sabato 20 dicembre 2014

giovedì 11 dicembre 2014

I tre giovani disertori di Paderno d’Adda, deportati nei campi di sterminio nazisti

Il 1943 fu un anno drammatico per la storia dell’Italia ed il corso della seconda guerra mondiale.
Nella notte fra il 24 e il 25 luglio il gran consiglio fascista destituisce Mussolini da ogni incarico e affida al re Vittorio Emanuele III il comando delle Forze armate. Lo stesso giorno Mussolini viene arrestato e mandato al confino prima a Ponza, poi alla Maddalena e infine a Campo Imperatore, sul Gran Sasso.
L'8 settembre il re e Badoglio annunciano l'armistizio con gli alleati anglo-americani e fuggono a Brindisi, consegnando l'Italia in mano ai tedeschi, che occupano militarmente il Paese.
Il 12 settembre i paracadutisti nazisti, aiutati da alcuni ufficiali fascisti dei carabinieri, riescono a liberare con un blitz Mussolini.
Il 15 settembre la radio comunica che "Benito Mussolini ha ripreso la suprema direzione del fascismo in Italia", mentre tre giorni dopo in un discorso radiofonico da Monaco, lo stesso Mussolini, annunciando la rinascita di uno stato fascista, indica il compito di riprendere le armi al fianco della Germania e del Giappone.
Il 23 settembre si costituisce ufficialmente il governo della Repubblica sociale italiana, Rsi, con sede nel comune di Salò (Brescia) e Mussolini, rientrato nel frattempo in Italia, si autoproclama capo dello Stato, del governo e duce del nuovo partito fascista repubblicano.
Il 28 ottobre viene promulgata la legge costitutiva delle Forze Armate della Rsi.

Il generale Rodolfo Graziani, ministro della Difesa e successivamente della Guerra, non perse tempo per indire i bandi di reclutamento che si succedettero fino alla metà del 1944.


 
Nel primo bando, su 180.000 iscritti alle liste di leva se ne presentarono circa 100.000.
Fu però l’ultimo credito spontaneo che le generazioni soggette alla chiamata militare diedero al fascismo, scoraggiate dalle penose condizioni in cui si trovavano le caserme, dal vitto scarso e dall’arroganza tedesca. Il loro impiego operativo, inoltre, era spesso rivolto contro altri italiani nei rastrellamenti e nelle azioni contro i gruppi partigiani. Cominciarono così le diserzioni e gli abbandoni dei reparti. I bandi successivi furono dei fallimenti: parecchi renitenti scelsero la montagna e la resistenza si fortificò con il loro arrivo. Molti giovani si rifugiarono nei loro stessi paesi, nelle loro stesse case, aspettando la fine della bufera.
Del contesto nazionale abbiamo detto.
Per quanto attiene, invece, la situazione nei comuni della Brianza comasca e lecchese, una raccolta di dati ordinata dal capo della provincia di Como accerta che, al 31 dicembre 1943, furono 1287 i giovani che rifiutarono la chiamata alla leva. Furono 43 a Cernusco Montevecchia, 76 a Merate, 45 a Paderno Robbiate, 19 ad Osnago, 18 a Verderio Inferiore mentre a Verderio Superiore furono 8.[1]
 
 
 
 
La reazione delle autorità politiche e militari si articolò in una serie di pene da applicarsi ai renitenti e in una sequenza di ritorsioni. I capi delle province fecero affiggere dei manifesti nei quali si formalizzavano le misure che lo stesso capo era autorizzato a prendere in caso di mancata presentazione ai distretti dei giovani di leva. Provvedimenti venivano adottati anche a carico dei familiari dei giovani: dall’arresto del padre al ritiro delle tessere annonarie a tutti i familiari, dal ritiro delle licenze d’esercizio a quello delle licenze di circolazione per autovetture, dalla sospensione immediata del pagamento delle pensioni a quella degli impieghi statali e parastatali dei familiari.    

Il capo dei comandi militari delle varie province e il capo delle province stesse inviarono a tutti i commissari prefettizi ed ai podestà dei comuni una circolare che li invitava ad uno spirito di massima collaborazione e, nello stesso tempo, li ammoniva ad adottare tutte le misure possibili affinché i renitenti alla leva ed i disertori si presentassero nelle loro caserme.
Il culmine della collera causata dal montare del fenomeno della renitenza, le autorità della Rsi lo raggiunsero con il decreto del duce del 18 aprile 1944 che, in concomitanza con la chiamata alle armi delle classi 1922, 1923 e primo quadrimestre del 1924, dichiarava di comminare a renitenti e disertori la pena di morte e più dure ritorsioni contro la famiglia di appartenenza.
A causa della paura furono in molti a presentarsi ma, trascorso l’effetto terroristico, il fenomeno della renitenza riprese, come pure riprese quello della diserzione dai reparti.
 
