giovedì 24 gennaio 2013

27 gennaio: “Giorno della Memoria”

L’articolo 1 della legge 20 luglio 2000, n. 211 definisce così le finalità del Giorno della Memoria:
«La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati».
Se lo scrittore, poeta, partigiano Primo Levi oggi fosse vivo, sarebbe un distinto signore torinese di 93 anni e parteciperebbe volentieri alle commemorazioni per l’anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz da parte di un reparto dell’Armata Rossa, la mattina del 27 gennaio 1945.
Nel dicembre 1943 Levi venne arrestato dalla milizia fascista dalle parti di Brusson, in Val d’Aosta, e trasferito nel campo di Fossoli, in provincia di Modena. Nel febbraio 1944 il campo di concentramento e transito di Fossoli venne preso in gestione dai tedeschi, i quali avviarono Levi e altri prigionieri su un convoglio ferroviario con destinazione Auschwitz, in polacco Oświęcim. Il viaggio durò cinque giorni. All'arrivo gli uomini vennero divisi dalle donne e dai bambini e avviati alla baracca n. 30.
Auschwitz (foto nel pubblico dominio)

Il giorno della liberazione del campo Primo Levi era presente e così scrisse all’inizio del suo romanzo La tregua:
«La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Somogyi, il primo dei morti fra i nostri compagni di camera. Rovesciammo la barella sulla neve corrotta, ché la fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava: Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti.
Erano quattro soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi…Non salutavano, non sorridevano: apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche e avvinceva i loro occhi allo scenario funebre. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista…».
Beniamino Colnaghi

lunedì 14 gennaio 2013

Sant’Antoni del purcèll, un santo venerato anche in Brianza

La festa di sant'Antonio abate si celebra ogni anno il 17 gennaio. In passato era una delle ricorrenze più sentite nelle comunità contadine. La vita dell'uomo e le stagioni della natura con moto perpetuo si sovrapponevano, si integravano in un sistema ciclico entro il quale si realizzava il duraturo accordo tra natura, uomo e società. Il contadino, fino alla prima metà del Novecento, impiegava il suo tempo secondo il rigido calendario stabilito dalla natura. La presenza della Chiesa, inoltre, nel paese e nel piccolo villaggio, forniva ai contadini un solido criterio della misurazione del tempo scandito dalle funzioni religiose, dai periodici e giornalieri richiami alla preghiera e dalle celebrazioni di festività che ricongiungevano la comunità contadina al continuo ripetersi, anno dopo anno, degli eventi celebrati dalle Sacre scritture, da calendari e ricorrenze.

Oggi, nelle società che vengono definite post di qualsiasi cosa, le festività legate al mondo rurale ed alle tradizioni contadine sono meno diffuse. Alcune di esse permangono soprattutto grazie a pochi e testardi cultori delle tradizioni che le ricordano e le fanno rivivere in alcune zone rurali e nei paesi della provincia profonda, dove le tradizioni sono più radicate rispetto alle grandi città ovvero ad aree “compromesse” dalla progressiva e sistematica modificazione dell’ambiente naturale e distruzione dei luoghi sociali e del vivere comunitario. 

Nella cultura popolare, sant'Antonio abate veniva raffigurato con accanto un maialino. I contadini, per distinguerlo dall'altro Antonio, quello comunemente detto da Padova, lo chiamavano infatti sant'Antoni del purcèll, il quale spesso era rappresentato con lingue di fuoco ai piedi e aveva in mano un bastone alla cui estremità era appeso un campanellino. Per certi versi, nessun altro santo  entrò pesantemente nelle usanze e nel costume quotidiano brianzolo come sant’Antonio abate.

Sant'Antonio abate (foto nel pubblico dominio in quanto il copyright è scaduto)
 
Malgrado tutte queste connotazioni, attribuitegli da una tradizione secolare, in realtà Antonio aveva poco o nulla a che fare con la Brianza: era infatti un eremita ed un asceta tra i più rigorosi nella storia del Cristianesimo antico. Antonio, di cui conosciamo bene la vita grazie alla biografia scritta dal suo discepolo Atanasio, nacque in Egitto, a Coma, una località sul Nilo, intorno all'anno 250. Malgrado appartenesse ad una famiglia piuttosto agiata, mostrò sin da giovane poco interesse per le lusinghe e per il lusso della vita mondana: alle feste e ai banchetti infatti preferiva il lavoro e la meditazione, e alla morte dei genitori distribuì tutte le sue sostanze ai poveri. Compiuta la sua scelta di vivere come un eremita, si ritirò dunque in solitudine a lavorare e a pregare, dapprima nei dintorni della sua città natale e successivamente nel deserto, vicino a Tebe. Qui trascorse molti anni vivendo in un'antica tomba scavata nella roccia, lottando contro le tentazioni del demonio, che molto spesso gli appariva per mostrargli quello che avrebbe potuto fare se fosse rimasto nel mondo. A volte il diavolo si mostrava sotto forma di bestia feroce allo scopo di spaventarlo, ma a queste provocazioni Antonio rispondeva sempre con digiuni e penitenze. La sua fama di anacoreta si diffuse ben presto presso i fedeli, tanto che fu costretto, malgrado il suo desiderio di vivere distaccato dal resto del mondo, a cambiare più volte luogo per sfuggire ai curiosi. Malgrado conducesse una vita dura e piena di privazioni, Antonio fu molto longevo: si dice che la morte lo colse all'età di 105 anni.
 
I riti che si compiono ogni anno in occasione della festa di Sant'Antonio sono antichissimi e legati strettamente alla vita contadina e fanno di Antonio abate un vero e proprio “santo del popolo” e “santo tutto fare”. Egli era considerato il protettore per eccellenza contro le epidemie di certe malattie, sia dell'uomo sia degli animali. Era infatti invocato come protettore del bestiame, dei porcai, dei macellai e dei fornai e la sua effigie era in passato collocata sulla porta delle stalle.

