domenica 16 novembre 2025

 "Non possiamo più accettarne!" I tedeschi di Germania non volevano più accogliere i cittadini dei Sudeti di lingua tedesca espulsi dalla Cecoslovacchia dopo la Seconda guerra mondiale

 

A seguito della dissoluzione dell´Impero austro-ungarico, alla conclusione della Prima guerra mondiale, nel 1918 nacque la Repubblica Cecoslovacca, comprendente le regioni della Boemia, Moravia, Slesia Ceca, Slovacchia e Rutenia.

La neonata Repubblica Cecoslovacca si trovò tuttavia a gestire varie situazioni problematiche, non definite a priori sulla carta e sulle quali si aprirono varie discussioni in campo internazionale, che perdurarono anche nel 1919.

Le nuove frontiere furono contestate sia nelle provincie a maggioranza tedesca, prevalentemente localizzate ai confini con la Germania e l’Austria,  sia nella zona denominata Slesia, rivendicata dai polacchi. Anche la Slovacchia, nella parte meridionale, dovette fare i conti con una situazione di guerra con l’Ungheria.

Le rivendicazioni nazionalistiche autonomiste continuarono sospinte anche dal clima internazionale che si delineò in Europa nel primo dopoguerra. Ad onor del vero occorrerebbe precisare che le popolazioni di etnia germanica iniziarono ad insediarsi nella zona dei Sudeti, la regione dell’altipiano che si trova nella Boemia settentrionale, fin dal XIV secolo. 

I rapporti tra la popolazione boema e tedesca furono problematici fin dai decenni antecedenti la Prima guerra mondiale, nonostante vari tentativi di trovare una soluzione ragionevole da parte dell’Impero austro-ungarico, piuttosto liberale nel cercare di introdurre nel parlamento viennese i rappresentanti politici eletti nelle zone di etnia differente. Per una piena comprensione della tematica autonomista, dobbiamo tenere presente che nel secolo XIX le spinte nazionalistiche portarono alla nascita anche di nuovi stati (si pensi all’Italia, ad esempio), e di fatto crearono le basi per una guerra mondiale che ebbe anche come effetto la deflagrazione dell’Impero degli Asburgo, che esisteva da quattro secoli.

La Cecoslovacchia, nel 1918, nacque effettivamente sulle ceneri dell’Austria  Ungheria e sulla aspettativa delle nazioni vittoriose di punire le nazioni perdenti, in particolare quelle a lingua germanica. Pertanto, accanto ai debiti di guerra, volutamente si divisero le popolazioni di lingua tedesca in vari stati, al fine di impedire la nascita di un forte stato germanico, e limitare una potenziale minaccia futura per tutte le nazioni europee.

La convivenza tra boemi e tedeschi, già problematica prima della guerra, divenne gradualmente insopportabile, spinta dalla politica nazionalsocialista della vicina Germania, che ebbe inizio negli anni Venti del secolo scorso.

Negli anni Trenta le zone dei Sudeti videro in particolare la vittoria elettorale di due partiti nazionalisti, che nel 1933 confluirono nel Sudetendeutsche Partei, apertamente schierato a partire dal 1937 accanto al Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori,  meglio conosciuto come Partito Nazista, guidato da Adolf Hitler.

Le pretese autonomiste dei tedeschi presenti nei Sudeti crebbero sempre più, con la crescente forza del partito guidato da Hitler. Il leader del Sudetendeutsche Partei, Kondrad Henlein, nel 1938 arrivò a pretendere la assoluta autonomia dei territori dei Sudeti, presentando tale proposta unilaterale al governo cecoslovacco. Tale richiesta fu rigettata, ma rappresentò il pretesto per la successiva annessione alla Germania nell’autunno dello stesso anno.

In effetti, il 12 settembre 1938 Hitler prese pubblicamente posizione in favore delle rivendicazioni di Henlein e ruppe ogni trattativa con il governo cecoslovacco. In Europa si cercò di raggiungere una soluzione politica a questa crisi sforzandosi di evitare un nuovo conflitto bellico. L’allora capo di governo britannico, Chamberlain, propose una conferenza dei capi di governo britannico, francese, tedesco e italiano, riunitasi poi a Monaco di Baviera, nella quale si acconsentì all’annessione della regione dei Sudeti alla Germania. Per l’Italia era presente Benito Mussolini.

L’illusione vana di evitare un conflitto rese la Germania ancora più forte militarmente e territorialmente. Dal  punto di vista strategico, l’annessione di questi territori era cruciale per la politica di Adolf Hitler in un’ottica di espansione territoriale che mirava a conquistare i territori slavi, possibilmente senza iniziare alcun conflitto con altre nazioni europee. La Cecoslovacchia, considerata vicina alla Gran Bretagna e soprattutto alla Francia, si trovava in effetti in una posizione strategica che avrebbe potuto indebolire la Germania. Con il senno del poi, la scelta di abbandono degli alleati rappresentò un grave errore geopolitico.



Tedeschi dei Sudeti salutano l'esercito nazista che entra in Cecoslovacchia

Sempre con il pretesto di proteggere le minoranze etniche tedesche, nel marzo 1939, Hitler completò il piano di smantellamento della Cecoslovacchia, occupando Praga, e creando il Protettorato Boemo e Moravo, direttamente sotto la propria egemonia, mentre nella regione Slovacca fu instaurato un Governo fantoccio filotedesco.

Accanto ai motivi geopolitici e militari, la Germania ebbe anche un interesse economico ad annettere rapidamente questi territori: la raccolta di manodopera a basso costo (i giovani slavi furono costretti ad andare a lavorare nelle fabbriche tedesche) e presa del possesso da parte del Terzo Reich di materie prime e fabbriche con tecnologia all’avanguardia sul territorio cecoslovacco, indispensabili per armare ulteriormente la Germania.
L’atteggiamento dei tedeschi nei confronti delle minoranze boeme non fu clemente: vi furono diversi arresti, molte persone furono costrette ad emigrare, ed in generale si sviluppò un clima di forte intolleranza nella zona dei Sudeti e della Boemia, che continuò durante la Seconda guerra mondiale. Questo duro atteggiamento, si rivoltò contro le etnie tedesche al termine della guerra, facendole ritenere collaborazioniste del regime nazista e creando le premesse per l’esodo imposto negli anni successivi. Si stima che 2,8 milioni di tedeschi, nel biennio 1945 - 1946 furono costretti ad abbandonare i territori della Boemia e della Moravia, rinunciando ad ogni avere. Alcuni fuggirono portando con sé solo ciò che potevano trasportare sulle spalle o in carriole, mentre altri furono deportati con il bagaglio a mano.

Dopo essere stati espulsi dalla Cecoslovacchia, i tedeschi dei Sudeti affrontarono un aspetto meno noto del loro destino. In Germania, invece di solidarietà, incontrarono rifiuto, umiliazione e odio aperto.