 
 
 
 
A seguito del disastroso risultato ottenuto, il duce sentì la necessità di emanare un’amnistia. Il 28 ottobre 1944 furono condonati i reati di diserzione e renitenza per chi si fosse presentato entro il 14 dicembre. Nei comuni della Brianza si sono ottenuti risultati comunque modesti. I giovani presentatisi in seguito all’armistizio del 28 ottobre furono 75 a Merate, 19 a Missaglia e 15 in totale a Verderio Superiore e Inferiore.[2]
 
 
 
In tutto questo periodo di tentata ricostruzione della forza militare dello stato fascista, le milizie e le brigate nere cercarono di risolvere il problema operando frequenti rastrellamenti. Normalmente avvenivano circondando improvvisamente un paese, o un quartiere, con forze ingenti e si fermavano tutti gli uomini che ad occhio fossero in età di servizio militare. Anche in alcuni comuni della Brianza si usò questo metodo. La terribile anomalia, inspiegabile e drammatica, fu che alcuni di questi giovani, fermati per non avere risposto a qualcuno dei bandi di reclutamento, furono deportati nei campi di sterminio nazisti.

Fu il caso di tre ragazzi della classe 1922 residenti a Paderno d’Adda, a quel tempo in provincia di Como.
La vicenda che portò alla deportazione di Pasquale Brivio, Guido Panzeri e Giuseppe Villa, tutti nati nel 1922 e residenti in via Manzoni a Paderno d’Adda, è legata alla loro diserzione dal presidio della Gnr (Guardia nazionale repubblicana) di Monza.


Via Manzoni a Paderno d'Adda.
La sera del 9 maggio 1944 una squadra della Gnr si presentò in via Manzoni, dove abitavano i tre ragazzi. Non trovandoli, iniziarono a terrorizzare e minacciare le rispettive famiglie finché, dopo circa un’ora, i giovani saltarono fuori. Furono immediatamente portati alla caserma di Monza e il giorno dopo a Gallarate, dove subirono un processo sommario al termine del quale vennero condannati a diversi periodi di reclusione.
Durante la loro prigionia, i tre ragazzi padernesi rifiutarono sempre e decisamente di arruolarsi nell’esercito fascista, motivo per il quale, in accordo con le SS, i fascisti decisero la loro deportazione in Germania.[3]
Non si hanno molte informazioni sugli spostamenti dei tre ragazzi padernesi verso i luoghi detentivi del Reich. Ciò che è certo, invece, è che il primo approdo in Germania fu la fortezza di Torgau, trasformata in prigione militare, mentre successivamente furono spostati nel piccolo campo di rieducazione di Zoschen, sulla strada che da Merseburg porta a Lipsia. Con un treno merci, ogni giorno i deportati venivano condotti nelle grandi fabbriche di uno dei bacini dell’industria chimica tedesca, dove lavoravano con turni massacranti di dodici ore al giorno. Una piccola scodella di zuppa era tutto ciò che veniva loro concesso per ricaricarsi per il giorno dopo.
I tre ragazzi padernesi erano:

Pasquale Brivio. Morì il 5 aprile 1945 in luogo non noto ma si sa che il 29 marzo era presente a Buchenwald. La commissione che si occupò di effettuare sopralluoghi nei lager per ritrovare oggetti dei deportati fece recapitare al padre la carta d’identità di Pasquale recuperata a Dachau.
Guido Panzeri. Inviato a Torgau fu spostato a Zoschen e utilizzato a Spergau, nel sito produttivo di Leuna. Morì il 25 marzo 1945 a Zoschen. 
Giuseppe Villa. Cessò di vivere a causa di un grave deperimento il 5 aprile 1945 a Zoschen e venne inumato nel cimitero locale.[4]

In memoria di tutti quei brianzoli che sotto il regime nazi-fascista subirono violenze inconcepibili, persecuzioni, maltrattamenti disumani oppure furono uccisi qui in Brianza o deportati nei campi di sterminio nazisti.