Era anche conosciuto come il “mercante di neve” in quanto metà gennaio era il periodo più nevoso dell’anno. Il santo veniva invocato per scongiurare gli incendi, e non a caso il suo nome è legato ad una forma di herpes zoster, nota appunto come "fuoco di sant'Antonio" o "fuoco sacro". Venerato a gennaio, mese che anticamente in Brianza vedeva la celebrazione dei matrimoni, era invocato dalle ragazze da marito che cantavano "Sant'Antoni gluriùs, damm la grasia de fa 'l murùs, damm la grasia de fal bèll, Sant'Antoni del campanèll".

La festa di sant'Antonio abate è oggi abbastanza viva in Brianza, dove la si celebra tra bancarelle, frittelle e vin brûlé, e soprattutto tra i falò. Antonio, come abbiamo visto, era infatti considerato il patrono del fuoco. Secondo alcuni i riti attorno alla sua figura testimoniano un forte legame con le culture precristiane, soprattutto quella celtica e druidica. E' nota infatti l'importanza che rivestiva presso i Celti il rituale legato al fuoco come elemento beneaugurante. 
 

Intorno al fuoco la gente del posto cantava anche qualche canzone tramandata oralmente da padre a figlio. Ad esempio, in un grosso comune della Brianza monzese si cantava così:

Sant’Antoni di purcei el sunava i campanei;
i campanei s’inn rumpü, Sant’Antoni el s’è scundü;
el s’è scundü sutt a una porta, gh’era là una dòna morta;
gh’era pizz i candilé, Sant’Antoni el gh’è andaa a dré;
el gh’è andaa a dré fin al vapur, Sant’Antoni l’era un sciur;
l’era un sciur senza pecaa, Sant’Antoni el s’è salvaa;
el s’è salvaa in Paradis, Sant’Antoni e San Lüis. 

Il 17 gennaio in molti paesi della Brianza si benediceva il bestiame. In alcuni comuni tra i più grossi, dopo la benedizione si andava nelle fiere del bestiame e si chiudeva il tutto con una processione durante la quale i fornai portavano ai piedi della statua del santo le loro offerte.

Dopo essermi documentato su alcune e differenti fonti locali ed aver sentito oralmente residenti dei comuni interessati ho constatato, con un certo stupore, che sono ancora parecchie le località, più o meno grandi, nelle quali si festeggia sant’Antonio abate. Le più vicine a Verderio sono Ronco Briantino, in provincia di Monza-Brianza, e Brivio, in provincia di Lecco.

A Ronco, nella parrocchia di S.Ambrogio ad Nemus, al termine della Messa solenne il parroco esce sul sagrato della chiesa e benedice il bestiame, nonché i trattori ed i mezzi agricoli. “Nei tempi andati” i contadini che avevano animali ammalati nelle stalle, facevano benedire alcune manciate di sale che poi mescolavano al cibo dato al bestiame.
 
Brivio, il falò sull'Adda (foto tratta da Merateonline.it)
 
A Brivio, nel Burgh di Tàter, anche quest’anno un efficiente comitato festeggiamenti ha organizzato un denso programma di iniziative in onore di sant’Antonio abate: sante messe, benedizione del sale e del pane di sant’Antonio, vespri e momenti di preghiera, offerta di piatti tipici della cucina brianzola, benedizione degli animali domestici, solenne processione per le vie del borgo con la statua del santo e, per terminare in bellezza la giornata del 17, “Giochi di luce sull’Adda, falò e fuochi pirotecnici”.

Insomma, una festa i cui caratteri salienti riguardano il tentativo di mantenere il culto effettivamente diffuso e radicato delle buone tradizioni nella vita quotidiana dei brianzoli e, non da ultimo, attraverso un fenomeno religioso, potenziare le relazioni sociali e interpersonali degli abitanti del luogo e creare un buon auspicio per il futuro.

Beniamino Colnaghi
 

mercoledì 2 gennaio 2013

Vecchie storie di Milano: la Pusterla dei Fabbri

Le cinte murarie erette a protezione della città di Milano furono tre: la prima risalente all'epoca romana, sotto il principato di Ottaviano Augusto, che subì in seguito un ampliamento, la seconda medievale e l’ultima risalente all'epoca della dominazione spagnola.

Bonvesin de la Riva, magister, o doctor gramaticae, poeta, terziario dell'Ordine degli Umiliati nel volume "De magnalibus Mediolani" del 1288 scrive che Milano, Mediolanum, ebbe le prime mura alla fine della repubblica romana.
Le due strade principali che convergevano sulla Milano romana s'identificavano con il decumano massimo, dalla Porta Romana alla Porta Vercellina e il cardine massimo dalla Porta Ticinese. Con Massimiano Erculeo la città fu ampliata e difesa da una nuova cerchia di mura, a sud-est la cinta muraria si collegava al Circo e proseguiva verso il Carrobbio di Porta Ticinese e le vie S.Vito, dei Cornaggia, Paolo da Cannobio e via Delle Ore.
Nel 1338 Azzone ristrutturò le vecchie porte o posterle, rinforzandole e ponendovi un'immagine sacra di Madonna a difesa della città e costruì la seconda cinta di mura.
La terza cinta risale, invece, a Ferrante Gonzaga, governatore del Ducato di Milano, che ne decise la costruzione nel 1546 in nome di Filippo II di Spagna. Le mura di Ferrante Gonzaga furono un'opera esclusivamente militare, costruite come fortificazioni per proteggere la città, i borghi ed il terreno coltivato. Il circuito coincideva con quello del fossato del Redefossi, ove vennero confluite le acque del Seveso. Le porte di Milano sino al 1787 furono un semplice varco nelle fortificazioni, il ruolo era permettere il passaggio di persone e di merci in entrata ed uscita (con applicazione del dazio).