Una famiglia di tedeschi dei Sudeti in cammino verso la Germania

Peter Kurzeck aveva già visto troppo all'età di quattro anni. Originario di Tachov, arrivò in Germania a bordo di un carro bestiame sigillato, in cui anziani e bambini morivano durante il tragitto. Quando lo sportello del carro si aprì, la sua espulsione dalla Cecoslovacchia terminò, ma iniziò un periodo di umiliazione. 

"Ci insultavano, dicevano che eravamo feccia sporca. Negavano persino che fossimo tedeschi. Ci chiedevano: perché non siete rimasti da dove venite?", ricorda un rifugiato dei Sudeti in una raccolta intitolata "Patria straniera".
Milioni di altri esuli subirono un destino simile. Nella stessa Germania, dovettero affrontare non solo difficoltà materiali, ma anche l'ostilità della popolazione locale.
I tedeschi dei Sudeti arrivarono in un Paese bombardato e affamato. La Germania Ovest guadagnò un decimo della sua popolazione a seguito delle deportazioni, mentre la guerra distrusse anche un quarto del patrimonio edilizio. I vecchi coloni spesso non sapevano dove avrebbero vissuto o cosa avrebbero mangiato.
L'afflusso di milioni di tedeschi dell'Est fu percepito più con un senso di minaccia che di solidarietà. Nella devastata Brema, apparvero manifesti con la scritta "Non ne possiamo più! Basta con l'immigrazione!"


Tedeschi dei Sudeti arrivano al campo di transito di Wiesau, attraverso il quale transitarono oltre 850.000 rifugiati

La paura era accompagnata da altre emozioni. I tedeschi dei Sudeti e i polacchi erano spesso considerati un gruppo etnico diverso e inferiore, non del tutto parte dei "veri" tedeschi. Venivano spesso descritti utilizzando la familiare terminologia nazista. Venivano usati termini come "stranieri", "un'altra razza" o "elementi antinazionali".
Nell'ottobre del 1945, la popolazione dello Schleswig scrisse una petizione al maresciallo Montgomery, chiedendo che la loro patria fosse "liberata dai rifugiati". "Questi stranieri provenienti dalle regioni orientali rappresentano un rischio per il carattere nordico del nostro paese e un pericolo per la nostra nazione", afferma il documento. In Baviera furono distribuiti volantini che chiedevano l'espulsione di "prussiani e slesiani".
La prima tappa per gli esuli era solitamente un campo di transito al confine, come quello di Furth im Wald, in Baviera. La procedura di "accoglienza" includeva un trattamento disinfestante con alte dosi di DDT. Dopodiché, i deportati proseguivano il loro viaggio. Le autorità alleate cercarono di tenerli lontani dalle città bombardate e di estendere il loro assalto alle zone rurali, ma incontrarono la tenace resistenza dei contadini, che dovettero essere costretti dai soldati armati di mitragliatrici ad accogliere sotto il loro tetto famiglie con bambini.
" Scene particolarmente indegne si verificavano quando i contadini stessi potevano scegliere chi accettare tra i rifugiati in arrivo", scrive Harald Jähner nel libro Il tempo dei lupi. "Sembrava un mercato degli schiavi. Venivano scelti gli uomini più forti, le donne più belle e i deboli venivano messi da parte con insinuazioni beffarde. Alcuni contadini consideravano gli esuli un legittimo sostituto dei lavoratori forzati e reagivano con rabbia alla richiesta che ai 'polacchi' venisse pagato un salario adeguato in futuro."
Per alcuni sfollati, non c'era alloggio disponibile. Finirono nei campi profughi per anni. Nacque il fenomeno dell'"homo barackensis": persone condannate a vivere in baracche. Spesso si trattava di campi occupati solo di recente da coloro che il regime nazista aveva condannato al ruolo di schiavi.
I tedeschi dei Sudeti furono ospitati, ad esempio, nel  campo di concentramento di Dachau, dove nel 1948 si verificò persino una rivolta dei rifugiati locali. Gli ultimi grandi campi per sfollati poterono essere chiusi solo nel 1966.
Durante il loro esodo, i tedeschi espulsi incrociarono e si scontrarono con prigionieri e lavoratori forzati. Si stima che questi "sfollati", come li chiamava l'amministrazione di occupazione alleata, ovvero coloro che venivano condotti contro la loro volontà nel Terzo Reich, alla fine della guerra in Germania fossero tra gli otto e i dieci milioni. La liberazione li trovò spesso in punto di morte e dopo una serie di esperienze inimmaginabilmente crudeli.
Non sorprende che molti di loro cercassero vendetta. Alcuni, costretti a prestare servizio nella confusione dei bombardamenti, sfuggirono ai loro rapitori. Formarono gruppi che a volte razziavano i villaggi e, oltre a saccheggiare il cibo, ricorrevano alla violenza contro i civili.
Gli Alleati cercarono di trattare i prigionieri e i lavoratori forzati con simpatia, concedendo loro, ad esempio, un trattamento preferenziale rispetto ai tedeschi in termini di accesso al cibo. Ma incomprensioni e scaramucce si verificarono ripetutamente. Di conseguenza, molti lavoratori forzati dovettero continuare a vivere in campi circondati da filo spinato e sorvegliati da soldati, questa volta alleati.
Il destino dei prigionieri ebrei sopravvissuti fu particolarmente crudele. A causa del loro completo esaurimento, molti di loro non ebbero altra scelta che rimanere nei campi di sterminio dove li trovarono i liberatori. Ancora nell'estate del 1945, Earl Harrison, incaricato da Truman, scrisse: "Sembra che stiamo trattando gli ebrei esattamente come li trattarono i nazisti, con l'unica differenza che non li stiamo sterminando. Sono ancora nei campi di concentramento e, invece delle unità delle SS, ora è il nostro esercito a sorvegliarli".
Nonostante tutte le difficoltà e la rete ferroviaria devastata, masse di prigionieri tornarono a casa dopo la guerra, solitamente nella direzione opposta a quella dei tedeschi espulsi. Nel maggio del 1945, centomila persone lasciavano la Germania ogni giorno. Ma c'erano anche persone perseguitate che volevano rimanere in Germania o addirittura cercavano di fuggirvi. Solo poco dopo la guerra, in Polonia si verificarono terrificanti pogrom. Alcuni dei rimpatriati dai campi di sterminio cercarono paradossalmente sicurezza in Germania. Più precisamente in Baviera, che era sotto l'amministrazione di occupazione americana e che era quindi considerata più una provincia americana che parte dell'ex Terzo Reich. A Monaco, subito dopo la guerra, fu creato un vivace quartiere con un importante mercato.
Il centro della vita ebraica nella Baviera del dopoguerra, tuttavia, era l'ex campo di lavori forzati di Föhrenwald, vicino a Monaco. Più di cinquemilacinquecento ebrei si trasferirono gradualmente nell'ex campo di lavori forzati.
Inizialmente ai tedeschi fu proibito l'ingresso nella città, dove si parlava yiddish. Vi fiorì una straordinaria vita sociale. Nel campo si pubblicava un giornale, erano attivi il club sportivo Maccabi, un teatro, una biblioteca, una scuola, un ufficio postale e diverse sinagoghe. La polizia del campo manteneva l'ordine e i partiti politici si contendevano l'influenza nel municipio locale.
Sebbene Föhrenwald fosse solo una stazione di transito per la maggior parte dei residenti diretti in Palestina e in altri paesi, nel 1957 vivevano ancora 800 rifugiati ebrei nel campo. Nello stesso anno, le autorità tedesche chiusero con la forza il campo e distribuirono i residenti rimanenti tra varie città tedesche.

