lunedì 23 marzo 2015

Canti,  riti e superstizioni attorno all’allevamento del baco da seta e alla filanda in Brianza.

La seta, in epoca romana, era regolarmente importata dalla Cina. Nello Stato di Milano la sua produzione si avviò nel XVI secolo, quale attività artigianale o domestica. Nel XVIII secolo incominciò ad affermarsi una piccola produzione industriale, che diventò molto più consistente nel secolo successivo. Il primo sviluppo si ebbe nel Lecchese e nel Comasco, sui territori dei quali l’allevamento del baco da seta si diffuse in gran parte dei borghi e delle cascine.
Le aree di maggior radicamento di questa attività divennero dunque quelle della Brianza sud-orientale, tra Lecco e Milano, e quella del Comasco, dove le condizioni contrattuali sembravano incentivare i coloni alla cura del gelso e dei bachi. Allevare questo animale era faticoso e impegnativo ed il lavoro era a carico quasi esclusivamente delle donne di casa. Le entrate aggiuntive ricavate dalla vendita dei bozzoli erano una manna per le esigue risorse della famiglia contadina. I bozzoli venivano venduti ai consorzi oppure direttamente alle filande che, a seguito delle operazioni di trattura, ovvero lo svolgimento del filo dalla crisalide del Bombix Mori, e incannatura e torcitura, ottenevano il filo di seta, che veniva poi avvolto su bobine oppure su rocche.

A san Zén se mèt la suménsa in sén
A san Giorg se mèt la suménsa al cold
Se i cavalèe in ben metü
a Santa Crùs han de vess nasü

Traduzione: A san Zeno (12 aprile) si mettono le uova (dei bachi) in seno / A san Giorgio (23 aprile) si mettono le uova al caldo / se i bachi sono messi bene, a Santa Croce (3 maggio) devono essere nati.

Mentre per tutto il XVIII secolo, e gran parte del XIX, in Lombardia, ma soprattutto in Brianza e nel Comasco, il ciclo completo della bachicoltura veniva svolto in modo artigianale nelle case dei contadini, solo a partire dall’ultimo ventennio del XIX secolo cominciarono a realizzarsi nuovi processi produttivi e trasformazioni in senso operaio e meccanizzato della lavorazione dei bozzoli e della seta. Le filande impiegavano quasi esclusivamente manodopera femminile: donne, ragazzine e fanciulle. Le condizioni di lavoro erano massacranti, gli stabilimenti malsani e rumorosi, l’orario di lavoro comprendeva un ciclo giornaliero che poteva arrivare a dodici-quattordici ore, compreso il sabato. Negli stabilimenti le lavoratrici non avevano diritti né tutele, erano soggette a rigorosi controlli sulle lavorazioni, se sbagliavano venivano multate, se protestavano potevano essere licenziate.

La diffusione del gelso nello Stato di Milano (secc. XVI-XVIII)
Anni
Numero di gelsi
Superficie
all’ombra
dei gelsi in ha
Inizio Cinquecento
          180.000
1.250
1580
          864.000
6.100
Inizio Seicento
       1.137.600
7.900
1769
       1.800.000
12.500
Fine Settecento
       2.160.000
15.000
Attorno a questo mondo di fatiche e di miseria nacque una tradizione popolare orale che si espresse attraverso canti, racconti e riti. Queste espressioni, che partivano direttamente dal popolo, potevano esplicitarsi sia in canti tradizionali di svago e sia in canti di protesta del mondo della filanda, contro i padroni e le condizioni di sfruttamento a cui venivano sottoposti i lavoratori. La bachicoltura, nella visione della cultura del mondo popolare contadino ha adattato o “aggiornato” fenomeni già esistenti, come le pratiche magiche e i riti arcaici, con la ritualità e le credenze cristiane. Nei locali dove si allevavano i bachi erano sempre esposte stampe popolari raffiguranti crocefissi, madonne e santi, a protezione del raccolto dei “galett”. Nel comasco era tradizione acquistare queste stampe alla fiera del Santo Crocefisso di Como.