Beniamino Colnaghi

Note e fonti bibliografiche
Pietro Arienti, Dalla Brianza ai Lager del Terzo Reich, Bellavite, 2011, p.223-224.


[1] Asco, Gabinetto Prefettura, Pratiche chiamata alle armi, “Elenchi dei giovani delle classi di leva non presentatisi data 31.12.1943”.
[2] Ar.com. Merate “Militari sbandati e renitenti”.
[3] Ans, esposto del 15.01.1946 alle autorità giudiziarie dei genitori dei tre deportati.
[4] Ans, fascicoli personali.

mercoledì 3 dicembre 2014

Nilde Iotti, la “signora della politica italiana”

Qui di seguito viene presentata una breve sintesi della biografia inedita di Nilde Iotti, scritta dal giornalista Giorgio Frasca Polara, in esclusiva per il sito della Fondazione Iotti. Polara è stato il portavoce di Nilde Iotti durante la sua presidenza della Camera.
 
Quando Nilde morì, Le Monde le dedicò una nota con questo titolo: “Se ne va la gran signora della politica italiana”. Il titolo, tra migliaia, più felice; una sintesi meritata, per la straordinaria capacità di questa donna di tenere insieme rigore e serenità, dignità ed esercizio critico della ragione, di impersonare una concezione alta della politica e la dignità stessa del Parlamento. Anche se, e Le Monde giustamente lo ricordava, alle spalle e in parallelo dell’intensa e lunga vita parlamentare (cinquantatre anni) c’erano il lavoro clandestino nella Resistenza, la milizia alla base e ai vertici del Pci-Pds-Ds, l’attività all’Udi e alla commissione femminile del Pci da lei a lungo presieduta, il rapporto con Togliatti contrastato da una parte del gruppo dirigente e di cui furono segni successivi le tante cancellature del suo nome al momento della tardiva prima elezione nel Comitato centrale, e la successiva, contrastata nomina in direzione. In realtà, e per paradossale che possa sembrare, la stella di Iotti poté cominciare a brillare di luce propria solo dopo la scomparsa di Togliatti, quando non c’era più motivo (in taluni tra i massimi esponenti del partito: il primo era stato Pietro Secchia) di diffidare di lei e delle inesistenti sue “fortune” dovute al legame con il segretario del partito comunista…
 
Eh, quante battaglie e quanti tormenti Nilde aveva vissuto, nell’arco della sua vita, sin dalla prima giovinezza, già a Reggio “nell’Emilia” (come si diceva e si scriveva una volta) dov’era nata il 10 aprile 1920. Figlia di un ferroviere socialista cacciato dal lavoro per le sue idee e scomparso quando lei aveva appena quattordici anni, condusse vita grama con la mamma inventandosi con lei mille piccoli lavori ma frequentando regolarmente le scuole – “meglio dai preti che nella scuola fascista”, aveva sempre raccomandato il padre – sino a laurearsi in lettere alla Cattolica di Milano, vivendo talora in un abbaino nella periferia della città, e dando lezioni private per guadagnarsi di che vivere. Ebbe tra i suoi docenti Amintore Fanfani: l’avrebbe ritrovato come collega non solo alla Costituente e poi via via per tante legislature ma persino come correttissimo collega: lui presidente del Senato, lei della Camera. Fu durante il corso universitario che perdette la fede, ma non si disse mai atea, piuttosto “non credente” e rispettosissima sempre del credo altrui. Breve periodo, poi, di insegnante in qualche paesino del reggiano. Sino a quando, dopo l’8 settembre, non maturò la decisione – lei che aveva cercato inutilmente, per anni, di ritrovare le tessere del Psi che il padre aveva celato sotto le traversine della ferrovia, fuori città – di iscriversi al Pci clandestino, e di tradurre l’impegno politico in scelta di vita facendosi prima staffetta porta-ordini e poi organizzando i Gruppi per la difesa della donna. Poi la presidenza dell’Udi di Reggio e la candidatura, nel ’46, alla Costituente. Qui una nuova, decisiva svolta: non tanto come deputata ma perché chiamata a far parte di quella Commissione dei 75 che è stata un po’ la vera madre della Costituzione. Era giovanissima e si ritrovò a tu per tu, in quella fucina, con Aldo Moro, con Pietro Nenni, con Togliatti.  Con il segretario del partito nacque quasi subito un grande amore, ma clandestino. Sino all’attentato del 14 luglio ’48: stavano uscendo insieme dalla Camera quando un fascista scaricò quattro colpi di rivoltella contro il segretario del Pci. Se non morì si dovette anche ad uno scatto di Nilde. E così fu noto a tutti il legame che solo la morte di Togliatti avrebbe drammaticamente spezzato. Nilde uscì indenne dall’attentato che visse tuttavia come un trauma anche nei giorni successivi: quando si tentò (e in un primo momento si riuscì) ad impedire che Iotti fosse ammessa al capezzale del suo compagno, già sposato con Rita Montagnana, valorosa militante antifranchista e antifascista, e anche lei deputata. Iotti sopportò a lungo con fermezza e (relativa) serenità le molte diffidenze e anche umiliazioni cui fu sottoposta per questo rapporto, sempre più intenso, sempre più felice: ciò che la ricompensava di molte ingiustizie e incomprensioni… 
 