Le mura di Milano - Mappa del 1573
Per capire come dovevano essere le porte nelle nuove mura di Mediolanum possiamo prendere ad esempio la Porta Pretoria di Aosta o quella Palatina di Torino, di età augustea, poiché esisteva per volontà di questo imperatore una scuola di architetti-urbanisti che uniformava i modelli, come sotto qualsiasi regime totalitario. Le porte avevano spesso il nome della via su cui uscivano. A Mediolanum erano note la Porta Comasina per Como, la Romana in direzione per Roma, la Vercellina per Vercelli-Novara, la Ticinese per Ticinum (Pavia) e l’Argentea, o Orientale. Fa eccezione la porta sull’area dell’attuale Castello Sforzesco che si chiamò Giovia, tradizionalmente in onore di Diocleziano Giovio nel 286 d.C., ma esiste una lapide che cita un Collegium iumentariorum portae Vercellinae et Ioviae che può fornire un’indicazione per la datazione. Lo stesso discorso vale per la porta Erculea, in onore di Massimiano Erculeo, aperta sull’area dell’attuale Verziere in direzione di Lambrate. La porta mutò nuovamente nome alla fine del IV secolo, quando si aprì sulla strettoia derivata dalla costruzione dell’antemurale di Stilicone e si chiamò Tonsa, tagliata.

Milano - Porta Comasina
Di tutte e tre le cinte murarie rimangono solo poche tracce; le mura hanno subìto il medesimo destino di gran parte degli edifici storici di una città che ha avuto la peculiarità di continuare a distruggere le tracce del passato per ricostruirsi riutilizzandone i materiali.
Milano - Porta Romana in una foto dei primi del Novecento

Sempre secondo il Bonvesin de la Riva, oltre le mura e le porte principali, vi erano nove porte minori, forse dieci, comunemente dette pusterle: Pusterla di MonfortePorta Tosa, Pusterla Lodovica (già Pusterla di Sant'Eufemia), Pusterla della ChiusaPusterla dei FabbriPusterla di Sant'AmbrogioPusterla delle AzzePusterla Beatrice (già Pusterla di San Marco), Pusterla del Borgo Nuovo. Le pusterle erano piccole porte che si aprivano nelle mura della città. Infatti, secondo il Vocabolario Milanese-Italiano di Francesco Cherubini, pusterla è “una specie di seconda porta che per lo passato si usava quasi sempre tra la porta di via e il cortile delle nostre case, e invece della quale usa oggidì comunemente un cancello di ferro o di legno”.

Pusterla di Sant'Eufemia diventata poi Pusterla Lodovica

Le demolizioni o il rimaneggiamento delle mura, considerate ormai soltanto d'intralcio alla viabilità cittadina ed a disastrosi progetti urbanistici, iniziarono nella seconda metà dell’Ottocento e furono ultimate nell'immediato secondo dopoguerra.

In merito allo sciagurato e contestato abbattimento della Pusterla dei Fabbri, nelle principali biblioteche milanesi è catalogato un opuscoletto scritto da Luca Beltrami, Allegretti editore, anno 1900. Il suo contenuto narra lo sdegno dell’autore, prestigioso e autorevole architetto milanese del secolo scorso, circa la demolizione di quello che poté configurarsi come l’ultimo esemplare di varco fortificato ad un solo fòrnice. Il racconto di queste vicende, documentate da fotografie e da bei disegni, porta la seguente sarcastica lapide:

Ai consiglieri del Comune
Edoardo Banfi, Giuseppe Bardelli, Carlo Bozzi,
Alberto Castelbarco Albani, Luigi Conconi, Luigi Della Porta,
Francesco Lovati, Francesco Pugno
che soli si opposero
alla demolizione della Pusterla dei Fabbri
Il 6 marzo 1900

La Pusterla dei Fabbri era una delle porte minori poste sul tracciato medievale delle mura di Milano. Situata lungo la strada di San Simone, dal nome dell'omonimo oratorio, ora Teatro dell'Arsenale, sorgerebbe oggi al termine dell'attuale via Cesare Correnti. Nel corso della sua storia, assunse diverse denominazioni, a partire da quella di Fabia, ereditata da una precedente pusterla di epoca romana. Questa pusterla, dedicata in onore di Quinto Fabio Massimo detto il cunctator era da molti considerata già al tempo un'intitolazione ai sacerdoti Fabi, depositari del culto di Giove, che avevano il proprio tempio sulla successiva chiesa di San Vincenzo in Prato. Altri ancora, rifacendosi a un documento cartaceo del tempo, riconducevano il nome al fatto che la pusterla si sarebbe trovata ad cassinam quae dicuntur "de fabis". Un altro ancora, citato in un'iscrizione scoperta nella stessa chiesa, si rifaceva già al tempo ad un presunto vicus fabrorum. L'ultima attestazione della Pusterla dei Fabi si ebbe nel 1221 con denominazioni come Pusterla delle Fave o dei Favreghi. Solo successivamente avrebbe assunto la denominazione di Pusterla dei Fabbri, che avrebbe mantenuto fino alla sua demolizione, avvenuta, come detto, nel 1900. Quest'ultima si riferiva comunque a un tessuto sociale ben consolidato nel corso dei secoli nella zona, che si era via via popolata delle botteghe di molti fabbri ferrai, confinati lontano dall'abitato ai margini della città per la loro particolare rumorosa attività, che necessitava inoltre dell'acqua del Naviglio.
 
Pusterla dei Fabbri


La Pusterla dei Fabbri venne eretta nel corso del Trecento, in concomitanza con la realizzazione delle mura medievali. L'edificio si sviluppava su una sola arcata, sovrastata da una torre quadrangolare con la presenza di due varchi verso città e verso campagna. Senza particolari pregi la porta interna, di una certa imponenza e raffinatezza l’arco rivolto verso l’esterno.
 