Era molto frequente trovare questa immagine della Madonna nei locali ove veniva allevato il baco da seta

Un rituale che fondeva le pratiche pagane alle ritualità cristiane era denominato del Cristée, ossia di una manifestazione magico-protettiva nella quale la cristianizzazione rappresentava l’elemento esteriore e non principale. In alcuni comuni della Brianza milanese, lecchese e comasca, durante la settimana santa alcuni ragazzini del paese portavano nelle case una grande croce sulla quale erano stati infissi gli emblemi della Passione di Cristo. Entravano nei locali destinati all’allevamento del baco da seta e toccavano il soffitto con la croce, cantando inni sulla Passione. Il tutto era accompagnato dalla raccolta di offerte in natura.

O donn, sém vegnu a cantà ‘l Cristée
Per fa ‘ndà bei i cavalée
Se me darì un bel uvètt
Farem andà ben i vost galett.

Traduzione: Donne, siamo venuti a cantare il Cristée / per farvi andar bene i bachi / se mi darete un bell’ovetto / faremo andar bene anche i bozzoli.

Nel corso della seconda metà dell’Ottocento, in Brianza cominciarono e insediarsi gli stabilimenti di trattura, che incrementarono il loro numero fino agli anni Trenta del Novecento, per poi iniziare il definitivo declino dell’industria serica nella regione lombarda, avvenuto subito dopo la seconda guerra mondiale. Le condizioni di lavoro nelle filande, come già accennato, erano dure e le lavoratrici incontravano grosse difficoltà a reggere i ritmi e gli orari di lavoro, anche perché, fuori dalla fabbrica, venivano sottoposte ad altre fatiche, quali il lavoro nei campi, la gestione della nuova famiglia, nel caso fossero maritate, e la crescita dei figli.
 
 
Le condizioni di fatica delle donne sono espresse in più di una canzone.

Mamma mia mi son stüfa
e de fa la filerina,
ol cal e el poc a la matina,
ol provin do voeult al dì.
Mamma mia mi son stüfa
de sta chi a fa ‘ndà l’aspa,
voi andà in bergamasca
a trovar felicità. 
Mamma mia mi son stüfa
de sta chi a far sta vita
prem balos che me capìta
mi voi propri digh de sì.

Traduzione: Mamma mia io sono stufa / di fare la filandiera / il calo e il poco alla mattina / il provino due volte al giorno / Mamma mia io sono stufa / di star qui a fare andare l’aspa / voglio andare in bergamasca / a trovar felicità / Mamma mia io sono stufa / di star qui a fare questa vita / il primo furbo che mi capita / voglio proprio dirgli di sì.

La filanda di Imbersago in una foto dei primi del Novecento

E mi sun chì in filanda
specci che ‘l vegna sira,
che ‘l mè murus el riva
che ‘l me murus el riva
e mi sun chì in filanda
specci che ‘l vegna sira
che ‘l mè murus el riva
per compagnarmi a cà. 
Per compagnarmi a casa
per compagnarmi a letto
si lè un bel giovinetto
bravo di fare l’amor.

Traduzione: Io sono qui in filanda / aspetto che venga sera / che il mio fidanzato arrivi / per accompagnarmi a casa / per accompagnarmi a letto / è un bel giovinetto / capace di fare l’amore.

Son passata da Garlate
e ho visto le filandere
che sembravano prigioniere
con la faccia da ospitàl 
chi vuol scoltare scolti
non staga alle finestre
noi siamo le foreste
siam padrone di cantà. 
Evviva quei che canta
e martur quei che sculta
stan lì con vert la buca
spetà che vegnan giò 
con la faccia da ospitale
come cani alla catena
non è questa la maniera
di tenerci a lavorar 
chi vuol scoltare scolti … 
evviva quei che canta …
a cantare ghe dém fastidi
a parlare sém tutt vilani.
Torneremo alle montagne
torneremo ai nostri pais. 
chi vuol scoltare scolti … 
evviva quei che canta … 

Sulle lavoratrici delle filande e degli opifici si è detto e scritto molto. I loro canti sono stati registrati e trascritti, riproposti in diversi spettacoli, raccolti in libri e testi divulgativi. Tutto ciò che è stato raccolto e raccontato ha offerto l'occasione di unire sul filo della memoria e degli affetti alcuni momenti, problematiche e valori di intere generazioni di donne, per far sì che non si perdessero nell'oblio, ma che rimanessero con il loro carico di sofferenze e sacrifici, ma anche di affetti a legare storie individuali e famigliari che sarebbero andate perdute con la scomparsa delle loro protagoniste.