Beniamino Colnaghi

Fonti

Sudeti cecoslovacchi: https://simpleczech.com/2021/09/18/la-difficile-questione-dei-sudeti-cecoslovacchi-una-pagina-di-storia-da-non-dimenticare/

Tedeschi dei Sudeti: https://it.wikipedia.org/wiki/Tedeschi_dei_Sudeti

https://www.seznamzpravy.cz/clanek/magazin-historie-kruty-osud-sudetskych-nemcu-cesi-je-vyhnali-v-nemecku-koncili-v-taborech-275301

venerdì 24 ottobre 2025

Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922 – Ostia, 2 novembre 1975)

Cinquant’anni dopo il suo efferato omicidio, Pasolini continua a parlarci ed a dirci con lucidità e lungimiranza come leggere il nostro tempo.  Moravia diceva che Pasolini è stato l’unico poeta civile italiano venuto dopo Foscolo. In vita questo grande poeta e intellettuale fu letteralmente perseguitato da un’Italia non ancora matura e libera dalla rozza ipocrisia e dal moralismo clerico-fascista. Il volume Le ceneri di Gramsci è il monumento di Pasolini all’antichità della sapienza popolare, a quel mondo inesorabilmente subalterno, sempre uguale nei secoli, almeno fino ai primi anni Sessanta del secolo scorso, gli anni del boom economico, dell’ affermazione del consumismo e della contaminazione della cultura italiana. Pochi anni dopo, a seguito di questo profondo cambiamento, intervenuto in gran parte del popolo italiano, si registrò una regressione che lui stesso chiamò “genocidio culturale”. Arrivati gli anni Settanta, gli ultimi della sua vita, Pasolini cominciò a scrivere sulle pagine di riviste e giornali, tra i quali il “Corriere della Sera” articoli che scandalizzavano l’entusiasmo conformista dell’Italia di quel tempo, ormai diventata una delle maggiori potenze industriali del mondo. Coniugò il concetto di “omologazione culturale” della società, e dunque come fase ultima della lotta di classe. Coniò dei termini che ancora oggi sono richiamati nei dibattiti e negli articoli dei giornali: “il corvo”, “il Palazzo”, “la scomparsa delle lucciole” divennero metafore universali nel vocabolario italiano. La distinzione tra Sviluppo e progresso, un articolo del 1973 che il “Corriere della Sera” mai pubblicò, è ancora oggi al centro del dibattito politico. Pasolini spesso non offriva soluzioni; il suo intento pedagogico e le sue denunce volevano semplicemente far riflettere, evidenziare il problema, porre domande,  a cui altri avrebbero dovuto dare risposte.

Pasolini di fronte alla tomba di Antonio Gramsci al Cimitero Acattolico di Roma

A cinquant’anni dalla sua tragica morte, il suo pensiero non solo non ha perso rilevanza, ma è considerato come una profezia compiuta. Il capitalismo sfrenato, l’edonismo imposto dai potenti e dal mercato, la cultura borghese che omologa le diversità, che hanno soggiogato non solo le istituzioni, ma anche le coscienze, sono tutti concetti che Pasolini denunciava con forza e lucidità.    


La poesia Supplica a mia madre, scritta da Pasolini nell’aprile 1962, venne inserita nella prima edizione del libro Poesia in forma di rosa, pubblicato nel 1964. 

Supplica a mia madre 

È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.

Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.

Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

Il monumento dedicato a Pier Paolo Pasolini dal Comune di Roma, eretto sul luogo dove venne ucciso e dove venne rinvenuto il suo corpo
 

Altri articoli su Pasolini contenuti in questo blog

Le antiche terre friulane in Pasolini: https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2013/12/un-paese-di-temporali-e-di-primule-le.html

Il caso Pier Paolo Pasolini: https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2016/11/il-caso-pier-paolo-pasolini-5-marzo1922.html

Il dialetto e la critica alla modernità: https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2019/10/pasolini-il-dialetto-e-la-critica-alla.html

Dal film La ricotta: https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2025/03/dal-film-la-ricotta-il-pensiero-di.html

lunedì 22 settembre 2025

Lo scrittore Elio Vittorini riposa con la sua "Ginetta" al cimitero di Concorezzo (MB)

Nato a Siracusa il 23 luglio 1908, deceduto a Milano il 12 febbraio 1966

Fin da bambino si spostò insieme al  padre ferroviere da una località all'altra della Sicilia. Nel 1924 iniziò il suo peregrinare in giro per l’Italia, dal Friuli, dove si impiegò come contabile in un cantiere edile, a Torino, dove collaborò, prima con La Stampa, e poi con Solaria, per la quale pubblicò la raccolta di racconti Piccola borghesia. Trasferitosi a Firenze nel 1930, fece il segretario di redazione della rivista e, al contempo, il tipografo al quotidiano La Nazione. Imparato l'inglese, Vittorini si diede al lavoro di traduttore. Si schierò presto contro i vecchi stereotipi della tradizione e dalla parte dei nuovi modelli letterari del Novecento. Dopo lo scoppio della Guerra civile spagnola, maturò una più concreta coscienza politica, divenne antifascista radicale ed entrò a far parte del Partito comunista italiano.  Dopo essersi trasferito nel ’39 a Milano ed aver collaborato con diverse case editrici, il regime fascista gli vietò la pubblicazione di alcuni suoi lavori, in particolare della antologia Americana, proseguendo l'ostracismo nei suoi confronti, che non finì nemmeno con la caduta di Mussolini. Arrestato nel luglio 1943 a Milano, lo scrittore fu, infatti, rinchiuso a "San Vittore" e poté uscire dal carcere soltanto dopo l'8 settembre. Protagonista attivo della Resistenza, Vittorini collaborò con grande impegno a l'Unità clandestina, che per qualche mese diresse anche nel 1945, l'anno in cui pubblicò Uomini e no, il suo romanzo di maggiore impegno civile. Sempre quell'anno, nel settembre, uscì per l'editore Einaudi Il Politecnico, le cui posizioni sul concetto di "autonomia dell'arte" portarono a un contrasto con Palmiro Togliatti. Cessata la pubblicazione di Il Politecnico, Vittorini riprese la produzione narrativa. È del 1947 Il Sempione strizza l'occhio al Frejus, del 1949 Le donne di Messina, del 1950 La Garibaldina. Nel 1960 diresse la collana La Medusa, della casa editrice Mondatori ed in seguito la collana Nuovi scrittori stranieri. Nello stesso anno scrisse un manifesto per protestare contro la guerra e la tortura in Algeria, diventando presidente del Partito Radicale. Nel 1961, in collaborazione con Italo Calvino, curò Il Menabò, una rivista-collana di Einaudi, centrata sui rapporti tra letteratura e industria. Lo scrittore è morto prematuramente nel 1966, a soli 58 anni, mentre lavorava alla raccolta di saggi Nuovo Politecnico. Sulla casa milanese di viale Gorizia, dove abitò e morì, lo ricorda una lapide. E’ sepolto nel cimitero di Concorezzo.