Quanto pesasse la sua personalità si vide soprattutto alle solenni onoranze in occasione della sua morte (“morta senza i conforti della religione” fu lo stupido o stupito richiamo del Giornale di Berlusconi), avvenuta nella notte tra il 3 e il 4 dicembre 1999 in seguito ad un intreccio di mali che provocò un collasso cardiaco. Uscì dalla vita in punta di piedi, come c’era entrata: morì fuori Roma, in una clinica appartata al confine tra Lazio e Abruzzo. Già sapendo di non potere più esercitare una normale vita politica e sociale si era dimessa poche settimane prima da deputata: un gesto non rarissimo (nel partito c’era il precedente di Natta) e tuttavia insolito, che aveva destato grande impressione e commozione. Questi sentimenti crebbero a dismisura quando una folla immensa volle darle l’ultimo saluto prima durante l’esposizione della salma nel Salone della Lupa, e poi ai funerali di Stato, presente Oscar Luigi Scalfaro che prima di salire al Quirinale le era brevemente succeduto alla presidenza della Camera. Con lui, come già con Sandro Pertini che addirittura la voleva alla presidenza della Repubblica, c’era un rapporto strettissimo, nato alla Costituente e poi sempre coltivato con sentimenti di grande considerazione e affetto. Sulle mani di Nilde la sua compagna delle elementari Franca Ciampi intrecciò alcune roselline. Tutto finì di lì a poche ore, con la sepoltura nel famedio dove riposano le salme di quasi tutti i dirigenti del partito che fu, nell’area acattolica del cimitero romano del Verano. Giace, la sua salma, accanto a quella di Togliatti. Si riuniva così quella straordinaria coppia che aveva dato vita – aveva detto lei una volta – a “una strana famiglia in cui non c’era un vero marito, non c’era una vera moglie, e non c’era una vera figlia, ma che pure era una famiglia unita e felicissima”.   

Per leggere la biografia integrale aprire il collegamento http://www.fondazionenildeiotti.it/iniziative_1.php?eventi_id=45

venerdì 28 novembre 2014

Il massacro del Sand Creek
 
Denver, Colorado, 28 settembre 1864. Nella foto capi Cheyenne e Arapaho. Pentola Nera è il secondo da sinistra della prima fila (foto nel pubblico dominio da Wikipedia.org). 

 
Sono trascorsi 150 anni dal massacro del Sand Creek.
 
All'alba del 29 novembre 1864 una colonna di oltre 700 soldati americani, comandati dal colonnello John Chivington, giunse al campo Cheyenne e Arapaho sul fiume Sand Creek, oggi nello stato del Colorado. La maggior parte degli indiani maschi adulti era più a est, a caccia delle mandrie di bisonti e la maggioranza dei 600 nativi presenti nel campo erano anziani, donne e bambini.
A dispetto dei vari trattati di pace firmati dai capi tribù locali con il governo statunitense, Chivington ordinò di aprire il fuoco e massacrare quanti più indiani possibili, anche donne e bambini. Il capo Cheyenne, Mokatȟavataȟ, in italiano Pentola Nera, aveva fatto innalzare accanto alla sua tenda conica un alto palo di legno a cui aveva fissato una grande bandiera degli Stati Uniti d’America. Gli indiani erano cittadini americani. Non appena i soldati si avvicinarono al campo, il vecchio capo Cheyenne urlò alla sua gente di radunarsi sotto la bandiera. Ma questo non servì. L’attacco fu terribile, indiscriminato, un vero massacro. Il numero esatto delle vittime del Sand Creek non fu mai chiarito ma, da stime e testimonianze attendibili, si parlò di un numero tra i 150 e i 170 indiani uccisi.