Pusterla dei Fabbri
 Con la demolizione di un tratto di mura medievali adiacente, la Pusterla dei Fabbri rimasta intatta venne affiancata da diverse nuove abitazioni ricavate da edifici sorti a ridosso del Naviglio, che finirono per sovrastare la pusterla. Nel 1877 il Comune di Milano avanzò la proposta di un'eventuale demolizione della Pusterla dei Fabbri, nominò due apposite commissioni che analizzarono diversi rapporti e pareri. La sostanziale parità, tuttavia, fra i pareri negativi e favorevoli alla demolizione portò a una sostanziale immobilità della questione, che si protrasse per decenni. L’arch. Luca Beltrami non ci sta: nel mese di marzo del 1888 presenta un esposto alla Giunta di Milano, nel quale si sottolinea il valore storico-artistico del manufatto altomedievale, dimostrando che la costruzione antica non intralcia il nuovo tessuto viario in fase di progettazione e fa voto affinché l’arco venga mantenuto in loco “una volta liberato dalle costruzioni che lo han quasi soffocato”. Anche la Società Storica Lombarda spinse energicamente per la conservazione della vecchia pusterla, ritenendolo l'ultimo esempio delle nove o dieci pusterle che, nelle mura della Città, si interponevano alle sei porte maggiori. Un quotidiano cittadino arrivò a ironizzare sul guadagno in caso di demolizione, che ammontava a 10.000 lire, sostenendo, a quel punto, che conveniva proporre qualche pezzo del Duomo ai Musei della città di Londra, notoriamente interessati all'acquisto di simili antichità, e sempre pronti a generosi pagamenti.

Tuttavia a nulla valsero queste prese di posizione, anche autorevoli. Con furbi stratagemmi e pretestuose giustificazioni, del tipo “esigenze della nuova viabilità” e “attuali condizioni inopportune per la pubblica sicurezza e pulizia della località”, la commissione comunale si orientò verso la demolizione.

Siamo ormai alla vigilia elettorale per il rinnovo del Consiglio. La Giunta pone all’ordine del giorno d’una delle sue ultime sedute la proposta di demolizione della pusterla. Ma la votazione in Consiglio dà però esito a sorpresa, e la proposta di demolizione viene respinta. Le elezioni parziali del giugno 1899 portano in Comune il commissario, mentre quelle di dicembre vedono la vittoria di radicali, socialisti e repubblicani. Viene eletto sindaco Giuseppe Mussi. Gli aventi interesse alla costruzione speculativa sull’area della pusterla sono nel frattempo tornati alla carica con una petizione di comodo “coperta da numerose firme di abitanti del quartiere di Porta Genova” che chiedono “un giardino o una piazza, dando miglior vita e aspetto al posto”. La nuova Giunta, confortata da un’offerta di 10mila lire, rimette in votazione la pratica. Tutti votano per la demolizione della Pusterla dei Fabbri, salvo gli otto cui è dedicato l’opuscolo del Beltrami.

Gli interventi di demolizione della Pusterla dei Fabbri nel corso del 1900
 
La pusterla viene pertanto demolita nei mesi subito successivi, e il salvabile viene preservato e donato ai musei del Castello Sforzesco. Anticamente, sopra l'arco della Pusterla dei Fabbri, fra le inspiegabili lettere HAS a sinistra e TA a destra, era collocato il busto di un giovane, dalla testa turrita. Questa scultura, che si diceva romana, si riteneva comunemente che rappresentasse Imeneo, divinità greca protettrice delle nozze pagane. La tradizione del tempo voleva che gli sposi vi si recassero in corteo a rendergli omaggio, distribuendo dolci, mentre i bambini gridavano "Cica, Cica, Laminè! Laminè!", ossia, "a Porta Cicca, all’Imeneo"). Fu Carlo Borromeo a proibire questo rito pagano, che scomparve del tutto con la rimozione stessa del busto, verso la fine del XVII secolo.

In seguito alla demolizione della pusterla, la testa turrita di Imeneo, insieme alle lettere HAS e TA, finì alla Pinacoteca Ambrosiana. 
 
Beniamino Colnaghi

Nota: Le fotografie pubblicate sono nel pubblico domino in Italia e il termine di copyright è scaduto. 

venerdì 21 dicembre 2012

Leggende dal ghetto di Praga: Mordechai Maisel
 

Sull’argomento che riguarda l’insediamento dell’antico popolo ebraico a Praga e nelle terre boeme è stato pubblicato un post nel mese di novembre 2012, dal titolo “Gli Ebrei in Boemia”. Ora racconterò alcune leggende e storie di personaggi e fatti avvenuti, molti e molti anni fa, nel ghetto ebraico praghese. Questo post tratta la vita e le imprese di Mordechai Maisel, famoso fra gli ebrei per la sua modestia e generosità a favore della comunità praghese.

A causa dell’oscurità e del brutto tempo, la carrozza del Primate della comunità ebraica di Praga smarrì la strada e si perse in un fitto bosco. Improvvisamente i cavalli si fermarono, iniziando a fremere e impennarsi. Quando il cocchiere cercò di comprenderne la causa, da lontano, oltre gli alberi, vide una luce abbagliante. Rabbi Jizchak, il presidente, si avvicinò al luogo da dove proveniva la luce e si accorse che, in realtà, si trattava di un grosso fuoco alimentato da due piccoli omuncoli, i quali stavano riempiendo dei piccoli sacchi con monete d’oro e d’argento incandescenti. Terminato il lavoro, uno degli ometti, prima di andarsene, disse al Rabbi che le monete erano per una persona del suo popolo e che, se avesse voluto, avrebbe potuto scambiare alcune monete d’oro che giacevano a terra con altro denaro. Il Rabbi tirò fuori dal suo borsellino tre monete, che scambiò con quelle d’oro.

Il simbolo di Praga nel Pentateuco del 1530
 
Tornato alla sua carrozza, il Primate fece appello al volere di Dio per cercare di capire chi potesse essere il benefattore. Avvolse le tre monete d’oro ognuna in un pezzo di carta e ne lasciò cadere una fuori dalla finestra, sulla strada sottostante. Dopo un po’ di tempo saltò fuori un ragazzino di strada, a piedi nudi e con gli abiti logori, il quale si guardò attorno e con uno scatto veloce prese la moneta da terra e corse via. Il secondo giorno il Rabbi compì la stessa operazione, ma la moneta d’oro venne presa nuovamente dallo stesso ragazzo. Strano, borbottò sorpreso l’erudito Rabbi, come sono imperscrutabili le vie del Signore. Il terzo giorno la storia puntualmente si ripeté. Rabbi Jizchak, a quel punto, non ebbe più dubbi che quel ragazzo, al momento così povero e dall’aspetto trasandato, un giorno avrebbe ricevuto la grande quantità d’oro che aveva visto nel bosco.