Vediamo adesso il motivo per il quale lo stesso Vittorini espresse la volontà di essere sepolto in quel piccolo cimitero. Ciò che legò uno dei maggiori scrittori italiani del Novecento a Concorezzo fu la storia d’amore con Luigia “Ginetta” Varisco. Due persone di origini diverse: lui siciliano di Siracusa, impegnato politicamente a sinistra ed influente intellettuale nel dopoguerra, lei figlia della prima borghesia industriale che si andava affermando in Brianza. Entrambi erano già sposati quando si incontrarono per la prima volta. “Ginetta” era la settima figlia di Federico Varisco (Amico di pittori, scrittori e artisti, industriale eccentrico,  un socialista riformista e, tra il 1911 e il 1920, due volte sindaco del suo paese, dove aveva costruito l’acquedotto e partecipato alla costituzione della Casa del Popolo) e Maria Antonia Spreafico. Era di piacevole aspetto, tanto da essere accostata a dei canoni estetici in voga in quegli anni, di grande cultura e dalla spiccata personalità. Si era sposata in prime nozze con il drammaturgo e commediografo Cesare Vico Lodovici. Dopo la separazione frequentò il direttore della rivista letteraria Solaria di Firenze, Giansiro Ferrata. Vittorini era invece sposato con la sorella del poeta premio nobel per la letteratura Salvatore Quasimodo, Maria Rosa. Ebbero due figli, Giusto Curzio e Demetrio. Elio e "Ginetta" si conobbero nel 1932 durante una vacanza a Bocca di Magra e fu il cosiddetto colpo di fulmine. Un amore profondo ma proibito per i canoni e le convenzioni dell’epoca. Con la Seconda guerra mondiale e le traversie intervenute si misero definitivamente insieme; lui che lavorava per la casa editrice Bompiani e lei che si era risposata con il Ferrata. Vissero in un primo momento a Milano, al 22 di via Gorizia. Nel 1963 Vittorini si ammalò di cancro e dovette subire una delicata operazione chirurgica. Malgrado la malattia, riprese a lavorare, dirigendo la collana Nuovi scrittori stranieri per Mondadori e l'anno dopo la collana Nuovo Politecnico per Einaudi. Nell'estate del 1965 il cancro si manifestò ancora in maniera più aggressiva, rendendosi incurabile. Morì nel 1966 dopo aver sposato in fin di vita la sua “Ginetta”. 




Le spoglie di Vittorini vennero traslate nel cimitero di Concorezzo alla morte della compagna, avvenuta nel 1978. Per loro espressa volontà, i due sono sepolti nella tomba della famiglia Varisco. Un amore fortissimo quello fra Vittorini e Ginetta (l'unica, si disse, capace di zittirlo con le sue battute in dialetto brianzolo, che lo scrittore spesso non comprendeva) e la cui memoria è oggi racchiusa nella tomba comune. Un amore per sempre.

Beniamino Colnaghi

 

 

  

venerdì 30 maggio 2025

Monika Ertl, la giovane donna tedesca che vendicò il Che


Bolivia, 9 ottobre 1967. Il corpo esanime di Ernesto Guevara de la Serna, noto in tutto il mondo come il Che, giace su una lettiga. Le sue mani sono state tagliate, il suo aguzzino, Roberto Quintanilla, capo dei servizi segreti boliviani, si fa fotografare, con lo sguardo fiero, vicino a quel corpo che vuole rappresentare la fine ingloriosa del rivoluzionario più importante del Novecento. Muore il Che e nasce il mito. Finirà per ottenere l’effetto opposto: sono milioni i giovani di tutto il mondo a vedere, in quel corpo mutilato, un nuovo Cristo «socialista», a portare orgogliosi l’icona del Comandante, a credere nei suoi ideali, a perpetuarne l’idea. 
C’è però anche chi non si ferma all’ammirazione e al ricordo. Negli anni immediatamente successivi qualcuno medita vendetta. Tra questi c’è Monika, tedesca, e la sua storia è incredibile, affascinante, a cominciare dal fatto che suo padre è stato costretto a fuggire in America Latina perché legato alle più alte autorità del regime nazista… 
Trent’anni prima della morte del Che, a Monaco nasce Monika Ertl. Siamo nel 1937. Suo padre Hans ha da poco raggiunto la fama per aver collaborato alla produzione del documentario Olympia, il film nazista dedicato all’esaltazione degli atleti ariani alle Olimpiadi di Berlino del 1936. Hans non si definisce un nazista, non crede negli ideali di Hitler, non è antisemita ma il suo lavoro lo porta ad avere contatti con le più alte autorità del Reich e a raggiungere la fama proprio durante la Seconda guerra mondiale quando, inviato a Tobruk, diviene il regista di numerosi cinegiornali propagandistici, dedicati all’avanzata della «volpe del deserto», il noto generale Erwin Rommel. Conosce così ufficiali della Gestapo e delle SS. Questa situazione, alla fine della guerra, divenne estremamente scomoda e lo costrinse a prendere contatti con le sue conoscenze alla Gestapo per usufruire di un passaggio sicuro lungo la cosiddetta Ratline, il complesso sistema di vie di fuga verso l’America Latina, sfruttato da molti criminali tedeschi dopo la guerra. 
Monika arriva così in Bolivia nel 1952; cresce a stretto contatto con la società tedesca di La Paz, quasi interamente composta da membri della Gestapo e delle SS. In particolare chiama «zio Klaus» Klaus Barbie, criminale di guerra, definito il macellaio di Lione durante l’occupazione della città francese. Monika cresce in un ambiente in cui razzismo e antisemitismo sono alla base di una società che, in via non ufficiale, esalta i valori del periodo più buio dell’umanità.           

