Il
coraggio e l’intelligenza delle donne nella Resistenza italiana
«... A voi converrà il dovere di addolcire il dolore di mia madre; ditele che sono caduta perché quelli che verranno dopo di me possano vivere liberi come l'ho tanto voluto io stessa. Sono morta per attestare che si può amare follemente la vita e
insieme accettare una morte necessaria».
Lettera di una donna partigiana condannata a morte
La sera del 7
novembre 1944 a Bologna si combattè contro i tedeschi la battaglia di Porta
Lame, decisiva per le formazioni partigiane. Fu una ragazza di 17 anni, Germana
Boldrini, a dare il segnale dell'attacco partigiano.
Nel film-documentario di Liliana Cavani sul ruolo delle
donne nella Resistenza italiana, girato nel 1965, la regista chiese a Germana
Boldrini da dove le fosse venuto quel grande coraggio. La Boldrini così
rispose: «Forse perché in casa mia
si è sempre vissuti in quella atmosfera, date le circostanze del mio povero
babbo che aveva vissuto dodici anni di confino e quando era a casa era
molestato quasi tutti i giorni dai fascisti; e ne ha subito di tutti i colori
ed io essendo la più grande, si vede che mi son messa nel sangue quel certo
spirito di coraggio per difendere mio padre fino alla morte, perché aveva
passato una gioventù tanto crudele, tanto brutta, che mi rimpiangeva il cuore
solo a sentirlo parlare, tante volte. Mio padre è stato fucilato. Prima hanno
minato la casa e poi l'hanno fucilato sulle macerie della casa».
Il richiamo alle storie
familiari. Non riguarda tutte le donne che hanno deciso di partecipare alla
Resistenza, ma certo il ruolo della famiglia ha influito in maniera decisiva
nella scesa in campo delle donne. Sono state le figure maschili della famiglia,
il padre, il nonno, i fratelli, a “spingere” le donne a schierarsi decisamente
contro la tirannia e la dittatura. Soprattutto il padre. Nella società
contadina e operaia di metà Novecento, i ruoli erano ancora nettamente divisi e
le distinzioni all’interno della famiglia erano molto chiare. Il padre e la
madre avevano ruoli e compiti diversi. Per le donne che hanno partecipato
attivamente alla Resistenza, il padre viene riconosciuto come colui che rifiuta
la sottomissione, che non prende la tessera del fascio, non fa partecipare i
propri figli alle sfilate organizzate dal Partito fascista. Questo
comportamento, per il quale si rischiava il posto di lavoro e la vita stessa,
ebbe una presa fortissima dentro le ragazze della famiglia, le quali assunsero
a modello le scelte del padre o del fratello maggiore. La madre, normalmente, o
non partecipava alla discussione, ma raccomandava di stare attenta, o non
condivideva le scelte della figlia, ma non apriva un conflitto in famiglia. Quindi,
oltre al luogo di lavoro, alla fabbrica e all’ambiente sociale, la famiglia fu
lo strumento attraverso cui la società fece sentire se stessa e dalla famiglia uscirono
quei valori che le erano propri, che fecero propendere alcuni suoi appartenenti
al coinvolgimento diretto in guerra.
Staffette partigiane
Quante
furono le donne impegnate a vario titolo nella Resistenza italiana? Secondo
stime dell’Anpi e testimonianze accreditate, le donne organizzate nei Gruppi di
difesa della donna furono 70.000, 35.000 furono le partigiane che
operarono come combattenti riconosciute, 20.000 le donne con funzioni di
supporto, 4.563 vennero arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti, 2.900 giustiziate o uccise in
combattimento e 2.750 furono le donne deportate nei campi
di sterminio nazisti[1]. Accanto a
queste ci sono state centinaia di migliaia di donne che hanno compiuto piccoli
gesti e svolto umili compiti grazie ai quali i partigiani ed i combattenti poterono
essere nascosti, sfuggire ai rastrellamenti, ricevere viveri, medicinali, generi
di conforto, informazioni.
La
partigiana Onorina Brambilla Pesce, classe 1923, milanese, nome
di battaglia Sandra, fu un fulgido
esempio del percorso condiviso da tante donne italiane che non esitarono ad
abbandonare la casa, il lavoro e gli affetti per dare il loro contributo
decisivo affinché l’Italia si liberasse dalla dittatura e dall’occupazione
nazista. Nella testimonianza contenuta nell’opuscolo La donna protagonista, riferendosi alle donne impegnate nella
Resistenza disse: “… molte, pur non avendo una precisa idea politica, si
schierarono a fianco di chi combatteva per la libertà, per sconfiggere i
nazifascismi. Tutte corremmo gli stessi pericoli, rischiammo la vita non per
meschini interessi personali, ma per tutti, per la pace, per un avvenire
migliore nel quale speravamo con tanta forza”.