Due giorni più tardi il giovane fu costretto a presentarsi al Rabbi. Timidamente raccontò di aver trovato le monete d’oro per strada, poiché il ritrovamento gli era stato indicato in un sogno. Ora avrebbe voluto restituire tutto al legittimo proprietario, secondo la legge di Mosè. A quel punto il Rabbi chiese: “Perché vorresti restituirle se nessuno ti ha visto? Chi ti avrebbe mai scoperto?”. Il ragazzo rispose onestamente: “Me ne guardi il Dio di Israele. Preferisco essere povero e giusto, piuttosto che arricchirmi in modo proibito. Ecco, queste sono le Vostre tre monete d’oro.” “Dio ti benedica. Sì, tu sei degno di essere il favorito del nostro Dio”, rispose commosso il Primate.

Avendo saputo il nome del ragazzo e la sua provenienza, Rabbi Jizchak andò a far visita ai genitori del giovane i quali, in quello stesso momento, erano seduti a tavola. Il padre fece accomodare il Rabbi, il quale espresse subito ai genitori il desiderio di prendersi carico di Mordechai: voleva educarlo e farlo studiare come se fosse suo figlio. Alle obiezioni sollevate dal padre sul fatto che con i figli non si fanno commerci e che Mordechai era l’unico figlio rimastogli di otto, Rabbi rispose che il suo unico intento era quello di averlo a casa sua per alcune ore, affinché potesse studiare e diventare un uomo perbene. I due genitori, impreparati ad una simile offerta, ebbero solo il tempo di dire: “E’ stato stabilito da Dio; voglia far scorrere la Sua grande benedizione celeste attraverso il lavoro delle Vostre mani.”

La sinagoga Maisel a Praga
 
Per il giovane Maisel trascorsero rapidamente e piacevolmente cinque anni. Era diventato un bel giovanotto ed aveva acquisito sapienza e conoscenza. Il suo buon cuore era rimasto immutato nella disponibilità verso i poveri genitori. Quando il giovane Mordechai compì vent’anni, il Rabbi lo fece fidanzare con sua figlia Sulamit, di sedici anni. Un anno più tardi la coppia si sposò nel cortile della Sinagoga Vecchia-Nuova. Quando i sette giorni di festeggiamenti di nozze furono trascorsi, Rabbi Jizchak pensò fosse giunto il momento di andare a prendere i sacchi d’oro promessi a suo genero.

Verso sera giunsero nel bosco, ma non trovarono nessuna traccia dei sacchi pieni d’oro. Il Rabbi andò ancora molte volte, ma inutilmente. Nella sua delusione, divenne giorno dopo giorno sempre più insofferente nei confronti di suo genero il quale decise di andare ad abitare, insieme alla moglie Sulamit, in un appartamento e di non vivere di carità nella casa del Rabbi.

Rilevò il piccolo negozio di sua madre e lo trasformò, in breve tempo, in una florida attività commerciale, riuscendo nel contempo a dare rifugio e ristoro a bisognosi e oppressi.
Un giorno un misero contadino, vestito di un lercio camice, si presentò nel suo negozio e propose a Mordechai uno scambio: “Signore, non ho denaro da darvi, ma ho assoluto bisogno di alcuni attrezzi per il mio lavoro. In cambio vi darò una grossa cassa di ferro che nessuno è mai stato in grado di aprire.” Detto fatto, il contadino consegnò la cassa presso il negozio del giovane Maisel, il quale, la sera stessa, tentò di aprirla, ma non appena la toccò il coperchio si sollevò da solo e lo stupefatto commerciante vide che conteneva sacchetti pieni di brillanti monete d’oro. A quel punto Maisel era diventato uno degli uomini più ricchi di Praga, ma si guardò bene dal farlo sapere in giro. Non lo disse nemmeno a sua moglie.

L'arca della sinagoga Maisel
 
Trascorso un anno da quel giorno, Mordechai Maisel andò dal rabbino capo e disse: “Signore, il Dio di Israele ha benedetto il lavoro delle mie mani ed io mi sono prefisso di costruire una casa nella quale il Suo nome venga lodato. Questo è l’oro che servirà per costruirla. Desidero che la sinagoga sia bella come nessun altra a Praga, ma vi chiedo di non fare il mio nome.”
La nuova sinagoga venne inaugurata durante un giorno di festa. Le persone più eminenti erano presenti ed il Rabbi tenne un discorso che arrivò dritto al cuore e che terminò con una preghiera: “Salute a Te, Israele, che hai uomini così valorosi! Fatti avanti, tu modesto Saul! Perché ti nascondi tra la gente?” Nel dire questo indicò proprio Mordechai Maisel.

La volta della sinagoga Maisel

Mordechai rimase ricco per tutta la vita, senza perdere né la devozione né l’umiltà. Non accettò mai onorificenze e la sua modestia venne da tutti presa ad esempio: “Maisel non ha un sedile nel tempio.” Le sue opere di carità possono essere lette ancora oggi nella sinagoga Maisel, scritte in versi ebraici imperfetti, scolpiti nel marmo. La sua vita fu tutta una catena ininterrotta di opere di bene.

Dopo la sua morte, non avendo avuto eredi, il patrimonio di Mordechai Maisel fu dichiarato illegittimo dalle autorità, le quali disposero la confisca dell’intera eredità per realizzare i loro scopi.
Per sua fortuna, Mordechai non venne mai a saperlo.