Monika Ertl

È la figlia prediletta di Hans; come suo padre ama la fotografia, le armi da fuoco, il cinema e anche la politica. Accetta, sotto la spinta paterna, di sposarsi con un rappresentante dell’alta borghesia tedesca di La Paz ma, dopo dieci anni, il suo matrimonio fallisce perché un animo estroverso, pieno d’idee e passioni come il suo, mal conviveva con un nostalgico nazista che, al contrario, voleva una moglie devota e relegata al ruolo di casalinga e madre. Divorzia e, contemporaneamente, contro ogni logica, si appassiona alle gesta rivoluzionarie del Comandante Ernesto Guevara che, dopo la vittoriosa campagna di Cuba, sta diventando un idolo ispiratore per le masse di giovani social-comunisti. 
La figura del Che diviene per lei una fonte d’ispirazione, quasi un profeta, a tal punto che, quando nell’ottobre del 1967 Monika vede le immagini della morte del suo idolo, decide di dedicare la sua vita alla Rivoluzione. 
Rompe con la famiglia, taglia le sue radici ed entra nella Guerriglia dell’ELN (Esercito di Liberazione Boliviano). È in questo periodo che conosce Inti Peredo, leader comunista, e se ne innamora perdutamente. Cancella il suo nome tedesco, cancella la sua discendenza, divenendo Imilla la Rivoluzionaria

Ernesto Che Guevara

Ma quando si combatte una Rivoluzione «o si vince o si muore», come diceva proprio il Che, ed è così che Inti Peredo, nel 1969, finisce vittima di un’imboscata e viene torturato, fino alla morte, da quello stesso uomo che Imilla aveva visto nelle fotografie della morte del Che. Roberto Quintanilla, senza saperlo, ha privato quella giovane rivoluzionaria del suo idolo e del suo amore e si è materializzato, agli occhi color cielo della bellissima Monika, come il male in persona. È così che la 32enne tedesca inizia a meditare vendetta.  

Roberto Quintanilla, dopo quell’ennesimo successo controrivoluzionario, viene  promosso e, lasciando la carica di ufficiale dei Servizi Segreti, inizia una nuova carriera diplomatica. Il Governo boliviano gli conferisce un incarico alla sede dell’ambasciata ad Amburgo, in Germania. Il piano di Imilla e dei rivoluzionari boliviani era estremamente difficile da realizzare e ci vollero quasi due anni per organizzare, attraverso le reti dell’ultrasinistra internazionale, tutto ciò che serviva alla rivoluzionaria per arrivare, armata, davanti al suo obiettivo. Nel marzo del 1971, Monika s’imbarca per l’Europa sotto falso nome, fingendosi una turista australiana. Giunge ad Amburgo ed entra in contatto con uno degli intermediari dell’internazionalismo comunista che gli consegna una pistola Colt “Cobra” 38 Special, acquistata da un «compagno italiano». Il piano elaborato era curato nei minimi dettagli: Monika si sarebbe finta una turista interessata a visitare la Bolivia e, per questo, aveva necessità di vedere il console boliviano per il visto sul passaporto. Riuscì ad ottenere l’appuntamento con Quintanilla il primo aprile. Il console, dopo averla avuta di fronte, ed aver visto che si trattava di una donna bellissima, anche se camuffata sotto una parrucca color grigio chiaro e degli enormi occhiali, ordinò ai suoi fedelissimi di lasciarlo solo con quella donna. Dopo una breve chiacchierata introduttiva, Monika, guardando negli occhi il suo nemico, estrasse la calibro 38 ed esplose tre colpi. Per un momento si udì un silenzio quasi irreale: Quintanilla cadde a terra, senza vita, Monika respirò a pieni polmoni quell’attimo di libertà assoluta e cominciò a correre. Nella fuga la rivoluzionaria lasciò dietro di sé la parrucca, la sua borsetta, la Colt Cobra 38 Special, ed un pezzo di carta dove si leggeva:

Vittoria o morte. ELN

La polizia tedesca, il giorno stesso, raccolse gli oggetti abbandonati dalla Ertl, tra cui l’arma, che fu analizzata dalla polizia internazionale e si scoprì, attraverso il numero di matricola, che era stata acquistata tre anni prima, a Milano, da Giangiacomo Feltrinelli. Il mandato di arresto raggiunse la casa del noto editore italiano ma di lui non v’era traccia. Sarà rivisto solo un anno dopo quando venne trovato il suo corpo senza vita sotto un traliccio a Segrate. Monika iniziò una fuga rocambolesca che, dopo diversi mesi, la fece tornare dai suoi compagni di lotta in Bolivia. Si rese presto conto però che quella vendetta gli sarebbe costata cara: il governo boliviano mise una cospicua taglia sulla sua testa. Tra i vari cacciatori di taglie che si misero sulle sue tracce c’era anche una sua vecchia conoscenza, lo «zio Klaus», Klaus Barbie. Monika temeva Klaus più di chiunque altro. Decise allora di occuparsi personalmente di lui e, per farlo, contattò Régis Debray, un guerrigliero francese e amico personale di Guevara, con cui si mise sulle tracce del macellaio di Lione. Barbie però fu più bravo e, nel 1973, riuscì a sorprendere Monika che riposava in un nascondiglio della guerriglia boliviana. Non si sa praticamente nulla di ciò che accadde quella notte, di cosa Monika abbia dovuto subire, di dove sia finito il suo corpo. Invano suo padre Hans chiese personalmente a Barbie di avere indietro la salma della sua amata figlia, al fine di poterle dare una sepoltura dignitosa. Gliela negarono, forse per non mostrare che era stata torturata prima dell’uccisione. Monika rimase una combattente senza tomba, caduta nella giungla. Invece, il 28 giugno 1997, ciò che si trovò del cadavere di Guevara venne riesumato da una fossa comune vicino alla pista di volo di Vallegrande, in Bolivia. I resti di Ernesto Che Guevara, comprese le mani, torneranno a Cuba, e verranno deposti nel mausoleo eretto in suo onore a Santa Clara, dove si svolse l’ultima battaglia della Rivoluzione.

Beniamino Colnaghi

 

Fonti:

La ragazza che vendicò Che Guevara. Storia di Monika Ertl, di Jürgen Schreiber, Nutrimenti, Roma 2011.

Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Monika_Ertl

Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Che_Guevara

 

 

martedì 15 aprile 2025

Verderio 25 – 28 aprile 1945. Sono trascorsi 80 anni dalla resa della colonna di militari tedeschi in ritirata verso la Svizzera

L’articolo che viene qui di seguito presentato è la ricostruzione dei fatti avvenuti a Verderio (LC) tra il 25 e il 28 aprile del 1945, attraverso la testimonianza di cittadini, alcuni dei quali hanno vissuto personalmente gli eventi svoltisi in quei drammatici giorni. Venne pubblicato e distribuito alla popolazione nell’aprile del 1986, in un numero speciale di “Verderio oggi”, giornale locale curato dal Gruppo politico Sinistra per Verderio, che in quegli anni rappresentava la Minoranza nei Consigli comunali di Verderio Superiore e Verderio Inferiore.

24 - 25 Aprile 1945: gli alleati varcano il Po e si gettano all'inseguimento dei nazi-fascisti in rotta. In tutti c'è la sensazione che la guerra stia volgendo al termine. Mussolini fugge da Milano la sera del 25 e si ferma a Como. La mattina del 26 il Comitato Nazionale di Liberazione dichiara l'insurrezione generale dell'alta Italia, occupata dall'invasore. Dalle montagne i partigiani scendono a valle e raggiungono le città. Centomila partigiani sono in armi; vengono liberate Modena, Asti, La Spezia, Ferrara, Milano, Genova, Torino, Venezia, Piacenza, Bergamo.
Il giorno 28 Mussolini viene fucilato dai partigiani a Giulino di Mezzegra, piccola località sulle rive del Lago di Como; la sera del giorno dopo viene firmata la resa totale delle truppe tedesche in Italia. È la fine della guerra e l'inizio della riconquistata libertà. L’Italia scrive la Costituzione più bella del mondo e diventa una Repubblica democratica ed antifascista.