Beniamino Colnaghi

San Giobbe e la Madonna delle gallette
di Giorgio Mauri*

Un capitolo interessante è quello dedicato alle tradizioni popolari, alle superstizioni e ai riti sacri e profani sorti interno all’allevamento del baco da seta. Nella tradizione popolare il protettore dei bachi e dei suoi allevatori era san Giobbe. Il culto di questo santo è antichissimo e la sua origine molto complessa, come hanno rilevato, ad esempio, gli studi di Claudio Zanier. 
Rimane ancora molto da indagare per capire come dalla figura biblica di Giobbe, comune a cristiani e mussulmani – Job e Ayyub – sia sorta la leggenda che lega a questo personaggio sofferente e piagato l’origine del gelso e dei bachi da seta. Si tratta di una leggenda che si è diffusa nelle regioni della gelsi bachicoltura e con lei ha viaggiato. In Italia, probabilmente, è approdata nel XIV secolo. Nella seconda metà dell’Ottocento, Angela Nardo Cibele ha avuto modo di ritrovarla, pressoché intatta, in uno straordinario racconto contadinesco, raccolto nella zona di Belluno e Feltre. 
La leggenda, qui sintetizzata in italiano, narra la storia di Giobbe e delle sue sofferenze. 

Giobbe era un sant’uomo, e non faceva mai peccato. Una volta il diavolo disse al Signore: “Che meraviglia, se non fa mai peccato! Ha tutto quello che vuole!”
Allora il Signore disse: Fa’ di Giobbe quello che vuoi!”.
Il diavolo, per prima cosa, tolse a Giobbe tutte le sue ricchezze. Ma Giobbe non si lamentò, tolse a Giobbe tutte le sue ricchezze. Ma Giobbe non si lamentò. Allora gli mandò malattia. E Giobbe la sopportò. Il diavolo, allora, aggravò il male e il corpo di Giobbe si riempì di piaghe puzzolenti piene di vermi. Un giorno la moglie prese Giobbe e lo portò lontano da casa e lo pose sopra un letamaio: tutti coloro che passavano lo deridevano. Ma egli non si lamentava.
Intanto sul letamaio crebbe un albero dalle belle foglie verdi, che faceva a Giobbe una magnifica ombra e i vermi si arrampicarono sui rami dell’albero. Giobbe pregava sempre.
Allora il Signore, visto che Giobbe non commetteva mai peccato, andò dal diavolo e “Visto”, gli disse, “come Giobbe è stato paziente? Adesso su di lui comando io!”.
Il Signore diede a Giobbe il doppio delle ricchezze che possedeva e pose fine alla sua malattia.
Trasformò l’albero del letamaio in gelso e i vermi diventarono bachi da seta.
Giobbe poté tornare con la sua famiglia e diventò vecchio, ricco e contento. 

La leggenda è una testimonianza del processo di santificazione popolare del personaggio, che, però, vista la sua origine vetero-testamentaria e le contaminazioni leggendarie della sua figura, risultò per la Chiesa un santo scomodo, soprattutto nell’età della Controriforma. Si cercò allora di sostituirne il culto con quello della Madonna – La Madonna delle gallette – e di altri santi, ad esempio san Rocco, anche lui piagato ad una gamba, e sant’Isidoro, già protettore dei contadini. Ma il culto di san Giobbe durò tra il popolo e rifiorì, questa volta favorito anche dall’autorità ecclesiastica, soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento. Fu questo, infatti, il periodo della fioritura delle pitture murali raffiguranti il santo. In Brianza ne esistono vari esemplari – circa una trentina - dispersi tra le varie cascine.
La festa di san Giobbe era celebrata il 10 maggio.
Era devozione dei contadini di Brianza recarsi alla Madonna del Bosco, ad Imbersago, o alla chiesa del Lazzaretto di Oggiono, o, ancora, a Tremonico di Cassago, presso i moort de la Viscunta, cioè al mausoleo dei Visconti, dove era conservato un dipinto raffigurante san Giobbe. Qui si celebrava la festa del santo, detto Saiòp. I contadini portavano dei rametti di gelso e la carta di cavalée, comperavano i maistà, cioè le immagini del Santo Crocefisso di Como o di san Giobbe, da porre nei locali destinati all’allevamento dei bachi per proteggerli dalle formiche o dalle malattie.
*Storico erbese

Per approfondimenti sull’allevamento del baco da seta, il blog contiene anche altri due post che si possono leggere aprendo i seguenti collegamenti:


Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.