Beniamino Colnaghi

 
Riferimenti bibliografici

AA.VV. Collezione praghese di leggende ebraiche, nuova raccolta rivista,Vienna e Lipsia, 1926.
Chajim Bloch, “Der Pragher Golem” (Il Golem di Praga), Berlino, 1920.

giovedì 6 dicembre 2012

Il “Maglificio G. Baraggia” a Verderio Superiore

Il dato più attendibile circa il significato e l’origine del cognome Baraggia ci conferma che “la baraggia” è l’area pedemontana che dalle Prealpi, site sotto il massiccio del Monte Rosa, si sviluppa verso il piano a terrazzi o in lieve graduale declivio verso sud est. La baraggia è una terra che prende il suo nome dalla brughiera, ovvero un tipo particolare di landa ricoperta da brugo o erica, arbusto sempreverde. In tempi antichi, questo tipo di vegetazione la rese un luogo ideale per i pascoli invernali delle greggi transumanti dalle Alpi biellesi. Con i secoli e con una capillare quanto ingegnosa opera di canalizzazione, parte della baraggia è stata trasformata in risaia. Il riso è l’unica coltura che può sopravvivere a questo tipo di terreno e di habitat ed assume delle caratteristiche morfologiche e qualitative uniche.

La baraggia vicino a Biella
Il cognome Baraggia, seppur oggi non sia molto diffuso, pare abbia preso piede qui in Brianza verso la fine del Settecento. Dalle informazioni raccolte e dai contatti avuti con alcune persone del luogo, risulterebbe che alcuni antenati delle attuali famiglie Baraggia oggi presenti prevalentemente nelle province di Monza-Brianza, Milano e Lecco, si trasferirono dal Piemonte in alcuni comuni brianzoli.
Questo dato mi è stato confermato dal sig. Ismaele Baraggia, figlio di Giuseppe, fondatore del “Maglificio G. Baraggia“, di cui parlerò più avanti.
Il sig. Abele Biffi, già sindaco di Aicurzio fino ai primi anni Novanta, persona di vasta conoscenza storica, è andato oltre, informandomi che una patriarcale famiglia Baraggia possedeva un mulino a Paderno d’Adda, tanto è vero che venne soprannominata Murnèe, mugnai.
Un componente di questa famiglia si trasferì a Sulbiate Superiore dove iniziò anch’esso l’attività di mugnaio. Ebbe parecchi figli, alcuni dei quali continuarono la tradizione di famiglia, ampliandola successivamente con l’attività di panettiere, che estesero anche ad altri comuni limitrofi, uno dei quali fu Aicurzio.

La chiesa di Aicurzio
Non seguì la stessa strada Francesco Baraggia, soprannominato Cicö, nato ad Aicurzio e sposatosi con Luigia Robbiati, detta Bariöla, dalla quale ebbe quattro figli: Teresa, Nina, Battista e Giuseppe. Francesco e la moglie aprirono una merceria in paese che ben presto, con l’aiuto delle figlie maggiori, ampliò le proprie attività nel settore della maglieria. Nel centro storico di Aicurzio possedevano alcuni locali ove abitavano e svolgevano la loro piccola attività commerciale, che con gli anni si ingrandì.
Il sig. Abele Biffi mi ha confidato che, seppur a quel tempo fosse un bambino, si ricorda bene di Cicö che vendeva la merce prodotta spostandosi in bicicletta da un cortile all’altro del paese e nelle cascine periferiche.
Uno dei figli maschi della coppia nacque ad Aicurzio nel 1906 e venne chiamato Giuseppe.
Trascorsa la giovinezza e l’adolescenza in paese e lasciate alle spalle le macerie di morte e miseria prodotte dalla Prima guerra mondiale, il giovane Giuseppe si buttò nell’attività di famiglia, contribuendo a risollevare la precaria economia domestica.
Nei primi anni Trenta conobbe Pasqualina Pirola di Vimercate che svolgeva la professione di sarta. Era una buona sarta, la sig.ra Pasqualina, perché, lavorando in una sartoria di Milano, imparò le tecniche sartoriali e cominciò a disegnare modelli e produrre abiti su misura.
Giuseppe e Pasqualina decisero di sposarsi nel 1935 a Vimercate.

Il secondo obiettivo della coppia fu quello di mettersi in proprio, tanto che decisero di prendere in affitto un piccolo immobile e installarci un maglificio. Sì, ma dove?
Cercarono ad Aicurzio e nei paesi limitrofi. La scelta cadde su Verderio Superiore, in quanto fu loro offerta in affitto una porzione di stabile di proprietà della famiglia Gnecchi-Ruscone. L’immobile in parola esiste ancora oggi ed è ubicato in via Principale, tra la sede di una banca e la gesa vegia, la chiesa vecchia. E’ un bell’edificio in mattoni, tuttora ben conservato e mantenuto. I Baraggia ebbero la fortuna di trovarlo libero perché, nel 1936, la ditta “Arte del ferro”, rinomata fabbrica di ferro battuto, chiuse l’attività e liberò l’immobile, che fu occupato, dopo gli opportuni adeguamenti, dalla famiglia Baraggia nella parte posteriore e dalla tessitura Comi nella metà che si affaccia su via Principale.

Verderio Superiore: edificio che fu sede del "Maglificio G.Baraggia"
Giuseppe Baraggia e la moglie acquistarono tutto l’occorrente per impiantare una nuova fabbrica, in particolare si dotarono di macchine di maglieria a mano Dubied, società svizzera che produceva macchine rettilinee tra le migliori sul mercato. Ed il maglificio iniziò la produzione a Verderio Superiore, nel mese di luglio del 1937. Il sig. Ismaele Baraggia, il primogenito dei fondatori, dal quale ho avuto le principali informazioni che mi hanno permesso di scrivere questa storia, mi ha riferito che il maglificio occupava circa 30 dipendenti, tutte donne e ragazze di Verderio, contribuendo, per la sua parte, a garantire occupazione ed incrementare i redditi di alcune famiglie locali.