Giovanni Pesce e Onorina Brambilla
Le
scelte delle donne furono condizionate, come abbiamo visto poco sopra, dalla
situazione familiare e dallo stato in cui si trovavano i “loro” uomini da un
lato, e da un profondo senso di giustizia, dal bisogno di cambiare il mondo
dall’altro. Il coraggio e l’abnegazione di queste donne sostennero gli uomini
costretti a compiere scelte drammatiche e impegnative, quali la clandestinità,
la fuga sulle montagne, l’espatrio. Attraverso la consapevolezza, l’impegno, il coraggio
di queste donne passa la Storia, quella con la S maiuscola, che è stata raccontata
su moltissimi libri, saggi, testi scolastici e fissata da alcune date
significative della nostra storia recente: 25 luglio e 8 settembre 1943, gli
scioperi del ’43-44, 25 aprile 1945. A via
Tasso a Roma, tra il settembre del ‘43 e il giugno del ‘44 finirono rinchiuse e
torturate 122 donne ma nessuna di loro parlò o tradì i compagni. Il silenzio di
quelle donne fu una delle armi più efficaci contro la macchina di morte
nazifascista. Quello delle donne era un esercito solidale, silenzioso, senza
divisa e senza gradi, un esercito di volontarie della libertà che restituirono
senso e valore al ruolo della donna nella società dopo anni di dittatura
fascista che le aveva relegate a ruoli secondari in ogni ambito della vita
sociale. E' indubitabile che le donne abbiano vissuto la
consapevolezza di combattere per una causa giusta e che in numero considerevole
abbiano partecipato alla formazione dell'opposizione antifascista, fulcro della
guerra di liberazione. Nell'immediato dopo-guerra, infatti, le donne italiane
hanno conseguito il diritto di cittadinanza, attraverso il voto, quale pieno
riconoscimento della loro ormai matura coscienza politica.
Vediamo ora alcune brevi biografie
delle donne impegnate, a vario titolo e con diversi ruoli nella Resistenza
italiana.
Di Onorina Brambilla Pesce abbiamo già
accennato. Di Nilde Iotti ho avuto
modo di parlare su questo blog in occasione del 15° anniversario della morte[2].
Teresa Mattei è morta
invece solo due anni fa, il 12 marzo 2013 all’età di 92 anni. Partecipò attivamente
alla lotta di Liberazione con il nome di battaglia di Chicchi. A lei ed al suo gruppo combattente
si ispirò Roberto Rossellini per l'episodio di Firenze del film Paisà. Nel 1946 fu la più giovane
deputata eletta al Parlamento della Repubblica. Fu sua l’idea della mimosa per
la festa dell’8 marzo. Tra gli ultimi testimoni della Resistenza e della
Costituzione, Teresa Mattei portò dentro le istituzioni il punto di vista delle
donne, che difese fino alla fine del suo mandato.
Carla Capponi
Carla Capponi nasce
a Roma nel 1918 da una famiglia colta e antifascista. Diplomata al liceo
Visconti, studentessa in giurisprudenza, dopo l’8 settembre 1943 non ha un
attimo di esitazione. Già durante la difesa di Roma prima si prodiga ad aiutare
i combattenti, poi svolge il lavoro con le organizzazioni femminili della
Resistenza. La sua casa signorile al Foro Traiano diviene un punto di
riferimento per l’attività clandestina. Ma tutto questo, che pure non è poco,
a Carla non basta. Sente che per abbattere definitivamente il nazifascismo c’è
bisogno di un impegno totale. Decide così di abbandonare famiglia, affetti,
sicurezze per entrare in clandestinità. Consapevole di rischiare ogni giorno
la propria vita in una guerra impari nei mezzi militari ma forte negli obiettivi.
Il 9 marzo, in via Claudia, incendia da sola un camion tedesco carico di fusti
di benzina. Poi, per non essere riconosciuta, decide di tingersi i capelli di
nero. Il 23 marzo 1944, con il nome di battaglia di Elena, è in via Rasella insieme a un gruppo di gappisti. Rosario
Bentivegna, suo compagno di lotta e di vita, travestito da spazzino ha portato
in un carretto la bomba, confezionata per attaccare la colonna di polizia
tedesca che ogni giorno passa di lì. L’esplosione è terrificante. Molti
militari cadono a terra dilaniati, altri sono assaltati dai partigiani con
bombe a mano. Rimangono uccisi trentadue appartenenti all’11° Polizei
Regiment Bozen. Per rappresaglia, il giorno dopo, sotto il controllo del
generale Kappler, vengono fucilate alle Fosse Ardeatine 335 persone, prelevate
in buona parte dalle prigioni romane. Per la sua partecipazione in prima
persona, armi in pugno, a numerose azioni contro fascisti e tedeschi, la
coraggiosa giovane romana avrà la medaglia d’oro al valor militare.