I responsabili del massacro non furono mai perseguiti.

lunedì 17 novembre 2014


Milano, le vecchie bancarelle di libri usati

Nelle più rinomate vie e piazze della vecchia Milano, parliamo dei primi decenni del Novecento, erano dislocate diverse bancarelle che vendevano libri usati. Ce n’erano delle più disparate. Certe bancarelle erano specializzate in filoni ben precisi, altre proponevano tutto quello che riuscivano a trovare e spesso reclamizzavano offerte speciali e maggiori sconti se si acquistavano più libri.

Porta Venezia, ad esempio, aveva il più alto numero di bancarelle. A dire il vero non erano vere e proprie bancarelle, ma carretti con ruote, facilmente spostabili, attrezzati con cassette e piccoli scaffali per disporvi i libri.
Una di queste bancarelle apparteneva ad un signore sempre vestito di nero che aveva l’aria mefistofelica: occhialini d’oro, calvo, pizzetto ben stirato. Sul suo conto correvano strane voci. Si diceva che fosse un avvocato cancellato dall’albo per qualche oscura ragione. Ma era molto abile nel proporre e vendere i libri. Aveva la mania dei vecchi periodici e degli almanacchi ottocenteschi. Legato al carretto con una corda c’era un grosso pacco che conteneva le annate del giornale anticlericale L’asino. Poi aveva le raccolte dei grandi processi pubblicati da Sonzogno. Intorno alla bancarella, a sfogliare e a prendere appunti, s’incontravano talvolta giornalisti che s’occupavano di cronaca nera, magistrati e avvocati alle prime armi.
Scostata di qualche metro, c’era invece la bancarella di una signora che portava sempre una sciarpa verde. Era una fanatica della lirica, un irriducibile loggionista. Infatti si era specializzata in libretti d’opera. Se ne trovavano, ammucchiati ed alla rinfusa, in edizioni popolari a cinquanta centesimi mentre in una cassetta teneva le edizioni di pregio.
La bancarella più popolare, anche per via della simpatia che sprigionava il suo proprietario, era quella di un vecchio che fumava sempre una piccola pipa. Fumatore impenitente, non si toglieva la pipa di bocca neanche per parlare. Aveva la barba incolta e sudicia ma era un uomo dal buon carattere, paziente e conciliante sul prezzo. Aveva un po’ di tutto: dai romanzi francesi e portoghesi ai libri di devozione e trattati di grafologia.
I bancarellari di Porta Venezia non si concedevano mai vacanza, tranne che alla domenica. D’inverno sfidavano il freddo coperti con cappellacci, pastrani e cappotti incatramati.


Milano, una bancarella di libri in Piazza Mercanti
Sui gradini del Palazzo della Ragione, in via dei Mercanti, pieno centro città, esponeva un tipo con  barba e capelli da Mosè e le orecchie turate da peli grigi che gli si arricciavano intorno ai lobi. Dal nome e dal fisico pareva fosse Ebreo. Il libraio acquistava dai critici, che li avevano ricevuti per recensirli, libri appena comparsi in libreria e li vendeva a metà prezzo. Dopo alcuni anni si trasferì in piazza Mentana ed il suo posto fu preso dai Finzi, padre e figlio, il quale, quest’ultimo, aprì più tardi un rifornito antiquariato di libri usati e stampe in Foro Bonaparte.
Un’altra zona della città che vedeva la presenza di bancarellari era Largo Cairoli. C’era un uomo di mezza età, strambo e poco simpatico e non era uno che praticava sconti, anzi, molto spesso, a seconda dell’acquirente, aumentava il prezzo con mille pretesti. A Largo Cairoli si trasferì, dal passaggio Santa Margherita, un altro bancarellaro, che a causa della sua barba aggressiva veniva chiamato familiarmente il “Barbetta”. Negli anni Trenta si è ritirato dalla piazza e l’attività è stata prelevata dal figlio, che ha aperto un negozio di antiquariato librario nella non lontana via Camperio.