Macchina di maglieria rettilinea a mano Dubied
I prodotti finiti, sia di lana sia di cotone, erano di buona qualità ed i modelli rispecchiavano le mode dell’epoca. Una quota di produzione veniva venduta ad alcuni commercianti locali mentre una parte della maglieria era venduta direttamente dal titolare, che installava i banchi vendita nei più grossi mercati di alcuni paesi comaschi e monzesi.
A tre anni dall’apertura dell’attività, malgrado l’entrata in guerra dell’Italia, la produzione non solo non cessò, ma le richieste di maglieria aumentarono, in quanto alcuni maglifici chiusero i battenti a causa dei bombardamenti e, inoltre, la politica autarchica fascista privilegiò la produzione nazionale.
Terminata la Seconda guerra e nella scia della ricostruzione del Paese, i coniugi Baraggia, oltre ad aver aumentato i componenti della famiglia con l’arrivo di due figli, ebbero una giusta intuizione: costruire un nuovo e più grande stabilimento al fine di ampliare l’attività e aumentare la produzione. Giuseppe Baraggia cercò un’area idonea, sempre a Verderio Superiore. Individuò un terreno in via Rimembranze, adiacente la chiesa parrocchiale, ma la famiglia Gnecchi, proprietaria del lotto, non vendette. Allora, a malincuore, guardò altrove. Gli venne indicata un’area su cui sorgeva una fornace, ormai in disuso, insistente sul territorio del Comune di Paderno d’Adda. La fornace, che produceva mattoni, e l’area attigua, prendevano il nome di Genasa, presumendo che derivasse dal nome, o dal soprannome, del proprietario.
L’affare fu fatto. L’area era bella e verdeggiante e abbastanza grande per costruirvi lo stabilimento e la villa padronale. Nel 1947 gli edifici furono approntati e la produzione cominciò. 
Il “boom economico” degli anni Sessanta e la capacità dei titolari di saper comprendere gli orientamenti del mercato e le nuove tendenze in atto fecero incrementare la produzione e il fatturato. Nella metà degli anni Sessanta, grazie all’aumento della richiesta ed allo sviluppo della produzione, l’occupazione raggiunse le 90 unità. La maggior parte delle maestranze e delle operaie provenivano dai due Verderio; ciò anche grazie ad un reciproco atto di stima e fiducia che è sempre intercorso fra i titolari e le dipendenti.

Nel 1965 muore il fondatore, Giuseppe Baraggia, e la direzione passa alla moglie ed al figlio maggiore, Ismaele, i quali, per cercare di arginare la concorrenza sempre più agguerrita che arrivava dai nuovi poli tessili e magliai, tra i quali Carpi e Gallarate, tentarono di percorrere nuove e più impegnative strade. L’idea fu quella di porre la qualità al centro delle produzioni.
Vennero acquistate nuove e moderne macchine di maglieria circolari e rettilinee, Dubied, Stoll, Protti e telai Cotton, veloci e multifunzionali, che consentirono una maggiore produzione e la riduzione dei costi. Verso la fine degli anni Sessanta i titolari tentarono di entrare nel mondo del prêt-à-porter e, nei primi anni Settanta, si avvalsero della collaborazione e della professionalità di un giovane architetto di Legnano, Gianfranco Ferrè.

Gianfranco Ferrè
Ferrè creò il marchio Blu 4, una nuova linea di moda, un mix sportivo ed elegante che incontrò il favore dei giovani e del nuovo ceto medio emergente, e innovò modelli, scelse nuovi colori e usò filati più pregiati. In questa sua ricerca fu aiutato dall’esperienza che lo stilista fece in India, dove visse per alcuni anni. Ma lo stilista legnanese, colto, raffinato e dalle idee innovative, non rimase a lungo in un maglificio di provincia: la maison Dior lo chiamò a Parigi e il marchio “GFF” divenne famoso in tutto il mondo. La concorrenza cinese e asiatica, gli alti costi, la burocrazia asfissiante e la difficoltà del sistema industriale italiano ad adeguarsi ai tempi fecero il resto.

Il “Maglificio Giuseppe Baraggia” chiuse le attività nel 1983.
Uno ad uno, uno dietro l’altro, gli storici maglifici di Paderno d’Adda hanno chiuso tutti. Il nostro territorio ha perso, per sempre, non solo risorse e posti di lavoro, ma anche antichi saperi artigiani e preziose manualità e capacità di centinaia e centinaia di donne brianzole.

Beniamino Colnaghi

venerdì 23 novembre 2012

“La Zanzara” del liceo Parini di Milano

Nel lontano mese di febbraio 1966, La Zanzara, il giornale dell’associazione studentesca del liceo Parini di Milano, pubblica il risultato di un’inchiesta condotta su un campione di nove ragazze, scelte a caso tra le studentesse della scuola. Il “Liceo Ginnasio Statale G.Parini” era riconosciuto come il più severo e autorevole liceo italiano, tanto che la Normale di Pisa accettava anche studenti con una maturità inferiore di un punto rispetto alla soglia di ammissione se questo allievo proveniva dal Parini. Era anche la scuola della buona borghesia milanese, dei Rizzoli, dei Pirelli, dei Bassetti.

Il liceo Parini

Sul numero tre de La Zanzara, che sarebbe uscito entro pochi giorni, venivano riportate opinioni sul comportamento sessuale, la religione, la limitazione delle nascite, i rapporti con la famiglia, il libero amore e così via. Ma ancora prima che il numero venisse distribuito fuori dei cancelli dell’istituto, le prime indiscrezioni sull’iniziativa sociologico-sessuale dei suoi redattori erano già circolate. Lo scandalo era già pronto per scoppiare. Al Parini cominciava a montare la polemica: i professori protestavano, un gruppo di “pariniani cattolici” firmava un duro manifesto contro il numero in uscita, alcuni genitori erano in preallarme. La mattina dopo i quotidiani milanesi dedicavano largo spazio alla notizia. Poche ore più tardi, il procuratore della Repubblica incaricava il vice questore di condurre un’inchiesta, il preside del Parini veniva convocato in questura, il provveditorato agli studi cercava di capire cosa stava succedendo, un deputato liberale presentava un’interrogazione al ministro della Pubblica Istruzione.

