preannunciare, si recò alla Casa della Cultura in Campo dé Fiori, a Roma,
in un freddo pomeriggio di novembre del 1975, poco prima che venissero
celebrati i funerali laici di Pasolini. Gli rese omaggio, passando davanti alla
bara dell’intellettuale assassinato. Alberto Moravia diede palese sfogo
al suo dolore per l’ignominia dell’assassinio del suo amico Pier Paolo: “Con
lui abbiamo perso un testimone costante delle contraddizioni del nostro tempo…
La sua diversità, che consisteva nel coraggio di dire sempre la verità, aveva
fatto di lui un elemento prezioso della nostra cultura… Abbiamo perso prima di
tutto un poeta. E poeti non ce ne sono
tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo”.
Nell’Introduzione a La passione non è finita, è lo
storico Miguel Gotor a tracciare
un ponte tra i due:
«Non da meno, sempre sul
piano dell’influenza culturale, svolsero un ruolo le riflessioni di Pier Paolo
Pasolini, proprio in quegli ultimi tempi riavvicinatosi al Pci: la critica
della persuasione occulta svolta in primo luogo dalla TV, l’edonismo interclassista
che imponeva ai giovani di omologarsi provocando nevrosi e frustrazioni in chi
non vi riusciva, l’idea che il potere “avesse bisogno di un tipo diverso di
suddito che fosse prima di tutto un consumatore”, la distinzione tra
“progresso” e “sviluppo” […] si tratta
di una serie di tematiche che ricorrono tutte anche in Berlinguer».
Gotor, oltre allo scrittore friulano,
individua altre due figure a costituire i fondamenti culturali della nozione di
austerità utilizzata da Berlinguer, cioè Franco Rodano e Antonio
Tatò, entrambi di estrazione cattolica. A fianco delle suggestioni
culturali, Gotor vi identifica anche ragioni più prettamente politiche. Scrive
lo storico: «Se ne accorsero in pochi, ma già il Comitato centrale
dell’ottobre 1976 aveva posto all’ordine del giorno la parola austerità sin dal
titolo della relazione di Berlinguer», una relazione preparata nel corso di
lunghe sedute notturne insieme a Luciano
Barca. Sempre come ricostruisce Gotor, la nozione di austerità elaborata
da Berlinguer… «si proponeva di offrire una risposta alternativa e
concorrenziale alla proposta di austerità che negli stessi anni era stata
elaborata dalle classi dirigenti italiane più conservatrici in termini di
sacrifici per i soli operai […]. Adottando la visione gramsciana della crisi
come cambiamento, egli voleva dimostrare che un’altra austerità era possibile,
a patto che diventasse un’occasione per trasformare i rapporti di forza tra
capitale e lavoro, e per ridurre le differenze sociali».
Con la proposta dell’austerità,
formulata, come si diceva, durante il convegno al Teatro Eliseo del 1977,
Berlinguer afferma la volontà di coinvolgere le forze della cultura nella
elaborazione di un progetto di rinnovamento della società italiana, alo scopo
di dare “un senso” alla politica dell’austerità, che costituisce da una parte
una scelta necessaria, ma che può anche essere una condizione di salvezza per i
popoli dei paesi avanzati e una occasione per cambiare l’Italia. Essa infatti
per i comunisti italiani non è uno strumento congiunturale per il ripristino
dei vecchi meccanismi economici, ma il mezzo per iniziare a costruire un
diverso sistema economico, non più basato sul consumismo e sull’individualismo
esasperati, ma sulla giustizia sociale e sulla solidarietà.
Sempre secondo Gotor, la proposta berlingueriana e quella
pasoliniana sono di fatto identiche: coniugare lo sviluppo e il
progresso, nelle accezioni di questi termini di cui sopra. Alla
contestualizzazione dell’austerità secondo Berlinguer, è necessario far seguire
una riflessione sul significato di questa nozione che è insieme un preciso
programma di azione politica:
«Questa esigenza di coniugare sviluppo e progresso
nasce dalla consapevolezza che occorre dare un senso e uno scopo a quella
politica di austerità che è una scelta obbligata e duratura, e che, al tempo
stesso, è una condizione di salvezza per i popoli dell’occidente, io ritengo,
in linea generale, ma, in modo particolare, per il popolo italiano. L’austerità
non è oggi un mero strumento di politica economica cui si debba ricorrere per
superare una difficoltà temporanea, congiunturale, per poter consentire la
ripresa e il ripristino dei vecchi meccanismi economici e sociali. […] Per
noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del
superamento di un sistema che entrato in una crisi strutturale e di fondo, non
congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo
sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati,
del consumismo più dissennato. L’austerità significa rigore, efficienza,
serietà, e significa giustizia; cioè il contrario di tutto ciò che abbiamo
conosciuto e pagato finora, e che ci hanno portato alla crisi gravissima i cui
guasti si accumulano da anni e che oggi si manifesta in Italia in tutta la sua
drammatica portata».
Queste
parole, drammaticamente contemporanee, sono il manifesto dell’austerità così
come intesa da Enrico Berlinguer. I punti di contatto con la riflessione
svolta qualche anno prima da Pasolini sono numerosissimi, a partire dalla
critica al consumismo e al capitalismo come produzione di beni
superflui (lo “sviluppo” pasoliniano), per arrivare all’austerità come chiave
per una trasformazione della società. Quel
generico anti-consumismo di Pasolini, con Berlinguer trova un termine suo
proprio: austerità.
Sarebbe
allora davvero molto difficile sostenere che Berlinguer non abbia mai letto
Pasolini: le tematiche in comune
sono troppe per essere meramente casuali. Sembrerebbe anzi che il segretario
del Pci abbia preso a spunto alcune intuizioni del poeta, arricchendole con gli
spunti provenienti da eminenti figure del mondo cattolico e marxista e con l’incontestabile
valore personale. Il risultato è un’elaborazione potentissima: un termine
generalmente negativo, quale ancora oggi è, viene completamente risvoltato fino
a diventare la chiave per immaginare uno
sviluppo, già da ora diverso, ponendo in
primo piano la questione ecologica e ambientale, che deve necessariamente
essere la battaglia politica del XXI secolo, se l’umanità
vorrà avere ancora un futuro sulla terra.
Allora
le parole di Pasolini e Berlinguer su questa strana specie di austerità,
formulate ormai cinquant’anni fa, devono tracciare il cammino delle nuove
generazioni che desiderano costruire tenacemente una società diversa e che non vogliono arrendersi all’esistente.
Beniamino Colnaghi
Note e bibliografia
Alcune
parti di questo post sono tratte dall’articolo di Michele Castelnuovo, “La (vera) austerità: Pasolini e Berlinguer” su FRAMMENTI RIVISTA, Il mondo con gli
occhi della cultura.
Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Garzanti Editore s.p.a, 1975
Barth David Schwartz, Pasolini Requiem, La nave di Teseo, Milano, 2020
Enrico Berlinguer, Un’altra idea del mondo, Antologia 1969-1984, a cura di Paolo Ciofi e Guido Liguori, Editori Riuniti university press, Roma, 2014
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