Milano, la "moderna bancarella" di Piazza Cairoli 
Una modesta bancarella di libri era stata installata di fronte alla chiesa di San Carlo, ma non vendeva molto, il luogo non era adatto. Nel quartiere Brera, invece, bancarelle ve n’erano parecchie. In via Fiori Oscuri si era collocato un libraio assai stravagante. Non aveva una vera e propria bancarella, ma disponeva i libri e una scatola di legno che emanava un buon odore di tabacco su uno sdrucito zerbino di un atrio d’albergo. La scatola di legno doveva aver contenuto dei sigari cubani, ma il venditore vi aveva riposto dei santini d’occasione. Appoggiate al muro vi erano delle stampe in quadrante in passe-partout di cartone. Il libraio era un uomo di mezza età, ben conservato, in giacca di velluto che gli dava l’aria di un pittore bohémien. Non stava mai fermo e spesso andava in giro per restar via delle ore. Se qualcuno chiedeva di lui guardandosi intorno, v’era sempre il portiere dell’albergo o un negoziante che rispondeva in vernacolo: “L’è andaa a fà on poo d’acqua, ma el ven subit”. Le stampe provenivano perlopiù da Vienna ed erano databili intorno al Sette-Ottocento. I santini venivano dalla Spagna ed erano stampati su carta-tela e dipinti a mano. Sul retro recavano la leggenda del santo o della santa che riproducevano.
In piazza Cordusio, solo per alcuni mesi, un giovane magro e giallognolo, dalle orecchie a sventola, vestito con una giacchetta nera e striminzita esponeva i suoi libri sulla scalinata dell’allora palazzo della Borsa. Non era di Milano. Era toscano, di Lucca. Aveva fatto richiesta alle autorità ed aveva ottenuto quel posto. Era figlio di povera gente e grazie a una ricca signora che pagava la retta, l’avevano messo in seminario. Purtroppo si era ammalato e i superiori avevano consigliato i genitori di tenerlo a casa e curarlo. Da allora aveva fatto un po’ di tutto: il galoppino per un notaio, il commesso d’una bottega d’oggetti sacri, il lavapiatti in un’osteria. Poi aveva conosciuto una ragazza ed aveva combinato il guaio, ma aveva riparato prima ancora che il pargolo nascesse. Verso la fine degli anni Venti, era arrivato a Milano con la moglie ed il figlio grazie all’interessamento di un gerarca fascista. Le speranze erano molte, ma i libri pochini, per una città come Milano. Il posto era buono, di largo transito, ma egli, tra una tossita e l’altra, da spezzare il cuore, si lagnava sempre di non trovare i libri. Era tisico all’ultimo stadio ed il clima di Milano certo non gli giovava.  Poi, dopo qualche mese, prese il suo posto una donnetta in scialle nero: era la moglie in lutto. I milanesi, brava gente, l’avevano aiutata, ma non ha resistito a lungo da sola a Milano; è ritornata a Lucca dai suoi, riprendendo il suo lavoro di cardatrice di lana.

Milano, Piazza Cordusio in una foto degli anni Trenta
All’apertura della Fiera di Porta Genova, che poteva durare da una settimana a un mese, immancabilmente giungeva il bancarellaro di Massa Carrara. Era un pioniere della diffusione del libro che portava con la bricolla fin nelle più remote valli delle Alpi Orobiche e nella Pianura Padana. In Lombardia si leggeva di più che in altre regioni. La grande bancarella era aperta e illuminata fino a mezzanotte. Appeso al palo centrale era affisso un cartello a caratteri cubitali: “Chi non legge è un …oca”. Sulla bancarella c’erano i migliori romanzi dell’epoca e opere prime dei più grandi autori. Il venditore praticava sconti eccezionali, tanto più alti quanti più libri si compravano.
C’è stato un certo Arnaboldi, che qualcuno suppose figlio di un garibaldino milanese, che produceva disegni con inchiostro di china. Una cartella, da titolo Milano perduta, che conteneva quindici tavole firmate Arnaboldi, era in vendita presso un vecchio libraio che esponeva in piazza Cavour, sulla spalletta del Naviglio. Era un vecchio poco simpatico, che fumava sempre la pipa e guardava con indifferenza gli eventuali acquirenti. Oltremodo vendeva poco, perché era caro e non mollava sul prezzo. Ogni tanto aveva libri intonsi e fondi di magazzino, che smaltiva con lentezza. Per lo più erano libri di autori sconosciuti, fatti stampare a proprie spese, ma c’erano anche libri, pochi, di autori non del tutto ignoti.

Beniamino Colnaghi

domenica 9 novembre 2014