La copertina del numero 3 del febbraio 1966

I personaggi della storia sono diversi: c’è La Zanzara con i suoi redattori, un preside sotto accusa, c’è un’organizzazione dura e intransigente di giovani cattolici (GS, gioventù studentesca milanese), un corpo di professori smarrito almeno quanto le famiglie. E c’è, soprattutto, un’intera generazione terribilmente seria e riflessiva, il cui dramma è soltanto quello di trovarsi ormai ad un livello di maturità culturale e morale superiore a quello delle famiglie e di molti insegnanti. Il numero che ha fatto scoppiare lo scandalo contiene riflessioni sociologiche sul cambio di costume dei giovani, un’analisi comparata sui testi scolastici, una discussione sui rapporti tra Stato e scuola privata. Ma lo scandalo lo fa scoppiare l’intervista alle nove ragazze: “Che cosa pensano le ragazze d'oggi?” E’ presto detto: chiedono un rapporto aperto con i genitori, l'introduzione dell'educazione sessuale a scuola, sono favorevoli ai rapporti prematrimoniali e all'utilizzo di metodi anticoncezionali, e puntano al matrimonio, a patto che si concili con il lavoro e con una presa di coscienza civile della donna.

Studenti pariniani leggono La Zanzara

Il dibattito tra le nove ragazze che hanno risposto alle domande è condotto con grande senso di responsabilità. Il linguaggio non supera mai in arditezza le discussioni del Concilio e, insieme ad alcune affermazioni polemiche, vi si trovano alcuni richiami all’insegnamento della Chiesa. Alcune ragazze affermano: “Il divorzio, a mio parere di cattolica, non dovrebbe esistere, però sarebbe giusto per quelle persone che non condividono le mie idee e sono costrette a rimanere legate ad un uomo che non amano”; “Io posso accettare un consiglio da mio padre solo se è motivato e non perché dice che è il padre e basta!”; “Molte di queste ragazze che aspirano come unico fine al matrimonio, saranno veramente, secondo me, delle pessime mogli e delle cattive madri: sarà certamente buona madre quella che già da ragazza ha una coscienza personale e civile»; “Quando esiste l’amore non possono e non devono esistere limiti e freni religiosi”.

I tre redattori del giornalino, due maschi e una femmina, tutti minorenni, passano così dai banchi di scuola agli interrogatori in questura, dove a telefonare allarmati sono anche genitori preoccupati da possibili attentati alla morale, che chiedono alle forze dell’ordine impegno per stroncare il malcostume dilagante. Clamore a parte, qual è il reato? La Zanzara non è registrato alla cancelleria del tribunale, come prescrive la legge, inoltre il preside del Parini non ha esercitato un controllo adeguato sul numero in questione insieme alla titolare della tipografia, rea di aver dato alle stampe un giornale senza che fosse registrato. I cinque sono rinviati a giudizio e dovranno rispondere della violazione dell'articolo 14 della legge sulla stampa, che si riferisce alle pubblicazioni oscene «destinate ai fanciulli e agli adolescenti, quando per la sensibilità e impressionabilità ad essi proprie, siano comunque idonee a offendere il loro sentimento morale o a costituire per essi incitamento alla corruzione, al delitto o al suicidio».

A precedere il processo è un altro scandalo: il 16 marzo, infatti, il sostituto procuratore dispone che i tre studenti siano sottoposti a una visita medica finalizzata alla compilazione di una scheda fisiopsichica. “Una legge del 1934 esige questo esame fisiopsichico sui minorenni", spiegherà il pubblico ministero al processo. "L’accertamento ha lo scopo di tutelare l’interesse del minore, in quanto la giustizia potrebbe condannare un irresponsabile”. Senonché la legge in questione risale al periodo fascista, scatenando “una vera gazzarra sulla stampa”, anche perché i due maschietti della redazione dichiarano ai giornali di essere stati spogliati e che “le domande loro poste durante tale visita vertevano sui loro eventuali rapporti con prostitute, su affezioni veneree eventualmente contratte, mentre venivano fatte osservazioni e commenti sul loro stato di apparente gracilità, con il rilievo che le famiglie poco si curavano di loro”. La ragazza, invece, si rifiuta di sottoporsi alla visita, e la questione sarà ripresa proprio durante il dibattimento.

I tre ragazzi della redazione in tribunale

Durante le tre concitate giornate in cui si ascoltano i testi, c’è chi loda il rendimento scolastico e la condotta degli imputati e chi auspica metodi e contesti più seri per trattare argomenti che hanno a che fare con la sfera sessuale. “Io sono convinto che nessuna ragazza ha manifestato quelle idee, scaturite solo dalla fantasia esaltata dei redattori”, affermerà il pubblico ministero durante la sua arringa, aggiungendo che “il problema sessuale va affrontato a livello scientifico o arriveremo al punto che le ragazze andranno in giro con gli anticoncezionali in tasca e il materasso sulle spalle”.

Un momento "rilassato" del processo

Il processo, al quale assistevano 240 giornalisti accreditati, provenienti da tutte le parti del mondo, oltre a catturare l’attenzione di tv e giornali generò numerose proteste e grandi manifestazioni organizzate dagli studenti milanesi.

Sabato 1 aprile il presidente legge il verdetto: tutti assolti, perché i fatti non costituiscono reato. Le ultime parole spettano al presidente del tribunale che, come accade nei tribunali per minori, decide di concludere il processo con un fervorino (breve ammonimento): “Il tribunale mi incarica di dirvi che ha riconosciuto che nella vostra inchiesta non esistono gli estremi di reato. Il compito della legge penale si ferma qui. Se le vostre affermazioni erano opportune o inopportune lo decideranno le autorità scolastiche. Su questo processo si è fatta una montatura esagerata. Voi non montatevi la testa, tornate al vostro liceo e cercate di dimenticare questa esperienza senza atteggiarvi a persone più importanti di quello che siete”.

Siamo nel 1966. Due anni più tardi esploderà quel movimento sociale, culturale e politico che prenderà il nome di Sessantotto. I prodromi erano già ben visibili.

Beniamino Colnaghi
 
Note: sul sito del liceo Parini di Milano è possibile leggere una vasta scelta di articoli, documenti, commenti e interviste sul “Caso Zanzara”.