Riviviamo quei momenti attraverso la memoria storica dei protagonisti

È nel contesto di questi avvenimenti che vogliamo ricordare un episodio che in quei giorni ha interessato Verderio. Ci auguriamo che questo sia l'inizio della storia e che essa venga arricchita da altre testimonianze verbali, scritte o fotografiche. Questa storia è il riconoscimento ai partigiani e antifascisti di Verderio, che hanno contribuito alla vittoria sulla tirannide nazi-fascista. Abbiamo cercato di ricordare in modo diverso l'anniversario del 25 aprile, ricostruendo l'episodio attraverso la testimonianza di coloro che l'hanno vissuto in prima persona. Non è stato facile: sono passati più di quarant'anni, molte testimonianze sono risultate lacunose, altre contraddittorie. Riteniamo che la ricostruzione cui siamo giunti corrisponda alla realtà dell'accaduto, come è confermato anche dalla documentazione conservata negli archivi parrocchiali dei due Verderio.
Un cippo posto sulla strada che porta alla stazione di Paderno d'Adda è l'unica testimonianza dell'accaduto. Sul cippo è possibile leggere quanto segue:

"QUI UN MANIPOLO DI PARTIGIANI STRONCO' IL 28-4-1945 LA TEUTONICA ARROGANZA COSTRINGENDO ALLA RESA UNA COLONNA GERMANICA IN RITIRATA"


Fortunatamente, a differenza della battaglia di Verderio fra austriaci e francesi, avvenuta il 28-4-1799 (una coincidenza significativa), non c'è stato spargimento di sangue, anche se si è andati molto vicini a uno scontro armato fra i soldati tedeschi e le forze della Resistenza.
Già tra la fine del 1943 e l'inizio del 1944 alcuni cittadini di Verderio svolgevano attività antifascista. Lavoratori, reduci di guerra, renitenti alla leva, avevano costituito un nucleo collegato con la 103° Brigata Garibaldi, che agiva nel Vimercatese. L'attività era, preminentemente, di carattere politico ed informativo e, in misura minore, di sostegno economico e logistico alle formazioni partigiane. I Verderiesi collaborarono anche ad alcuni atti di sabotaggio alle linee di collegamento tedesche. 
Le riunioni clandestine del gruppo si tenevano una o due volte alla settimana alla  trattoria "Baita" o in isolati casolari di campagna. Alle riunioni partecipava in genere un esponente della formazione garibaldina. Ricordiamo alcuni degli antifascisti di Verderio: Carlo Colombo, partigiano che operava in clandestinità e che si può ritenere il responsabile del gruppo; Edoardo Acquati, Giuseppe Frigerio, Mario Nava, Napoleone Ponzoni, Luigi Robbiati, Giovanni Sala, Giuseppe Sala, Carlo Viganò, Giuseppe Villa, Angelo Maggioni. 
Il 19 aprile 1945 una decina di fascisti irruppero nella "Baita", cercando materiale clandestino: volantini, giornali antifascisti, armi. Perquisirono i presenti, rovistarono nei cassetti e misero a soqquadro le camere dei pochi clienti. Non trovando nulla si accontentarono di rubare i pochi soldi e oggetti di valore presenti. Dopo aver costretto al muro i suoi familiari, quattro fascisti scortarono Giuseppe Sala nella sua abitazione, nell'attuale via dei Maggioli, e la perquisirono, non trovando nulla. 
Il 25 o 26 aprile c'è gran movimento in paese, una piccola colonna tedesca di 5 autoblindo e una camionetta attraversa il paese senza preavviso. Sul mezzo in testa alla colonna è legato un partigiano di Subiate e i tedeschi gridano con voce gutturale "partigiano... partigiano". Si fanno così strada in mezzo alla gente, mentre sopraggiunge la sorella del prigioniero, disperata per la sorte del fratello: si saprà poi che egli verrà liberato dopo uno scontro armato sulla statale 36. 
Il 27 aprile i partigiani occupano il municipio di Verderio Superiore, mentre in quello di Verderio Inferiore  stabiliscono il presidio: vengono distribuite le poche armi che da mesi sono nascoste sotto il tetto della cappella centrale del cimitero di Verderio Superiore: 15-16 moschetti, qualche bomba a mano, qualche pistola e una mitragliatrice. 
Il 28 aprile il tempo è incerto, minaccia la pioggia. La nottata è stata movimentata. Insistenti sparatorie si sentono dalle parti di Trezzo d'Adda e non lasciano presagire niente di buono. Quella mattina i partigiani stanno ancora, a turni, presidiando i municipi. Sono: Carlo Colombo, Giovanni Sala, Carlo Viganò, Giuseppe Frigerio, Mario Nava, Paolo Nava , Napoleone Ponzoni, Edoardo Acquati, Adele Frigerio, Matilde Oggioni. 
Tra le 10 e le 11 una comunicazione telefonica anonima informa che un autocarro di camicie nere è partito da Cornate d’Adda e si dirige a Verderio. I partigiani di qui sono pochi e male armati: ci sono attimi di indecisione. Carlo Colombo, Giovanni Sala, Paolo Nava e Mario Nava salgono su un'automobile requisita qualche tempo prima al Baraggia (Giuseppe Baraggia, titolare del maglificio omonimo di Verderio Superiore N.d.R) e si dirigono verso Cornate. Poco prima di Cascina Alba si fermano, scendono e si appostano nei fossati ai bordi della strada. All'improvviso, all'altezza della cascina spunta una camionetta, ad una certa distanza appare un mezzo blindato, poi un camion e poi ancora un altro: non si tratta dunque solo di un camion di camicie nere, ma di una vera colonna motorizzata di soldati della Wehrmacht e delle SS. Secondo alcune testimonianze sventolano una bandiera bianca. La colonna si ferma con le mitragliatrici puntate davanti ai partigiani. Questi intimano la resa. I tedeschi non accettano e chiedono di proseguire fino a Merate con la scorta di partigiani: probabilmente vogliono raggiungere indisturbati Como, senza essere fermati come sta succedendo alle altre colonne. "Non è possibile" rispondono i partigiani "Merate è già stata abbandonata dai tedeschi e la zona brulica di partigiani". Giovanni Sala e Carlo Colombo salgono sulla camionetta; la colonna riparte. E' formata da 50-60 autocarri, forse di più, mezzi blindati con mitragliatrici antiaeree ed alcuni cannoni semoventi; sugli autocarri ci sono viveri e oggetti vari, frutto delle razzie compiute nella ritirata, munizioni e circa 300-400 soldati armati di mitragliatrici, fucili e fucili mitragliatori. Sembra che la colonna sia in ritirata dal fiume Po, che gli alleati hanno già attraversato dal giorno 25. Lungo il percorso hanno subito diversi attacchi da parte dei partigiani: l'ultimo al ponte di Trezzo, con morti nelle fila partigiane. Qui la colonna si era divisa e una parte aveva puntato verso Merate dove sperava di trovare il presidio tedesco e repubblichino ancora efficiente. Quando la colonna giunge nel centro abitato c'è un gran movimento: i nuclei partigiani della 103° brigata SAP convergono sul paese. La colonna viene fermata, dalla camionetta scendono Sala e Colombo. Viene di nuovo intimata la resa. Il marconista tedesco cerca di mettersi in contatto con il comando di Merate e urla: "Perché non risponde?" "A Merate i tedeschi sono stati disarmati e sono fuggiti" gli fa sapere Daniele Pirovano, accorso con altri antifascisti da Verderio Inferiore. "Non è possibile" ribatte il marconista. I partigiani hanno l'ordine di non sparare se non sono attaccati. I tedeschi cercano di forzare il blocco e una camionetta si porta fino all'incrocio per Paderno d’Adda. Osserva la situazione e torna nella colonna. Hanno deciso dove attestarsi; costringono i partigiani a farsi da parte, riprendono la marcia e svoltano a destra verso Paderno. Quando la testa della colonna è in prossimità della salita, il comandante ordina di fermarsi. I soldati e le SS scendono dai camion e si pongono in assetto di combattimento: una mitragliatrice è posta in cima alla salita di Paderno (denominata, a quel tempo, del Genasa N.d.R.), altre sul ciglio della strada. I cannoni vengono puntati contro le postazioni partigiane e contro il paese.