Tina Anselmi
Tina Anselmi
nasce a Castelfranco Veneto nel 1927. Cresce in una famiglia cattolica e
antifascista, segnata dalle persecuzioni subite dal padre, militante
socialista. Iscritta all'Azione cattolica, il 26 settembre 1944 a Bassano del
Grappa, dove studia presso il locale istituto magistrale, è costretta ad
assistere all'impiccagione di 31 partigiani: è l'avvenimento che la spinge a
entrare nella Resistenza. Diviene staffetta, con il nome di battaglia Gabriella, della brigata autonoma Cesare
Battisti, al comando di Gino Sartor, e poi del Comando regionale veneto del
Corpo volontari della libertà.
Aderente alla Democrazia cristiana dal dicembre dello stesso 1944, dopo il
conflitto consegue la laurea in lettere presso l'Università cattolica di Milano
e diviene insegnante. Nel 1959 entra a far parte del Consiglio nazionale della
Dc. Alle consultazioni politiche del maggio 1968 viene eletta alla Camera dei
deputati e vede rinnovato il proprio mandato fino all'aprile 1992.
Furono
molte altre le donne che ebbero ruoli di rilievo nella Resistenza: dalla
milanese Gisella Floreanini a Iris
Versari, morta nell’agosto 1944 a soli 22 anni, dalla bolognese Irma
Bandiera a Ines Bedeschi, che i nazifascisti, dopo averla
torturata senza ottenere alcuna confessione,
fucilarono a pochi giorni dalla Liberazione e gettarono il suo corpo nel
fiume Po, dalla modenese Gina Borellini alla
bellunese Paola Del Din, dalla sestese Isa De Ponti, nome
di battaglia Narva, entrata
giovanissima nei Gap agli ordini di Giovanni Pesce, alle valtellinesi Adriana Peregalli e Rachele Brenna.
Anche la
Brianza ha dato i natali ad alcune donne impegnate nella Resistenza e nella
lotta contro il nazifascismo. Come Vittoria
Bottani, che svolse la propria attività tra Missaglia e Lecco. Nell’
inverno del 1944 venne catturata di notte e rinchiusa nel carcere di Como con
l’accusa di correità in associazione sovversiva, per aver organizzato a
Missaglia un gruppo con il fine di creare bande terroristiche e di favorire
l’attività bellica. Il processo venne fissato il 25 aprile 1945 a Milano, ma
quel giorno il processo non si tenne perché fu il giorno della Liberazione.
Vittoria uscì da San Vittore e trovò suo padre ad attenderla.
Bambina Villa
Nata ad Oreno nel 1916, in una famiglia antifascista, Bambina Villa
iniziò a
lavorare all'età di 11 anni al "Linificio-Canapificio" di Vimercate. Nel
1943-44 collaborò all'organizzazione degli scioperi generali e alla
mobilitazione degli operai nelle fabbriche della zona. Durante la Resistenza,
col nome di battaglia Rossana, entrò
a far parte, come staffetta, della 103a Brigata Garibaldi di Vimercate. Suo
compito fu quello di distribuire materiale di propaganda, cibo, vestiti e
medicine ai patrioti in città e in montagna. L'8 marzo del 1945 fu tra le donne
che portarono sulle tombe dei compagni, uccisi al campo di aviazione di Arcore,
mazzi di mimose e uno striscione recante la scritta "I gruppi di difesa
della donna ricordano i loro martiri". Finita la guerra, Bambina Villa
continuò a lavorare al Linificio e a organizzare i lavoratori, perché, come
diceva lei, "la Costituzione era stata fatta, ma bisognava che i datori di
lavoro la mettessero in pratica".
Luisa Denti Sacerdoti nacque a
Lecco nel 1929. Il padre fu un perseguitato politico perché non volle mai
iscriversi al Partito fascista. Per questo motivo veniva incarcerato due o tre
giorni durante cerimonie e visite ufficiali in Lombardia di importanti gerarchi
fascisti e nazisti. “Quando Hitler venne in Italia mio padre
era a casa ammalato per cui, non potendolo portar via, venivano a controllarlo
due volte al giorno. Entravano in camera da letto e vedevano in bella
mostra un piccolo quadretto con l'effige di Matteotti e sotto la scritta: "Uccidete me, ma non uccidete le
mie idee"[3]. Era
il 1944 quando Luisa iniziò la sua attività all’interno della Resistenza. Il
suo ruolo fu quello di staffetta, prima tra Lecco e Como poi verso la
Valtellina e la Valsassina, oppure in direzione di Milano.
Beniamino Colnaghi
Note
[1] http://www.storiaxxisecolo.it/Resistenza/resistenzadonne.htm
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