Qui sotto le foto mostrano la strada per Paderno d'Adda, oggi via dei contadini verderiesi, ove si è fermata la colonna tedesca. Sull'ultima foto si nota il cippo commemorativo.







Sul sagrato della chiesa di Verderio Superiore è improvvisato un ospedale da campo, in previsione di uno scontro. Sul posto, oltre all'ufficiale medico tedesco, è presente il dottor Zamparelli. La tensione è altissima: uomini e donne che tornano dal lavoro da Paderno, percorrono la strada con comprensibile preoccupazione, risalendo la colonna tedesca fra soldati e postazioni di mitragliatrici.
Nel frattempo si provvede ad allontanare la gente accorsa dal paese e dai dintorni. Fa aumentare il panico la voce che entro le 17 del pomeriggio i tedeschi avrebbero bombardato il paese: si fugge nella campagna, ci si nasconde negli scantinati.
Intanto i partigiani hanno definito il loro schieramento. Sono giunti da tutte le parti, con la 103° brigata SAP al completo, arrivano forze della resistenza da Bernareggio, Vimercate, Concorezzo, Bellusco, Subiate, Lomagna e da altre zone del Milanese, del Bergamasco, dalle montagne del Lecchese. Sono circa un migliaio, secondo alcuni duemila: certo è che sono tanti. Si schierano su un fronte che ha i principali capisaldi al confine dei due Verderio, cascina dei Prati, la Baita, la strada per la stazione di Paderno. Tutte le strade sono bloccate e all'altezza del cimitero i partigiani di Cornate d’Adda e Trezzo completano l'accerchiamento di modo che i tedeschi non abbiano scampo. A questo punto le testimonianze sono un po' confuse, certo è che ancora una volta i tedeschi rifiutano la resa nella trattativa che si svolge tra i comandanti della Brigata Garibaldi (fra i quali il comandante De Luigi di Lomagna) e l'ufficiale tedesco. Il signor Passaquindici, titolare  dello Scatolificio Ambrosiano, che ha sede a Verderio, fa da interprete. I tedeschi vorrebbero arrendersi ad una forza superiore (gli alleati) e chiedono l'onore delle armi. Nel primo pomeriggio alcune camionette anglo-americane giungono nelle vicinanze. Le testimonianze non sono in grado di accertare se tra i tedeschi e gli alleati si stabilisca un contatto via radio o per mezzo del comando partigiano. Sta di fatto che verso le due o le tre del pomeriggio un aereo alleato sorvola la zona e lancia un bengala. Più tardi si odono due colpi di cannone o di carro armato, qualcuno dice che fossero caricati a salve, altri sostengono che furono indirizzati ai boschetti vicino alla Sernovella. Probabilmente si trattava del segnale che i tedeschi attendevano per arrendersi: dalla strada che porta alla stazione sopraggiungono alcuni blindati e autocarri carichi di truppe americane.
C'è una breve trattativa con l'ufficiale tedesco e poi la resa. Agli ufficiali viene concesso l'onore delle armi. I soldati della Wehrmacht gettano le armi e molti di loro esultano perché la guerra è finita. Le SS invece hanno gesti di stizza e insofferenza e scagliano le armi contro i paracarri. In fila per quattro i prigionieri, scortati dagli alleati si avviano a piedi verso la stazione di Paderno.
In quella colonna, travestiti da tedeschi, c'erano molti fascisti che, all'ultimo momento, indossarono abiti borghesi e tentarono di fuggire. La maggior parte di essi venne però catturata e consegnata alla Brigata SAP.
L'incubo è finito, la gente torna in paese; altra ne giunge dalle vicine località. I partigiani raccolgono le armi che, in parte vengono distribuite e in parte ammucchiate ai piedi degli alberi. 
Intanto la pressione della folla intorno agli autocarri abbandonati, pieni di ogni ben di Dio, si fa insostenibile. La tentazione è forte, come la fame, e nel caos gli autocarri vengono presi d'assalto e svuotati.

Nota integrativa

La famiglia Gnecchi Ruscone, proprietaria, fin verso la metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, della quasi totalità degli immobili e delle terre di Verderio Superiore, negli anni a cavallo fra l’Ottocento e i primi decenni del Novecento, costruì in paese numerosi edifici pubblici e opere di grande utilità e pregevole bellezza. Logico pertanto dedurre che la decisione di costruire opere o realizzare infrastrutture fosse dovuta a particolari e inderogabili esigenze, quali l’intento di rendere più bello il paese e fornirlo dei necessari servizi.
E’ all’interno di queste considerazioni che probabilmente si deve ricercare il motivo per il quale la famiglia borghese del luogo, nel 1938, commissionò e fece costruire la nuova strada che in seguito collegò Verderio Superiore alla stazione ferroviaria di Paderno-Robbiate, l’attuale via Leopoldo Gasparotto.
Nel 1938 siamo in piena era fascista; è l’anno della pubblicazione del “Manifesto della razza”, che si inserisce nel contesto dell’alleanza con la Germania nazista di Hitler e prelude alle leggi razziali introdotte verso fine anno dal regime fascista. Come si poteva allora usufruire e beneficiare di una nuova opera senza che venisse prevista una fastosa e solenne inaugurazione? Le Camicie nere, in accordo con le autorità civili e religiose, fecero le cose in grande. Nel mese di novembre del 1938 si tenne la cerimonia di inaugurazione: dal municipio partì il corteo composto dalle autorità e dai gerarchi fascisti locali e provinciali, da numerosi residenti “invitati” a partecipare, nonché dagli alunni delle scuole del paese, vestiti rigorosamente secondo la classificazione imposta dal regime. Il corteo si diresse verso il “cerchio dei platani” ove le autorità tennero alcuni discorsi di ricorrenza e il parroco officiò la benedizione dei presenti e del cippo a ricordo dell’evento.
Fatto il doveroso breve preambolo, a proposito del cippo commemorativo, vorrei introdurre un elemento storico importante che, scomparsi i testimoni oculari di quella stagione, probabilmente oggi nessuno conosce. E’ stato Felice Colnaghi, cugino di primo grado di mio padre, a raccontarmelo qualche anno fa. Sul cippo deposto nel 1938, in occasione dell’inaugurazione della strada, oltre all’incisione di una scritta a ricordo dell’avvenimento, fu applicato un emblema del fascismo, probabilmente un fascio littorio, tanto è vero che ancora oggi si notano due fori nella lastra di marmo ove era ancorato.


Dopo la fine della guerra e la caduta del fascismo, le prime elezioni libere per la formazione dei Consigli comunali si tennero il 17 marzo 1946. In quell’anno gli italiani vennero chiamati a votare liberamente per la prima volta, secondo il principio del suffragio universale, in quanto il voto fu esteso anche alle donne.
A Verderio Superiore i risultati videro un successo dei partiti di sinistra, in particolare del Partito comunista e del Partito socialista, traducendo in consenso politico anni di rivendicazioni e lotte democratiche dei contadini e degli operai verderiesi. La prima Amministrazione comunale dell’era repubblicana, dopo il suo insediamento, decise di rimuovere dagli edifici comunali e dai luoghi pubblici i simboli che ricordavano il fascismo. Fu così che il sindaco, Paolo Rota, e la giunta comunale decisero di “riconvertire”, diciamo così, la vecchia lastra di marmo riutilizzandola in ricordo della resa della colonna dei soldati tedeschi in ritirata ad opera dei partigiani.  (b.c.)

martedì 18 marzo 2025

Dal film La ricotta il pensiero di Pasolini sulla borghesia italiana

La ricotta è il quarto episodio del film del 1963 RoGoPaG, scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini. Gli altri episodi sono: Illibatezza di Rossellini, Il nuovo mondo di Godard, Il pollo ruspante di Gregoretti.

È il terzo film di Pasolini e in esso, ancora una volta, il registra privilegia una storia che fa capo agli strati più umili ed emarginati della società. Tutti i figuranti e le comparse del film, la cui storia  rappresenta la Passione di Cristo, sono dei sottoproletari, dei “morti di fame” in senso letterale, come ci dirà lo stesso Pasolini attraverso l'”enorme mangiata” di ricotta, rappresentata quasi a conclusione del film e della vita stessa di Stracci, il protagonista dell’episodio. Ma Pasolini fa comparire anche la borghesia, nei panni rozzi e volgari del produttore e del suo entourage. E viene anche inserita l'”integrazione sociale” a cui pare credere il regista “marxista”, interpretato dallo statunitense Orson Welles, voluto fortemente in quel ruolo dallo stesso Pasolini.

La pellicola fu sequestrata con l’imputazione di “vilipendio alla religione di Stato” (1963). Ne seguì un processo nel quale, tra l’altro, il Procuratore della Repubblica Di Gennaro presentò ai “cattolici benpensanti” il film come “il cavallo di Troia della rivoluzione proletaria nella città di Dio”.

Il produttore del film, Alfredo Bini, deponendo al processo disse:

“Il film è composto di quattro episodi. Il filo conduttore è costituito dai diversi aspetti di uno stesso fenomeno, il condizionamento dell’uomo nel mondo moderno. Il primo regista, Rossellini, si occupava del condizionamento dell’uomo nei suoi rapporti con la donna; il secondo, Gregoretti, si occupava del condizionamento relativo alla tecnologia ; Godard prevedeva in un prossimo futuro piccolissimi fattori di degenerazione che avrebbero portato alla fine del mondo senza scosse; Pasolini si occupava della maggior parte degli uomini non ancora in tale stato di condizionamento”.

Le critiche e le motivazioni della persecuzione giudiziaria, come Pasolini stesso aveva previsto, erano dettate dalla malafede. Pasolini aveva diretto, in effetti, attraverso questo film, un attacco frontale nei confronti della borghesia e questo era il motivo vero che scatenò ancora una volta la canea nei suoi confronti.

Il senso di questo attacco è contenuto essenzialmente nelle parole, qui sotto riportate, che Pasolini fa dire al regista-Orson Welles e dirette al giornalista che gli chiede una intervista:

Giornalista: “Che cosa vuole esprimere con questa sua nuova opera?”
Regista: “Il mio intimo, profondo, arcaico cattolicesimo.”
Giornalista: “Che cosa ne pensa della società italiana?”
Regista: “Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa.”
Giornalista: “Che cosa ne pensa della morte?”
Regista: “Come marxista è un fatto che non prendo in considerazione.”

Il regista-Orson Welles, dopo aver letto una poesia di Pasolini (Io sono una forza del passato…), tenendo tra le mani il libro Mamma Roma, dice infine al giornalista (mentre quest’ultimo idiotamente ride):

“Lei non ha capito niente perché lei è un uomo medio: un uomo medio è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista. Lei non esiste… Il capitale non considera esistente la manodopera se non quando serve la produzione… e il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale… Addio.”
In un breve scritto del 1961, antecedente all’uscita del film La ricotta, Pasolini così si espresse:
“Nulla muore mai in una vita. Tutto sopravvive. Noi, insieme, viviamo e sopravviviamo. Così anche ogni cultura è sempre intessuta di sopravvivenze. Nel caso che stiamo ora esaminando [La ricotta] ciò che sopravvive sono quei famosi duemila anni di “imitatio Christi”, quell’irrazionalismo religioso. Non hanno più senso, appartengono a un altro mondo, negato, rifiutato, superato: eppure sopravvivono. Sono elementi storicamente morti ma umanamente vivi che ci compongono. Mi sembra che sia ingenuo, superficiale, fazioso negarne o ignorarne l’esistenza. Io, per me, sono anticlericale (non ho mica paura a dirlo!), ma so che in me ci sono duemila anni di cristianesimo: io coi miei avi ho costruito le chiese romaniche, e poi le chiese gotiche, e poi le chiese barocche: esse sono il mio patrimonio, nel contenuto e nello stile. Sarei folle se negassi tale forza potente che è in me: se lasciassi ai preti il monopolio del Bene”.

La ricotta è, quindi, una denuncia della decadenza morale dell’uomo contemporaneo. Pasolini si serve di uno dei simboli del cristianesimo, la Passione di Cristo, per rappresentare, attraverso l’immoralità della troupe di quel set cinematografico, il vero Cristo: Stracci. Stracci ha una duplice funzione: rappresenta il sottoproletario sacrificato al vuoto borghese, e rappresenta l’incarnazione reale e contemporanea del Cristo. Stracci viene sacrificato, condannato a morte dalla ferocia di un mondo gretto e teso al consumo a tutti i costi.

Beniamino Colnaghi